Categoria: Approfondimenti

Lavoratori dello spettacolo, l'appello dell'Enpals: denunciate le irregolarità

«Io ho 36 ispettori su tutto il territorio nazionale. E i lavoratori attivi, quelli che dovremmo controllare, sono 290mila». A sfogarsi con la Repubblica degli Stagisti è Marilù Padula, dal 2010 responsabile della Direzione vigilanza ispettiva dell'Enpals, l'ente previdenziale che si occupa dei lavoratori dello spettacolo, oggi assorbito dall'Inps e in attesa di conoscere il suo assetto futuro dopo la pubblicazione dei decreti attuativi prevista per il 31 maggio. Cinema, teatro, musica dal vivo, ma anche sport: sono questi i settori seguiti dalla struttura.O almeno che dovrebbero essere tenuti sotto controllo. Sì, perché se si tiene conto che, in media, ogni ispettore dovrebbe verificare le posizioni di più di 8mila persone, si capisce facilmente quanto siano larghe le maglie della rete con cui Enpals cerca di stanare le irregolarità. Eppure la pesca, quando c'è, è abbondante. Negli ultimi tre anni, ad esempio, l'ente ha svolto in media più di 600 controlli in altrettante aziende. Riscontrando irregolarità sul piano previdenziale addirittura in due casi su tre. E recuperando ogni anno tra i 20 ed i 30 milioni di euro, tra contributi non versati e sanzioni comminate alle imprese.Segno che le situazioni non regolari ci sono e che basterebbe aumentare le verifiche per 'stanarle'. Del resto che ci fosse qualcosa che non va nel mondo dello spettacolo, la Repubblica degli Stagisti lo aveva messo in evidenza già qualche settimana fa, raccontando la storia di Irene Iaccio, 27nne napoletana trasferitasi a Roma per lavorare nel cinema: una carriera abbandonata dopo un anno e mezzo di lavori non pagati. La giovane aveva raccontato che spesso le case di produzione cinematografica, per salvare le apparenze, versano i contributi per una sola giornata di lavoro, anche se in realtà le persone vengono impiegate magari per due o tre mesi, a seconda di quanto duri la realizzazione del film. Ma l'Enpals cosa fa in questi casi? «Per noi una situazione di questo tipo è la spia di una possibile irregolarità, ma dobbiamo comunque approfondire». Può essere, infatti, che un attore scritturato per un cameo riesca a girare nell'arco di una sola giornata tutte le pose che lo vedono coinvolto. O, pensando alla musica, che un concertista venga chiamato a sostituire per un solo spettacolo un collega indisposto.Ma anche nel caso in cui si abbia la certezza di trovarsi di fronte ad un'irregolarità, il problema è dimostrarla. «Noi convochiamo il lavoratore coinvolto perché renda una dichiarazione spontanea. Il punto è che oltre a questa deve sporgere anche una denuncia». Solo in questo modo, infatti, «le sue parole assumono un valore probatorio». Non basta: servono anche altri elementi a supporto delle affermazioni di chi è stato 'messo in regola' per una sola giornata ma magari ha lavorato un mese. Ad esempio la testimonianza di altre persone presenti sul set, che possano affermare di averlo visto impegnato per un periodo maggiore rispetto a quello per il quale la casa di produzione gli ha versato i contributi.Il problema, ammette Padula, è che i lavoratori non denunciano: «Sono ancora pochi quelli che lo fanno. Le segnalazioni sono anonime, oppure arrivano in via informale». E quando Enpals invita queste persone a mettere nero su bianco quanto segnalato «si spaventano». Il timore è quello di essere emarginati, di non lavorare più. Una paura più che fondata in un settore come quello degli spettacoli, nel quale, stando al rapporto «Professionisti: a quali condizioni?» pubblicato da Ires nel 2011, due operatori su tre ritengno importante il passaparola tra i datori di lavoro per riuscire a trovare un'occupazione. Ed è facile immaginare cosa dirà ai suoi colleghi un produttore di una persona che lo ha denunciato perché non gli venivano pagati i contributi.La scarsità del numero di ispettori rispetto alla mole delle attività da controllare pone poi un ulteriore problema: le verifiche sono spesso «documentali». Ovvero avvengono a cose fatte, quando la produzione è già finita e il film magari è già nelle sale. Non è proprio possibile andare sul set? «Intanto dobbiamo sapere dove sono e quando avvengono le riprese. E poi 21 dei 36 ispettori sono stanziati su Roma», spiega Padula. Per effettuare controlli in tempo reale invece «servirebbero altre tempistiche, una disponibilità immediata». E magari anche qualche impiegato in più. Nell'attesa, un aiuto può arrivare dalle maestranze: «Se arrivassero più denunce qualificate, se i lavoratori, lo dico senza polemica, iniziassero ad avere un po' più di coscienza, ci darebbero un contributo fattivo».Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo leggi anche:- Lavorare gratis: anche il cinema sfrutta gli stagisti- Stage gratuiti, Caterina versus Flash Art: il botta e risposta con Giancarlo Politi. E il web si rivolta- Io, schiavo per tre anni in una piccola casa editrice- Stage gratuiti e lavoro nero, così sopravvive la microeditoriaE anche:- Emergenza stage anche in Usa, un giornalista si chiede: come sarebbe un mondo senza più stagisti?- Pasquale Carrozzo, animatore del blog dei praticanti commercialisti: «Per evitare lo sfruttamento servono più controlli»

Contratto di inserimento addio: ecco l'unica tipologia abrogata dalla riforma

La riforma Fornero viene criticata da più parti per non aver ridotto il numero - effettivamente molto elevato - di tipologie contrattuali esistenti in Italia. Invece in realtà una di queste verrà abolita: si tratta del contratto di inserimento, che era stato introdotto nel 2003 dalla riforma Biagi per sostituire i vecchi contratti di formazione e lavoro. Nel disegno di legge in questi giorni all'esame del Senato, infatti, non trova posto: verrà abbandonato per garantire la centralità dell'apprendistato come veicolo di ingresso privilegiato nel mondo del lavoro.Oggi il contratto di inserimento è riservato alle categorie di lavoratori "svantaggiati": giovani da 18 a 29 anni; professionisti da 29 a 32 anni disoccupati di lunga durata; cittadini con più di 50 anni che siano privi di un posto di lavoro; lavoratori che desiderino riprendere un’attività e che non abbiano lavorato per almeno due anni; donne residenti in aree geografiche in cui il tasso di occupazione femminile sia inferiore almeno del 20% di quello maschile, ovvero il tasso di disoccupazione sia superiore del 10% di quello maschile; soggetti disabili. L’assunzione del lavoratore risulta poi agevolata da sgravi fiscali e incentivi economici e normativi. Si tratta comunque di un contratto che si può definire quindi piuttosto residuale a livello di numeri: stando agli ultimi dati Inps, nel primo semestre del 2011 sono stati stipulati in tutta Italia 47.602 contratti di inserimento, di cui circa 30mila rivolti a donne. La prima bozza del disegno di legge, cioè il documento presentato dal governo alla stampa il 23 marzo scorso, prevedeva di affiancare l’apprendistato (per i giovani) al contratto di inserimento (per i disoccupati di lungo corso), preservando così il binomio iniziale tra le due tipologie contrattuali. Ma nella versione successiva, il vero e propri ddl depositato il 4 aprile, il ministro Fornero ha compiuto una brusca marcia indietro: il testo dice laconicamente che gli articoli 54-59 del decreto legislativo 276 del 10 settembre 2003 (vale a dire, tutti i punti della riforma Biagi che parlavano del contratto di inserimento) sono abrogati per tutte le assunzioni effettuate a partire dal primo gennaio 2013. I lavoratori svantaggiati che ne hanno usufruito sino ad oggi, ha spiegato il ministro, potranno spendere lo sgravio contributivo per un altro anno ancora applicandolo a un qualsiasi tipo di contratto.Cosa succederà in caso in abrogazione del contratto di inserimento? I pareri degli esperti sono contrastanti. Da un lato c'è il giudizio severo dell'Ordine dei consulenti del lavoro, l'associazione di categoria dei professionisti che assistono i datori di lavoro nella gestione del personale. Il presidente Marina Calderone [nella foto] commenta così con la Repubblica degli Stagisti gli effetti dell’abrogazione: «Più disoccupazione giovanile e di soggetti svantaggiati. Sarà questo il risultato se la riforma lavoro, in discussione in questi giorni, confermerà l’abrogazione del contratto di inserimento, uno degli ultimi strumenti agevolativi in materia di lavoro». Calderone non ha dubbi: «Al contrario di quanto si dica, secondo cui la flessibilità in entrata verrà rappresentata dall’apprendistato, ci sarà una grossa fetta di soggetti in cerca di occupazione, che non hanno più l’età per un contratto di mestiere, e che verranno automaticamente estromessi da una possibili occupazione agevolata per le imprese». Dall’esperienza dei consulenti, aggiunge la presidente, si paventa il «rischio di penalizzare nel mercato del lavoro fasce deboli di lavoratori nei confronti dei quali fino ad oggi il contratto di inserimento ha rappresentato un buon viatico per le imprese, parlando in tema di costo del lavoro».Favorevole, invece, il parere dell’economista Marco Leonardi [nella foto], docente presso la Statale di Milano: «Penso che con la riforma del lavoro il governo abbia fatto scelte molto nette, ma oneste e complessivamente positive. Il contratto di inserimento è stato abrogato per una ragione molto semplice: si è deciso di favorire l’apprendistato rispetto a tutte le altre forme contrattuali come modalità di ingresso nel mondo del lavoro. L’apprendistato ha un costo pubblico molto elevato, quantificabile in 2,5 miliardi di euro. Era quindi necessario concentrare tutte le risorse pubbliche su questa tipologia di contratti, eliminando l’inserimento, aumentando il costo dei contratti a termine e punendo, forse troppo severamente, l’abuso di partite Iva. Se non si riesce ora a far partire l’apprendistato, significa che qualcosa è andato storto nella sua formulazione». Secondo Leonardi, anche la proposta del Pd per introdurre un contratto unico di inserimento è ridondante. «C’è già, e si chiama apprendistato. Il disegno di legge è ancora in via d’approvazione ma probabilmente, nella sua forma definitiva, si rivolgerà a un numero molto ampio di lavoratori, con limiti di età innalzati», conclude Leonardi. Senza contare le competenze delle Regioni in materia di legiferazione locale sul tema dell’apprendistato, che potrebbero permettere – come già accaduto in Campania – l’utilizzo di questo contratto anche per i lavoratori over-50.di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stageE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Tutto sulle nuove regole degli stage in Lombardia

Come anticipato dalla Repubblica degli Stagisti, la Lombardia è stata una delle prime regioni a muoversi - dopo il "terremoto" della normativa sugli stage dell'estate 2011 - per riorganizzare questa materia a suo piacimento, sfruttando la competenza regionale in materia di formazione. Adesso quindi chi fa stage in Lombardia deve attenersi ai nuovi indirizzi regionali emanati dalla giunta Formigoni [nella foto, con l'assessore al lavoro Rossoni e l'allora ministro Gelmini]. Che purtroppo, salvo alcuni dettagli, non sono altrettanto positivi e tutelanti di quelli contenuti in altri provvedimenti regionali, come per esempio la legge approvata in Toscana o le linee guida emanate dalla giunta abruzzese. Ma in cosa consistono, nel dettaglio, questi indirizzi della Regione Lombardia? Ecco una panoramica dei contenuti.  Tipologie di tirocinio. Ne vengono individuate due: «curriculari» ed «extracurriculari». Nella prima vi sono gli stage per studenti: «finalizzati anche alla realizzazione di momenti di alternanza tra studio e lavoro». I secondi sono invece per tutti gli altri e realizzato allo scopo di «agevolare le scelte professionali attraverso una conoscenza diretta del mondo del lavoro nella fase di transizione, mediante la conoscenza e la sperimentazione di un ambito professionale, ovvero ad acquisire competenze per un inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro».Chi può fare stage. I beneficiari dei «curriculari» sono gli studenti ovviamente: alunni di scuole superiori e istituti professionali «che abbiano compiuto i 15 anni», universitari, allievi di master (non tutti però: solo quelli «realizzati da istituti di alta formazione o scuole di management pubbliche o private, accreditati da enti riconosciuti in ambito nazionale o internazionale»). I beneficiari degli «extracurriculari» invece sono innanzitutto i «neoqualificati o neodiplomati del sistema di istruzione e formazione professionale», poi i «neodiplomati del sistema di istruzione» e infine i «neolaureati». Per queste tre tipologie, i tirocini devono essere promossi «entro dodici mesi dalla data di conseguimento del titolo». Fin qui dunque gli indirizzi seguono pedissequamente quanto stabilito dal governo Berlusconi con l'art. 11 del decreto legge 138/2011. Ma poche righe dopo, la platea viene ampliata a dismisura: «rientrano altresì nell'ambito dei tirocini extracurriculari i tirocini con finalità di inserimento o reinserimento al lavoro». E questi tirocini possono essere attivati a favore praticamente di tutti: «inoccupati, disoccupati, immigrati con regolare permesso di soggiorno, persone con disabilità, soggetti svantaggiati». E per queste ulteriori categorie la Regione non pone limiti rispetto al tempo passato dal conseguimento dell'ultimo titolo di studio.  I quattro protagonisti dello stage. Qui gli indirizzi regionali non si discostano dalla normativa 142/1998, e dispongono che per la realizzazione dei tirocini sia necessaria la presenza di un soggetto promotore con «funzioni di progettazione, attivazione e monitoraggio del tirocinio, nonché di garanzia della regolarità e qualità dell'iniziativa in relazione alle finalità definite nel progetto formativo» (purtroppo però gli stessi indirizzi non sono altrettanto precisi nel definire quali sanzioni rischierebbe un soggetto promotore che non ottemperasse a questi obblighi di qualità); poi un soggetto ospitante cioè «un datore di lavoro pubblico o privato con sede operativa ubicata sul territorio regionale»; a seguire di un tutor didattico organizzativo, «designato dal promotore», obbligatoriamente laureato, «il quale mantiene e garantisce i rapporti costanti tra promotore e tirocinante, assicura il monitoraggio del progetto individuale, predispone la relazione finale del tirocinio, anche ai fini della certificazione delle competenze», e infine il tutor aziendale, «designato dall'azienda tra i lavoratori in possesso di competenze professionali adeguate e coerenti con il progetto formativo individuale». A sorpresa, qui la Regione specifica che non importa che il tutor sia un dipendente stabile della realtà ospitante: vanno bene anche i lavoratori «assunti con contratto a tempo determinato» e addirittura i collaboratori: basta che abbiano un «contratto di collaborazione non occasionale della durata di almeno 12 mesi». Così in Lombardia vengono ufficialmente sdoganati i tutor cococo e cocopro. Soggetti promotori. Oltre ovviamente alle scuole e alle università, possono promuovere stage tutti i soggetti «accreditati ai servizi di istruzione e formazione professionale ed ai servizi al lavoro», quelli «autorizzati ai servizi per il lavoro», quelli «autorizzati nazionali ai servizi per il lavoro», e le «comunità terapeutiche e cooperative sociali a favore dei disabili e delle categorie svantaggiate» iscritte «negli specifici albi regionali». Numero massimo di stagisti. Qui si verifica un ribaltamento della normativa che finora è stata vigente in tutta Italia. Gli indirizzi regionali lombardi infatti cambiano completamente il sistema di calcolo della proporzione tra il numero massimo di stagisti ospitabili contemporaneamente e il numero di lavoratori, prescrivendo che in quest'ultimo gruppo debbano essere conteggiati non solo i dipendenti che lavorano presso la realtà ospitante con contratto a tempo indeterminato, ma anche quelli a tempo «determinato o con contratto di collaborazione non occasionale della  durata di almeno 12 mesi», e in più anche i soci lavoratori e i liberi professionisti. Ciò vuol dire che un'impresa con 5 dipendenti a tempo indeterminato, una decina a tempo determinato e altrettanti collaboratori a progetto, che fino a ieri avrebbe potuto ospitare al massimo uno stagista alla volta, di colpo potrà accoglierne anche tre contemporaneamente. Un altro aspetto preoccupante è che la Regione prescrive il numero massimo di stagisti «extracurriculari […] nello stesso periodo»: aprendo la strada a un'interpretazione molto pericolosa, per la quale in aggiunta a questo tetto massimo le aziende potrebbero ospitare anche un numero (a questo punto imprecisato) di stagisti «curriculari».Obblighi del soggetto ospitante. Viene introdotto il divieto di «realizzare più di un tirocinio extracurriculare con il medesimo tirocinante» e ribadito l'obbligo delle «comunicazioni obbligatorie di avvio, proroga e cessazione dei tirocini extracurriculari» prevedendo che possa essere assolto «mediante trasmissione telematica».   Durata massima. Marcia indietro totale rispetto al dimezzamento che il governo aveva imposto ad agosto sulla durata massima dei tirocini extracurriculari. Se infatti i sei mesi «proroghe comprese» rimangono il tetto massimo per i tirocini destinati a neoqualificati, neodiplomati e neolaureati, la Regione individua però una sottocategoria di tirocini extracurriculari per la quale reintroduce il vecchio tetto massimo di durata, pari a dodici mesi: i «tirocini di inserimento o reinserimento al lavoro». E come si fa a capire quali sono questi tirocini speciali? Semplice: quelli attivati a favore di disoccupati, inoccupati, immigrati, soggetti svantaggiati. Cioè praticamente tutti. Una particolarità però è che la Lombardia introduce un limite al tempo massimo in cui ciascuna persona è inquadrabile attraverso stage extracurriculari: «i periodi di tirocinio extracurriculare sono cumulabili e la loro somma non può superare i 24 mesi». Equivalenti cioè a quattro stage della durata di 6 mesi, oppure a due di 12 mesi, o altre combinazioni ovviamente. Non bisogna però comprendere nel computo dei 24 mesi gli eventuali tirocini curriculari, svolti cioè durante il periodo di studi.Convenzione di stage. Deve contenere «le regole di svolgimento del tirocinio nonché i diritti e i doveri di ciascuna delle parti coinvolte, ivi compresa la previsione del valore del rimborso spese o indennità di partecipazione eventualmente spettante al tirocinante» (questo è l'unico passaggio dell'intero documento in cui venga fatto un riferimento alla possibile presenza di un compenso, che ovviamente resta a totale discrezione del soggetto ospitante scegliere di erogare o non erogare). Attraverso questa convenzione, «firmata dai legali rappresentanti del soggetto promotore e del soggetto ospitante, sottoscritta per presa visione  dal tirocinante», le parti «si obbligano a garantire al tirocinante la formazione prevista nel progetto individuale di formazione, che costituisce parte integrante della convenzione stessa». Ma lo schema di questo documento non è ancora pronto e verrà «adottato con successivo decreto dirigenziale». Diventa anche molto più difficile interrompere anticipatamente lo stage: «ciascuna delle parti firmatarie può recedere dalla convenzione solo per gravi motivi espressamente previsti, in particolare nel caso di un comportamento del tirocinante tale da far venir meno le finalità del progetto formativo, oppure qualora il soggetto ospitante non rispetti i contenuti del progetto formativo o non consenta l'effettivo svolgimento dell'esperienza formativa del tirocinante». Non pare prevista invece la possibilità per il tirocinante di abbandonare lo stage in presenza di un'offerta migliore, ma questo aspetto viene chiarito successivamente.Progetto formativo. Anch'esso ancora in fieri («secondo lo schema che sarà adottato con successivo decreto dirigenziale»), il «progetto formativo individuale» - così come la convenzione - dev'essere sottoscritto da soggetto promotore, soggetto ospitante e tirocinante e deve contenere almeno: «individuazione della struttura ospitante e relativo settore di inserimento; nominativi del tutor didattico e del tutor aziendale; obiettivi formativi e durata; estremi identificativi delle assicurazioni stipulate a favore del tirocinante».Obblighi e diritti del tirocinante. Oltre a illustrare aspetti abbastanza ovvi (svolgere le attività previste, osservare gli orari, rispettare le norme in materia di igiene e sicurezza, mantenere la riservatezza su dati e informazioni interne), questo paragrafo assicura al tirocinante il diritto di interrompere il tirocinio in qualsiasi momento, dandone comunicazione ai due tutor, e quello di ricevere una «certificazione delle competenze acquisite» che dovrà essere rilasciata «dagli operatori accreditati del sistema regionale ai servizi di istruzione e formazione professionale o ai servizi al lavoro». Sicurezza e garanzie assicurative. Qui il documento non porta  sostanziali novità, ribadendo l'obbligo di assicurare il tirocinante all'Inail e per la responsabilità civile (tale spesa viene messo in capo al soggetto promotore, salvo diversi accordi con quello ospitante); l'unico dettaglio degno di nota è che viene specificato chiaramente che «le coperture assicurative devono riguardare tutte le attività svolte dal tirocinante e rientranti nel progetto formativo, comprese quelle eventualmente svolte al di fuori della sede ove ha luogo il tirocinio».Divieti. La Regione Lombardia decide infine di porre dei paletti all'utilizzo degli stagisti, prevedendo che sia vietato utilizzarli in sostituzione «del personale assunto con contratti a termine nei periodi di picco delle attività» (quindi stop per esempio agli stage nelle profumerie sotto Natale, o nei negozi nei periodi dei saldi); «del personale aziendale nei periodi di malattia, maternità o ferie»; «per colmare le vacanze in organico» e per rimpiazzare il «personale sospeso in cassa integrazione guadagni ordinaria, straordinaria e in deroga». Inoltre, il documento prescrive che agli stagisti non possano essere assegnate attività «per l'acquisizione di professionalità elementari, connotate da compiti generici e ripetitivi». Da questa formulazione, per quanto vaga, discenderebbe il divieto di attivare stage per tutte le mansioni di basso profilo, come per esempio nei fast-food, nei supermercati, nei magazzini. Controlli. Qui tutto è concentrato sul controllo dei soggetti promotori, e nulla sul controllo degli ospitanti (cioè nelle realtà dove concretamente gli stagisti sono attivi). La Regione si riserva infatti di «effettuare controlli documentali ed in loco», ma solo «presso il promotore»: per tutto il resto, è prevista solo la «segnalazione [al] Servizio Ispezione del lavoro per i successivi adempimenti».Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Stage, nuove norme regionali: sì all'obbligo di rimborso in Toscana e Abruzzo, no in Lombardia- Stage in Lombardia, i punti controversi della bozza del regolamento regionale: niente rimborso spese obbligatorio, di nuovo 12 mesi di durata e apertura alle aziende senza dipendenti- I sindacati rispondono alla Regione Lombardia: «Nella proporzione numerica tra stagisti e dipendenti non si devono contare anche i precari»

Master post-laurea, un giro d'affari da 100 milioni di euro. E se la "bolla" stesse per sgonfiarsi?

In tempi di recessione, si sa, le opportunità di lavoro si fanno più rare: anche per chi ha titoli di studio elevati. In attesa del fatidico colloquio, quale momento migliore per iscriversi allora ad un master post laurea? Gli interessati hanno soltanto l'imbarazzo della scelta tra le centinaia di corsi attivati da università, enti e società di formazione pubblici e privati. Che sotto la voce "master" immettono ogni giorno sul mercato prodotti tra loro molto diversi: dai prestigiosi e costosissimi Mba (master of business administration), ai pacchetti di poche ore svolti per via telematica. Completamente lasciato alle leggi della domanda e dell'offerta, il mercato italiano del post laurea ha così generato non poche storture. Basti pensare alle decine di proposte rintracciabili in ambito giornalistico, settore che - nonostante le note difficoltà di assorbimento - continua ad esercitare un forte appeal sugli utenti. Nessuno è in grado di quantificare con certezza il numero complessivo di offerte oggi in circolazione, ma per avere un'idea basti pensare che per l'anno accademico 2011-2012 il consorzio Almalaurea riporta sul proprio sito ben 965 offerte, tra master di primo e di secondo livello. E si parla solo di quelli organizzati dalle università. Sempre da questa banca dati si apprende che tra i laureati del 2010 - intervistati ad un anno dal conseguimento del titolo - il 7,9% aveva frequentato o stava frequentando un master. Considerato che nello stesso anno i neodottori sono stati in totale 185.700, se ne deduce che prendendo in considerazione esclusivamente l'utenza universitaria in quell'anno ci sono stati oltre 14.600 "masterizzati". Senza contare i frequentanti dei corsi di formazione professionale (5,7%) e quelli delle scuole di specializzazione (3,9%). Considerata nel suo complesso, la formazione post laurea ha coinvolto nel 2010 quasi il 42% dei neodottori (inclusi tirocinanti, stagisti e borsisti). Una percentuale altissima, che aiuta a spiegare il motivo per cui l'età di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani italiani è sensibilmente più elevata rispetto a quella di molti colleghi europei.Restando al solo settore dei master, in una delle pochissime indagini disponibili sull'argomento il Censis aveva calcolato per il 2008 una spesa media di 5.800 euro per frequentante. Soltanto i neolaureati del 2010 che hanno scelto un master universitario avrebbero così generato un giro d'affari superiore a 85 milioni di euro. Ma non mancano stime decisamente superiori:  in un'indagine svolta per il Sole 24 Ore  lo scorso settembre, Andrea Curiat censiva in tutto circa 2mila master attivati da università pubbliche, private e telematiche, per un costo medio nel frattempo lievitato a 9.600 euro. Impossibile calcolare poi il business dei privati che operano nel settore: i maggiori siti specializzati riportano un numero complessivo di offerte (universitarie ed extrauniveristarie) che si aggira intorno alle 2.500.In termini di occupabilità, l'efficacia di ciascuna di queste proposte dipende molto dall'impegno e dalla serietà con cui i soggetti erogatori - ma anche fruitori - approcciano il percorso; e ovviamente da fattori congiunturali, legati alle esigenze del mercato o di un determinato settore produttivo. Ma il fatto che un numero così elevato di giovani freschi di laurea avverta immediatamente la necessità di una formazione aggiuntiva desta obiettivamente qualche perplessità sul funzionamento generale del sistema italiano. Dove anziché uno stimolo e un'opportunità di crescita professionale, la formazione post finisce in troppi casi per configurarsi come un eterno (e costoso) limbo. Nel capitolo dedicato ai master di Se potessi avere mille euro al mese l'autrice Eleonora Voltolina paragona il fenomeno a quello tipico della "bolla economica": ad un mercato che per anni si espande cioè a dismisura oltre i bisogni reali degli attori coinvolti, facendo lievitare i prezzi ben al di là del valore del bene commercializzato: «Non è irragionevole ipotizzare che una delle prossime bolle a scoppiare sia proprio quella della formazione post». Dopo anni di crescita impetuosa - che ha toccato il picco tra il 2004 e il 2006 - negli ultimi tempi anche il fiorente mercato del post laurea sembra in effetti lanciare alcuni segnali di rallentamento. «Dal nostro osservatorio rileviamo una crisi abbastanza evidente della domanda. Diversi corsi non riescono a raggiungere il numero minimo di iscritti, e tra questi anche esperienze che seguivamo da anni» rivela Roberto Ciampicacigli [nella foto], direttore di Censis Servizi, che per l'istituto di studi economici e sociali si occupa da oltre dieci anni di alta formazione collaborando tra l'altro alla redazione di Lavoro e Master, una delle guide di riferimento per il settore. Complice la minore disponibilità di spesa delle famiglie, sembra dunque che i laureati italiani stiano diventando più selettivi nella scelta del master. Il vero problema è che gli strumenti a disposizione per orientarsi in questo mare di offerte restano ancora pochi, anzi pochissimi. Tra questi, dallo scorso giugno, c'è il portale Censis Guida, un buon punto di riferimento per chi voglia capire più a fondo le caratteristiche di un corso o confrontare due o più opzioni apparentemente simili. «I corsi vengono presentati a partire da 12 indicatori, quali i requisiti di ammissione, il tipo di impegno richiesto, ma anche le ore di stage, il livello di internazionalizzazione e i servizi di placement offerti agli studenti», spiega il direttore di Censis Servizi. Che alla fatidica domanda su come vengono selezionati i corsi presenti sul portale sottolinea tuttavia che «non viene fatta una vera e propria selezione (sinora sono stati esclusi solo due corsi ndr). Ma la scheda che noi chiediamo di compilare è abbastanza complessa», tanto da introdurre già un primo sbarramento per le organizzazioni meno serie.L'unico ente il grado di certificare oggi la qualità di un master è al momento l'Asfor (associazione italiana per la formazione manageriale), attivo però nell'ambito del solo management aziendale. I 33 corsi certificati Asfor vengono sottoposti infatti ad un processo di accreditamento che offre all'utente precise garanzie,  in termini tanto formativi quanto di chance occupazionali successive. Accreditarsi ha ovviamente un costo - variabile dai 5 ai 7mila euro annuali - che non tutte le organizzazioni possono permettersi di sostenere. Ma certo stupisce che iniziative simili non siano state finora imitate per altri settori professionali ad alto tasso di master.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento: - Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi- Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare- Università, i corsi iper-professionalizzanti non sempre pagano

Cocopro, partite Iva e stipendi dei precari: le proposte dell'emendamento Castro-Treu

Mercoledì 16 maggio sono stati approvati alla Commissione Lavoro del Senato gli emendamenti del disegno di legge Fornero: tra questi, quelli firmati dai parlamentari Tiziano Treu del Partito Democratico e Maurizio Castro del Popolo delle Libertà hanno avuto una grossa eco mediatica perché trattano questioni importanti per i collaboratori a progetto e i lavoratori a partita Iva. Quali sono le principali modifiche al ddl? La più rilevante riguarda i numerosi cocopro impiegati nelle aziende italiane e iscritti alla gestione separata dell'Inps. Il Castro-Treu chiede la garanzia di un compenso minimo, che - punto 8.100 comma 1 dell'emendamento - «deve essere adeguato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e non può comunque essere inferiore, in proporzioni di durata del contratto, all'importo annuale determinato periodicamente con decreto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali». Questo "salario minimo" sarebbe determinato periodicamente con decreto ministeriale sulla base della media tra le tariffe minime del lavoro autonomo e la retribuzione dei contratti collettivi nazionali.Come si può invece salvaguardare i collaboratori a progetto nei momenti di pausa tra un contratto e l'altro, per evitare che restino completamente senza reddito? L'ipotesi di estendere la MiniAspi anche a questa categoria di lavoratori non è una via praticabile, perché i fondi per il momento non sono disponibili. Treu e Castro propongono però di modificare la norma sull'indennità una tantum. Secondo quanto prevede l'emendamento, l'una tantum sarebbe calcolata non più in base al minimale di reddito calcolato sulla retribuzione dell'ultimo lavoro svolto, ma in base al numero di mesi in cui si è effettivamente lavorato nell'anno precedente: per esempio circa 6mila euro se nell'anno precedente si è lavorato da sei a dodici mesi. Se l'operazione, da adottare in via sperimentale per i prossimi tre anni, risultasse vantaggiosa, poi si dovrebbe procedere a renderla stabile o a verificare la possibilità di sostituirla con la MiniAspi.L'emendamento non va a toccare invece invece un altro punto del ddl importante per i  cocopro , ossia i contributi alla gestione separata Inps: permane dunque l'innalzamento dal 27% al 33% delle aliquote entro il 2018.Inoltre esso introduce alcune modifiche ai provvedimenti sulle false partite Iva, non propriamente a favore dei precari: per evitare che le aziende siano costrette ad assumere o estinguere il contratto con i collaboratori che inquadrano come autonomi, Treu e Castro propongono di considerare vere partite Iva quelle di chi ha un reddito annuo lordo di almeno 18mila euro, ossia circa mille euro netti al mese. Un guadagno decisamente basso per un vero libero professionista. L'emendamento porta anche altri due cambiamenti peggiorativi, che rendono più difficile per una falsa partita Iva segnalare la propria condizione e riqualificarsi professionalmente: la durata massima di collaborazione con un singolo committente deve essere di otto mesi nell'arco di un anno (nel ddl erano sei) e il corrispettivo pagato non deve superare l'80% del reddito totale annuo (nel ddl era il 75%). Infine, per quanto riguarda la presenza fisica in sede - requisito proprio di chi collabora con un'azienda in maniera continuativa - l'emendamento si è limitato ad aggiungere la dicitura «postazione fissa», ossia il lavoratore autonomo non deve avere una propria scrivania nell'ufficio committente.Cambiamenti in vista anche per i contratti a tempo determinato: l'emendamento prolunga da sei mesi a un anno la durata del primo contratto a termine senza causale, e riduce da 90 a 60 e da 30 a 20 giorni l'intervallo tra la fine di un contratto e la riassunzione, a patto che sussistano determinate condizioni (start up, lancio di un nuovo prodotto, cambiamenti tecnologici ecc). Diventa così molto più facile per un'azienda interrompere e ri-stipulare un contratto sotto altra formula con un medesimo lavoratore senza che vi sia uno stacco prolungato delle attività.Tra gli altri aspetti toccati dai 16 emendamenti Castro-Treu vi sono la possibilità per i dipendenti di partecipare agli utili ed essere membri del Consiglio di Sorveglianza dell'azienda, contatto più rapido per lavori a chiamata (le job on call) tramite mail o sms, possibile restrizione sui voucher lavoro (quelli usati in agricoltura per ricorrere a lavoratori occasionali, per esempio studenti che raccolgono frutta di stagione) che sarebbero concessi solo alle aziende agricole il cui fatturato è inferiore a 7mila euro. Proprio quest'ultimo punto ha portato un rallentamento all'iter parlamentare del Ddl, attualmente in stallo proprio a causa della contrarietà del il Ministro per le Politiche agricole Mario Catania, che sta cercando un accordo con il ministro Fornero per scongiurare un provvedimento che potrebbe spingere molte delle aziende "penalizzate" dall'emendamento a ricorrere al lavoro nero. Il prossimo dibattimento in Parlamento sul ddl è fissato per il pomeriggio di mercoledì 23 maggio. Marta TraversoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta- False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzione

Lavoro e pensioni, cosa sono i contributi figurativi e come cambierebbero con la riforma

Anche i contributi figurativi subiranno ritocchi a seguito del ddl Fornero - sempre che il passaggio in Parlamento non stravolga le nuove disposizioni: le modifiche potrebbero riguardare soprattutto l’entità della contribuzione. Ma cosa sono i contributi figurativi? E a cosa servono? Si legge sul sito dell’Inps che con questo termine si intende «il riconoscimento ai fini pensionistici, da parte dell’ente previdenziale, di periodi di aspettativa non retribuita per astensione dal lavoro per l’esercizio di funzioni pubbliche elettive, cariche sindacali e congedi parentali». Periodi che «diventano così utili sia per il conseguimento del diritto a pensione sia per il calcolo della pensione medesima», e che vengono accreditati senza oneri per l’assicurato. Si tratta dunque di soldi pubblici, erogati attraverso l'Inps, l'unica cassa pensionistica che si fa carico di questo tipo di contributi. Maturano il diritto i lavoratori che si assentino dal lavoro per aspettativa o maternità (congedo parentale) nei casi in cui o non ci sia retribuzione o quest'ultima sia ridotta (il riferimento normativo è l'articolo 3 del decreto legislativo 564/96). Due le modalità previste dalla legge: l’accredito è su domanda per servizio militare, malattia e infortunio, donazione del sangue, congedo per maternità durante il rapporto di lavoro, riposi giornalieri, malattia del bambino, congedo per gravi motivi familiari, permesso retribuito ai sensi della legge 104/92 (handicap grave), congedo straordinario ai sensi della legge 388/2000 (handicap grave), periodi di aspettativa per lo svolgimento di funzioni pubbliche elettive o per l’assunzione di cariche sindacali. L’accredito avviene invece d’ufficio in caso di cassa integrazione guadagni straordinaria, contratto di solidarietà, lavori socialmente utili, indennità di mobilità, disoccupazione, assistenza antitubercolare a carico dell’Inps (quest'ultimo è un'ipotesi residuale di malattia inclusa nella legge). Il tutto senza che il dettato legislativo indichi un tetto massimo oltre il quale non è possibile maturare la contribuzione: vale a dire che in caso qualcuno assumesse una carica elettiva di lungo termine, anche per dieci o vent'anni, per tutto quel tempo potrebbe beneficiare del versamento della contribuzione.«I contributi figurativi vengono accreditati dall’Inps sul conto assicurativo del lavoratore per periodi in cui si è verificata una interruzione o una riduzione dell’attività lavorativa e di conseguenza non c’è stato il versamento dei contributi obbligatori da parte del datore di lavoro», spiega alla Repubblica degli Stagisti Vincenzo Silvestri [nella foto in alto], vicepresidente del Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro. Finora dunque i principali beneficiari di questo contributo sono stati i «precari e i lavoratori stagionali», coperti dal contributo nelle casistiche elencate. Si parla però di titolari di contratto a tempo determinato, e non certo di collaboratori occasionali, partite iva, contratti a progetto - che al solito risultano i grandi esclusi dal sistema di welfare italiano. «Non è chi ha il posto fisso ad aver bisogno dei contributi figurativi, avendo già assicurata una copertura pensionistica continua, ma chi, come ad esempio i precari della scuola  assunti a tempo determinato, non si vedrebbe corrispondere alcunchè nei casi elencati dalla legge. È proprio qui che interviene lo Stato», spiega l'esperto. «I contributi figurativi possono essere accreditati d’ufficio o su domanda del lavoratore a seconda della tipologia, senza alcun onere per l’assicurato. Perciò si differenziano dai contributi da riscatto, i quali sono invece a carico del lavoratore», aggiunge Silvestri. Che però non fornisce alla Repubblica degli Stagisti il dato di quanti lavoratori dispongano ogni anno di tali contributi: «Non siamo purtroppo in possesso di questi numeri». Come funziona il calcolo di questa assicurazione? «Attualmente i contributi figurativi si calcolano sulla base della media delle retribuzioni settimanali percepite in costanza di lavoro nell’anno solare in cui si collocano i periodi figurativi oppure, nell’anno di decorrenza della pensione, nel periodo compreso fino alla data di decorrenza della pensione stessa». Ovvero il calcolo di quanto viene accreditato è realizzato sulla base del guadagno del lavoratore nell'ultimo anno. Eccetto che «nei casi di mobilità e cassa integrazione dove i contributi figurativi sono determinati prendendo come riferimento la retribuzione utilizzata per il calcolo dell’integrazione salariale o dell’indennità di mobilità». Impossibile però avere degli esempi concreti: Silvestri si defila dicendo di non avere le competenze per un calcolo così sofisticato, mentre l'Inps - proprio l'istituto che si occupa di erogare la contribuzione figurativa - interpellata più volte dalla Repubblica degli Stagisti, sembra fare orecchie da mercante.  Quel che è certo però è che in base all'articolo 24 del ddl Fornero il calcolo andrà fatto «nella misura settimanale pari alla media delle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali degli ultimi due anni». Cambia quindi il periodo di riferimento, argomenta ancora Silvestri, che - allargandosi - comporterà probabilmente «una riduzione delle erogazioni ai potenziali beneficiari», in sintonia con il clima di austerity del momento. Nella visione del vicepresidente del Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro, infatti, la modifica di sistema che verrebbe introdotta con la riforma farebbe sì che - ampliando il periodo di riferimento per il calcolo - la media degli stipendi percepiti in un arco temporale più lungo si abbasserebbe e di conseguenza lo stesso accadrebbe anche per la contribuzione figurativa. Di nuovo, aggiunge Silvestri, «la scure che si abbatte sulla spesa pubblica ai fini del risparmio collettivo riguarderà le categorie più esposte», cioè chi non ha il posto fisso.E, infine, come si combinano i contributi figurativi col concetto di metodo contributivo? Silvestri spiega che «non possono essere valutati per determinare il requisito contributivo di cinque anni previsto per la concessione della pensione di vecchiaia con il sistema di calcolo contributivo». Il rimando normativo qui è all'articolo 1, comma 20, delle legge 335 del 1995, dove si dice che «il diritto alla pensione di cui al comma 19, previa risoluzione del rapporto di lavoro, si consegue al compimento del cinquantasettesimo anno di età, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell'assicurato almeno cinque anni di contribuzione effettiva...». Dunque, se si è ricompresi nel sistema contributivo, il versamento per cinque anni dei soli contributi figurativi non è sufficiente ai fini della maturazione della pensione: è necessario che si tratti, appunto, di contribuzione effettiva, ovvero ordinaria, al di fuori dei casi indicati dalla legge come lavoro 'in aspettativa'.Ancora non si conoscono gli esiti dell'esame in parlamento della riforma del lavoro, e di conseguenza delle modifiche al sistema della contribuzione figurativa. Ma, viste le premesse, non è irragionevole aspettarsi tagli al sistema del welfare.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Emergenza contributi silenti: le idee in campo per risolvere il problema delle pensioni di domani dei precari di oggi- «Le mie pensioni»: quanto prenderanno domani i precari di oggi?- Precari sottopagati oggi, anziani sottopensionati domani? Ecco come stanno veramente le cose: meglio prepararsi al peggio

Servizio volontario europeo: centinaia di opportunità tra volontariato e formazione

Nel 2007 il programma europeo Gioventù in Azione, istituito da Commissione europea, Parlamento europeo e dagli Stati membri dell'Unione, ha istituito un'opportunità di volontariato a costo zero per giovani tra i 18 e i 30 anni. La mission dello SVE (Servizio Volontario Europeo) è promuovere la cittadinanza attiva dei giovani dell'Unione Europea, offrendo loro l'opportunità di svolgere un'attività non lucrativa a beneficio della collettività: in concreto, si tratta di un'esperienza che permette ai ragazzi di conoscere una differente realtà culturale e perfezionare le loro competenze linguistiche. Sono circa 1.400 i volontari italiani che, dal 2007 al 2010, hanno fatto questa esperienza, con una media di 350 partecipanti all'anno.Ma quali sono le caratteristiche dello SVE e come vi si può accedere? Si tratta di un progetto di volontariato destinato a giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni, che possono trascorrere un periodo dai due ai dodici mesi (variabile a seconda del progetto scelto) in un Paese europeo o in anche extraeuropeo (tra quelli partner dell'iniziativa).Enti e associazioni di questi Paesi presentano un progetto le cui caratteristiche ricordano da vicino quelle dei progetti di Servizio Civile Nazionale: si tratta di progetti legati ad attività con i bambini, con categorie svantaggiate (anziani, disabili, ecc), oppure progetti di promozione culturale o tutela dell'ambiente. Ogni progetto ha una durata variabile, prevede un numero variabile di volontari e può essere o meno rinnovato a discrezione dell'ente stesso e dei fondi a disposizione: una volta approvato dal programma Gioventù in Azione, il progetto viene inserito in un database consultabile liberamente dagli aspiranti volontari, allo scopo di invididuare quello più vicino alle loro attitudini e interessi.Anche se è ufficialmente considerato attività volontaria non remunerata, di fatto prevede alcune agevolazioni economiche: in primo luogo la partecipazione allo SVE è completamente a carico dell'ente ospitante, ossia il volontario è spesato di tutti i costi del viaggio di andata e ritorno, dell'alloggio, della copertura sanitaria, deltrasporto locale e della formazione linguistica e specifica per le attività previste nel progetto. Il volontario percepisce inoltre un pocket money mensile, variabile in base al costo della vita del Paese di destinazione e alle spese vive previste dal progetto: l'importo varia dai 60 € mensili della Romania ai 140 € mensili della Danimarca. L'elenco dettagliato del rimborso Paese per Paese è consultabile nella "Guida al programma Gioventù in Azione" sul sito di Agenzia Giovani (pag. 68-71). Si tratta dunque di un'attività di volontariato che - pur non facendo ricevere uno stipendio vero e proprio - consente ai giovani di vivere questa esperienza formativa e di lavoro totalmente (o quasi) a costo zero.Attenzione, però. Anche se l'omonimia può generare confusione, lo SVE è un percorso molto diverso da quello del Servizio Civile Nazionale. Le principali differenze sono due: la prima è che il Servizio Civile Nazionale è regolato da un bando che viene pubblicato in genere una volta l'anno, con un numero ben preciso di progetti e di posti disponibili. Nel caso dello SVE non esiste un bando né un numero fisso di progetti né di posti a disposizione, ma i progetti e il relativo numero di volontari variano a seconda del periodo, degli enti ospitanti e delle attività specifiche. La seconda differenza è che per accadere al Servizio Civile Nazionale è obbligatorio fare domanda per un solo progetto, pena l'esclusione da tutti i progetti; a seguire c'è una selezione e viene stilata una graduatoria dei candidati selezionati. Viceversa, chi vuole partecipare allo SVE può fare domanda a un numero potenzialmente illimitato di associazioni: le organizzazioni che fanno da intermediarie fra enti e volontari consigliano ai ragazzi di fare un numero non inferiore ai 60-70 domande, per aumentare così le probabilità di essere ricontattati. Nello SVE non ci sono selezioni né graduatorie, la dinamica che lo regola è di fatto molto simile a quella di una normale ricerca di lavoro: si contattano più enti possibili nella speranza di essere richiamati.Per partecipare allo SVE è necessario prendere contatti con l'ente di invio della propria città, che di norma è l'ente che si occupa a livello cittadino e/o regionale delle attività di volontariato: l'elenco completo delle organizzazioni di invio è consultabile sul Database europeo degli enti SVE accreditati, inserendo i dati nei campi "Country", "Town" e "Type of accreditation" (in quest'ultimo punto selezionare "Sending organisation").Qualche esempio: a Roma se ne occupa l'associazione Oikos, a Torino Informagiovani, a Milano  Ciessevi (vedi foto). Si è aiutati nella scelta del progetto e nel contatto con il potenziale ente ospitante, e si è supportati in tutte le pratiche burocratiche in vista della partenza. È possibile consultare il database delle associazioni sulla pagina dedicata nel sito dell'Unione Europea: analogamente al Servizio Civile Nazionale, si può ricercare il progetto di proprio interesse per Paese o per attività, valutando ciò che è più affine alle proprie attitudini e capacità.Quando si può fare domanda? Nell'arco dell'anno sono previste cinque scadenze per la presentazione dei progetti da parte delle associazioni, ciascuna delle quali in vista di un diverso periodo di partenza: 1 febbraio (per partenze dal 1 maggio al 30 settembre), 1 maggio (dal 1 settembre al 31 gennaio), 1 ottobre (dal 1 dicembre al 30 aprile).Marta TraversoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Servizio civile, si parte: 19mila giovani tirano un sospiro di sollievo per il rientrato allarme scatenato dalla sentenza "antidiscriminazione"- «Aprire l'accesso al servizio civile agli stranieri? Attenzione, può portare cortocircuiti». Parla Claudio Di Blasi dell'associazione Mosaico- Aspiranti eurostagisti, ecco le migliori opportunità di tirocinio nelle istituzioni Ue di qui alla primavera

Più spazio in politica alle istanze delle nuove generazioni: ma come?

Quanto peso politico hanno le nuove generazioni nel nostro Paese? Se n'è discusso nei giorni scorsi all’università Cattolica di Milano nell'ambito del convegno dal titolo: «Come dar peso al futuro. Far contare di più il voto dei giovani?». A margine delle relazioni introduttive presentate da Alessandro Rosina e Paolo Balduzzi, professori rispettivamente di demografia e scienze delle finanze, si è tenuta una tavola rotonda moderata dal direttore della Repubblica degli Stagisti Eleonora Voltolina in cui sono state discusse e messe a confronto le proposte di Tito Boeri, Luigi Campiglio, Massimo Bordignon e Beppe Severgnini. Secondo l’analisi di Alessandro Rosina e Paolo Balduzzi [nella foto accanto], ideatori del concetto di degiovanimento e promotori dell'omonimo sito, in Italia è in corso una forte contrazione demografica della fascia di popolazione che ha tra i 16 e i 30 anni - oggi circa 9,7 milioni di persone - contro un progressivo aumento della popolazione rientrante nella fascia di età tra i 60-74 anni, che attualmente sono circa 10 milioni. Solo dieci anni fa i giovani erano 13 milioni, mentre gli anziani circa 8 milioni. Ciò significa che alle porte della cosiddetta «Terza Repubblica» gli elettori più maturi hanno un peso 1,3 volte superiore a quello dei giovani. La classe dirigente italiana, composta prevalentemente da over 60, si è dimostrata sinora poco attenta alle istanze delle nuove generazioni. Rispetto ai loro coetanei nel resto del mondo occidentale, i Millennials italiani sono i meno rilevanti sul piano politico ed elettorale. L’inevitabile deriva gerontocratica del sistema politico italiano sembra sostenuta anche dai vincoli anagrafici per l’elettorato passivo e attivo. Per essere eletti in Parlamento infatti sono stabiliti dei requisiti minimi di età pari a 25 anni per la Camera e 40 anni per il Senato, vincoli tra i più alti al mondo [vedi tabella sotto].Il progressivo invecchiamento della popolazione riguarda anche gli altri paesi europei, rendendo urgente la necessità di garantire spazio alle richieste delle nuove generazioni nelle agende politiche. Un esempio tra tutti è costituito dall’Austria, dove l’elettorato attivo è stato abbassato a 16 anni. Favorevole ad una soluzione di questo tipo è Tito Boeri, docente di economia del lavoro all'università Bocconi, che ha ricordato l’importanza di una riduzione in Italia anche delle soglie d’età per l’elettorato passivo in vista di una riforma in chiave federale del Senato. Un’altra possibilità per dare maggiore spazio ai giovani in politica è la ponderazione del voto alle aspettative di vita residua: più speranza di vita si ha davanti, più il voto conta. Così, ha spiegato Rosina, si assegnerebbe maggiore responsabilità a chi vivrà nel futuro le conseguenze delle scelte di oggi.In questa direzione viaggia la proposta di Luigi Campiglio, professore di Politica economica presso l’università Cattolica, che ricorda la totale mancanza di rappresentanza politica dei minorenni. Possibile soluzione a questo vuoto di democrazia, secondo una tesi sostenuta ugualmente dal giornalista Beppe Severgnini, è la facoltà per i genitori degli under 18 di esprimere, oltre al proprio voto, anche un voto aggiuntivo per ciascun figlio minorenne. Quale che sia la strategia capace di incentivare un maggior coinvolgimento dei giovani nella vita politica, essa dovrebbe essere supportata da una riforma della legge elettorale, fondamentale dopo il fallimento in termini di rappresentatività di quella ora in vigore. Immaginare nuove soluzioni e proposte non solo permetterebbe ai più giovani di partecipare attivamente alle scelte della collettività ma servirebbe anche ad accrescere la fiducia nelle istituzioni e nello Stato.  E Anna Granata, psicologa e autrice del libro «Sono qui da una vita» (pubblicato dalla casa editrice Carocci nel 2011), nel suo intervento ha sottolineato che queste riflessioni assumono particolare rilevanza se associate ad una categoria di giovani la cui voce fatica ancora di più a trovare spazi di espressione: le seconde generazioni. Coloro che non sono nati in Italia, ma di fatto ci vivono da una vita,  o che sono nati qui ma da genitori immigrati, sono ormai quasi 1 milione di ragazzi: circa il 5,3% della popolazione è senza accesso al diritto di voto a causa del complesso meccanismo per l’ottenimento della cittadinanza. Tuttavia c’è un elemento che li accomuna ai coetanei che il passaporto italiano ce l'hanno dalla nascita: essere percepiti, in Italia, come «giovani all’infinito», troppo spesso considerati ancora alle «prime armi» ed eternamente «figli» alle soglie dei 40 anni. Questa percezione contribuisce ad allontanare i giovani dalla partecipazione politica creando un sentimento di deresponsabilizzazione nei propri confronti e verso quelli dello Stato. «I giovani non sono una categoria a parte» ha ricordato Alessandro Rimassa, coautore del libro Generazione 1000 Euro e direttore del centro ricerche dello Ied: «I loro problemi sono quelli di tutto il Paese. E a chi dà loro pacche sulle spalle, dicendo che hanno ancora tempo e che devono aspettare il loro turno, dovrebbero spezzare i polsi».Per uscire dalla crisi bisogna quindi ripensare il futuro, coinvolgendo maggiormente i giovani nelle scelte politiche, senza mai dimenticare l’importante ruolo che svolge il lavoro per la conquista di dignità e indipendenza - elementi fondamentali nell'ottica dell'impegno e della partecipazione politica.La domanda che ha ispirato il convegno è aperta a tutti con l’invito a partecipare al sondaggio: si può votare attraverso una pagina Facebook oppure iscrivendosi alla Newsletter della Repubblica degli Stagisti. La parola passa a voi lettori, partecipate e dite la vostra su come conferire più peso alle istanze politiche che provengono dai giovani.Le opzioni:1. Abbassare il voto ai 16 anni, come si fa in Austria (almeno alle amministrative)2. Estendere il diritto al voto anche ai figli degli immigrati (a quelli che non hanno ancora la cittadinanza dopo i 18 anni)3. Agevolare maggiormente la possibilità di voto di chi vive per studio o lavoro all'estero4. Rimuovere i vincoli di 25 e 40 anni per accedere a Camera e Senato5. Dare ai genitori la possibilità di votare anche per i figli minorenni6. Togliere l'elettorato passivo agli over 607. Ponderare il voto in base all'aspettativa di vita residua (più futuro davanti si ha e più il voto conta)8. Tutte queste cose assieme, serve un cambiamento radicale9. Nulla di questo: è giusto che i giovani italiani contino poco, sono troppo immaturiLorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche :- Come far contare di più i giovani in politica?- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia) - Dar voce ai giovani, dar voce alle donne: l'impegno della Repubblica degli StagistiE anche:- Caro Celli, altro che migrare all'estero: è ora che i giovani facciano invasione di campo e mandino a casa i gradi vecchi- Trentenni italiani, la sottile linea rossa tra umili e umiliati nel libro «Giovani e belli»- La lezione di Rita Levi Montalcini: i giovani devono credere in se stessi nonostante tutto e tutti

Centri per l’impiego, la riforma del lavoro riuscirà a rilanciarli? Per ora servono solo al 3% dei disoccupati

Tra i punti chiave messi sotto i riflettori nel disegno di legge Fornero, dall'articolo 59 al 65, è esposto un lungimirante anche se ancora poco definito tentativo di riforma delle politiche attive: le azioni volte all’implementazione del cosiddetto workfare, esatto contrario delle politiche assistenzialiste del welfare, hanno lo scopo di proporre interventi in grado di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. L’intento è di riportare in primo piano l’attività degli organismi pubblici preposti alla gestione dell’occupazione. Sulla base del decentramento normativo a favore delle Regioni e delle Province intrapreso con il decreto legislativo 469/1997 (la cosiddetta riforma Bassanini), la successiva riforma del mercato del lavoro (il decreto legislativo 276/2003, attuazione della legge Biagi) ha stabilito che l’avviamento al lavoro non è più monopolio dello Stato, aprendo le porte all’intermediazione privata ed istituendo, al posto degli uffici di collocamento, i centri per l’impiego (cpi). Le funzioni riconosciute a entrambi gli organismi si articolano sull’offerta di servizi d’intermediazione, formazione e orientamento. In particolare i 539 cpi presenti sul territorio nazionale si occupano di aggiornare l’archivio anagrafico degli iscritti in cerca di lavoro, certificano lo stato di disoccupazione e promuovono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro - anche a livello europeo con il servizio Eures - coinvolgendo circa 10mila impiegati che indirizzano i loro servizi a un milione e mezzo di persone. Inoltre, a far da ponte tra i due sistemi di collocamento, pubblico e privato, dall’ottobre 2007 è stato creato il nuovo portale Cliclavoro in cui sono confluiti i dati contenuti negli archivi della Borsa nazionale del lavoro.I cpi però non sono riusciti a diventare un vero punto di riferimento: secondo gli ultimi dati Isfol-Plus, nel 2010 circa il 3% di chi cercava lavoro lo ha trovato rivolgendosi a queste strutture, mentre oltre il 30% ha utilizzato con successo il canale informale costituito da parenti e amici. Ciò significa che appena tre disoccupati su cento sono riusciti a ricollocarsi grazie ai servizi per l’impiego. Questi dati hanno reso urgente un ripensamento delle strutture pubbliche per il collocamento, direzione percorsa dal ddl Fornero, che ha alimentato un acceso dibattito. Chi propende per una riforma dei cpi in chiave anglosassone, con un maggior affidamento all’intermediazione gestita da attori privati, non sembra considerare l’incidenza, sull’insuccesso italiano, della scarsità di risorse impiegate: nel periodo a cavallo tra il 2006 e il 2010, il nostro paese ha incrementato gli investimenti in progetti di politiche attive, passando dall’1,3% (vedi tabella accanto) del Pil all’1,85% (dato Isfol-Plus 2010) ma questo sforzo non è stato sufficiente.  In media sono stati spesi poco più di 5,2 miliardi di euro, importo modesto se confrontato con i 19,3 miliardi di euro investiti per i sussidi passivi di sostegno al reddito. Anche il rapporto tra il numero di addetti ai lavori e bacino d’utenza dei servizi erogati dai cpi si attesta ben sotto la media europea. In Italia sono impiegate meno di 10mila risorse, mentre in Paesi popolosi quanto il nostro, come Francia e Germania, si contano rispettivamente il triplo e il sestuplo di addetti ai lavori. Nei cpi del nostro Paese ci sono addirittura meno dipendenti di quelli attivi in Svezia, la cui popolazione è di circa 9 milioni di abitanti contro i nostri 60. Ma quali prospettive si aprirebbero con la riforma? Il disegno di legge vuole conferire nuova vitalità ai cpi, raffinando le occasioni di incontro tra chi offre o cerca lavoro. L’articolo 59, al comma 1, introduce nuovi standard nazionali per gli obblighi di erogazione dei servizi da parte dei centri e, contemporaneamente, prescrive una maggiore attenzione sia al contesto produttivo territoriale sia alle competenze professionali del disoccupato.Inoltre, sull’esempio di Danimarca, Svezia e Germania, all’articolo 60 è presentato un programma di monitoraggio e valutazione delle attività dei cpi anche ai fini dell’accesso ai finanziamenti del Fondo sociale europeo. In pratica è prevista la costituzione di una banca dati predisposta dall’Inps (nuovo soggetto autorizzato all’intermediazione) dove i cpi inseriranno quotidianamente dei report sulla proprie attività nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali, per creare una piena convergenza tra politiche attive e passive.Infine il ddl tocca uno dei punti fondamentali per la riuscita dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro: il reinserimento attraverso una valida riqualificazione professionale. Come già previsto dalla L. 247/2007 è nuovamente delegato all’esecutivo – con termine di sei mesi dall’entrata in vigore della riforma - il compito di adottare il riordino della normativa riguardante la fruizione dei servizi, inclusi quelli di formazione, offerti dai centri per l’impiego.I cpi possono giocare un ruolo fondamentale nel favorire i meccanismi di flessibilità in entrata e in uscita che l’impianto del ddl ha strutturato. La sfida da raccogliere attraversa la coerenza globale dei contenuti di tutta la riforma, alla luce del futuro post-crisi che aprirà le porte ad un mercato del lavoro sempre più globalizzato.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Stage attivati dai centri per l'impiego: ecco la radiografia annuale dell'Isfol- Centro per l'impiego di Frosinone: il posto «magico» dove uno stagista su due trova lavoro- A Ichino piacciono i Jobrumors: «I siti che riportano le occasioni di lavoro sono preziosi per il mercato e lo rendono trasparente»

Cause di lavoro, col rito speciale durata ridotta da 6 anni a uno e mezzo. Basterà?

Il disegno di legge Fornero prevede un nuovo rito speciale per le cause riguardanti i licenziamenti. L’obiettivo è fornire un canale “rapido” per risolvere le controversie sul tema. Nella versione attuale della norma la procedura sarebbe costituita da quattro gradi di giudizio scanditi da scadenze accelerate per le prime udienze, e caratterizzati da un'elevata discrezionalità del giudice nell'eliminare tutti gli elementi non essenziali alla formulazione del giudizio. Secondo le prime stime, la nuova procedura potrebbe tagliare i tempi sulle cause per licenziamento dalla media attuale di 6 anni (Cassazione inclusa) a un anno e mezzo. Ma c'è già chi si dice scettico sulle reali possibilità di funzionamento del rito speciale. E non solo perché, al termine, una sentenza favorevole ai lavoratori potrebbe portare al pagamento da parte del datore di lavoro di un'indennità compresa tra 12 e 24 mensilità nonché al reintegro nel posto di lavoro nella maggior parte dei casi. Ecco in dettaglio come funzionerebbe il procedimento. Nel caso dei licenziamenti per cause economiche (ovvero, per giustificato motivo oggettivo e quindi motivati da ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento) il primo passo è la conciliazione obbligatoria, in cui le parti, con il supporto degli avvocati, cercano di raggiungere un accordo preliminare alleggerendo il lavoro dei giudici e riducendo il numero delle cause. Il secondo step, o il primo per i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, è la fase del ricorso vero e proprio al Tribunale del Lavoro, attraverso il quale il lavoratore può opporsi alla decisione dell’azienda. In questo caso il giudice sarebbe tenuto a fissare l’udienza preliminare entro 30 giorni dal deposito del ricorso.Severo il giudizio di Franco Toffoletto [foto a fianco], avvocato attivo esclusivamente nel campo del diritto del lavoro e socio dello studio legale Toffoletto De Luca Tamajo e soci: «Questo è il passaggio più importante del rito speciale che invece, nei gradi successivi, torna ad essere simile al rito normale con alcune semplificazioni. Il problema è che non è nemmeno previsto un termine per la costituzione del datore di lavoro, ma viene stabilito solo il termine massimo di 30 giorni per la fissazione dell’udienza. In questo modo il giudice può fissarla anche, ad esempio, dopo 48 ore dal deposito del ricorso rendendo praticamente impossibile la difesa del datore». Che secondo l'attuale normativa, invece, ha come minimo 20 giorni per redigere la propria difesa perchè l'udienza non può essere fissata prima di trenta giorni dalla notifica del ricorso.Secondo Toffoletto la conseguenza diretta è una disparità inammissibile di trattamento tra le parti (lavoratore e datore di lavoro) che mina i principi del contraddittorio: «È chiaro che non si dà materialmente il tempo di preparare la difesa; è difficile capire come può svolgersi una seria istruttoria in tempi così rapidi. Non si considera minimamente che le cause di licenziamento possono essere anche molto complesse. Nessun tribunale, in Italia, è in grado di gestire un rito del genere».La volontà di snellire le procedure è evidente dal modo in cui è formulato il passaggio nel ddl: il giudice, di fatto, ha un alto grado di discrezionalità nel decidere quali siano le formalità essenziali al contraddittorio (numero di testimonianze, di prove, ecc.) e può omettere tutte le altre. «Ma le formalità, in un processo, sono sostanza. Come si fa a determinare quelle non essenziali? Più che un processo civile sembra un processo incivile» decreta Toffoletto.Anche Maurizio Santori, giuslavorista e docente presso l’università Luiss di Roma, individua degli elementi anomali nell’articolo 17 del ddl: «Non è prevista per il datore di lavoro la possibilità di difendersi con un atto scritto, contrariamente a quanto accade per il lavoratore. Manca la tutela del diritto di difesa del soggetto datoriale. Per il resto c’è poco di nuovo: questo rito urgente è modellato sul procedimento di urgenza per i casi di condotta antisindacale del datore di lavoro. Già l’articolo 700 del codice di procedura civile comprime gli spazi di difesa del datore di lavoro in favore della rapidità del procedimento. Ma compressione non può significare azzeramento».La fase successiva è quella di opposizione all’accoglimento o al rigetto del ricorso, sempre presso il medesimo Tribunale del lavoro, da depositare entro 30 giorni dalla comunicazione della decisione. Il termine perché il giudice fissi l’udienza di discussione, questa volta, è di 60 giorni. Come rileva Santori, «qui si cita espressamente la difesa scritta, il che fa pensare che nel passaggio precedente del ddl sia stata esclusa non per svista, come sarebbe auspicabile, ma volontariamente».Dopodichè si passa al reclamo davanti alla Corte d’Appello («termine bizzarro, perché di solito il reclamo si fa allo stesso giudice», nota ancora Santori), ancora da depositare entro trenta giorni dalla comunicazione della decisione, con udienza di discussione entro 30 giorni, e infine si passa alla Corte di Cassazione, entro 60 giorni dalla decisione d'appello con udienza fissata entro sei mesi. In totale, quindi, il rito prevede quattro gradi di giudizio. Il ddl ad ogni modo non fissa i termini entro i quali possono essere fissate le udienze successive alla prima, il che non esclude che i tempi di ogni fase si dilatino ugualmente di diversi mesi, «se non di anni», come teme Toffoletto.Se il giudice appura che non sussistono gli estremi per il licenziamento per giusta causa, perché il fatto non esiste o il lavoratore non lo ha commesso, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione e a pagare al lavoratore un’indennità non superiore a 12 mensilità di stipendio. Quando il giudice decide che non sussista una motivazione valida per il licenziamento, ma per altre ipotesi, dichiara terminato il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro a pagare un'indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità. Per i licenziamenti di natura economica, è il giudice a decidere se disporre la reintegrazione o meno nel caso in cui le cause economiche siano manifestatamente inesistenti, altrimenti condanna a un'indennità risarcitoria. «Cosa vuol dire “manifesta” insussistenza? O le cause esistono o non esistono. Comunque è evidente che qui i sindacati hanno fatto bene il loro lavoro, e che i lavoratori sono ben tutelati», commenta Santori.Quale sarà, in concreto, l’effetto del rito abbreviato per i lavoratori? Toffoletto si dice scettico sui risultati finali del ddl nella sua forma attuale: «Francamente non so come funzionerà questo rito speciale. Probabilmente, come già accade, ogni giudice si comporterà in maniera diversa e aumenteranno l’incertezza, i costi e l’inefficienza dei processi». Santori, perplessità a parte, dà invece un giudizio complessivamente positivo: «Sicuramente si accelera molto rispetto alle procedure attuali. I tempi perché le sentenze passino in giudicato, cassazione inclusa, potrebbero ridursi da sei anni a un anno e mezzo circa. E a beneficiarne saranno sia i datori di lavoro sia i lavoratori, perché per entrambi è bene avere la certezza del diritto il più rapidamente possibile».di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stageE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni