Categoria: Approfondimenti

Coworking: quando i freelance condividono spazi, spese e progetti

Da alcuni anni una piccola rivoluzione sta interessando il mondo del lavoro autonomo: il coworking. Dalla semplice condivisione di spazi alla creazione di una vera e propria rete professionale ma soprattutto sociale, gli uffici a tempo si affermano come antidoto alla crisi. Il comune di Milano, nell'ambito della rassegna "Verso - Fondata sul lavoro" che si è conclusa pochi giorni fa, ha organizzato un incontro dedicato ai professionisti e alle imprese per fare il punto della situazione sui modelli di coworking già attivi in città e per confrontare le loro esperienze e proposte con quelle di altri professionisti provenienti da tutta Italia e dal resto d’Europa. L'obiettivo del comune, attraverso l'impegno dell'assessore alle politiche del lavoro Cristina Tajani e di Renato Galliano direttore del settore innovazione economica e università, è aprire un tavolo di lavoro che consenta alla pubblica amministrazione di sostenere queste nuove iniziative e capire se l'aiuto deve essere rivolto sul fronte della domanda - i coworkers - oppure dell'offerta - gli spazi che offrono le postazioni di lavoro. Ma cos'è il coworking e come funziona? Ci sono diversi modi per organizzare e pensare la condivisione del lavoro.I precursori furono, nel 2008, Massimo Carraro e Laura Coppola, rispettivamente copywriter e art director dell’ agenzia di pubblicità Monkey Business, che in via Ventura, nello storico quartiere di Lambrate a Milano, aprirono il primo ufficio in condivisione della città, Cowo, semplicemente per fornire una sedia e una connessione a internet a tutti quei freelance che soffrivano l'isolamento della propria professione. «Non siamo un incubatore di start up o un business center, vogliamo solo essere uno spazio dove persone che fanno lavori diversi entrano in contatto fra loro, creando magari nuove occasioni professionali e collaborazioni trasversali» spiega Carraro «Con 200 euro al mese più Iva mettiamo a disposizione una postazione singola- ce ne sono 7 disponibili nella sede di via Ventura 8- a cui avere accesso 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Per 500 euro al mese, Iva esclusa, si affitta una delle due stanza intera disponibili. Siamo anche attrezzati alla ricezione in drop-in, solo qualche ora saltuariamente». In poco tempo Cowo ha esteso il suo raggio d'azione su tutto il territorio nazionale. Chiunque abbia uno spazio o delle postazioni libere in ufficio può affiliarsi al marchio versando quote di associazione a partire da 250 euro più Iva e aprire un nuovo centro. Secondo le analisi di Carraro, le transazioni economiche che ogni anno interessano un progetto di coworking delle dimensioni raggiunte da Cowo -presente in più città e in ben 13 regioni-  si aggirano intorno ai 400 mila euro, una cifra interessante se si considera che non sono richiesti particolari investimenti iniziali. «Al netto dei costi non si diventa ricchi facendo coworking, ma il ritorno in termini umani è un'esperienza piú che arrichente» ha aggiunge Alberto Masetti - Zannini presidente e fondatore di Hub Milan, associazione ed srl  con due dipendenti, aperta dal 2010 che si ispira al modello di Hub nato a Londra già nel 2005. Hub Milan, nella sua sede di via Paolo Sarpi è sia uno spazio dove trovare una scrivania per lavorare, sia un acceleratore di progetti e idee per nuovi imprenditori sociali. «Vogliamo includere nelle esperienze di condivisione imprenditori, operatori del non-profit, liberi professionisti e giovani studenti, creativi ed esperti d’informatica, chiunque voglia portare la propria idea per realizzare progetti che abbiano un intento sociale, ambientale e sostenibile» dice Masetti-Zannini. Dalla matrice internazionale di Hub Milan, al dibattito è stata presentata anche l'esperienza francese di La Cantine, primo spazio di coworking nato a Parigi nel 2008 all'interno dell'associazione di aziende "Silicon Sentier" che oggi vanta numeri importanti: oltre 300 coworker, 1.600 eventi organizzati nel 2011, più di 70 mila visitatori, un giro d'affari di quasi 400 mila euro - a conferma delle analisi di Massimo Carraro- facilitati con finanziamenti per metà provenienti dall'Unione Europea, per l'altra metà dal sostegno del comune di Parigi e della regione île-de France. Una delle caratteristiche che accomuna questi spazi è anche l'intento di renderli luoghi di partecipazione attiva, dove conciliare il lavoro con momenti di svago e ritrovo oppure con le incombenze della vita familiare. Con questo scopo nascerà il prossimo novembre Piano C, da un'idea di Riccarda Zezza, ex manager di banca, che ha pensato ad una nuova idea di coworking al femminile, dove le donne potranno trovare un aiuto non solo professionale, che viene dal fare network, ma anche personale, come asili, servizi di spesa a domicilio, corsi per il benessere: tutti servizi messi a disposizione dalla struttura ospitante le coworkers.Tanti modi per fare coworking ed essere coworkers, fra gli altri partecipanti al dibattito anche: Tag di Brescia, sempre a Milano Make a cube, Atelier dell'innovazione, We fab e Toolbox Office di Torino. «Per tutti è importante ricevere il sostegno e il riconoscimento da parte delle istituzioni» riflette Dario Banfi, membro di Acta (associazione consulenti del terziario avanzato):«Se è vero che i coworking hanno una valenza sociale per l’azione di riaggregazione che stanno esercitando intorno a un mondo di lavoratori piuttosto abbandonati dalle politiche sociali, da Milano può partire un messaggio simbolico, in vista anche dell'Expo 2015, che ospiterà i nomad workes provenienti da tutto il mondo». Tavolo aperto quindi per il comune di Milano e appuntamento all’autunno, con la terza Cowoking Conference europea che si terrá a Parigi tra l' 8 e il 10 novembre.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Milano si impegna per attrarre i cervelli in fuga- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire

Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo

La società semplificata a responsabilità limitata resta incagliata nella burocrazia. Il ministero della Giustizia non ha infatti ancora definito il modello standard di statuto societario - e non è chiaro se l'abolizione del limite di età deciso con il decreto Sviluppo, ora al vaglio del Parlamento per la conversione in legge, possa incidere o meno sul percorso di attivazione della cosiddetta «impresa a 1 euro». Il risultato è che, a sei mesi dalla sua approvazione, nessuno ha ancora potuto approfittare di una norma voluta (e sbandierata) dal governo con l'obiettivo dichiarato di favorire l'imprenditoria giovanile.A metà giugno la Repubblica degli Stagisti si era occupata della questione, raccontando di come l'iter si fosse bloccato. Entro il 25 maggio il ministero della Giustizia avrebbe dovuto definire il modello standard dello statuto societario, in pratica un modulo prestampato da compilare all'atto della costituzione dell'azienda. In questo modo, riducendosi per i notai l'impegno, sarebbero calati anche i costi per gli aspiranti imprenditori. Via Arenula, però, si è mossa in ritardo. Proprio lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto emanare il decreto, il dicastero lo ha inviato al Consiglio di Stato per un parere. La magistratura amministrativa ha esaminato la questione il 7 giugno, rendendo note le proprie conclusioni una decina di giorni dopo.Due i rilievi: il primo riguarda la necessità di acquisire il concerto del ministero dello Sviluppo Economico. In pratica, il CdS rileva come la norma preveda che siano i tre ministeri coinvolti – il terzo è quello dell'Economia – ad emanare «in concerto» il decreto attuativo. Il punto è che non è stato il ministro Corrado Passera ad esprimere l'adesione al modello standard di statuto. Semplicemente, un funzionario di questo dicastero ha confermato, lo scorso 15 maggio, l'adesione al progetto. Una formula ritenuta insufficiente dal Consiglio di Stato che – questa la seconda osservazione – ha anche suggerito una nuova formulazione per l'articolo 1 del decreto attuativo dedicato al modello standard di statuto societario.Cavilli burocratici che, per quanto mettano il testo al riparo dai vizi di forma, stanno rallentando l'applicazione della norma sulla ssrl. La Repubblica degli Stagisti ha contattato più volte l'ufficio stampa del ministero della Giustizia, chiedendo se il parere del CdS sarebbe stato recepito e, nel caso, quale sarebbe stata la tempistica prevista per l'emanazione del decreto. L'ufficio stampa non è stato però in grado di fornire una risposta, a causa del fatto che l'ufficio legislativo opera senza una guida da quando lo scorso 7 giugno l'ex responsabile Augusta Iannini è stata eletta dal Parlamento alla vicepresidenza dell'autorità garante per la privacy. Allo stesso modo non è stato possibile chiarire se l'iter di conversione in legge del decreto Sviluppo, che ha esteso la possibilità di dar vita a una ssrl anche agli over 35, possa in qualche modo rallentare ulteriormente la definizione del modello standard di statuto societario, ultimo tassello mancante nel mosaico disegnato dall'esecutivo per definire la società semplificata a responsabilità limitata.Poca fortuna ha avuto anche Amalia Schirru del Partito Democratico, che già a fine maggio aveva presentato un'interrogazione per chiedere al governo chiarimenti rispetto alla tempistica di definizione dei provvedimenti necessari a permettere la creazione delle ssrl. Lo scorso 11 giugno la deputata sarda ha ricevuto una risposta firmata da Marcella Panucci, capo della segreteria del ministro Paola Severino. Risposta ben poco esauriente, in cui si legge solo un'informazione scontata - cioè che il 25 maggio il ministero ha trasmesso la documentazione al Consiglio di Stato per un parere - e una rassicurazione generica circa una «rapida approvazione del decreto» una volta ricevuto il pronunciamento del CdS.Nonostante le promesse, però, dopo quasi un mese ancora nulla si è mosso. «Ci aspettavamo la messa in atto del regolamento» dice alla Repubblica degli Stagisti la Schirru «ma non ci sono novità rispetto a questo provvedimento. Non vorrei che  siccome nel decreto Sviluppo di modificano i criteri del limite di età, questo comporti un ulteriore allungamento dei tempi». L'auspicio è che «si trovi una soluzione entro luglio: parliamo di crescita e ripresa economica, ma mettendo continuamente cavilli rimaniamo in ritardo su tutto». Senza che nemmeno si riesca a capire quanto tempo ci vorrà prima che la Ssrl esca dalle secche della burocrazia.Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter- Matteo Achilli e Davide Cattaneo, due giovani imprenditori si raccontano

La riforma del lavoro porterà più lavoro ai giovani? Secondo Pietro Ichino sì

La legge numero 92/2012 che introduce la riforma del mercato del lavoro entrerà in vigore dal 18 luglio. Ma riuscirà davvero a ridurre la disoccupazione e correggere quelle deformazioni strutturali che impediscono a migliaia di giovani di trovare lavoro e di essere «mobili» nel mercato? Il senatore Pietro Ichino, intervenuto all’inizio di luglio a Milano al convegno «La riforma del lavoro: che cosa c’è, cosa manca, luci e ombre» organizzato dagli studi di giuslavoristi Ichino-Brugnatelli e Lablaw, è convinto di sì. Il problema principale è che il mercato del lavoro italiano sembra favorire la mobilità solo di chi è già in possesso di un’occupazione, rendendo difficile l’assorbimento di chi si affaccia al lavoro e di chi è disoccupato. Da uno studio dell'Ocse del 2008 sui flussi mensili tra disoccupazione e occupazione, l'Italia è emersa come il paese con il tessuto produttivo più vischioso poiché la mobilità dei lavoratori riguarda per lo più chi un lavoro lo ha già. Nel 2011, nonostante la crisi, sono stati firmati circa dieci milioni di contratti, di cui quasi due milioni a tempo indeterminato: si tratta però di opportunità offerte a persone “migranti” da un’azienda all’altra, e in misura infinitesimale a inoccupati e disoccupati. Gli interventi apportati dal governo in materia di licenziamenti mirano a sbloccare questo "circolo causale" come spiegato da Ichino: «Se il mercato del lavoro non permette a chi ne è rimasto fuori di rientrare con facilità, il licenziamento causa un danno maggiore e il controllo giudiziale si fa più severo, pertanto le aziende sono costrette a  conservare i posti di lavoro anche se la produttività dei lavoratori è diminuita». Accantonata l'idea di un modello di contratto unico e di flexsecurity a causa delle pressioni generate dal disaccordo tra associazioni sindacali e datoriali, il governo ha scelto, in materia di licenziamenti, di passare in generale per tutte le aziende da un regime di «property rule» basato sulla reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo (in sostanza si tratta della “tutela reale” prevista attualmente dall’art.18 della legge 300/1970 per aziende con più di 15 dipendenti), ad un sistema di «liability rule» che prevede la corresponsione di un indennizzo economico al lavoratore ingiustificatamente licenziato.Ma se il dibattito sui licenziamenti si concentra sulle conseguenze che si generano all’uscita dal mercato del lavoro, secondo il senatore Ichino, la causa dei problemi va ricercata all’ingresso : «Nel nostro paese il forte tasso di disoccupazione giovanile è frutto di uno scollamento tra il mondo della scuola e della formazione e quello del lavoro, causato anche dalla scarsa gestione da parte delle regioni, sui cui grava la competenza, delle risorse impiegate a fini formativi» riflette il senatore: «basta con i corsi inutili che le regioni erogano per reintegrare dalla disoccupazione gli ex lavoratori. La situazione attuale necessita di un intervento in via sussidiaria da parte dello Stato per ripristinare livelli standard di preparazione. Anche le università hanno una loro responsabilità per aver istituito corsi di laurea che creano aspettative impossibili da realizzare nell'attuale mercato del lavoro del nostro paese». A conferma di ciò Ichino ha citato gli ultimi dati resi pubblici dall'eurobarometro: «Il 40% dei giovani svedesi tra i 15 e i 25 anni è disposto a svolgere lavori manuali per i quali il mercato del lavoro riserva il 42% dei posti disponibili mentre in Italia -dove il 48% della domanda di forza lavoro proviene da settori a vocazione artigianale e operaia- solo il 5% dei giovani è consapevole di poter trovare un posto in questi campi». Ma chi cercano le aziende italiane? I dati pubblicati dal progetto Excelsior, sistema informativo per l’occupazione e la formazione coordinato dal Ministero del lavoro, Unioncamere e Unione Europea fotografa per il secondo trimestre 2012 in vista della stagione estiva in corso [nel grafico sopra] una forte richiesta di lavoro giovanile nell’ambito del settore turistico, del  commercio e dei servizi alla persona, con quasi ventimila nuovi reclutamenti. In generale per le assunzioni non stagionali, oltre il 46,3% della domanda di lavoro si concentra sulla ricerca di chi ha conseguito un diploma di scuola secondaria, mentre solo il 14,9% dei posti di lavoro disponibili attende i laureati. In questo scenario la riforma appena varata dal governo convoglia gran parte dei contratti destinati ai giovani verso l’apprendistato, visto come soluzione ideale per conciliare la formazione con il lavoro, ma come dice Ichino: «Si tratta di un contratto ancora molto complicato da applicare per le aziende, ma è pur sempre un primo passo per migliorare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».  Lorenza Margherita Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Riforma del lavoro approvata: e adesso- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato che succede?- «La riforma del lavoro? Non è una riforma» secondo i consulenti del lavoro    

Sardex, la start-up con la valuta virtuale che fa girare l'economia

Questa è una start-up nata sui libri di storia: perché il primo esperimento di monete complementari risale alla banca del popolo fondata nel 1849 dall'anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon. Ed è da qui che i fratelli Giuseppe (32 anni) e Gabriele Littera (28) insieme all'amico Carlo Mancosu (32) [a destra nella foto accanto a Giuseppe] sono partiti per dare vita a Sardex. Tutti laureati, tutti precari, nel luglio del 2009 hanno fondato un'azienda che, partita da Serramanna in provincia di Cagliari, ha costituito un circuito di credito commerciale che coinvolge oltre 550 aziende in tutta la Sardegna.Il nome di questa start-up coincide con quello della valuta virtuale che viene utilizzata negli scambi tra le diverse imprese che aderiscono. Il meccanismo è molto semplice: alle imprese viene assegnato un credito in Sardex, che possono utilizzare per scambiarsi servizi tra di loro. Così il produttore di pentole pagherà con questa valuta virtuale gli articoli di cancelleria al proprio fornitore. E quest'ultimo potrà utilizzare questi crediti per fare la spesa dal macellaio. Le realtà che fanno parte del circuito operano in tutti i settori, con alcune eccezioni: armi, farmaci, benzina, energia. Bene, ma come guadagna la start-up? «Abbiamo due tipologie di entrata: la prima è legata all'iscrizione, una quota una tantum versata dalle aziende che va da un minimo di 150 euro ad un massimo di 1000 ed è commisurata alle dimensioni dell'impresa» spiega Mancosu «la seconda è relativa agli abbonamenti annuali, che vanno dai 350 ai 2mila euro», stabiliti anche in questo caso in funzione della società in questione.Un giochino intellettuale? Nient'affatto, visto che questa start-up con un capitale sociale di appena 16mila euro ha raggiunto i 140mila euro di fatturato nel 2010, per salire oltre i 300mila l'anno successivo. Certo, al momento Sardex non è ancora in grado di assicurare uno stipendio vero e proprio ai tre founder e a Piero Sanna (33 anni), compagno di liceo di Carlo e Giuseppe entrato in società lo scorso anno: «Viviamo con i nostri genitori, che ringraziamo. E comunque ogni tanto un rimborso ce lo concediamo». Però l'azienda garantisce un reddito a 15 dipendenti assunti a tempo indeterminato, la metà dei quali con modalità part-time. Il personale è stato inserito anche grazie alla legge 407/90, che prevede una serie di agevolazioni come l'abbattimento del 50% del costo del lavoro per l'inserimento di persone disoccupate da almeno 24 mesi. E nel dicembre del 2011 ha visto l'ingresso nella società del fondo di venture capital dPixel.Ma perché un'azienda dovrebbe aderire al circuito? In fondo una moneta 'reale' esiste già, tanto che un Sardex vale esattamente un euro. «Noi però diamo la possibilità alle imprese di accedere ad un mercato complementare, che non richiede il ricorso alla liquidità». Un elemento sempre più raro in momenti di crisi. Di più: «Creiamo un mercato di tutti quei prodotti che non riescono ad essere venduti perché nessuno ha il denaro per pagarli». In questo modo «le aziende abbassano i costi e mettono da parte moneta corrente per impegni come il pagamento delle tasse. O dei dipendenti». Che il meccanismo funzioni non lo dicono solo i numeri di questa start-up, che in tre anni ha visto transazioni per 2,5 milioni di Sardex - ovvero 2,5 milioni di euro. Ma anche quelli di realtà più radicate. Come quella della svizzera Wir Bank che con oltre 70mila imprese aderenti ha in circolazione una massa monetaria pari a tre miliardi di Wir, questo il nome della sua valuta, somma che corrisponde a tre miliardi di franchi svizzeri. I ragazzi di Sardex hanno fatto tappa anche nella sede centrale di questa azienda per una visita di tre giorni, con l'obiettivo di approfondire le dinamiche di funzionamento per poi replicarle al meglio in Sardegna.Certo la strada da percorrere è ancora molto lunga. «Una delle difficoltà maggiori, specie all'inizio, è quella di spiegare il tipo di servizio che offriamo, costruire quel legame fiduciario che è alla base del nostro lavoro». Oltretutto sfidando settori con una scarsa informatizzazione. Loro, che per ridurre i costi di avviamento sotto i 10mila euro hanno scelto di affidarsi al software libero, si sono trovati nella condizione di dover «rispolverare il fax». Difficoltà tecnologiche a parte, «abbiamo fatto breccia nel modo più semplice, spiegando alle aziende che aderendo a Sardex avrebbero potuto pagare utilizzando dei prodotti che non riuscivano a vendere». Ed è così che questi quattro giovani hanno convinto più di 550 imprenditori a dare loro fiducia.Al punto che «alcuni di loro si versano una parte della retribuzione in Sardex, utilizzando questi crediti per spese personali». Ed è in questa direzione che si muove la start-up. «Vogliamo aprire ai dipendenti delle imprese del circuito, versando in Sardex una parte dei premi di produzione o dello straordinario». Ovvero quella parte di salario che, per mancanza di liquidità, la società per cui lavorano non riesce a versare. La sperimentazione partirà già quest'estate. In caso di successo, chissà che non si decida di estendere questa valuta virtuale anche ai semplici consumatori.Nata in Sardegna - la sede è il vecchio granaio di una casa di corte dell'Ottocento recentemente ristrutturata - l'azienda non vuole per ora varcare i confini dell'isola. Ma ha saputo attirare l'attenzione un po' da tutto il mondo: dalla Sicilia, con i ragazzi di Sicanex.net che hanno ottenuto una consulenza nella fase di creazione della loro start-up, e addirittura dall'Ecuador. Serramanna è stata infatti una delle tappe di un tour europeo di una delegazione della Banca centrale, interessata a realizzare un circuito di compensazione commerciale. Anche questo, insomma, è made in Italy che si esporta.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store- ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici- Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due- Non più i bambini: oggi le Cicogne portano le babysitter- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Come funziona lo stage in Europa: viaggio in Germania e Olanda

Se mancano i dati di un problema, è come se quel problema non esistesse - ed è quindi difficile, quasi impossibile, affrontarlo. Per questo la Commissione Ue ha da poco pubblicato un maxi report che, nazione per nazione, misura la qualità dei percorsi di stage in Europa. Dopo il focus sul report italiano, la Repubblica degli Stagisti va a spulciare le pagine dedicate alla prima della classe, la Germania, e ai vicini Paesi Bassi.Guardando al caso tedesco si ha la conferma di come la crisi economica sia solo in piccola parte una spiegazione allo stato di sfruttamento degli stagisti. Come noto, in Germania il tasso di disoccupazione giovanile è ben al di sotto della media europea, fermo al 9%. Eppure dall'indagine Ue, curata dal Bibb - l'Istituto federale per la formazione professionale - emerge che essere stagisti nel Paese locomotiva d'Europa non è affatto semplice. Innanzitutto manca una vera e propria legge sul praktikum e le norme vengono attinte da testi diversi, a seconda dei casi.  Per tutti gli stage - e prima ancora per tutti i rapporti di impiego - vale la disciplina sugli orari lavorativi, a cui per i tirocini curriculari si sovrappongono i vari regolamenti scolastici o universitari. Che però in genere definiscono solo la durata del percorso e poco altro. «Mancano altre regole precise» si scopre nel report: «gli accordi possono essere conclusi sia per iscritto che oralmente, il rimborso è discrezionale e non ci sono ferie». Non c'è nemmeno l'obbligo di mettere nero su bianco il progetto formativo. Gli stage inseriti in percorsi di formazione professionale sono poi disciplinati dalla legge BBiG, secondo cui a qualsiasi giovane «impiegato per acquisire esperienza professionale» spetta un adeguato rimborso. Il problema è che manca una definizione di «adeguato» e si va un po' a braccio: più alto è il livello di formazione, e quindi l'apporto che lo stagista può dare, più l'emolumento dovrebbe crescere. Fino a raggiungere, nei settori più gettonati, cifre da stipendio vero e proprio, di circa 2mila euro lordi al mese. Gli autori però non condannano a priori i tirocini gratuiti: talvolta, lasciano intuire, l'azienda beneficia poco dello stage rispetto al giovane stesso, magari alle prime armi. In Germania la tipologia di tirocinio più comune è comunque il Duale Berufsausbildung, letteralmente «doppia formazione»: teorica nei luoghi della formazione e pratica in azienda. Quindi stage fatti da studenti, sia obbligatori che volontari, questi ultimi la stragrande maggioranza (riguardano ad esempio l'85% degli universitari e durano spesso sei mesi). Diffusi anche i percorsi post laurea: persino nella fascia 30-34 anni il fenomeno interessa il 17% del totale - solo una manciata di punti percentuali in meno rispetto alle classi più giovani. Un aspetto positivo evidenziato dal report è che i dati sulla Generation Praktikum non mancano. L'argomento infatti è di grande interesse per i partiti politici, in gran parte convinti che, se non sono in grado di autosostenersi, gli stagisti costituiscono un peso per la società ed è quindi nell'interesse del Paese cambiare rotta. Per il momento però il 73% degli stage curriculari non è pagato, mentre per quelli volontari la soglia si abbassa al 56%, comunque molto alta. In merito alle cifre, quando è possibile parlarne, i dati medi sono discordanti: si va dai 540 euro mensili calcolati dalla Fondazione Böckler ai 640 euro della Confederazione Trade Unions tedesca. Il ministero del Lavoro ha pensato bene di dare il buon esempio e a tutti i suoi stagisti offre un rimborso mensile di 300 euro, sul modello francese (che però prevede un rimborso minimo di 430 euro). Invitando, ma non obbligando, aziende e istituzioni a fare altrettanto.A dispetto delle condizioni di stage tutt'altro che ottimali, i giovani tedeschi però sono molto soddisfatti di quello che imparano: per ben l'83% degli intervistati si è trattato di una gavetta che valeva la pena di fare. Stando al report, un'iniziativa come Generaktion Praktikum, una sorta di equivalente austro-tedesco della Repubblica degli Stagisti, ha gioco relativamente facile: «in linea di massima il cattivo utilizzo di stage è l'eccezione e la maggior parte dei tirocini di fatto agevolano le transizioni scuola lavoro. Dal punto di vista della Germania» è la conclusione «sembra non esserci l'urgenza di una forte azione legislativa».  Saranno d'accordo le decine di migliaia di stagisti tedeschi e le poche realtà che lavorano per tutelarli? Certo rimane la consapevolezza, chiaramente espressa nel report, che l'assenza di un rimborso obbligatorio, di una documentazione scritta e di limiti temporali ben definiti sono tutti problemi che attendono una soluzione.Spostandosi più a nord, nei ricchi Paesi Bassi, lo scenario in parte cambia, in virtà di una caratteristica quasi unica nel panorama europeo: nelle scuole superiori, soprattutto professionali, lo stage è prassi comune e gli stagisti sono spesso poco più che adolescenti. Le  recenti riforme dell'istruzione si sono fortemente ispirate al principio di coordinamento e continuità scuola-lavoro, con il risultato che oggi le transizioni appaiono «piuttosto agevoli, se confrontate con il resto d'Europa». Il tasso di disoccupazione anche qui è tra i più bassi d'Europa, meno del 9%; anche se, ad onor del vero, la qualità dei primi impieghi appare piuttosto scarsa.Anche nei Paesi Bassi non esiste alcuna legge ad hoc. Soltanto i percorsi che si potrebbe definire "di riqualificazione" (per lo più destinati ad adulti, una minoranza) sono regolamentati nel dettaglio dal Wet Educatie en Beroepsonderwijs - la legge sulla formazione professionale e l'istruzione in età adulta, appunto - del 1997. Ma come detto la tendenza è piuttosto quella di anticipare lo stage, fin dalle superiori. Negli istituti professionali anzi sono obbligatori e «occupano dal 20 al 60% di un programma di studio», si legge nel testo, curato ancora una volta dall'istituto Bibb. Nel 2010 ben 350mila ragazzi e ragazze tra i 16 e 20 anni hanno completato un tirocinio di questo tipo, ricevendo un rimborso in oltre la metà dei casi. Qualcuno si è anche preoccupato di calcolarne l'ammontare medio, nel lontano 2003, rivelando la cifra di 1,70 euro all'ora (che oggi l'inflazione farebbe salire a circa 2 euro, quindi un rimborso totale di circa 250 euro mensili per un impegno full time). In compenso, più ci si prepara più si possono vantare dei diritti: ad esempio solo un sesto degli universitari di secondo livello ha lavorato gratis - ed è uno dei pochissimi dati a disposizione su questa categoria - mentre un buon 20% ha ottenuto una somma superiore ai 500 euro al mese. Nelle università (a formazione scientifica o generale, 14 in tutto) come nei college (più orientati alla formazione professionale superiore, ben 44) «gli studenti in genere completano uno stage curriculare di circa nove mesi, durante il terzo anno di studi, allo scopo di acquisire esperienza sul campo. La tesi o il progetto finale di laurea è spesso frutto di questo tirocinio». A differenza di quelli post formazione, questi percorsi sono regolamentati, seppure non da un testo unico. Ad esempio è obbligatorio stilare un "contratto" tra le tre parti coinvolte - istituzione formatrice, soggetto ospitante e giovane - che espliciti contenuti, durata dello stage (la legge non pone limiti specifici) ed eventuali benefits. L'equivalente del nostro progetto formativo. Il giovane inoltre gode di un doppio cuscinetto di protezione: da un lato la scuola o università incarica un suo funzionario di vigilare sullo svolgimento della formazione; dall'altra aziende e organizzazioni devono dimostrare di possedere determinati requisiti di qualità. E vengono iscritte in un apposito registro. E per chi ha finito gli studi? Dalla parte di questi giovani ci sono solo alcune piattaforme online, come Stageplaza o Stagemarkt, che però spesso operano più come punti di incontro tra domanda e offerta di stage che come luoghi virtuali da cui affermare e diffondere i diritti dei giovani in formazione.  Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Paese che vai, stage che trovi: maxi report della Commissione europea- Nuova risoluzione Ue, regolamento europeo sugli stage più vicino- Un sondaggio dello European Youth Forum svela il prototipo dello stagista europeo: giovane, fiducioso e squattrinato

Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store

Ancora doveva nascere e già riceveva un premio. Lo scorso 23 febbraio, sul palco dell'Italian innovation day ospitato dall'università di Berkeley, in California, sono salite Elena Favilli  e Francesca Cavallo [a sinistra nella foto], rispettivamente amministratore delegato e direttore creativo di Timbuktu Labs, la start-up che hanno poi fondato, sull'onda di questo successo, nel maggio del 2012 e che realizza una rivista per bambini pensata per essere visualizzata sui tablet iPad. «La tesi di Elena, che si è laureata in Semiotica all'università di Bologna, era dedicata al tema nei nuovi media e giornalismo e si occupava della realizzazione di un magazine innovativo per iPad», racconta alla Repubblica degli Stagisti Francesca Cavallo, «io sono sempre stata appassionata di pedagogia (nonostante una laurea in Scienze della comunicazione alla Statale di Milano, ndr); dal nostro incontro il progetto ha preso la strada di un magazine per connettere grandi e piccini». Perché Timbuktu è esattamente questo: non si tratta semplicemente di un giornale per bambini che, adeguatosi ai tempi, non si trova in edicola ma si scarica gratuitamente dall'Apple store. Questa rivista, pubblicata esclusivamente in inglese, prende spunto dall'attualità per raccontarla ai bambini, combinando elementi puramente ludici ad altri di natura educativa, nella convinzione che i bambini imparino divertendosi. Non solo: a differenza dei tradizionali videogiochi, questo strumento è pensato per essere visualizzato insieme da genitori e figli. Tanto che lo slogan che accompagna le presentazioni del progetto è «Timbuktu makes family the coolest place to be». Ovvero, grazie a questo magazine, la famiglia è il posto più bello che c'è.A questo progetto le due fondatrici sono arrivate da percorsi molto diversi. Elena, 30 anni, dopo la laurea ha svolto alcuni stage nella sede di San Francisco di McSweeney's, in quella di New York della Rai e alla redazione fiorentina di Repubblica, quindi ha lavorato come giornalista a Colors Magazine e Il Post. La formazione di Francesca, invece, è legata al mondo del teatro. Oltre a due tirocini come assistente alla regia di Paolo Rossi e dei tedeschi Familie Floez, nonostante abbia appena 29 anni ha lavorato come regista, ha fondato la compagnia Kilodrammi e ha dato vita al festival internazionale Sferracavalli. Il loro incontro è avvenuto proprio a Bologna, nell'ambito della premiazione di Working capital, un premio indetto da Telecom Italia per le tesi di laurea al quale hanno partecipato entrambe. E che ha visto Elena vincere 25mila euro, soldi utilizzati per avviare il magazine.Il primo numero, dal titolo «The ice issue», è nato di notte e durante i fine settimana, come un progetto alternativo al lavoro di entrambe. Da subito, però, Elena e Francesca hanno coinvolto due amici: Samuele Motta, oggi direttore artistico, e Diego Trinciarelli, che si occupa dello sviluppo web. La versione beta, la prima ad essere pubblicata nella primavera dello scorso anno, è stata scaricata 20mila volte in tre mesi. Un risultato che ha convinto le due giovani che ci fossero i margini per fare il salto di qualità. Ma in particolare è l'incontro con Joe Petillon, partner del fondo d’investimento americano Banner Ventures, avvenuto nel giugno del 2011 alla Startup Initiative di Intesa San Paolo, a cambiare il destino di Timbuktu.Petillon si è appassionato al progetto e ha fatto da mentore alle ideatrici di questo magazine. Ed è grazie a lui se, a novembre, Elena e Francesca hanno partecipato a Mind the Bridge, iniziativa che vuole creare un ponte tra le start-up italiane e quelle della Silicon Valley, e hanno vinto la possibilità di trascorrere tre mesi in California. Ecco allora il volo per San Francisco e un periodo molto intenso: di giorno il lavoro a Timbuktu, di sera le feste che animano la baia. Alle quali le due imprenditrici non partecipavano per diletto, ma per fare networking. Ovvero per conoscere potenziali investitori interessati al loro progetto. Ed è proprio grazie a questa intensa attività di pubbliche relazioni che sono state selezionate per l'Italian Innovation Day. Nel frattempo, hanno lanciato il secondo numero del magazine intitolato «The night issue», che ha ottenuto 8mila download nella prima settimana. E poi c'è stata la premiazione, a febbraio di quest'anno, nell'ambito dell'IID. Ma è un'altra la notizia che ha fatto partire, effettivamente, il progetto: l'ingresso in 500Startups, forse il più importante incubatore di impresa americano, che accoglie Timbuktu a partire dal maggio di quest'anno, data che coincide con la nascita ufficiale dell'azienda.Elena e Francesca hanno fondato la loro società a Mountain View, la cittadina della contea di Santa Clara dove è nato Google e dove ora risiedono. Nonostante la sede si trovi in California, però, le due giovani hanno scelto una forma societaria tipica della costa orientale degli Usa: la loro, infatti, è una Delaware corporation. Vengono chiamate così quelle aziende che scelgono questo stato dell'East Coast per insediare la propria sede legale. Ad attirare le aziende nel 'first state'  sono una legislazione molto snella, un tribunale che si occupa esclusivamente delle controversie legate al mondo del lavoro, ma soprattutto il fatto che lo Stato non applichi alcun tipo di tassa sugli utili. «Noi abbiamo scelto di dar vita alla nostra azienda con questa forma giuridica perché facilita la raccolta di capitale negli Stati Uniti ed è relativamente agile da costruire», spiega Francesca. Per quanto una delle principali difficoltà, all'inizio, sia stata rappresentata dagli aspetti legali: «sono abbastanza stressanti. Nonostante negli Usa pare che sia più semplice che in Italia, ci sono comunque montagne di documenti da guardare, capire, firmare».Grazie ai 25mila euro messi a disposizione da Telecom Italia, Timbuktu ha potuto finanziare le prime spese legate all'acquisto della strumentazione tecnologica e al pagamento degli artisti che hanno realizzato l'impianto grafico, per un totale di 20mila euro. Mentre dei contenuti degli articoli si sono occupate direttamente Elena e Francesca. Nato senza alcun tipo di ricerca di mercato e senza contributi pubblici di alcuna natura, nel maggio del 2012 Timbuktu è entrato in 500Startups, che ha messo a disposizione un investimento di 65mila dollari, una sede fisica ed un mentore che segue lo sviluppo dell'attività, chiedendo in cambio il 6,5% delle quote societarie. Oggi l'azienda è in una fase pre-revenue, il che significa che ancora non sta fatturando. «Stiamo investendo nello sviluppo dell'azienda e riusciamo a coprire le spese», spiega Francesca. Tanto che sono già alla ricerca di due stagisti nelle università vicine alla Silicon Valley, per un progetto formativo di 3 mesi che prevede un rimborso spese di 10 dollari l'ora. Mentre, almeno per il momento, non sono previsti stipendi né per le due fondatrici, né per il direttore artistico, né per il responsabile Web. Una situazione che Elena e Francesca si augurano di poter cambiare presto. Magari già a metà luglio, quando 500Startups ha in programma un demo day, ovvero una giornata di presentazione a potenziali investitori delle diverse realtà incubate. Un momento cruciale per il futuro di quest'azienda, che ha bisogno di recuperare fondi per 500mila euro per raggiungere il pareggio di bilancio, risultato che si punta ad ottenere nel giro di un anno e mezzo. All'evento di quest'estate le due giovani imprenditrici si presenteranno forti dei risultati della loro rivista che, per quanto ancora non abbia una periodicità ed abbia pubblicato solo due numeri, a marzo è arrivata nella Top5 dell'AppStore statunitense.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici- Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due- Non più i bambini: oggi Le Cicogne portano le babysitter- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire

Riforma del lavoro approvata: e adesso che succede?

La riforma del lavoro è stata approvata in via definitiva dalla Camera lo scorso 27 giugno. Il testo è stato firmato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta ufficiale. La riforma sarà efficace a partire dal 18 luglio, in seguito al normale periodo di vacatio legis pari a 15 giorni. L’iter normativo, quindi, può dirsi concluso. Non tutte le novità però entreranno in vigore contemporaneamente.Avranno effetto immediato tutte le norme in materia di licenziamenti, che modificano i casi in cui il giudice può disporre la reintegra o il risarcimento del lavoratore. La modifica dei termini per l’impugnazione del licenziamento, e il nuovo rito abbreviato per le cause in materia, verranno applicati a tutte le nuove controversie sorte a partire dal momento stesso dell’entrata in vigore della legge. Anche le norme sulle partite Iva e sui contratti a progetto si applicano per i nuovi rapporti instaurati subito dopo la vacatio legis; per le partite Iva in corso, invece, le norme saranno valide dopo un periodo di 12 mesi.A partire dal 2013 scatteranno invece i nuovi ammortizzatori sociali (Aspi, mini-Aspi e indennità una tantum per i cococo e cocopro). L’Assicurazione sociale, in particolare, sostituirà gradualmente l’indennità di mobilità per entrare a pieno regime entro il 2016. A partire dal primo gennaio 2013, senza alcun effetto sui contratti in essere, verrà abrogato il contratto di inserimento e verranno applicati i nuovi limiti all’assunzione di apprendisti e il divieto di utilizzo con somministrazione. Sempre in tema di apprendisti, per i primi 36 mesi dall’entrata in vigore della legge i nuovi inserimenti saranno subordinati alla prosecuzione del rapporto di lavoro per almeno il 30% degli apprendisti esistenti; dopo tre anni, il tetto minimo salirà al 50%. A partire dal 2013 entreranno in vigore anche i nuovi termini per impugnare i contratti a tempo determinato in sede giudiziale (da 270 a 180 giorni) e stragiudiziale (da 60 a 120 giorni).  Parziale retromarcia invece su quello che i giornali avevano definito il «salario di base per i contratti a progetto»: non sarà più il ministero del Lavoro a stabilire una cifra minima valida per tutti i settori, come prevedeva la prima versione dell'emendamento Castro-Treu. Nel testo approvato dal Senato si fa invece riferimento a un compenso «non inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività [...] sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro»; in assenza di contrattazione collettiva viene specificato che «il compenso non può essere inferiore [...] alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto». Questo cambiamento, sebbene renda l'articolo immediatamente operativo per tutti i nuovi contratti (mentre la precedente versione prevedeva che la cifra fosse stabilita dal ministero tramite decreto ministeriale «emanato entro dodici mesi dalla citata data di entrata in vigore della presente legge»), rischia però di impantanare l'applicazione del principio: moltissimi contratti a progetto infatti vengono attivati in settori e per mansioni prive di contrattazione collettiva specifica, e sarà quindi probabilmente molto difficile stabilire un compenso adeguato.  Resta invece su altri punti la necessità di attendere decreti attuativi che chiariscano gli aspetti rimasti in sospeso nella riforma. Il più importante riguarda proprio il mondo degli stage: entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano dovrà raggiungere un accordo per definire le linee-guida in materia di tirocini. L’obiettivo fissato dalla riforma consiste nel contrastare l’uso distorto di questa tipologia di contratti, individuarne gli elementi essenziali, e riconoscere la “congrua indennità” per i tirocinanti.Spetta invece al ministero del Lavoro, di concerto con quello dell’Economia, il compito di emanare, entro 180 giorni, un decreto per regolare le modalità e i limiti entro i quali sarà possibile liquidare l’Aspi in un’unica soluzione a chi voglia mettersi in proprio.Gli stessi ministeri del Lavoro e dell’Economia dovranno adottare, nel giro di un mese, i decreti attuativi che fissano i criteri di accesso e l’importo economico dei voucher per le mamme lavoratrici, una tra le misure sperimentali per sostenere la genitorialità (insieme alle ferie obbligatorie per i padri) che entreranno in vigore nel 2013 fino al 2015.Sempre al ministero del Lavoro è attribuita la facoltà di individuare delle modalità semplificate (rispetto a quanto già stabilito dalla riforma Fornero) per accertare la volontà dei lavoratori a rassegnare le dimissioni. Un ulteriore decreto attuativo è atteso in tema di contratti a tempo determinato. Questi vengono automaticamente considerati a tempo indeterminato se proseguono per più di 30 o 50 giorni (a seconda che siano di durata inferiore o superiore ai 6 mesi) oltre la loro scadenza naturale. Al datore di lavoro spetterà l’onere della comunicazione della prosecuzione dei contratti al Centro per l’impiego competente. Il ministero del Lavoro emanerà, entro un mese dall’entrata in vigore della riforma, il decreto attuativo indicante le modalità di comunicazione. Un altro decreto servirà invece per definire le modalità di comunicazione (via sms, fax o e-mail) che riguardano il lavoro intermittente.Anche in tema di fondi di solidarietà bilaterali servirà un decreto attuativo del ministero del Lavoro e dell’Economia, per determinare i requisiti di professionalità e onorabilità dei soggetti preposti alla gestione dei fondi stessi; i criteri e i requisiti per la contabilità dei fondi; le modalità volte a rafforzare la funzione di controllo sulla loro corretta gestione e di monitoraggio sull’andamento delle prestazioni. Un secondo decreto istituirà un fondo di solidarietà residuale per i lavoratori dei settori non coperti dalla normativa in tema di integrazione salariale, e per i quali non siano stati attivati dei fondi di solidarietà ad hoc.Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato- Aspi, Miniaspi e una tantum: come sono usciti dal Senato gll ammortizzatori per chi perde il lavoro

ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici

«Già in epoca romana gli apparati effimeri erano una forma di decorazione temporanea. Noi però ci ispiriamo soprattutto al periodo barocco, quando vennero interpretati come delle scenografie urbane per momenti di festa, celebrazioni di eventi». Federico Bigi spiega così la scelta di battezzare ApparatiEffimeri l'azienda che ha fondato a maggio del 2010 a Bologna insieme al socio Marco Grassivaro [a sinistra nella foto].Quasi coetanei - 32 anni il primo, 34 il secondo - hanno frequentato entrambi il Dams nel capoluogo emiliano: Federico ha scelto l'indirizzo cinematografico, Marco quello artistico. Ma si sono incontrati solo dopo aver terminato l'università, nel 2006, sul set di un cortometraggio. «Abbiamo messo insieme la mia passione per l'animazione e il movimento con la sua per il visivo e le forme e ci siamo accorti che stavamo sperimentando cose che potevano funzionare anche in altri contesti» racconta Federico. Le prime collaborazioni sono andate in scena nelle discoteche di Bologna, dove Marco lavorava come veejay. Mentre il suo futuro socio lavorava nei set bolognesi: «Facevo di tutto, dal macchinista all'elettricista, mi pagavano alla giornata o con contratti di prestazione occasionale. Ma a un certo punto ho capito che o andavo a Roma a fare cinema, oppure avrei inseguito un'utopia». E così «ho trovato un appiglio con l'animazione».Un appiglio che ha sfruttato lavorando nelle discoteche con Marco. È stato durante queste serate che i due hanno perfezionato una tecnica che ora applicano nel mondo della pubblicità. Più precisamente, in quel settore del marketing che si occupa di «proiezioni in outdoor su edifici: sono delle pubblicità che hanno la caratteristica di essere altamente emozionanti, che fanno arrivare il messaggio attraverso canali alternativi a quelli normali». I due ragazzi, insieme ai loro collaboratori, realizzano in buona sostanza uno spot, lavorando prima sui contenuti e poi sugli aspetti grafici. La differenza sta nel fatto che, invece di vederlo trasmesso in continuazione in televisione lo proiettano sulla facciata di un edificio. «Le prime esperienze di questo tipo si sono cominciate a vedere nel 2007. Noi siamo stati tra i primi a muoverci in questo settore».Fino ad arrivare, nel luglio del 2009, a proiettare un video sulla Rocca Malatestiana di Cesena. «Il filmato di quella serata è diventato virale, è stato cliccatissimo in Rete». Sulla scorta di questa esperienza, nel maggio del 2010 i due hanno dato vita ad ApparatiEffimeri. «Prima eravamo free-lance, ma ad un certo punto ci siamo resi conto che riuscivamo a lavorare per una serata, non certo nei grandi eventi, piuttosto che nell'ambito del marketing non convenzionale». Ecco allora la decisione di costituirsi in società non classificata, la formula giuridica più semplice per una realtà di questo tipo. «Abbiamo iniziato con nostri proiettori personali, finché hanno retto. Per il resto, abbiamo investito i nostri risparmi: circa 5mila euro per acquistare i computer, le licenze software, un ufficio fisso. Certo, abbiamo cercato sempre di scegliere le soluzioni più economiche, ma non abbiamo mai definito un vero e proprio budget: all'inizio siamo partiti quasi per gioco».La faccenda si è però fatta presto seria. Tanto che, all'inizio del 2012, ApparatiEffimeri si è trasformata in una società a responsabilità limitata, con un capitale versato pari a 10mila euro. L'occasione per questo cambiamento è rappresentata dalla volontà di partecipare al bando IncrediBol!, promosso dal comune di Bologna e dalla Fondazione Carisbo. ApparatiEffimeri è stata premiata, aggiudicandosi oltre ad un contributo di 5mila euro - di cui un quarto da restituire il resto a fondo perduto - anche la possibilità di accedere ad una serie di servizi. In particolare «ci siamo appoggiati alla consulenza gestionale, ci serviva un aiuto di questo tipo: sia io che Marco veniamo da percorsi che nulla hanno a che fare con gli aspetti economici e di gestione aziendale». Per aggiornarsi su questi temi i due startupper si sono anche iscritti ai corsi After, organizzati a Bologna dal Cnr. E si sono rivolti allo Studio Capizzi, una realtà «che fa assistenza alle aziende appena nate: ci aiuta per la contrattualistica e per la stesura dei preventivi».Dopo tre anni di attività, ApparatiEffimeri ha raggiunto un fatturato di 100mila euro l'anno ed un portafoglio clienti nel quale figurano aziende come Lavazza, Bmw e Bacardi. «Siamo arrivati sulla linea di galleggiamento, anche se il punto di pareggio si sposta sempre più in là, hai continuamente bisogno di nuove attrezzature e nuovi collaboratori». Al momento, cinque persone lavorano con Federico e Marco, con contratti a progetto o a partita Iva. Queste forme di contratto «riducono il costo del lavoro, per noi un'assunzione al momento costa troppo». Per ora l'azienda non ha fatto ricorso a stagisti, ma è un percorso che sta valutando: «Noi cerchiamo delle persone che poi possano rimanere in azienda. Vogliamo provare con percorsi di sei mesi, offrendo un rimborso spese che ancora dobbiamo quantificare». L'idea è quella di formare i tirocinanti e poi farli entrare in azienda a tutti gli effetti. Così che anche loro contribuiscano alla costruzione degli ApparatiEffimeri.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due- Non più i bambini: oggi Le Cicogne portano le babysitter- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- Milano si impegna per attrarre i cervelli in fuga

Fotovoltaico, non solo energia pulita ma anche migliaia di nuovi posti di lavoro

Poche settimane fa il ministro dell’ambiente Corrado Clini ha proposto un piano per i settori dell'“economia verde”, per uno sviluppo sostenibile e per una crescita pulita, rivolto ai giovani laureati e ricercatori, capace di creare 60mila nuovi posti di lavoro. Il progetto prevede incentivi alle aziende che assumeranno giovani nel campo delle rinnovabili: in tale ambito il settore fotovoltaico in particolare, come spiega il rapporto Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l'edilizia e il territorio), ha generato in Italia 400mila posti di lavoro negli ultimi quattro anni. Il fotovoltaico è inoltre recentemente diventato la prima fonte energetica rinnovabile d’Italia, ad eccezione dell’idroelettrico. A rilevarlo è l’ufficio studi di Confartigianato che sottolinea come oggi, soltanto con l’energia prodotta dal fotovoltaico, potrebbe essere soddisfatto il fabbisogno energetico delle famiglie di tutto il Sud Italia (14.451 GWh). Nelle scorse settimane sono stati pubblicati anche diversi studi che hanno diffuso dati di previsione in termini di ricadute occupazionali generate dal mercato delle rinnovabili. «Anche noi dell’Aper» spiega Fabiola Bruno, 28 anni, che da un anno lavora nel settore fotovoltaico dell’Associazione produttori energia da fonti rinnovabili «nel dossier Energie senza Bugie abbiamo analizzato l’impatto occupazionale connesso allo sviluppo delle rinnovabili. Per il 2011 la stima degli addetti operanti nel solo settore fotovoltaico si aggira intorno alle 90mila unità con una ottimistica previsione di raddoppio al 2020». Secondo le stime riportate dal Solar energy report 2012, nel 2011 le imprese operanti lungo tutta la filiera nazionale del fotovoltaico sono aumentate del 6% rispetto al 2010 e sono circa 850, dislocate in tutta Italia. È nei settori relativi alla distribuzione dei componenti e della progettazione e installazione che le imprese italiane hanno giocato un ruolo predominate. Le figure più richieste restano gli installatori e manutentori di pannelli, la cui professionalità è acquisibile in poco tempo: per diventare installatori fotovoltaici basta infatti seguire un corso di formazione, per accedere al quale è richiesto in genere solo il diploma di scuola superiore. E vista la già discreta diffusione degli impianti in Italia, in ambito fotovoltaico continuano ad essere molto richieste figure junior, neo ingegneri elettrici/elettrotecnici per occuparsi della manutenzione degli impianti, della connessione alla rete e del loro corretto funzionamento. Sempre aperte nelle aziende del settore anche le ricerche di nuove risorse commerciali.Ma sembra che la variabile per il futuro delle opportunità professionali nel settore fotovoltaico sia costituita dagli incentivi: in Italia, l’energia elettrica prodotta mediante impianti fotovoltaici beneficia di un proprio sistema incentivante denominato “Conto energia” fotovoltaico. Il Conto energia rientra nella famiglia dei feed-in premium, con il quale è incentivata la produzione di energia fotovoltaica ed è regolato dalla legge. Quanto influirà, dunque, l'andamento legislativo sul settore? «Considerando lo sviluppo sembrerebbe che le modifiche introdotte dai continui e repentini cambiamenti legislativi nel sistema incentivante non abbiano comportato una drastica riduzione degli occupati, anzi, nel periodo 2008-2011 nel fotovoltaico si è osservato un incremento degli occupati da poco più di 2mila a circa 64mila addetti: gli attuali 13.4 GW di potenza installata, di cui solo 9,5 realizzati nel 2011, devono aver evidentemente contribuito ad accrescere le opportunità professionali nel settore della solar economy», prosegue Bruno.Installare Gigawatt di potenza equivale a installare nuovi impianti: il boom degli ultimi tre anni ha dunque contribuito a creare nuovi posti di lavoro.  Pertanto, nonostante sia difficile immaginare una crescita esponenziale come quella avuta negli ultimi anni, ci si augura che il settore non sia drasticamente stravolto da nuove novità normative che rischierebbero di frenare il comparto delle rinnovabili, che ormai contribuisce al 7,4% della produzione elettrica nazionale e bloccare investimenti ed opportunità di sviluppo nel nostro Paese.Ma la variabile che più impatterà sul futuro del fotovoltaico in Italia sarà lo sviluppo del decreto Quinto conto energia.  Ad oggi la legge che regola il settore fotovoltaico segue il Quarto conto energia, che ha come obiettivo il raggiungimento della potenza installata al 2016 di 23mila MW a fronte di una spesa complessiva annua tra i 6 e i 7 miliardi. Al raggiungimento di questi 6 miliardi sarà rivisto il meccanismo del Conto energia e verrà messo in vigore il Quinto conto (la cui entrata in vigore è stata spostata all’ottobre 2012).All'inizio di giugno i testi presentati dal ministero allo sviluppo e da quello dell’ambiente hanno avuto il parere positivo da parte delle Regioni nella Conferenza unificata. L’esito finale è stato raggiunto a condizione che vengano rivisti dal governo alcuni punti. Le associazioni di settore però, non sono contente e temono che i cambiamenti che il Quinto Conto apporterà possano frenare brutalmente il settore: «Abbiamo fatto presente alle regioni le principali criticità del Quinto Conto e in che modo poter intervenire per riparare il riparabile» riassume Bruno: «Il testo del nuovo decreto stabilisce infatti un limite di budget per gli incentivi di 500 milioni di euro, e tale limite rischierebbe di non contribuire alla crescita annua di 2-3 GW prevista dai ministeri. Al fine accompagnare il fotovoltaico verso la competitività ed al di fuori degli schemi di sostegno ne è stato richiesto l’innalzamento a mille milioni di euro, per un costo complessivo di sette miliardi di euro all'anno». Nonostante il periodo sia caratterizzato da forti incertezze normative, sono diversi i settori dell’energia fotovoltaica nei quali si può prevedere una crescita in futuro e in particolare le opportunità si intravedono nel comparto del green building dove l’integrazione del fotovoltaico diventa complementare ad interventi di efficienza energetica. Di questa complementarietà sembra essersi accorto anche il governo, che intende promuovere la crescita e l’utilizzo di queste nuove tecnologie: «È incoraggiante l’annuncio di qualche giorno fa del ministro Clini: l’approvazione di una misura che prevede, a partire dal 2013, l’applicazione di un credito d’imposta alle aziende operanti nella green economy che assumeranno a tempo indeterminato giovani under 35», commenta Bruni. In particolare le nuove figure saranno inserite nei settori della ricerca, dello sviluppo e della produzione di tecnologie innovative nel solare.Gli esperti non si sbilanciano in previsioni sulla nascita di nuove imprese o sull’ampliamento di quelle già esistenti: «Visto le nuove disposizioni normative e l’attuale contesto economico le aziende già esistenti tenderanno a specializzarsi nei settori del fotovoltaico integrato e dell’efficienza energetica in cui cercheranno figure professionali qualificate. Un’ulteriore prospettiva di crescita del settore, che segue la naturale evoluzione del mercato fotovoltaico, sarà il mondo delle Esco, Energy service companies, soggetti che andranno realizzare in finanziamento impianti fotovoltaici anche sui tetti a fronte della vendita agli utenti finali dell’energia elettrica prodotta. Si tratta dei cosiddetti Sistemi efficienti di utenza, che possono essere creati e gestiti anche da privati e premiano lo sviluppo dell’autoconsumo».Come prepararsi per un futuro nel fotovoltaico? «Preparazione, specializzazione e collaborazione», conclude la Bruno «sono sicuramente requisiti fondamentali di una risorsa. Non basta però, per avere delle buone prospettive professionali, possedere delle solide basi di conoscenza del settore: è importante seguire le proprie attitudini. Infine è necessario avere ottime capacità di collaborare e lavorare in team: avviene frequentemente che il progettista architetto o l’ingegnere debbano avvalersi delle competenze di persone che hanno dei differenti background - dall’economista, al legale, passando anche per l’installatore».In un periodo in cui il mondo del lavoro e lo sviluppo sembrano essere immersi in una coltre di fitta nebbia il settore del fotovoltaico apre uno spiraglio di luce: lo sviluppo delle rinnovabili infatti va in controtendenza e, oltre a creare nuove opportunità professionali, sembra favorire anche la creazione di nuove imprese.Giulia CimpanelliPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Neolaureati, le aziende vi vogliono così: ecco i risultati dell'indagine Cilea - Stella- Almalaurea, crollano occupazione e stipendi dei laureati. E chi fa uno stage ha solo il 6% in più di opportunità di lavoro- Stagisti laureati, solo nelle imprese private sono 100mila. Un esercito che però difficilmente trova lavoro: gli ultimi dati dell'indagine Excelsior-Unioncamere   E anche:- Il deputato Aldo Di Biagio spiega la sua interrogazione: «Bisogna difendere chi ha lauree "deboli" dalla discriminazione nelle selezioni»

«La riforma del lavoro? Non è una riforma» secondo i consulenti del lavoro

Si è concluso da poco il Festival del lavoro organizzato dall’ordine dei consulenti del lavoro a Brescia: un’edizione quest’anno più che mai ricca di argomenti, a pochi giorni dalla fiducia alla Camera del ddl Fornero. La Repubblica degli Stagisti c’era per capire da vicino quali sono le opinioni e gli argomenti che animano il mondo della politica, dei sindacati e delle aziende sull’argomento più delicato del momento: la riforma del lavoro.L’opinione prevalente emersa dalle analisi e dagli interventi al festival è riassunta nelle parole della presidente del consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro, Marina Calderone: «La soluzione alla polemica sulla riforma del lavoro è semplicemente non chiamarla più così, perché non ne ha le caratteristiche né tecniche né di sostanza». Una “non legge” quindi approvata il 27 giugno definitivamente alla Camera.Interessanti spunti di confronto sono emersi nel dibattito «Flessibilità è precarietà?», che doveva inizialmente prevedere la presenza di ben quattro ex ministri del lavoro (Tiziano Treu, Roberto Maroni, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi). In realtà poi se ne sono presentati solo due, Treu e Sacconi, perché Damiano e Maroni hanno dato forfait: ma il parterre era comunque ben ricco e accanto a Marina Calderone c’erano Daniele Molgora, presidente leghista della provincia di Brescia, e il giornalista Alessandro Rimassa, autore del bestseller Generazione mille euro.Al centro della discussione i punti di forza del disegno di legge per la riforma del lavoro ma anche le lacune che potrebbero contribuire a non fare di questa legge il fulcro di una decisiva svolta. Secondo il 62enne Sacconi, socialista "storico" prima di entrare nel PdL, non è vero che in Italia ci sono 46 tipologie contrattuali: «la logica della precarizzazione non esiste. In futuro si dovrà lasciare il posto al singolo rapporto di lavoro costituito in una contrattazione individuale e le persone dovranno solo preoccuparsi di essere occupabili attraverso una formazione aggiornata e completa». Ciò che immagina il diretto predecessore della Fornero è quindi un mercato all’insegna della deregolamentazione, quasi all’opposto degli intenti espressi dal ddl che, sempre secondo Sacconi, «punta ad una presunzione tendenziale di non corretta applicazione di ogni contratto che non sia a tempo indeterminato, stimolando un’intensa attività ispettiva; il contratto unico rischia di soffocare il mercato del lavoro». Non la pensa così Tiziano Treu, classe 1939, alla guida del ministero del Lavoro tra il 1994 e il 1998 e padre del “pacchetto Treu”, la prima riforma del mercato del lavoro nel senso della flessibilità: «ci vuole flessibilità ma anche stabilità, il contratto unico significa avere un minimo di regole comuni su orari, sicurezza, ammortizzatori, formazione». Queste garanzie sembrano non essere state centrate dalla riforma presentata dal governo: secondo Calderone «il ddl si lascia coinvolgere in due compromessi, il primo riguarda gli ammortizzatori sociali e il pallido tentativo di estenderli ai cosiddetti precari. Il secondo grande compromesso tocca la flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. Ragionando più sull’uscita, il dibattito si è spostato sull’annosa questione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, una questione che in Italia coinvolge una parte marginale del mondo del lavoro, costituita dalle imprese più grandi e meno numerose rispetto alla costellazione di micro aziende tipiche della nostra realtà economica». Tuttavia come ha sottolineato il Treu «il ddl è riuscito, per la prima volta dopo  trent’anni, a mettere mano al grande tabù dei licenziamenti. Peccato che la norma ne sia uscita un pasticcio che va sicuramente migliorato nella sua formulazione».Per quanto riguarda i giovani, tutti d’accordo con l’urgenza di fronteggiare le difficoltà d’accesso al mercato del lavoro. Ma non è facile trovare il procedimento migliore per rimettere in moto questo sistema. «Purtroppo i giovani vivono una situazione drammatica che è anche il frutto di un sistema formativo viziato dalle logiche scolastiche degli anni ’70 e oggi si ritrovano con lauree che non consentono di essere spendibili sul mercato del lavoro» sostiene Sacconi, che però sembra dimenticare che le riforme più incisive al mondo della scuola e dell’università portano la firma di due ministri, Moratti e Gelmini, che hanno governato con la sua stessa compagine politica. «La mia generazione ha il compito di riparare agli errori commessi, fornendo canne e non pesci ai più giovani; i ragazzi devono imparare a responsabilizzarsi», tuttavia resta da chiarire dove poter pescare.La formazione è certamente un aspetto cruciale ma rischia di diventare la panacea alla disoccupazione giovanile se utilizzata per impegnare temporaneamente i più giovani, e se come suggerisce lo stesso Sacconi: «l’attesa tra un impiego e l’altro mortifica un adulto, mentre per un giovane costituisce un’occasione per perfezionare la sua formazione». Per Treu una delle occasioni perse dal ddl consiste nel non aver affrontato la necessità di togliere il tappo che soprattutto blocca lo sviluppo economico e l’accesso dei giovani al mondo del lavoro: l’anzianità vista come un merito. «Mio figlio ha 33 anni e da 11 vive in California dove insegna astrofisica. I giovani sono innovatori per natura e le università devono essere le prime ad investire su di loro». Anche se, come aggiunge Sacconi, in Italia c’è anche il problema che gli uffici di placement degli atenei non riescono a funzionare al massimo delle loro potenzialità.Per Alessandro Rimassa l’ostacolo più rilevante per i giovani sta nella mancanza di meritocrazia e trasparenza: «Se il lavoro della mia vita è sotto casa ma non c’è trasparenza io non lo saprò mai». Secondo Rimassa il lavoro deve tornare ad essere una fonte di realizzazione per i giovani, che non frustri le loro aspettative, ma sembra difficile conciliare i sogni nel cassetto con quanto la realtà offre. Come conferma Molgora, i lavori più richiesti sono quelli che nessun laureato si sogna di fare:«le aziende lombarde sono alla disperata ricerca di saldatori!» Come conciliare quindi? Il consiglio di Calderone ai giovani è di fare più lavori diversi per non restare inattivi in attesa del lavoro perfetto e correre il rischio di essere difficilmente ricollocabili.Cosa succederà dopo la riforma? Come faranno le imprese a lavorare e a creare lavoro se gli si toglie credito? Sono questi i quesiti su cui si interrogano i consulenti del lavoro - consapevoli, nelle parole della presidente, che questa riforma non sarà che il primo step da cui ripartire per rinnovare a fondo il mercato del lavoro nel nostro paese.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato- Aspi, Miniaspi e una tantum: come sono usciti dal Senato gll ammortizzatori per chi perde il lavoro