Categoria: Approfondimenti

Il congedo di paternità non è più sperimentale: anche in Italia diventa strutturale

Dieci anni fa – era il 2012 – veniva introdotto in Italia con la legge Fornero il primo congedo di paternità obbligatorio e retribuito, vale a dire la possibilità per i padri di astenersi dal lavoro per un – brevissimo – periodo conservando il diritto allo stipendio in concomitanza con l'arrivo di un figlio. Un solo giorno, cresciuto poi negli anni fino a arrivare, con la legge di Bilancio del 2020, a dieci giorni. Quest'anno, con la nuova Finanziaria, è stato fatto un passo più: il congedo è finalmente diventato strutturale, vale a dire che è entrato «a far parte del nostro ordinamento in modo permanente» spiega alla Repubblica degli Stagisti Simone Cagliano, consulente del Lavoro della Fondazione studi consulenti del lavoro [nella foto a destra]. Il risultato è che «i congedi non sono più sperimentali», e d'ora in poi «i padri lavoratori dipendenti potranno fruirne in caso di nascita, adozione, affidamento o collocamento temporaneo di minori» senza timore che l'ennesima legge del caso intervenga con qualche modifica. C'è poi un'importante novità: un decreto legislativo appena entrato in vigore – lo scorso 13 agosto – ha finalmente allargato la platea dei beneficiari del congedo di paternità anche ai dipendenti statali, finora incredibilmente esclusi dal diritto –che era riservato ai soli lavoratori del comparto privato. Spetteranno dunque d'ora in poi a tutti i neopapà lavoratori dipendenti «dieci giorni di assenza dal lavoro, che possono essere goduti anche in via non continuativa» precisa Cagliano, «e per i quali viene corrisposta un'indennità giornaliera a carico dell'Inps pari al cento per cento della retribuzione». Il decreto introduce un nuovo trattamento anche per i congedi parentali, sia per gli autonomi che per i dipendenti. Per gli autonomi non era mai stato istituito un congedo parentale, e sulle modalità di fruizione occorrerà attendere la relativa regolamentazione. Per ora si sa ciò che ha precisato l'Inps con il messaggio 2066 del 4 agosto 2022 spiegando i contenuti del decreto, e cioè che i neo-genitori «avranno diritto a tre mesi di congedo parentale per ciascuno, da fruire entro l’anno di vita del minore». Ma non si conoscono ancora i dettagli. Rispetto alla "classica" tipologia di congedo, ovvero il congedo parentale già esistente retribuito al 30 per cento destinato a tutti i lavoratori dipendenti, anche per questa tipologia il decreto 105 del 30 giugno 2022 introduce alcune novità. Tra queste la possibilità per entrambi i genitori di astenersi dal lavoro «per un periodo massimo complessivo di nove mesi (e non più sei)», si legge sempre nel messaggio Inps, fino al compimento del dodicesimo anno del bambino. I genitori potranno così chiedere tre mensilità ciascuno, più ulteriori tre mesi in alternativa tra loro. Tornando invece al congedo di paternità va specificato che, pur indicato con il termine "obbligatorio", di fatto resta una decisione del lavoratore: «Non sono previste sanzioni per il caso in cui non se ne usufruisca» commenta Cagliano. Di conseguenza il papà potrà scegliere se restare a casa a accudire il nuovo arrivato oppure continuare a lavorare. I dati sembrano confermare la scarsa propensione al coinvolgimento dei papà nella nascita dei figli al pari di quello materno. Secondo l'Inps le richieste di congedo obbligatorio sono passate infatti solo da 135 a 155mila dal 2019 al 2020 (poco più della metà dei neopadri). La strada è insomma ancora lunga. Il confronto con l'Europa posiziona l'Italia come fanalino di coda. In Spagna, dal 2021, il congedo obbligatorio per i neopapà è diventato di quattro mesi, dopo la tappa delle otto settimane del 2019 e delle dodici del 2020. In Francia i giorni usufruibili sono 25, in Svezia 480 ma cumulativi e usufruibili fino al compimento dei nove anni del bambino (e di questi 90 sono riservati al padre e altrettanti alla madre). «L’Italia incoraggia poco la fruizione dei permessi da parte dei padri» ragiona Cagliano: «Aver reso strutturale il congedo di paternità obbligatorio rappresenta una prima misura che dovrà essere accompagnata da altre previsioni normative nei prossimi anni». L’obiettivo «è quello di implementare la tutela della genitorialità e il work-life balance dei lavoratori dipendenti e autonomi, al fine di equilibrare i carichi lavorativi e le opportunità lavorative tra uomini e donne». A chiederlo è del resto l'Europa per cui si dovrà arrivare, riferisce il consulente, «a stabilire un periodo minimo, non inferiore a due mesi, di congedo parentale non cedibile all'altro genitore e per ciascun figlio», magari «prevedendo forme di premialità nel caso in cui tali congedi siano distribuiti equamente fra entrambi i genitori». L'Italia si sta muovendo in corrispondenza ai dettami europei ma «le tempistiche per arrivare alle misure concrete sono lunghe». Il congedo obbligatorio non è infine da confondere con il congedo facoltativo di un giorno, sempre retribuito al 100 per cento. Quello obbligatorio «si configura come un diritto autonomo e pertanto aggiuntivo a quello della madre, e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al proprio congedo di maternità». Il papà che dopo la nascita del bebé resta a casa per accudire il bambino non sottrae infatti i giorni che spettano alla mamma, a differenza del congedo facoltativo. Quest'ultimo «è invece condizionato dalla scelta della madre lavoratrice di non fruire di un giorno di congedo di maternità. Il giorno del padre anticipa quindi il termine finale del congedo di maternità della madre» prosegue Cagliano. Per entrambe le categorie però il termine ultimo per poterne usufruire sono i cinque mesi del bambino, dalla nascita o dall'entrata in famiglia in caso di adozione. Ilaria Mariotti 

Chi sono i data scientists? Boom di offerte di lavoro, ma rimane il gender gap

«La maggiore risorsa economica non è più il petrolio. Sono i dati». Niccolò Golinelli era uno studente di appena 22 anni quando fu colpito da questa frase mentre leggeva un articolo dell’Economist, giornale finanziario inglese. È bastato questo semplice concetto per mettere in ordine le idee e capire che il percorso nella data science era quello giusto da seguire. Golinelli si è laureato prima in economia all’università Cattolica di Milano nel 2017 e poi ha conseguito una laurea magistrale, nello stesso ateneo, in data analitics for business nel 2019. Ora ha 26 anni e da due lavora a Milano, nel settore della cyber security, per  nota una azienda di consulenza internazionale. Ogni giorno ha a che fare con un’enorme quantità di dati. Cifre e algoritmi che negli ultimi dieci anni sono diventati i veri protagonisti del mercato. Ma esattamente chi è e che cosa fa un data scientist? Si tratta di un professionista con competenze che vanno dall’informatica alla statistica alla matematica. L’obiettivo principale è l’organizzazione, l’analisi e l’interpretazione di una grande quantità di dati, il tutto supportato dall’utilizzo di software progettati ad hoc. Più comunemente vengono usati i notebook open source, applicazioni web che servono per scrivere ed eseguire codici, visualizzare i dati e vederne i risultati. La pura analisi dei big data ad oggi è fondamentale per le aziende di qualsiasi settore che vogliono migliorare le proprie performance ed essere sempre più competitive sul mercato.«Quando ho iniziato a conoscere questo mondo i corsi di laurea in data science stavano nascendo. Quello della Cattolica, infatti, è uno dei primi in Italia e il mio anno è stato quello di inaugurazione», racconta Golinelli che durante i suoi studi ha deciso di prendere parte anche a due progetti ambiziosi: una startup e un’associazione per studenti e professionisti immersi nell’universo dei big data. «Il mio primo ingresso nel mondo del lavoro è stato nella startup “Soccerment”, di cui sono diventato socio, che si occupa di analizzare i dati nel mondo dello sport e in particolare nel calcio. Lo scopo è di sviluppare dei dati capaci di leggere le prestazioni degli atleti ed è un servizio rivolto ai singoli giocatori ma anche ai club, dagli amatoriali ai professionisti», racconta. Nel 2019 ha fondato anche l’associazione “Data Network” di cui è presidente. «L’abbiamo creata con lo scopo di promuovere la data science e creare un alto tasso di alfabetizzazione dei dati, la cosiddetta data literacy rivolta agli addetti ai lavori e non. Ad oggi siamo una trentina di soci attivi. Il Covid ha bloccato le iniziative ma contiamo di ripartire al più presto», prosegue Golinelli: «”Data Network” è anche un luogo in cui potersi creare dei contatti, trovare opportunità di lavoro e partecipare a incontri tra studenti ed esperti del settore».La data science in Italia sta vivendo una fase di grande fermento. Il settore ha avuto il suo boom negli Stati Uniti tra il 2006 e il 2010 e le aziende che lo hanno trainato sono quelle che da sempre hanno avuto a che fare con una grande mole di dati come Facebook, Apple, Google e Amazon. «Capimmo subito che questo movimento di big data sarebbe diventato importante, per questo decidemmo di mobilitarci», racconta alla Repubblica degli Stagisti Leonardo Camiciotti, executive director di TOP-IX (TOrino Piemonte Internet eXchange), consorzio nato nel 2002 e specializzato nell’innovazione tecnologica: «Andavamo costantemente negli Stati Uniti e ci siamo resi conto che in Italia mancava la gestione dei dati, le competenze e soprattutto la formazione accademica. Così abbiamo iniziato a fare dei corsi per professionisti, matematici e informatici di alto livello, ma anche aziende che per necessità dovevano interfacciarsi con i big data». Assieme al proprio consorzio, tra il 2011 e il 2012 Camiciotti ha creato il primo portale di rilascio di open data in Italia: «Dieci anni fa i data scientist possedevano un mosaico di competenze molto vasto, dall’ingegneria informatica alla statistica e allora come oggi lavorano all’interno di un team».Con il passare degli anni, però, anche le strutture accademiche si sono messe al passo coi tempi. Dal 2019 ad oggi sono una ventina in Italia le università che hanno deciso di investire in corsi di laurea e master specializzati in data science come Luiss, Bocconi e Cattolica (a numero chiuso) ma anche Statale di Milano e Bicocca (a numero aperto). In quest’ultima la crescita delle iscrizioni è stata rilevante, passando da 100 immatricolati nel 2018 a quasi 200 nel 2021. I percorsi offerti al loro interno presentano esami di statistica, matematica, econometria, computer science, machine learning e altri ancora. Tutti capaci di trasferire competenze trasversali, adattabili a qualsiasi area, dalla moda alla salute, dal marketing alle banche.La crescita del settore dei big data è stata confermata anche dalla Harvard Business Review che ha definito il data scientist come la professione più “sexy” del 2021. Anche la classifica di Glassdoor sui “50 best jobs in America” ha messo il data scientist al terzo posto nel 2022 e al primo posto tra il 2016 e il 2019. Secondo il Bureau Labor Statistics degli Stati Uniti i posti di lavoro in questo settore sono destinati ad aumentare dell’11% entro il 2024. Un’ascesa inarrestabile che si rispecchia anche in Italia, sebbene con cifre inferiori.L’azienda Experis, nel suo report “Tech cities” 2022, ha definito il data scientist come il secondo profilo più richiesto in Italia (17%) dopo il Java developer (46%). Le offerte di lavoro si concentrano soprattutto nel nord Italia, in particolare a Milano con il 53%; Roma in seconda posizione con il 20,4%. Scegliere questo campo professionale serve anche ad evitare il grande problema – non solo italiano – del lavoro sottopagato. La retribuzione annua lorda media dei data scientist infatti parte (in media) da un minimo di 27mila euro fino ad arrivare a 40mila. Gli stipendi più alti in Lombardia e Piemonte dove il guadagno media annuo è rispettivamente di 40mila e 36mila euro. Più si va verso sud, invece, più la Ral diminuisce con una retribuzione media di 33mila euro in Campania e 32mila in Puglia. Un divario preoccupante, quello tra nord e sud, che si riflette anche tra uomini e donne. Il gender gap infatti persiste anche nella data science e più in generale nelle professioni stem (science, technology, engineering and mathematics). Secondo il report di Linkedin sui 25 mestieri più in crescita in Italia nel 2022, i data scientist uomini rappresentano il 64%, le donne il 36% e il divario salariale in favore dei primi ammonta all’11,5%.«Tutto il mio team è composto principalmente da uomini», conferma Beatrice Giubilo, business analist di 29 anni che lavora per segugio.it,  azienda specializzata nella comparazione online di prodotti finanziari, assicurativi e tariffe. «Il settore della data science non è ancora bilanciato ma la forbice si sta restringendo sempre di più». Ma Giubilo che guarda al futuro prossimo con solido ottimismo e al passato con una dolce nostalgia: «Ho conosciuto la data science per caso. Dopo la laurea in economia all’università di Trieste ho lavorato in una compagnia assicurativa e proprio là ho incontrato degli esperti di statistica che già utilizzavano strumenti di data science. Questo settore mi ha incuriosito e così nel 2019 ho deciso di intraprendere un master in data science for management alla Cattolica di Milano».Tra le sue passioni ci sono i videogiochi e la moda, due settori lontani dall’universo dei big data, ma solo apparentemente. «Negli ultimi anni i grandi marchi hanno deciso di investire nei videogames, creando i look dei personaggi virtuali». Un’industria di grande valore in cui i data analist svolgono un ruolo fondamentale, raccogliendo e analizzando i dati e le preferenze dei clienti. «Il mondo della data science è come un grande ombrello colorato», conclude Beatrice Giubilo: «È versatile, può coprire tante aree diverse tra loro ed è accessibile. Basta avere passione».

Quando sono i lavoratori a scegliersi l'impresa: Ichino spiega «l'intelligenza del lavoro»

Ripensare il ruolo del sindacato, far entrare a pieno regime un’ “anagrafe della formazione” per verificare l’effettiva utilità sul mercato del lavoro delle competenze acquisite. Ma soprattutto rovesciare il paradigma attuale per cui sono solo le aziende a “scegliere” i propri lavoratori. Sono solo alcuni dei principali spunti del libro «L’intelligenza del lavoro», pubblicato dal giuslavorista Pietro Ichino nel 2020 per Rizzoli. Ichino è stato docente di diritto del lavoro, sindacalista, deputato all'inizio degli anni Ottanta e poi senatore in tempi più recenti, tra il 2008 e il 2018; con questo libro si propone di analizzare le cause e mettere in discussione il tradizionale squilibrio contrattuale tra lavoratori e imprenditori. La Repubblica degli Stagisti ha intervistato Ichino per approfondire alcuni temi chiave del libro, percapire come queste proposte potrebbero migliorare il mondo del lavoro e aiutare anche i giovani ad affrontare il proprio percorso professionale.Professor Ichino, il tema del sindacato come "intelligenza collettiva", al centro del suo libro L’intelligenza del lavoro uscito in piena pandemia, lo era già nel suo libro del 2005, A che cosa serve il sindacato. In una fase di crisi del sindacato, testimoniata dai dati delle iscrizioni di lavoratori attivi in calo, cosa si può fare per rivalutare il suo ruolo e ridare fiducia ai lavoratori? Oggi il nostro Paese ha urgente necessità di un ritorno alla crescita della produttività del lavoro, che consenta un aumento delle retribuzioni e dei consumi oltre che un rafforzamento del tessuto produttivo. Per questo sarebbe necessaria la presenza diffusa nelle imprese di un sindacato capace di negoziare forme nuove di collegamento tra aumenti di produttività e aumenti salariali. Lo Stato può incentivare la diffusione di questo tipo di contrattazione collettiva decentrata detassando gli aumenti salariali che ne derivano. Però occorrerebbe anche che nel movimento sindacale prevalesse la scelta di limitare la funzione del contratto collettivo nazionale alla determinazione di uno zoccolo minimo aggiornato periodicamente in riferimento all’inflazione, e per il resto di puntare tutto sulla contrattazione aziendale. Lo zoccolo minimo, oltretutto, andrebbe modulato secondo gli indici regionali del costo della vita e anche questa modulazione sarebbe opportuno che venisse affidata a una contrattazione decentrata.A questo disegno si obietta che la contrattazione aziendale oggi copre soltanto un terzo della forza-lavoro italiana: puntare tutto sulla contrattazione aziendale rischia di lasciar fuori due terzi del tessuto produttivo. L’obiezione coglie un problema reale. Che però si può superare, per esempio, introducendo nei contratti collettivi nazionali di settore la previsione di una forma elementare di collegamento della dinamica retributiva con l’andamento della produttività di ciascuna azienda, stabilendo che la disposizione contenuta in proposito nel CCNL, il contratto collettivo nazionale di lavoro, si applichi soltanto per default, in assenza di un accordo aziendale che disciplini diversamente la materia. Per esempio, il contratto nazionale potrebbe prevedere che almeno il 25 per cento dell’aumento del margine operativo lordo [uno degli indicatori di redditività di un'azienda, ndr] verificatosi nell’ultimo anno rispetto all’anno precedente sia distribuito ai dipendenti, salvo che venga contrattata al livello di impresa una forma diversa di collegamento del premio alla produttività o alla redditività dell’azienda. Naturalmente, questo implicherebbe che il rinnovo del contratto nazionale di settore non assorbisse ogni margine di dinamica salariale con l’aumento del minimo tabellare [il compenso minimo di un lavoratore previsto dal proprio contratto, ndr], come di fatto sta invece avvenendo in tutti i rinnovi dei CCNL. Un ruolo che lei affiderebbe ai sindacati è quello di documentare il lavoratore sul passato dell'imprenditore che gestisce l'azienda di potenziale interesse per un lavoratore. Perché non è stato fatto finora? Quali sono gli ostacoli?Questo sarebbe molto importante, innanzitutto per gli stagisti: se l’imprenditore fosse obbligato a pubblicare sul sito web dell’azienda la relazione scritta da ciascuno dei suoi passati stagisti circa il modo in cui è stato trattato e l’esito dello stage, questo costituirebbe la migliore garanzia contro l’abuso di questa forma di ingaggio del giovane in funzione formativa all’inizio della sua vita lavorativa. Ma, più in generale, ogni impresa dovrebbe essere stimolata a raccogliere e pubblicare tutti i dati rilevanti circa la soddisfazione dei propri dipendenti, almeno nel passato recente. Perché sempre di più il mercato del lavoro sta diventando un luogo nel quale sono anche i lavoratori a scegliersi l’impresa; questa dunque deve imparare a competere con le altre anche sul piano del benessere che è in grado di assicurare ai propri dipendenti.Ecco, un punto chiave del suo libro L’intelligenza del lavoro è questo del “rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro”: oggi sono sempre di più anche i lavoratori a esercitare una scelta, quindi ad esercitare in qualche misura un potere negoziale, col risultato che la concorrenza non è più soltanto fra i lavoratori, ma anche tra le imprese che cercano le persone di cui hanno bisogno. Rientra in questo rovesciamento del paradigma anche il fenomeno recente delle "grandi dimissioni"? Negli ultimi mesi in tutti i Paesi dell’occidente sviluppato si è registrato un aumento molto marcato, rispetto agli anni precedenti, dei lavoratori che hanno abbandonato spontaneamente il proprio posto di lavoro per migrare altrove, talvolta anche per sperimentare un nuovo equilibrio esistenziale tra lavoro retribuito, lavoro di cura e leisure. In questo fenomeno vedo una conferma e una accentuazione di un fenomeno già studiato da tempo, di cui do conto nel primo capitolo del libro: un nuovo modo d’essere del mercato del lavoro. In particolare, è ormai largamente maggioritaria la frazione dei lavoratori che sono in grado di scegliere tra più alternative offerte loro dal tessuto produttivo. Questo, però, non deve far dimenticare il problema della non piccola minoranza di persone che, invece, questa capacità non l’hanno ancora: il compito di farla acquisire anche da queste dovrebbe essere assolto da una rete efficiente di servizi, di cui il mercato del lavoro dovrebbe essere innervato. Su questo terreno il nostro Paese è ancora molto indietro.Ma i giovani con percorsi formativi e universitari "standard", cioè la maggior parte, possono davvero scegliersi il datore di lavoro?Quelli che hanno conseguito con un buon voto finale le lauree più richieste – come ingegneria, medicina, biologia, farmacia, matematica, economia – trovano subito l’occupazione, avendo diverse buone opportunità tra le quali scegliere. Gli altri faticano di più; ma in molti casi le loro difficoltà nel trovare un’occupazione dipende dalla scarsissima attrattività della loro laurea, oppure da un gap che si è aperto tra le loro aspirazioni professionali e le loro capacità professionali effettive. In molti casi è proprio il fatto di aver conseguito una laurea a indurre un giovane a ritenere che essa gli dia senz’altro titolo per candidarsi a determinate funzioni, per le quali invece non è sufficientemente preparato. Per questo è importantissimo il servizio di orientamento professionale, che avrebbe il compito di rilevare – quando c’è – il gap tra aspirazioni e capacità effettive, avvertirne il giovane interessato e indicargli il modo per superare l’ostacolo, oppure orientarlo verso diversi possibili percorsi.Nel libro sono approfondite varie "crisi" aziendali, alcune di queste molto trattate anche dai media. In quale è emerso in modo più forte il potere dei lavoratori di “scegliersi” l’imprenditore e il ruolo del sindacato di “intelligenza collettiva” che guida i lavoratori in questa scelta? Il fenomeno dei lavoratori che, anche in forma collettiva, “si scelgono l’imprenditore” in occasione di una crisi aziendale è evidente in tutti i casi discussi nel terzo capitolo del libro. Il problema è che solo in alcuni casi – come quello della Nissan di Sunderland nel 1985, o quello della Fiat nel 2010 – i lavoratori, sostenuti da un sindacato che sa guidarli nella valutazione del piano aziendale e della qualità dell’imprenditore che lo presenta, compiono la scelta giusta. In altri casi invece, come quello dell’Alitalia nel 2008 e poi di nuovo nel 2017, o quello dell’Almaviva di Roma del 2016, i lavoratori compiono la scelta sbagliata, o perché non si fidano dell’indicazione del sindacato, o perché – come nel caso Alitalia nel 2008 – è il sindacato stesso a svolgere male il proprio ruolo di “intelligenza collettiva” dei propri rappresentati.Per affrontare il problema della divergenza tra la formazione impartita nel percorso formativo, scolastico o accademico, e le competenze richieste dal mercato del lavoro, lei sostiene l'idea di istituire un'"anagrafe della formazione" che consenta di verificare se il proprio percorso formativo è servito effettivamente a trovare un'occupazione. Ci sono margini per realizzarla in Italia?L’istituzione dell’anagrafe della formazione e la previsione dell’incrocio sistematico dei suoi dati con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie delle assunzioni al ministero del Lavoro, delle iscrizioni ad albi e ordini professionali nonché alle liste di disoccupazione, sono previste da sette anni in una legge dello Stato: il decreto legislativo 150/2015, articoli da 13 a 16. Se queste norme, che prima di essere emanate erano state debitamente oggetto di un’intesa tra Stato e Regioni, sono rimaste lettera morta, è perché dopo la loro emanazione nessun ministro del Lavoro se ne è più occupato; e nessun assessore regionale competente per questa materia ha ritenuto di complicarsi la vita sottoponendo la formazione professionale finanziata col denaro pubblico alla rilevazione del tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi. Ma la possibilità, anzi, la necessità, di implementare queste norme ci sarebbe stata, eccome; e ci sarebbe tuttora, poiché le norme citate sono tuttora in vigore.Chiara Del Priore

Great resignation, il fenomeno delle grandi dimissioni c'è davvero anche in Italia?

Giovani e con il cambiamento tra le mani. Sono loro, la generazione Z. Nati tra il 1996 e il 2010 e cresciuti nell’era digitale, sono i portavoce di un nuovo stile di vita, più dinamico e flessibile dentro ma soprattutto fuori le mura di casa. Il fenomeno della great resignation li riguarda da vicino, anzi parte proprio da loro. Il termine viene dall’inglese “grandi dimissioni” ed è stato coniato nel maggio 2021 da Anthony Klotz, professore di management all'Università del Texas.L'esodo dei giovani dal posto di lavoro è un fenomeno che ha generato nell’ultimo anno un boom di dimissioni volontarie negli Stati Uniti, cogliendo impreparate il 75% delle aziende. I millennials (così si definiscono, grossomodo, le persone nati tra il 1981 e il 1995 – inizialmente il termine stava a significare che fossero diventate maggiorenni nel 2000 o negli anni immediatamente successivi) ma soprattutto la gen Z, nati più o meno tra il 1996 e il 2010, sostenitori della filosofia “yolo” (you only live once, si vive una volta sola), sono sempre più attenti al benessere personale, alla sostenibilità e all'equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata.Ma la great resignation è arrivata anche in Italia? Secondo l'istituto di ricerca Censis la risposta è no: «In Italia non c’è la fuga dal lavoro». Però «si rimane al proprio posto scontenti e insoddisfatti. Quattro ragazzi su dieci dicono che preferiscono tenersi il proprio lavoro, convinti di non trovarne uno migliore» dice il ricercatore Daniele Ferretti. Affermazioni confermate nel 5° rapporto Censis-Eudaimon. La ricerca – condotta proprio da Ferretti a febbraio 2022 – ha individuato un campione statisticamente rappresentativo di 1000 persone, che hanno risposto al questionario digitalmente o al telefono. «Abbiamo notato  che c’è mai come prima un cambiamento rapido di opinioni, sensazioni e percezioni». Per la Repubblica degli Stagisti Ferretti ha estrapolato dal suo studio i dati riguardanti solo la fascia d’età dei più giovani, tra i 18 e i 34 anni. L’81% di loro ammette di aver avuto ansia nel pensare di ritornare alla vita normale e sette giovani su dieci 10 dichiarano di aver vissuto in condizioni di stress. Per quanto riguarda le necessità, invece, i giovani chiedono più reddito (55%, due punti percentuali in più del dato medio nazionale dei lavoratori), più servizi di welfare (42%) e più supporto su aspetti specifici del proprio lavoro (30%, qui solo un punto in più del dato medio nazionale). «Nonostante ciò, però, quel fenomeno di dimissioni di massa che sta accadendo in altri Paesi a partire dagli Usa in Italia non è ancora presente» dice Ferretti: «I giovani vivono la quotidianità con incertezza, segnati dalla pandemia e dalla svalutazione del lavoro più di altre categorie. Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della great resignation».Cifre e dichiarazioni che sono però non perfettamente allineate ai dati delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro e della Banca d’Italia. Secondo questi dati ufficiali nei primi dieci mesi del 2021 sono state rilevate oltre 700mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40mila in più – cioè +6% – rispetto a due anni prima. Ma prendendo in considerazione solo il terzo trimestre 2021, e confrontandolo con lo stesso periodo del 2019, le dimissioni sono cresciute del 20%. Mentre nel quarto trimestre l’incremento è del 14% e risulta ancor più consistente se guardiamo alla fascia dei 15-24enni (+22%) e a quella dei 25-34enni (+16%).A mettere l’accento proprio su questi dati ci ha pensato lo studio condotto dal gruppo Bip (società di consulenza che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti). Per Rosario Sica, ceo di OpenKnowledge, una delle realtà del gruppo Bip, la great resignation non è un fantasma: la si può anzi toccare con mano. «Il fenomeno delle grandi dimissioni è partito dagli Usa ed è già arrivato nel nostro Paese» afferma: «La pandemia ha enfatizzato e accelerato questo processo. Da una parte le aziende stanno cercando di tornare a dove ci eravamo lasciati, prima del 2020, ma i giovani non vogliono. Loro adesso pretendono di gestire il proprio tempo».La ricerca di Bip, «qualitativa e non statisticamente rappresentativa», è stata rivolta a un campione di 300 persone tra i 20 e i 25 anni. «È un numero significativo perché in generale i giovani che lavorano nelle aziende sono davvero pochi; in Italia si entra nel mondo del lavoro a ventisette, ventotto, trent'anni, in ritardo rispetto agli altri Paesi europei» aggiunge il ceo di OpenKnowledge: «Il campione degli intervistati lavora nei gruppi Bip, Eon e Sia e ha compilato volontariamente il questionario tramite monkey survey, una piattaforma digitale specializzata». Lo studio è stato poi pubblicato con la Harvard Business Review a novembre 2021. Una survey completamente diversa da quella Censis, in quanto ha raccolto solo le risposte dei 300 zoomer dipendenti nelle aziende di riferimento, analizzando le percezioni di un settore specifico, quello della consulenza.Più o meno un 60% degli intervistati uomini e un 40% donne, sette su dieci dal nord Italia, due dal centro, uno dal sud; infine un 18% che lavora e studia contemporaneamente: il ritratto che emerge degli zeta è quello di una generazione pragmatica, che ha immaginato il percorso di studi valutandone anche gli sbocchi lavorativi. La maggioranza delle persone che hanno partecipato all’indagine, infatti, dichiara di svolgere un lavoro coerente con la formazione ricevuta e solo il 24% degli intervistati fa un lavoro poco in linea con quanto studiato, e un 3% per niente. La concretezza degli zeta si manifesta anche in relazione alle aspirazioni: nonostante la maggior parte di loro dichiari che il lavoro svolto è poco (31%) o per niente (28%) in linea con quanto sognavano di fare, sei lavoratori gen z su dieci ritengono il mondo del lavoro in linea con quanto immaginato.Per i giovani, però, una cosa è certa: il benessere rimane una priorità. Ad intaccarlo, però, c’è lo stress. Quattro intervistati su dieci si sono sentiti stressati soprattutto durante la fase di ingresso nel mondo del lavoro. Per altri quattro, invece, il percorso di inserimento è stato snello e solo due lo hanno considerato facile e immediato. Un altro aspetto fondamentale per gli zoomer è la crescita. Questa si può ottenere prendendo parte alle dinamiche di team (43%), imparando dai più grandi (37%) e prendendosi il giusto tempo per maturare (14%).L’azienda viene concepita come il luogo in cui imparare, avere dialogo, trasparenza e soprattutto flessibilità. E quello che non deve mai mancare è la fiducia tra superiori e dipendenti. Secondo Insync Surveys, infatti, le persone ingaggiate hanno una produttività del 18% più alta e realizzano un lavoro. Secondo il ceo di OpenKnowledge, dunque, «oggi le aziende devono ripensare i modelli organizzativi e lavorativi, prendendo ciò che c’era di buono nel periodo pre pandemia e portandolo nella nuova normalità».E per quanto riguarda gli aspetti retributivi? «Gli zoomer sono meno attaccati allo stipendio: piuttosto si chiedono se quello che fanno ogni giorno a lavoro è in linea con la loro integrità personale» risponde Sica: «Hanno bisogno di instaurare relazioni con i propri capi, sentire empatia ed essere in sintonia con il contesto lavorativo». Prerogative che si discostano totalmente da quelle dei nostri zii e genitori, appartenenti alla generazione dei baby boomers – nati subito o un po' dopo la seconda Guerra Mondiale, tra il 1946 e il 1965 – immersi in un contesto culturale diverso in cui il posto fisso era la regola, abituati a sacrificare la vita privata per il lavoro e a proprio agio nell’instaurare una relazione verticale con i propri capi.Stili di vita e lavoro non più concepibili dai ventenni e trentenni di oggi. «Le persone si chiedono perché lavorano mentre le vecchie generazioni non si sono mai posti questa domanda», sottolinea Rosario Sica: «La great resignation non è solo un fenomeno lavorativo ma il cambiamento di una forma mentis. È la punta dell’iceberg che oggi vediamo solo in superficie ma col tempo ci accorgeremo di tutti gli strati che ci sono sotto il livello dell’acqua».Benedetta Mura

Votare è importante: contrastare l’astensionismo con il “voto fuori sede”, il Parlamento si muove

Oltre due anni di pandemia e di distanze forzate e un referendum fallito pochi giorni fa a causa di una troppo bassa affluenza alle urne – che si è fermata al 20% – hanno riportato in primo piano il tema del poter votare “da lontano”, senza l'obbligo della presenza fisica al seggio elettorale. Nel nostro Paese sono oltre nove milioni, circa il 18% degli aventi diritto, i cittadini che per vari motivi non riescono a partecipare attivamente alla vita politica attraverso il voto. Di questi, cinque milioni sono i cosiddetti “fuorisede”, persone che studiano o lavorano in una città diversa da quella di residenza.A riportare alla luce il fenomeno è il Libro bianco contro l’astensionismo voluto dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, che riporta i risultati di una commissione di esperti presieduta di Franco Bassanini, docente di Diritto Costituzionale ed ex ministro della Funzione Pubblica, sul cosiddetto astensionismo forzato che riguarda, oltre i fuori sede, i cosiddetti «grandi anziani», di età superiore ai 75 anni, anziani con infermità, ospiti dei presidi socio-assistenziali e socio-sanitaria.Un segmento che va distinto da quello che il Libro chiama astensionismo di protesta e astensionismo di indifferenza nei confronti della politica, legato a scelte volontarie e personali. Il documento è un’analisi organica e approfondita della situazione, in quanto finora non esistevano dati complessivi e le principali soluzioni sul tavolo erano arrivate da singole associazioni che tempo sono attive su questo fronte. È il caso di Io voto fuori sede, comitato nato nel 2008 e presieduto da Stefano La Barbera,  40 anni, di professione ingegnere, che aveva sollevato il problema con una petizione, a cui anche La Repubblica degli Stagisti aveva dato visibilità. Negli anni successivi sono state elaborate una serie di proposte di legge, che finora si sono concluse sempre con un nulla di fatto. Il comitato ha contribuito al Libro bianco fornendo i dati utilizzati nelle interlocuzioni con la commissione: «Il lavoro è stato svolto da una commissione ministeriale di altissimo profilo, avevamo sempre chiesto questo tipo di intervento perché non c’erano dati ufficiali» spiega La Barbera alla Repubblica degli Stagisti: «Negli anni sono stati presentati vari disegni di legge ma sempre abbastanza disorganici, nel frattempo abbiamo continuato a fare rete in sinergia con altre associazioni». Tra queste, ADI (Associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca in Italia), Collettivo Valarioti, Confederazione degli Studenti, Fuori di me, Idee Giovani UniGe, The Good Lobby Italia, UDU (Unione degli Universitari), Volt Italia, Yezers.Di recente le associazioni hanno firmato una lettera indirizzata al Presidente della prima commissione Affari Costituzionali della Camera Giuseppe Brescia con l’obiettivo di accelerare l’approvazione di una legge di contrasto al tema dell’astensionismo. Se da un lato la volontà di fare luce sul problema e le proposte di legge non sono mancati, dall’altro il lavoro parlamentare procede con grande lentezza. «In questo momento ci sono vari disegni di legge sul tavolo» – continua La Barbera –, «ma la nostra percezione è che non ci sia una concreta volontà di procedere al più presto, anche in vista della prossima tornata elettorale». «All’esame della commissione ci sono cinque diverse proposte di legge che indicano soluzioni diverse per diversi tipi di elezione» conferma alla Repubblica degli Stagisti  Giuseppe Brescia, 38 anni, presidente della prima Commissione Affari Costituzionali della Camera: «Si va dal voto in prefettura al voto postale, fino al voto per i candidati nella città in cui si vive e si toccano i diversi livelli di elezione, dalle politiche fino alle elezioni circoscrizionali. Una è a mia firma ed è stata presentata nella primavera del 2021. Ho raccolto le sollecitazioni di un gruppo di giovani calabresi, il Collettivo Valarioti, che ha scritto questa proposta grazie ai costituzionalisti Bin e Curreri. Il testo riguarda solo le regionali e comunali perché in quell’anno si sarebbero tenute solo quel tipo di elezioni. La proposta è stata calendarizzata subito in commissione e ha aperto la discussione insieme alle altre quattro proposte che sono rispettivamente a firma dei colleghi Madia del Pd, Costa di Azione, D’Ettore di Coraggio Italia, ai tempi in Fi, e Ungaro di Italia Viva».Brescia punta a una sintesi: «Come relatore delle proposte di legge, sto lavorando a un nuovo testo unificato che tenga conto anche del lavoro fatto dalla commissione promossa dal Ministro D’Incà. L’iter finora è stato rallentato da alcune resistenze del ministero dell’Interno che si è detto contrario sia al voto postale sia al voto in prefettura. Speriamo che arrivi qualche sì. C’è chi pensa che il voto sia un rito, una tradizione, non un diritto. Come hanno denunciato gli attivisti fuorisede e hanno dimostrato gli studi della commissione D’Incà, siamo l’unico Paese in Europa a non prevedere modalità che consentono di esercitare il diritto di voto a coloro che sono lontani dal luogo di residenza o hanno difficoltà a recarsi al seggio nel giorno delle elezioni».Fondamentale in questo percorso è diffondere consapevolezza rispetto a modalità di voto alternative a quella attuale: «Punteremo sulla tecnologia, sfruttando le potenzialità della tessera elettorale digitale, e sul voto anticipato presidiato in modo da dare più rassicurazioni possibili al ministero dell’Interno. Tutte le forze politiche sono consapevoli dell’importanza della questione in ballo. Riguarda milioni di cittadini. Ci sono astenuti che non votano perché non vogliono, ma anche altri che non votano perché non possono. Dico sempre che la società è cambiata, è più mobile e non si può votare come cento anni fa. Sullo sfondo resta sempre la soluzione del voto elettronico, praticata in questi giorni dai francesi all’estero. Il Movimento 5 Stelle già nella scorsa legislatura ha posto il tema del voto dei fuorisede e ha fatto approvare un testo alla Camera su referendum ed europee che però si fermò al Senato. Lo stesso è avvenuto all’inizio di questa legislatura. La volontà politica c’è, speriamo che anche il governo sia dalla nostra parte. Nel frattempo fanno bene le associazioni di cittadini ad attivarsi presso i tribunali».Le soluzioni proposte e analizzate anche nel Libro bianco sono tre: la prima riguarda la digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali, il cosiddetto election pass o certificato elettorale digitale, che potrà essere scaricato da un’app o sito web o stampato, in sostituzione della tessera elettorale cartacea. L’election pass, facendo riferimento a un sistema centralizzato, permetterebbe la votazione presso il proprio o altri seggi e il voto anticipato presso strutture autorizzate. La seconda riguarda l’election day, cioè la concentrazione di diversi tipi di consultazione elettorale in uno stesso giorno, reso noto a inizio anno, un importante incentivo alla partecipazione, in quanto permetterebbe una migliore organizzazione da parte di chi si deve recare al seggio. La terza è relativa al voto anticipato presidiato, che consentirebbe all’elettore che prevede di avere difficoltà a recarsi al seggio nei giorni previsti per la votazione di potere esercitare il suo diritto di voto nei giorni precedenti l’election day in qualunque parte del territorio nazionale, ma con le garanzie del tradizionale procedimento elettorale, cioè espressione del voto in una cabina elettorale e impossibilità di collegare il voto al cittadino che l'ha espresso quando la scheda sarà scrutinata. Una modalità già utilizzata in altri paesi come Australia, Canada, Danimarca, Estonia, Norvegia, Portogallo, Svezia. Il voto avverrebbe in apposite cabine elettorali situate presso uffici postali privi di barriere architettoniche. Questa terza proposta ha come presupposto le prime due, a cui è quindi strettamente legata e risolve i problemi di sicurezza legati al voto per corrispondenza “puro” presente ad esempio in altri paesi.«Si tratta di una riforma a costi bassissimi che permetterebbe di recuperare una buona fetta di astensionismo» conclude La Barbera: «Negli ultimi anni abbiamo registrato un crescente interesse, auspichiamo che ben presto la situazione egregiamente rappresentata dal Libro bianco trovi un’applicazione concreta».Chiara Del Priore

Tirocini, all'audizione Forza Italia esce allo scoperto: non vuole che gli stagisti curricolari vengano pagati

La proposta di legge sui tirocini curriculari torna al centro dell’attenzione. Nonostante l’approvazione del testo unico avvenuta lo scorso maggio, sono tre i nodi che ancora non sono stati sciolti: indennità per gli stagisti, sanzioni ai soggetti ospitanti e regolamentazione dei tirocini per lauree abilitanti. A far emergere le discordanze ci ha pensato la ministra dell’Università Maria Cristina Messa durante l’audizione che ha riunito le commissioni Cultura e Lavoro lo scorso 31 maggio. Le forze politiche in campo non hanno ancora trovato un pieno accordo su diverse tematiche che, anzi, mettono ai poli opposti i rappresentanti di sinistra e destra e che non convincono la stessa ministra. I punti di discordia, però, devono essere risolti al più presto, anche perché in caso contrario c'è il rischio di bocciatura del provvedimento alle Camere.«Intervenire con una disciplina normativa specifica capace di regolare i tirocini curriculari è un aspetto molto positivo», ha detto Messa: «Finora c’è stata frammentarietà di interventi normativi e vogliamo superarla». In merito al monitoraggio trasparente di questo tipo di tirocini, e all'introduzione della comunicazione obbligatoria (così come già avviene per gli extracurricolari), la ministra si è espressa decisamente a favore: «È uno strumento orientato al raggiungimento dei migliori livelli di qualità dell'università. Il sistema accademico saprà farsene carico nonostante costituisca un certo aggravio» ha detto –  anche se in realtà la preoccupazione della ministra è priva di fondamento poiché l'onere della comunicazione obbligatoria ricade sul datore di lavoro, che nel caso degli stage è il soggetto ospitante, e non il soggetto promotore (che solo in rari casi viene delegato dal soggetto ospitante a espletare questa pratica).Parole di positività e fiducia quelle della ministra, miste a una serie di obiezioni che non sono passate inosservate. «Una parte della proposta di legge, orientata a prevenire abusi nei tirocini curriculari, non ha ragione di essere estesa agli stage svolti nelle strutture pubbliche perché in questi casi non esistono possibili distorsioni applicative». In realtà la garanzia di qualità degli stage nelle strutture pubbliche è ben lungi dall'essere un dato di fatto: basta tornare indietro con la mente ai casi eclatanti dei superstage in Calabria e non solo, negli uffici giudiziari, nelle biblioteche, nei musei con mansioni di volantinaggio... Insomma, la dichiarazione della ministra appare azzardata, o quantomeno un po' troppo ottimista. Un altro punto critico della proposta di legge è l’indennità. «Questa deve essere valutata nel sistema universitario soprattutto sotto il profilo della sua sostenibilità economica. Dato che una buona parte dei tirocini ha un’applicazione in ambito pubblico, per il riconoscimento dell’indennità dovranno essere trovate delle risorse economiche tali da sostenere i bilanci di università e istituzioni pubbliche, per un onere che è essenzialmente formativo», ha sottolineato Messa. Condividono questo pensiero anche le esponenti del centrodestra Ella Bucalo (Fratelli d’Italia) e soprattutto Valentina Aprea (Forza Italia), che nel suo intervento è stata categorica: «Siamo fermamente contrari all’indennità aggiuntiva per tutti i tirocinanti. Crediamo che sia una forzatura. Si potrebbe arrivare a un compromesso come il compenso forfettario per trasporti e vitto. Ma se verranno mantenute le indennità a 300 euro e le sanzioni contro i soggetti ospitanti allora Forza Italia non voterà questa legge». Ad essere favorevole all’indennità invece è il ministro del Lavoro Andrea Orlando, che durante una precedente audizione alla Camera, lo scorso 25 maggio, aveva affermato che i tirocini curriculari devono prevedere un compenso adeguato per competere con le offerte estere e trattenere la forza lavoro in Italia soprattutto per i milioni di ragazzi che trovano nello stage il primo contatto con il mondo del lavoro. A far ben sperare è anche il numero dei tirocini extracurriculari che dal 2012 – anno di introduzione delle prime indennità obbligatorie regionali –  al 2019 sono praticamente raddoppiati, passando da 185mila a 356mila. Un dato che parla da solo e che spiana la strada anche per i curriculari. Osservazioni a parte, Messa ha anche tracciato delle linee guida che hanno fatto riflettere i primi firmatari della proposta presenti all’audizione: Massimo Ungaro (Italia Viva), Rosa Maria Di Giorgi (Partito Democratico) e Manuel Tuzi (Movimento 5 Stelle). La ministra ha messo l’accento sulla necessità di regolamentare i tirocini per i corsi di laurea professionalizzanti (come medicina, odontoiatria, veterinaria), ovvero quelli per cui con la legge n. 163 del novembre 2021 è stato abolito l’esame di Stato per l’abilitazione, sostituito dal semplice ottenimento della laurea alla fine del percorso universitario. Nella proposta di legge, infatti, mancano ancora delle disposizioni precise ma sia Tuzi che Di Giorgi hanno assicurato che nella fase emendativa provvederanno a colmare questa lacuna. «Quando abbiamo iniziato a lavorare a questa proposta il contesto normativo era diverso e anche in termini numerici i dati di Almalaurea non consideravano l’aggiornamento delle lauree abilitanti», ha sottolineato Tuzi. «È importante conoscere i dati perché danno un quadro della situazione. Solo così si può sapere dove e come agire. Speriamo di poter conoscere questi dati dal suo dicastero il più presto possibile in modo tale da fare i corretti emendamenti». Anche Di Giorgi ha rassicurato l’aula: «Il tema delle indennità è delicato e ha creato un dibattito anche all’interno dei partiti, ma troveremo una sintesi. La quantità di lauree abilitanti che abbiamo messo in campo prevedono una serie di ore di tirocinio che dovranno essere messe a punto». Tra critiche, dubbi e osservazioni nelle commissioni Cultura e Lavoro si respira comunque un clima di cooperazione. Nonostante alcune resistenze sui temi più delicati, le forze politiche chiamate in causa rimangono aperte al dialogo e i promotori della proposta di legge sono pronti a rivedere il testo. La fase emendativa si aprirà a breve e durerà per tutta l’estate, nella speranza che verso settembre il provvedimento possa passare velocemente al Parlamento e al Senato per la votazione. L’obiettivo dev'essere «stimolare l’università a migliorare» come ribadito in aula anche dalla ministra: «Vogliamo garantire maggiore qualità agli gli studenti che in tutti questi anni hanno dimostrato che i tirocini sono veramente utili».Benedetta Mura

Essere pagata adeguatamente e non sovraccaricata di lavoro, le aspirazioni de “La lavoratrice”

La protagonista del romanzo “La lavoratrice” della scrittrice spagnola Elvira Navarro, Elisa Núñez, fa la correttrice di bozze in una casa editrice. Oberata di scadenze e costretta a insistere in continuazione per venire pagata per il suo lavoro – «Mi devono saldare quindici fatture» è una riga fulminante e tristemente, perfettamente verosimile – prima dipendente e poi declassata a collaboratrice esterna per costare (ancora) di meno all’azienda, a causa delle ristrettezze economiche si trova costretta a subaffittare una stanza. Un amico si prodiga per trovarle una coinquilina, ed è così che nel suo appartamento di Madrid sbarca la quarantaquattrenne Susana, con un passato opaco e travagliato e velleità artistiche.Il libro però non è incentrato sul tema del precariato o della insoddisfazione/realizzazione professionale; piuttosto è una immersione in una anzi due menti poco convenzionali, che flirtano con la follia e la paranoia. Ciascuno dei personaggi è rinchiuso in un mondo tutto suo, in cui la realtà si intreccia in continuazione con il sogno e l’allucinazione, in cui gli psicofarmaci servono per riprendere – almeno un poco – le briglie della mente.A un certo punto lo psichiatra di Elisa le dà un compito: descrivere la sua routine di lavoro – o come la protagonista dice, il suo “autosfruttamento lavorativo”. Quel che ne esce è una pagina che certamente parla a un’intera generazione di giovani freelance, più o meno sfruttati, più o meno sottopagati, perennemente nell’ansia del precariato, incagliati in una quotidianità in cui la vita offline e quella online si mischiano e in cui la perdita di tempo è un elemento costante, ineludibile, tanto che  le «cinque ore di lavoro la mattina» sono «sfruttate soltanto a metà» da Elisa «perché apro diversi giornali, Facebook, blog, e inoltre guardo le fotografie su Google, e a tal proposito faccio qualcosa che mi diverte molto, ovvero scoprire che ne è stato dei miei vecchi compagni di scuola, o di persone che ho conosciuto un’estate e che non ho mai più rivisto. Non lo faccio tutti i giorni, ma se mi ci metto posso passare ore a setacciare tratti di biografie che in realtà non dicono mai nulla di rilevante e che non mi interessano particolarmente».Per eseguire il compito del dottore però – «Che importava allo psichiatra in cosa perdevo tempo?» –  la protagonista opta «per il modello scheda»:Cosa dai: Cinque ore di mattina con troppe interruzioni. Scarsa dedizione. Se il libro è un saggio a volte imparo qualcosa. Mi soddisfa il lavoro ben fatto. Allo stesso tempo, penso che non mi paghino adeguatamente e lo faccio peggio. Nel pomeriggio non arrivo a più di quattro ore, a meno che non abbia una consegna in vista, ma sto fino alle nove, o alle dieci (e a volte di più), davanti allo schermo. Mi permetto di perdere molto tempo perché in questo modo occupo tutta la giornata e non mi angoscio. E poi mi sono abituata così. Non ho nulla di meglio da fare.Cosa ricevi: Mi devono saldare quindici fatture. Mi pagano i lavori urgenti. Mi danno qualsiasi tipo di manoscritto da correggere. Non so quando smetteranno di contare su di me. Essendo freelance, nemmeno loro si sentono in dovere di darmi spiegazioni. Il fisco mi tratta come se io avessi un’impresa, ma in pratica non sono altro che la lavoratrice esterna di un grande gruppo editoriale che non mi assumerà mai più.Cosa ti aspetti: Sono scettica e mi aspetto poco. Vorrei che mi pagassero quanto mi devono, che aumentassero le tariffe per la correzione delle bozze, che non mi sovraccaricassero di lavoro, vorrei inoltre, per il numero di ore che passo a correggere (sono molte anche se perdo tempo) potermi permettere tranquillamente un appartamento per me sola in centro, avere un mese di vacanze e non provare disappunto e dover ricorrere a mio padre ogni volta che mi si rompono le lenti degli occhiali. Suppongo che dovrei essere un’imprenditrice, come dicono i manuali dei corsi per lavoratori autonomi che ho seguito, ma ora sono troppo depressa e scoraggiata.Come mi organizzo: Ovviamente, malissimo.”Il libro, pubblicato per la prima volta nel 2014 e arrivato in Italia nel 2019 grazie alla piccola casa editrice pugliese Liberaria con una bellissima copertina e la traduzione dallo spagnolo di Sara Papini, non è a dir la verità per tutti. Lo stile di scrittura di Elvira Navarro (che oggi, per puro caso, ha esattamente l’età del suo personaggio Susana) è ridondante di dettagli ma al contempo anche asettico, e sconfina talvolta perfino nel nonsense. E una buona metà del romanzo, specialmente la prima quarantina di pagine – incentrata su un racconto in flashback di un periodo particolarmente buio della vita di Susana, in un turbine di incontri occasionali volti a soddisfare la sua fantasia di menofilìa – assomiglia molto a un delirio. Ma più si va avanti più la storia acquista un senso che a tratti, come nel passaggio citato sopra, esce dal binario personale della vicenda privata e peculiare per diventare (riottoso) manifesto di una generazione senza più punti di riferimento. Forse non a caso Elisa è descritta come sola al mondo, senza partner né genitori né fratelli né figli intorno, e il suo incontro con Susana – un po’ più avanti con l’età, ma ugualmente squinternata – è lo scontro di due solitudini. La malattia mentale «che Navarro è bravissima a raccontare», scrive la giornalista Simonetta Sciandivasci nella breve introduzione, è la «conseguenza inevitabile di un preciso modo di fare le cose, di vivere, di lavorare, insomma di tutto un tempo: il nostro. L’inappetenza e, di contro, la bulimia sessuale; la perversione, l’ossessione, l’ansia, la depressione, il burn out».  Riassumendo così il senso del libro: «Un cammino di liberazione dalle convenzioni, per vedere cosa c’è sotto, e se siamo all’altezza di sopportarlo». Il titolo stesso – così netto e improbabile, in definitiva così fuorviante, dato che la storia non è incentrata sul lavoro, perché Elisa non è una lavoratrice se non tangenzialmente – racconta una realtà contemporanea in cui i giovani sono spesso definiti da ciò che fanno... anche se ciò che fanno è, in molti casi, indefinito.

Verso la legge per i tirocini curriculari: da cinque proposte a un testo unico

Tutti per uno, uno per tutti. Spesso in Parlamento funziona così: a fronte di più di una proposta di legge su uno stesso argomento, talvolta si cerca di unire le varie proposte per arrivare a un “testo unico”. Ed è quello che è accaduto lo scorso 10 maggio sul tema dei tirocini curricolari, cioè quelli svolti mentre si studia. I disegni di legge messi sul tavolo erano quelle di Massimo Ungaro (Italia Viva) – che aveva depositato la sua proposta già nel lontano agosto 2018 – Rina De Lorenzo (Liberi e Uguali), Manuel Tuzi (Movimento Cinque Stelle), Niccolò Invidia (anche lui Movimento Cinque Stelle) e Rosa Maria Di Giorgi (Partito Democratico). Dall'analisi e discussione di questi cinque progetti è nato un testo unico che ora sta per entrare nella fase emendativa, in cui verranno eventualmente apportate modifiche o aggiunte al testo, fino poi ad arrivare al momento più delicato e importante: la votazione alle Camere.L’attenzione dei cinque progetti di legge è stata rivolta soprattutto a tre fattori: eliminare la gratuità introducendo una indennità mensile minima anche a favore dei tirocinanti curricolari, aumentare la trasparenza rispetto all'utilizzo di questo tipo di tirocini ripristinando anche per loro la comunicazione obbligatoria ed evitare abusi e speculazione. «Non ci possiamo più permettere che lo Stato avalli lo sfruttamento legalizzato della vita dei ragazzi. C’è bisogno che le diverse forze politiche collaborino tra di loro», dice Invidia alla Repubblica degli Stagisti. «Da parte della maggioranza c’è la volontà, prima che termini la legislatura, di portare alle Camere questo testo. Siamo nel bel mezzo di un periodo straordinario» gli fa eco De Lorenzo.La prima proposta sui curriculari è quella firmata da Massimo Ungaro. Trentacinque anni, romano ma dal lontano 2005 londinese di adozione, dopo una laurea alla London School of Economics e molti anni di lavoro nel settore della finanza, Ungaro nel 2018 è stato eletto alla Camera dei deputati nella circoscrizione Estero, nelle liste del Partito Democratico, con oltre 15mila voti. Una delle sue prime attività come parlamentare è stata proprio la proposta di legge riguardante i tirocini curriculari, la C 1063. Dopo quasi quattro anni, la meta sembra essere sempre più vicina: «Il testo è composto da undici articoli» spiega Ungaro, ora passato a Italia Viva: «A metà maggio prevediamo di adottare degli emendamenti migliorativi e infine chiederemo di andare in aula. La speranza è di poterci andare a partire da luglio, anche se settembre è più verosimile».La proposta originale del deputato di IV era la più "compiuta". Per lui gli stage devono essere finalizzati alla formazione professionale e necessariamente devono prevedere un’indennità. «Bisogna educare i giovani all’emancipazione. La retribuzione aumenta automaticamente la qualità del lavoro» dice Ungaro. Per questo è previsto un compenso minimo obbligatorio per tutti i tirocini curricolari di durata da 160 ore in su: 350 euro, che possono essere ridotti proporzionalmente al monte ore. L’indennità cala a 260 euro se l’impegno orario è inferiore a 30 ore settimanali e a 175 euro se la frequenza è sotto l’80% delle ore mensili. È ben definita anche la durata degli stage, che può variare a seconda dei contenuti del progetto formativo. Il limite è di tre mesi (480 ore) quando ha per oggetto mansioni manuali o a “basso contenuto intellettuale”; a sei mesi (960 ore) quando ha per oggetto mansioni “di concetto"; a 12 mesi (1.920 ore) per uno studente con disabilità o condizioni sociali disagiate, assistito da un centro di riabilitazione. La proposta di Ungaro, inoltre, tra tutte è quella che prevede le sanzioni più alte, a partire dal divieto per il soggetto ospitante di attivare un tirocinio fino ad arrivare a 30mila euro di multa per la mancata corresponsione dell’indennità.La seconda proposta arrivata in ordine cronologico era stata depositata a ottobre del 2019 e ha come prima firmataria la deputata di Liberi e Uguali, Rina De Lorenzo. Cosentina, classe 1965 dal M5S nel 2020 è passata  a LeU. Obiettivo principale: «Contrastare il fenomeno del lavoro povero ed evitare che i tirocinanti vengano sfruttati». La sua proposta (C 2202) si concentra solo su due aspetti: la comunicazione obbligatoria e le disposizioni di proroga (che non possono superare i tre mesi). «I tirocini curriculari devono essere sottoposti alla registrazione obbligatoria in modo tale da creare un sistema di trasparenza e tracciabilità» ribadisce la deputata alla Repubblica degli Stagisti: «Sarebbe un enorme passo avanti e garantirebbe anche un migliore dialogo tra tirocinanti e aziende».La discussione di queste due proposte di legge era cominciata in sede di commissioni riunite Lavoro e Istruzione della Camera nel dicembre dell'anno scorso e dopo una fase di audizioni (in tutto tredici, tra cui anche quella della fondatrice della Repubblica degli Stagisti) adesso sembra essere stato trovato un buon compromesso per poter andare avanti, riassumendo appunto in un testo unico queste due prime proposte e le tre che sono state depositate nei mesi scorsi.A inizio dicembre del 2021 risale infatti la proposta di legge C 3396 di Manuel Tuzi, 35enne romano e membro dal 2018 della commissione cultura, scienze e istruzione. Nella top list dei suoi desideri c'è la valorizzazione del percorso della tesi di laurea sperimentale, affinché venga riconosciuto come un tirocinio a tutti gli effetti. «Noi del M5S vorremmo incentivare i tirocini creando un fondo perduto da 15 milioni di euro, co-finanziato sia dallo Stato che dall’Unione europea», spiega il pentastellato. L’idea è di creare un bando nazionale aperto proprio a chi presenta un progetto di tirocinio per la preparazione della tesi. Tipologie di sostegno allo studio e all’alta formazione che già esistono in Italia, soprattutto a livello regionale. «Nel Pnrr sono già presenti fondi per la formazione professionale in dotazione al ministero dell’Istruzione e col ministro Bianchi stiamo lavorando per cercare di fruire di quei fondi e utilizzarli anche per dar forma a questo progetto». Tuzi, come Ungaro, propone di ridurre a sei mesi la durata massima di uno stage, prevedendo che possano diventare 12 solo per i tirocinanti che hanno condizioni sociali svantaggiate e 24 mesi per le persone con disabilità. Inoltre, la proposta (similmente a quella di Di Giorgi e Ungaro) precisa il limite al numero di tirocini che un’azienda può attivare: uno ogni cinque dipendenti (elevato a due in caso di tirocinio non destinato all'acquisizione di crediti formativi), specificando che tale numero massimo debba comprendere anche quelli extracurriculari. «Per me tutto questo deve rientrare dentro una cornice fatta di comunicazione e trasparenza. Dovrebbe essere stilata una graduatoria pubblica che registri il numero di tirocini attivati e poi convertiti in contratti lavoro. Tutti i giovani così potrebbero valutare e scegliere tra le aziende più virtuose che investono davvero nella nuova generazione».«La mia proposta si fonde con quella di Manuel Tuzi: la mia ha carattere più lavorativo, mentre la sua è più incentrata sugli aspetti universitari», racconta Nicolò Invidia. Classe 1989, nato a Varese, è capogruppo in commissione Lavoro per il Movimento 5 Stelle. Dopo la laurea in scienze politiche e relazioni internazionali si è spostato prima in Olanda e poi negli Stati Uniti per lavorare come ricercatore. Nel 2018 è entrato in politica e a fine 2021 ha presentato la sua proposta di legge (C 3419) sui tirocini curriculari: «Ad oggi lo stage è un rapporto loss-loss, di doppia perdita, per il datore di lavoro e per il tirocinante. Le aziende investono poco nei giovani stagisti e non sempre garantiscono una formazione corretta. Questo si ripercuote anche sulle future esperienze lavorative dei ragazzi». Il suo testo è caratterizzato da tre punti principali: indennità minima fissata a 500 euro, riconoscimento di crediti a fini pensionistici e il passaggio da stage ad apprendistato o contratto subordinato. «I crediti sono un ulteriore incentivo per gli studenti e l’idea è di farli valere anche successivamente. E perché no a fini pensionistici». Verrebbero riconosciuti come contributi figurativi, a condizione che il beneficiario, per almeno cinque anni, abbia effettuato il versamento di contributi previdenziali per lavoro subordinato. Nel testo di Invidia, inoltre, è contenuta l’idea di introdurre il passaggio da stage a contratto di apprendistato o subordinato come modalità sanzionatoria: «In questi casi, se lo stage è protratto oltre i limiti di durata stabiliti, il tirocinante può ottenere up grade». Infine, a questi quattro progetti se ne aggiunge un quinto di Rosa Maria Di Giorgi (Pd). Originaria di Reggio Calabria, classe 1955, Di Giorgi è stata vicepresidente del Senato dal 2017 al 2018, anno in cui è stata poi eletta come deputata. La sua proposta di legge C 3500, presentata lo scorso 2 marzo, aggiunge alle altre un aspetto inedito: l’assegnazione di specifici rimborsi spese per gli stage fuori sede. Questi indennizzi – ammessi, secondo modalità e criteri stabiliti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e nei limiti delle risorse finanziarie del Fondo per l’occupazione – sono destinati solo a stagisti residenti nel Mezzogiorno e che svolgono il tirocinio in un’altra regione del centro o del nord Italia. Anche per Di Giorgi comunicazione obbligatoria e trasparenza sono due prerogative. Il progetto formativo, infatti, deve essere comunicato all’ispettorato del lavoro, alla regione, all’ufficio scolastico provinciale e all’ordine professionale di riferimento.«Le proposte che abbiamo raccolto fin qui sono ottime ed eterogenee», dice Ungaro: «Tra i partiti c’è stata e c’è un’ottima collaborazione. Le uniche divergenze che abbiamo avuto più difficoltà a superare riguardano due temi: indennità e durata massima degli stage. Per il resto abbiamo sciolto tutti i nodi. Il lavoro grosso è stato fatto grazie a un grande dialogo». Ungaro si dice felice del clima che si respira sia nelle commissioni che nelle aule. Ora che il testo unico è stato approvato non resta che aspettare la fase emendativa, così che la proposta di legge possa iniziare il suo viaggio verso il Senato e che milioni di giovani stagisti possano guardare al futuro con uno zaino di diritti sempre più pieno.  Benedetta Mura

Doppia laurea, i dubbi dell'Unione degli Universitari: “La mentalità ipercompetitiva non fa bene”

Gli studenti universitari potranno conseguire due lauree in contemporanea, ma a che prezzo? Questa è la domanda che si pone Giovanni Sotgiu, coordinatore nazionale dell’Udu (Unione degli universitari) – associazione studentesca di stampo sindacale nata nel 1994, cui aderiscono ogni anno oltre 10mila ragazzi e ragazze. «È uno specchietto per le allodole. È l’università come struttura che dovrebbe rimodellare i propri percorsi e non gli studenti a dover riadattare le proprie carriere» dice Sotgiu. La proposta di legge “Doppia laurea” è stata approvata in via definitiva in Senato lo scorso 6 aprile ed è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 28 aprile. Il testo a prima firma Alessandro Fusacchia ha ricevuto il sì unanime del Parlamento e a breve – quando sarà pronto il decreto attuativo del ministero dell’Università – potrà entrare in vigore. Un provvedimento storico che abbatte i muri e il divieto della doppia carriera accademica, imposto nel lontano 1933 con un decreto regio.«Doppia laurea significa avere la libertà di scegliersi il proprio percorso. Di decidere quali studi fare, con quanto impegno, con quale velocità. Mescolando tra loro anche saperi molto diversi», ha detto Fusacchia alla Repubblica degli Stagisti. La flessibilità delle carriere universitarie e una nuova ondata di opportunità per gli studenti sono la base di questo disegno di legge che però, nonostante abbia messo d’accordo tutti quanti dentro le aule di Camera e Senato, non ha riscontrato il pieno parere positivo degli studenti, veri destinatari di questa legge. «Come associazione non abbiamo partecipato ad alcuna tavola rotonda per la discussione e realizzazione di questo provvedimento», racconta il coordinatore di Udu. «Abbiamo espresso un parere favorevole come Cnsu – Consiglio Nazionale Studenti Universitari – anche se con delle perplessità. I nostri dubbi sono legati alla fruizione del diritto allo studio e in particolare alla necessità di una maggiore chiarezza di strutturazione del provvedimento. Questa è stata l’unica occasione di raffronto istituzionale che abbiamo avuto».Flessibilità è la parola d’ordine. Quella su cui Fusacchia fa maggiore affidamento, per rendere le carriere degli studenti sempre meno rigide e a contatto con saperi diversi tra loro. Per l’Udu «il provvedimento vuole dare maggiori opportunità ai ragazzi, focalizzandosi soprattutto sull’interdisciplinarietà della formazione e la possibilità di accelerare i percorsi universitari. Noi, però, pensiamo che la multidisciplinarietà non si raggiunga permettendo alle persone di ottenere due lauree in contemporanea ma semmai strutturando dei percorsi di formazione più flessibili, accessibili e non sempre più pesanti», spiega Sotgiu: «Questo provvedimento rischia di avallare una mentalità ipercompetitiva che non fa bene agli studenti sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista della formazione. Viene data l’impressione che all’università quello che conta è dare più esami possibili, nel minor tempo e con il voto più alto possibile». Concetti e aspetti della vita universitaria che l’Udu da sempre cerca di contrastare: «In questi mesi soprattutto stiamo lavorando tanto sulla salute mentale degli studenti. Il doversi laureare bene, con il massimo dei voti e in fretta non fa altro che alimentare una narrazione distorta della vita universitaria caratterizzata da una competizione sfrenata».Ci si chiede anche come uno studente potrà destreggiarsi tra due corsi di laurea in contemporanea. Con un carico di studio doppio e un libretto degli esami più spesso. «Il provvedimento cambierà il mondo accademico in tanti modi», ha detto Fusacchia: «Ci saranno università incentivate a rivedere la loro offerta formativa e la ministra Maria Cristina Messa sta dando un’indicazione chiara agli atenei sulle classi di laurea, perché vengano ripensate e diventino meno rigide. Le università potranno poi siglare accordi tra loro per organizzare percorsi doppi da offrire come “pacchetto” agli studenti». Pacchetto che, però, non è stato definito nel testo del provvedimento. La norma al momento non dà riposte pratiche riguardo la sua applicazione e rimanda l’onere di stabilire questi aspetti organizzativi al decreto attuativo e ai singoli atenei.Uno dei rischi che si corre è che questo provvedimento possa rivelarsi un’opportunità solo per una cerchia ristretta di studenti. «La legge così potrebbe dare agevolazioni alle cosiddette eccellenze, dando i mezzi di accelerare la formazione solo a pochi. Mentre gli altri studenti che seguiranno un solo corso vedranno aumentare ulteriormente il divario con i propri colleghi, alimentando ancora di più la logica della competizione all’interno dell’università», dichiara Sotgiu. La palla ora passa alla ministra dell’Università, che previo parere positivo della Crui – Conferenza dei rettori delle università italiane – dovrà realizzare entro sei mesi dall’approvazione in Senato, quindi entro il 6 ottobre, un testo attuativo della legge. Un decreto che possa definire tutti gli aspetti pratici, organizzativi e gestionali all’interno degli atenei e soprattutto che possa dare tutte le risposte necessarie ai tanti dubbi sorti fin qui. Benedetta Mura

Nuove regole per i tirocini, anche Puglia e Sicilia non le vogliono troppo rigide

Sono passati già 120 dei 180 giorni a disposizione per formulare nuove linee guida sui tirocini extracurriculari, eppure nonostante manchino scarsi due mesi, al momento la discussione tra le Regioni è ancora in alto mare. La legge di Bilancio 2022 ha, infatti, dettato i tempi per la revisione di questo tipo di stage nel comma 721, stabilendo in particolare che «l’attivazione dei tirocini extracurriculari andrà circoscritto alle persone con difficoltà di inclusione sociale». Che cosa questo significhi spetta alle Regioni stabilirlo perché hanno la competenza normativa esclusiva in materia di stage extracurriculari e sono le uniche a poter decidere come e se applicare questa modifica. Secondo il ministro Orlando andrebbero destinati alle persone «con maggior necessità di formazione professionale», frase però che è un po' criptica. Nel frattempo le Regioni, lasciate fuori dal dibattito fino alla pubblicazione della legge di Bilancio, hanno iniziato a riunirsi in Conferenza Stato – Regioni per discutere la tematica. Per ora le posizioni non sono concordi, anche a causa della differenza di uso di questo strumento che è stata fatta negli anni attraverso le politiche regionali dedicate all’occupazione. Dopo aver riportato le opinioni di Campania, Abruzzo, Liguria, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Umbria la Repubblica degli Stagisti continua ad approfondire la situazione con due ulteriori tasselli, grazie alle risposte della Puglia e della Sicilia. L’assessore al lavoro della Regione Siciliana, Antonio Scavone, spiega che la sua Regione «punta ad ampliare la definizione dei soggetti vulnerabili identificandoli come coloro che sono più distanti dal mercato del lavoro». Secondo la legge di Bilancio infatti gli unici destinatari di questo tipo di stage dovrebbero essere i “soggetti a rischio di esclusione sociale”.In base all’esperienza della Regione e al numero molto elevato di beneficiari del reddito di cittadinanza sull’isola, seconda regione dopo la Campania, «per la tipologia di utenza che richiede un intervento del sistema pubblico e che è maggiormente presente nel territorio regionale, la Regione Siciliana ritiene importante l’applicazione dello strumento del tirocinio ai soggetti vulnerabili», questo però «ampliandone l’accezione a donne, disoccupati di lunga durata, soggetti con disabilità, giovani con meno di trent'anni e lavoratori ultracinquantenni». E infatti in questo senso la Regione «ha previsto un numero importante di tirocini nell’ambito del Piano attuativo regionale del programma “Gol – Garanzia Occupabilità dei Lavoratori”: circa 4mila beneficiari della misura da accompagnare in un percorso di inserimento socio-lavorativo». L’assessore siciliano assicura che «nel dibattito che ci sarà, porteremo avanti l’esigenza di individuare figure e percorsi che rispondano sia alle caratteristiche del nostro mercato del lavoro sia all’utenza dei nostri centri per l’impiego». Al momento, però, «non è ancora disponibile una bozza del nuovo testo e a breve sarà convocato un tavolo per discutere dell’argomento».   La risposta della Sicilia apre un tema di discussione molto spinoso: è verosimile l'idea di considerare automaticamente come “soggetti a rischio di inclusione sociale” tutte le persone all'interno di una certa fascia di età? Stando alle parole dell'assessore, ogni under 30 dovrebbe essere considerato tale. In quest'ottica, bisognerebbe considerare allo stesso modo un 24enne che ha abbandonato la scuola a sedici e che non ha mai avuto un lavoro stabile e un coetaneo neolaureato in Ingegneria all'università di Palermo col massimo dei voti. Sarebbe davvero fattibile? Certo, in questo modo si assicurerebbe a entrambi la possibilità di poter fare tirocini extracurricolari. Ma considerare i giovani come una categoria compattamente “vulnerabile” avrebbe davvero senso? Per la Regione Puglia «è evidente la necessità di approfondire e definire meglio ai diversi livelli istituzionali quanto previsto dalla legge di Bilancio specie in tema di destinatari della misura. Se l’obiettivo della norma è quello di disciplinare meglio i confini dello strumento al fine di evitare abusi, di garantire una corretta esperienza formativa in luoghi di lavoro salubri e sicuri», spiega alla Repubblica degli Stagisti l’assessore Sebastiano Leo, «noi siamo certamente d’accordo». Il tirocinio è però uno strumento per garantire esperienze di formazione professionale in un contesto di inclusione lavorativa, e «come ogni strumento è suscettibile tanto di miglioramenti che di abusi, come forme di lavoro subordinato mascherate da tirocini. Lo stesso fenomeno negativo, sempre in termini generici, accade con alcuni rapporti in partita iva che spesso nascondono vere e proprie forme di lavoro dipendente. Non per questo» obietta Leo «limitiamo lo strumento delle partite iva. Dovremmo piuttosto intervenire a livello centrale per evitare forme di sfruttamento del lavoro». Secondo l'assessore Leo l’esperienza della Puglia è positiva con «migliaia di giovani che nell’ambito del programma Garanzia Giovani hanno visto mutare il proprio tirocinio in contratti a tempo determinato o indeterminato, con più di 18mila neet pugliesi che hanno trovato occupazione, quasi il quaranta per cento a tempo indeterminato». Quanto alle proposte che la sua Regione porterà al vaglio della prossima Conferenza Stato Regioni, spiega che il tema dei tirocini extracurriculari «sarà oggetto di approfondito confronto al tavolo del parternariato, per trovare una sintesi che circoscriva e disciplini meglio lo strumento del tirocinio extracurriculare senza di fatto sopprimerlo».Sul testo delle nuove linee guida l’assessore afferma che «esiste una bozza, ma sempre sul piano teorico. Il confronto di carattere politico si basa su simulazioni, se così non fosse sarebbe un approccio puramente teorico che ridurrebbe il confronto a mere posizioni ideologiche. Quindi aspettiamo di avere un quadro più definito». Il dibattito comunque sembra vada avanti, visto che Leo spiega che in settimana ci sarà un approfondimento tecnico per un primo confronto, confermando che c’è «una diffusa necessità di dibattito e sintesi». Parole che mostrano, se mai ce ne fosse il dubbio, che le posizioni tra le regioni non sono uguali anche solo per l’approccio differenziato che negli anni hanno avuto nei confronti della disciplina dei tirocini extracurriculari. Questo significa, quindi, ancora necessità di incontri per trovare la quadra visto che per il momento, e siamo ormai a maggio, un testo vero e proprio non sembra assolutamente esserci. Il 30 giugno, però, si avvicina e per allora le linee guida dovranno necessariamente essere approvate. Marianna LeporeFoto di apertura: di cookie_studio da free_pik