Categoria: Approfondimenti

Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato

Per porre un freno all'abuso dello strumento dello stage bisogna incentivare i contratti di apprendistato, che secondo gli ultimi dati Isfol al momento costituiscono invece appena il 15% delle assunzioni di giovani tra i 15 e i 29 anni. Ne è convinto il ministro Fornero, che ha affidato all’articolo 5 del disegno di legge per la riforma del mercato del lavoro il compito di apportare modifiche correttive ad alcuni punti del testo unico, il decreto legislativo (167/2011) in vigore dall’ottobre scorso, con il quale al termine l'ultimo governo Berlusconi aveva riformato il contratto di apprendistato. L’articolo 5 del ddl è stato successivamente oggetto di correzioni e implementazioni, discusse ed approvate in Senato lo scorso 31 maggio. In primo luogo il ddl Fornero cerca di riportare ordine nella definizione numerica degli apprendisti assumibili da uno stesso datore di lavoro. Se il testo unico stabiliva che il numero di apprendisti in forza e lavoratori qualificati non poteva essere superiore al rapporto di 1 a 1, il ddl alza questo limite, fissando un rapporto di 3 a 2. Resta invariata, nel caso di un datore di lavoro che non abbia alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o ne abbia un numero inferiore o uguale a tre, la possibilità di assumere fino ad un massimo di tre apprendisti. La discussione in Senato dell’articolo 5 ha aggiunto un’ulteriore precisazione: per le aziende con dieci o meno dipendenti trova validità il rapporto 1 a 1.  La seconda grossa novità ripresa dal ddl, ma già introdotta dal testo unico, riguarda la possibilità di assumere apprendisti in staff leasing (secondo l’articolo 20, comma 3, del decreto legislativo 276/2003) tramite le agenzie di somministrazione. Il ddl precisa però che il datore di lavoro dovrà includere anche questa categoria di apprendisti nel tetto massimo che ha a disposizione, nonostante questi lavoratori non facciano direttamente parte del suo organico. L’esame del Senato ha precisato che non sarà possibile assumere apprendisti in  somministrazione a tempo determinato.La terza importante svolta introdotta dall’articolo 5 con il comma 3-bis, già presente nella formulazione presentata dal governo, stabilisce che nelle aziende con più di dieci dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di formazione – nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione - di almeno il 50% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro. Si tratta di un limite per l’accesso al contratto di apprendistato in contraddizione con la finalità stessa che la riforma vuole riconoscergli. Per evitare questo rischio il Senato ha precisato che qualora non sia rispettata la percentuale è comunque consentita l’assunzione di un ulteriore apprendista rispetto a quelli già confermati, anche in caso di totale mancata conferma degli apprendisti precedentemente in forza. Il testo licenziato da palazzo Madama non modifica quanto proposto dal governo per quanto riguarda la durata del periodo formativo previsto per questa tipologia di contratto e integra il testo unico – che stabilisce solo la durata massima del periodo di formazione in 36 mesi (estendibili fino a 5 anni nei casi predisposti dalla contrattazione collettiva per particolari profili lavorativi dell’artigianato) – introducendo la durata minima del periodo di formazione, pari ad almeno 6 mesi.Infine un dettaglio che ha fatto storcere il naso agli addetti ai lavori: l’articolo 5 alla lettera “b”, anche nella versione approvata dal Senato, inverte quanto stabilito dal testo unico in materia di preavviso. Chi è licenziato al termine del periodo di formazione durante il periodo di preavviso (che decorre dal medesimo termine) si vedrà applicare la disciplina economica e normativa del contratto di apprendistato, pur avendo di fatto completato il percorso da apprendista. Un ulteriore piccolo – e forse ingiustificato – vantaggio per il datore di lavoro, che continua per i due o tre mesi di preavviso a pagare aliquote contributive e retribuzioni ridotte. Ma perché l’apprendistato, pur essendo già ben normato e conveniente per le imprese da almeno un decennio, è rimasto bloccato a numeri piccolissimi? Nel 2010 sono stati attivati solo 289mila contratti di questo tipo in tutta Italia. Oltre al concorrente sleale – lo stage – probabilmente ha contato anche l’eccessiva burocratizzazione della sua gestione. La frammentata e caotica regolamentazione regionale e interconfederale non aiuta i datori di lavoro, ma soprattutto gli intermediari incaricati, ad incentivarne la diffusione. In particolare nel caso dell’apprendistato professionalizzante, il più diffuso, c’è stata una vera corsa contro il tempo da parte della contrattazione collettiva per emanare accordi entro il 25 aprile scorso (data in cui è terminato i periodo transitorio dell’entrata in vigore del decreto legislativo): la legge prevede infatti che la disciplina del nuovo apprendistato diventi pienamente operativa solo quando la contrattazione collettiva e/o la legislazione regionale – a seconda della tipologia di apprendistato – abbiano emanato i provvedimenti di loro competenza che disciplinino l’organizzazione delle attività formative, ad oggi firmati per tutte le regioni e per la maggior parte dei contratti collettivi nazionali di lavoro, ma non ancora attivi. E se le aliquote contributive previste dal testo unico sia a carico del lavoratore (5,84%) sia a carico del datore di lavoro (per aziende fino a nove addetti, durante il primo anno di apprendistato si applica un’aliquota INPS del 1,5%, il secondo anno 3% e il terzo 10%, per le aziende con più di dieci dipendenti si applica per tutto il periodo di formazione il 10%) sono state confermate nel ddl, un altro punto critico che non favorisce il rilancio dell’apprendistato riguarda le agevolazioni contributive ed economiche promesse dalla legge di stabilità 2012 che ha previsto addirittura - per le assunzioni di apprendisti a partire dal 1 gennaio 2012 - uno sgravio del 100% della quota di contributi a carico dell’azienda nel primo triennio di lavoro: purtroppo al momento questa agevolazione non è applicabile per mancanza di fondi. Tuttavia restano attivi altre tipologie di incentivo cui le aziende possono aderire, fino a disponibilità, come i finanziamenti predisposti dal programma Amva, promosso dal ministero del Lavoro e attuato da Italia Lavoro, con il contributo del fondo sociale europeo.In definitiva, le modifiche apportate dal governo Monti sono da ritenersi sufficienti per il vero sviluppo del contratto di apprendistato? Forse non completamente. Sarebbe dunque utile prendere in considerazione i moniti espressi pochi giorni fa a Ginevra dall’Ilo, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo: ripensare questa tipologia contrattuale tendendo al modello tedesco e a quello inglese, facendo della formazione non un semplice slogan ma un ponte tra scuola e lavoro ed un’esperienza altamente professionalizzante.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta- Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli

Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due

La jatropha è una pianta originaria dell'America Centrale, oggi diffusa anche in Africa ed in Asia, dove viene utilizzata come siepe per le recinzioni. Giovanni Venturini [nella foto insieme al suo socio Roberto Crea] ci ha creato un business. Prima ha fondato Agroils, un'azienda che ricava biocombustibile dai semi di questa essenza, quindi ha ceduto le quote di maggioranza ed ha aperto Agroils Technologies, una start-up che ricerca un modo per ricavare un mangime dal panello che rimane dopo la spremitura.La storia di questo 29nne fiorentino - laurea triennale in ingegneria gestionale e specialistica abbandonata a quattro esami dalla tesi per dedicarsi a tempo pieno all'azienda - è un vero e proprio inno all'intraprendenza. Arrivato all'inizio del 2004 a Stoccolma per un periodo di Erasmus, iniziò un tirocinio alla Nykomb Synergetics. «Stavo lavorando a un progetto per la produzione di idrogeno da black liquor, uno degli elementi base per la produzione della carta. Poi un giorno l'amministratore delegato mi convocò nel suo ufficio e mi fece vedere una foto».Fu quello il primo contatto con il vegetale a cambiare la vita di Giovanni: «Si trattava di una pianta coltivata in Ghana, dalla quale si poteva ricavare un sostituto naturale del gasolio. Lo trovai subito molto interessante, al punto che dedicai al tema la mia tesi di laurea», conseguita nell'ottobre del 2004 a Firenze. Iniziata la specialistica, cominciò a lavorare nel 2005 con un contratto a progetto per la D1Oils, ora diventata Neos, un'azienda inglese con la quale collaborò prima a distanza, quindi direttamente sul campo, trasferendosi a Johannesburg, in Sudafrica, tra la primavera e l'estate del 2005. «Non ero molto convinto di quest'esperienza: intanto volevo finire di studiare e poi pensavo di voler aprire una mia azienda, perché mi ero reso conto che c'era un'opportunità».Così tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006 nacque Agroils, azienda individuale che già nell'ottobre del 2006 diventò una società a responsabilità limitata con l'ingresso di due nuovi soci: Federico Grati e Stefano Babbini, compagni di corso di Giovanni. Capitale sociale i 'classici' 10mila euro. Subito i soci si concentrarono sul progetto di utilizzare i semi di jatropha per ricavarne un biocombustibile. Lavorando ognuno con il proprio computer, spendendo 500 euro al mese per l'affitto di uno scantinato diventato la sede operativa dell'azienda, nel giro di cinque mesi raggiunsero il pareggio.Per crescere in un settore ancora poco battuto, appunto la produzione di biocarburanti dai semi di questa essenza, i tre si inventarono anche un'associazione chiamata JatrophaBook, che subito aprì una sorta di social network pensato per coloro che lavorano con questa pianta. E iniziarono a frequentare le fiere di settore.Il fatturato è cresciuto in fretta, arrivando a toccare i 600mila euro annui. La società si è strutturata, assumendo tre persone a tempo indeterminato e due collaboratori a progetto. Ed ha ospitato anche un paio di stagisti per un tirocinio trimestrale. Nella primavera del 2011 è arrivato il salto di qualità: i tre soci hanno ceduto le quote di maggioranza a Futuris, società milanese che si occupa di biomasse, riservandosi comunque una partecipazione societaria. «Federico e Stefano continuano a lavorare in Agroils, io invece ho creato una nuova società». Appunto Agroils Technologies, nata subito dopo la cessione delle quote della prima start-up.Perché a 28 anni si cede un'azienda ormai avviata per ricominciare da capo con un'altra? «Non so, forse è una questione di ambizione, di intraprendenza. E poi, sviluppando una tecnologia, hai a che fare con un business che può svilupparsi in fretta a livello internazionale». Tutto sta nell'avere successo in quest'operazione. La questione è semplice, almeno sulla carta: «Una volta 'spremuta' la jatropha rimane il panello, una parte solida residua. Si tratta di un coprodotto ad alto contenuto proteico, che potrebbe essere utilizzato per produrre dei mangimi». «Potrebbe»: perché questa sostanza contiene delle tossine, che lo rendono inutilizzabile. La sfida è quella di riuscire a «eliminare questi antinutrizionali», adoperando il panello per la produzione di mangimi. Se si pensa che questa pianta cresce bene nei climi aridi, che quindi potrebbero produrre cibo per il bestiame, si capisce esattamente cosa intenda Giovanni quando parla di un «business che può svilupparsi in fretta a livello internazionale».La spinta in questa direzione è arrivata a San Francisco, dove Agroils ha partecipato all'edizione 2011 di Mind the Bridge, un concorso riservato alle start-up. È qui che Venturini ha conosciuto Roberto Crea, scienziato italiano che da 35 anni vive in California, dove sta lavorando a un programma di ricerca dedicato proprio alla possibilità di ricavare mangime dal panello della jatropha. Ora i due sono soci alla pari di Agroils Technologies, società che ha sede all'interno di Incubatore Fiorentino, una culla per le start-up toscane supportata dal Comune e dalla Camera di Commercio di Firenze, oltre che dalla regione Toscana. «Siamo entrati a gennaio. Per il tipo di lavoro che faccio, che mi porta spesso all'estero, è la dimensione ideale». Oltre ad un ufficio, a disposizione delle aziende incubate c'è anche «un incontro mensile con un senior manager con il quale è possibile confrontarsi». La permanenza all'interno di questa struttura costa mille euro mensili, ma «attraverso alcuni bandi regionali è possibile abbattere i costi. Noi arriviamo a pagare 250 euro ogni mese».Al momento il break even, ovvero il pareggio di bilancio, è ancora lontano: «Ci vorrà almeno un anno». Però l'interesse del mercato c'è e si è già fatto sentire in maniera forte a marzo, quando Agroils Technologies ha ricevuto un finanziamento di 900mila euro. La metà di questi fondi sono arrivati da X Capital, una società privata di investimento toscana, mentre l'altra metà l'hanno messa Innogest sgr e Italian Angels for Growth. Tre realtà pronte a scommettere sul successo di un under 30.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- Milano si impegna per attrarre i cervelli in fuga- Regione Piemonte, un milione di euro per chi sostiene i giovani imprenditori

Occupazione femminile, un passo avanti e due indietro nella riforma del lavoro rivista dal Senato

Lo scorso 31 maggio il Senato ha approvato la riforma del lavoro, che è ora in esame alla Camera. Il governo aveva posto il giorno prima la fiducia su  quattro maxi emendamenti, sostitutivi del testo presentato dall’esecutivo lo scorso 4 aprile. Un aspetto rilevante del ddl Fornero si riferisce alle misure di tutela dell’occupazione femminile, dagli incentivi all’occupazione ai voucher per i servizi di baby-sitting, fino all’introduzione del congedo di paternità e agli interventi per contrastare la pratica delle dimissioni in bianco.A proposito di occupazione femminile, cosa cambia con il nuovo testo? Una delle modifiche più significative riguarda proprio la pratica delle dimissioni in bianco: si tratta di una lettera di dimissioni volontarie, che il datore di lavoro spesso fa firmare al lavoratore al momento dell’assunzione. Vengono dette «in bianco» perché la data viene inserita successivamente. Si tratta di una pratica utilizzata soprattutto con le donne: secondo dati Istat sono 800mila quelle costrette ad abbandonare il lavoro attraverso le dimissioni in bianco, nel 90% dei casi in seguito a una gravidanza. La riforma ha introdotto di nuovo delle misure di contrasto di questa pratica, già previste dalla legge 188 del 2007, poi abrogata: il testo del 4 aprile stabilisce che la richiesta di dimissioni vada presentata dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza oppure fino a  tre anni di vita del bambino (o di accoglienza del minore adottato o in affidamento). Il termine previsto dalla legge 188 era di un anno. La riforma ha poi introdotto due procedure di controllo della «genuinità e contestualità» di questo atto. Nel primo caso le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono essere convalidati dal servizio ispettivo del ministero del Lavoro competente per territorio. L’efficacia delle dimissioni è così subordinata a questa verifica. La seconda è la sottoscrizione di un’apposita dichiarazione in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, che il datore è già tenuto a inviare al centro per l’impiego. Nel momento in cui dovesse riscontrarsi un abuso, esso va considerato licenziamento discriminatorio. Tuttavia, per punire l’illecito il ddl Fornero prevede una semplice sanzione amministrativa, una multa da 5mila a 30mila euro. Il testo emendato ribadisce queste disposizioni, introducendo però una novità: nei sette giorni dalla ricezione dell’invito a presentarsi presso la sede del servizio ispettivo o a sottoscrivere la dichiarazione sulla base della seconda procedura, la lavoratrice «ha facoltà di revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale. La revoca può essere comunicata in forma scritta. Il contratto di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, torna ad avere corso normale dal giorno successivo alla comunicazione della revoca». In nessuna delle due versioni del testo di legge (quella del 4 aprile e i maxi emendamenti), si fa riferimento, invece, alla registrazione delle dimissioni su moduli numerati progressivamente, con una scadenza di 15 giorni, finalizzata a risalire al giorno delle dimissioni e a evitare che il modulo venga compilato prima.Se la reintroduzione delle misure di contrasto alla pratica delle dimissioni in bianco è sicuramente un elemento positivo, le modalità proposte per combattere il fenomeno sono state oggetto di critiche. Una delle sostenitrici del ripristino della legge 188 è stata la sindacalista ed ex parlamentare Titti Di Salvo, che ha spiegato alla Repubblica degli Stagisti le lacune contenute sia nel testo approvato il 4 aprile sia in quello del maxi emendamento. «La legge corregge l’abuso della firma in bianco, ma non lo previene, a differenza della 188/2007 che vincolava le dimissioni volontarie a un modulo numerato». La novità della revoca introdotta dal nuovo testo dovrebbe essere un’ulteriore arma a favore delle lavoratrici, in quanto concede loro una sorta di «diritto di ripensamento». In realtà, per la sindacalista, rischia di non esserlo: «Se una donna ha dato le dimissioni sotto ricatto, non è detto che questa costrizione non possa ancora sussistere». Anche la multa è considerata dall’ex parlamentare una misura troppo blanda per punire l’abuso. E se per le dimissioni in bianco si rischia di fatto di non intervenire in maniera incisiva sul problema, anche per il congedo di paternità il testo approvato dal Senato sembra segnare un passo indietro rispetto a quello del 4 aprile. L’articolo 56 del testo  elaborato dal ministro Fornero prevedeva che «il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, avesse «l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di tre giorni, anche continuativi», di cui due in sostituzione della madre. Il Senato ha modificato questo passaggio: adesso per il padre lavoratore dipendente l’obbligo di astenersi dal lavoro si limita a un solo giorno. Gli altri due diventano facoltativi: «Entro il medesimo periodo, il padre lavoratore può astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione». Insomma i giorni obbligatori passano da tre a uno, e che comunque due di essi vanno sempre «scalati» da quelli a disposizione della madre. Un ulteriore depotenziamento della norma, che già stabiliva un numero piuttosto ridotto di giorni di congedo rispetto anche a quanto accade nel resto d’Europa.Un'altra modifica relativa alle misure per favorire la conciliazione tra famiglia e lavoro, stavolta migliorativa, riguarda i voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting e per gli asili pubblici o privati accreditati. Il testo approvato il 4 aprile prevedeva la corresponsione di voucher dalla fine della maternità obbligatoria per gli undici mesi successivi, in alternativa all’utilizzo del periodo di congedo facoltativo per maternità. Il voucher è erogato dall’Inps e il suo importo è regolato sui parametri Isee della famiglia. Se la norma approvata dal governo stabiliva l’utilizzo di questo servizio solo per chi volesse avere una baby-sitter, il testo emendato introduce anche la possibilità di servirsene per far fronte alle spese dei «servizi pubblici per l’infanzia o dei servizi privati accreditati». L’ex ministro della Gioventù e onorevole del PdL Giorgia Meloni, membro della Commissione Lavoro alla  Camera, commenta così con la Repubblica degli Stagisti le nuove disposizioni: «Apprezzo la volontà di favorire la conciliazione degli impegni professionali e familiari. In questo caso, però, ci sono stati poco coraggio e troppo timore. Sarebbe stata opportuna una seria politica di sgravi fiscali alle imprese che assumono giovani madri o giovani donne in età fertile. I voucher per i servizi di baby-sitting sono una buona idea ma mi rammarica il fatto che si tratti di un provvedimento alternativo al congedo di maternità facoltativo e non integrativo». Non cambia, invece, nulla sotto il fronte incentivi all’occupazione femminile: resta valido quanto previsto dall’articolo 53 del testo originario del disegno di legge, che prevede agevolazioni per «le assunzioni, a partire dal primo gennaio 2013, di donne di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi» e di «donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, ovunque residenti».Chiara Del PriorePer approfondire questo argomento, leggi anche: - Occupazione femminile, Alessia Mosca: «Buoni spunti nella riforma, ma si può fare di più»- Riforma Fornero, nuovi incentivi all'occupazione femminile: ecco chi potrebbe beneficiarne e come- Congedo di paternità obbligatorio, passo in avanti verso l'Europa- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

Aspi, Miniaspi e una tantum: come sono usciti dal Senato gll ammortizzatori per chi perde il lavoro

In attesa del via libero definitivo della Camera, gli emendamenti approvati dal Senato al ddl Fornero introducono novità rilevanti in tema di ammortizzatori sociali. A conti fatti, secondo stime della Banca d'Italia, la riforma del lavoro dovrebbe estendere la platea di beneficiari del 16%, dal 50 al 66% circa dei lavoratori disoccupati. Un passo avanti, certo, ma non ancora una riforma a vantaggio di tutti, nonostante il principio di universalismo cui si rifà la stessa Fornero. Resta infatti escluso un 34% di professionisti che, pur essendo privi di lavoro, non rientrano nei requisiti minimi previsti per accedere ai nuovi ammortizzatori in vigore già a partire dal 2013. E che devono ancora fare affidamento (quando possibile) sul sostegno della famiglia. Tra le novità introdotte dal Senato, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, i lavoratori che abbiano diritto all’Assicurazione sociale per l'impiego (Aspi) possono chiederne la liquidazione in un’unica soluzione di tutte le mensilità non ancora percepite, a patto però che si accingano a intraprendere un’attività di lavoro autonomo, avviare un’impresa o associarsi in cooperativa. In pratica, l’Aspi diventa così una sorta di “liquidazione” che può essere sfruttata per mettersi in proprio. Questa misura, potenzialmente utile per sostenere il tessuto micro-imprenditoriale italiano, incontra però un importante limite dettato dallo stesso emendamento che la introduce (al comma 19 dell’art. 2): le risorse a disposizione sono pari ad appena 20 milioni di euro. Una volta distribuito tale importo, quindi, non sarà più possibile richiedere la liquidazione dell’Aspi in un’unica soluzione.Il testo approvato dal Senato specifica che sarà il ministero del Lavoro, di concerto con quello dell’Economia, ad emanare un decreto entro 180 giorni dall’entra in vigore della riforma, per regolare le modalità, i limiti e le condizioni per l’attuazione delle disposizioni. Ad oggi, però, sembra lecito sospettare che, come per altre misure che prevedono un tetto alle risorse disponibili, prima fra tutte la stessa indennità una-tantum per i cococo e cocopro, varrà il principio in base al quale i primi arrivati potranno usufruire dell’Aspi in versione liquidazione; raggiunta la soglia dei 20 milioni, semplicemente, verranno chiusi i rubinetti e anche gli aspiranti imprenditori dovranno accontentarsi di ricevere l’ammortizzatore in comode rate mensili, senza poter usare la liquidità come leva per ottenere finanziamenti e avviare le attività.Sempre in tema Aspi ci sono poi altre novità di minore importanza. In particolare, il contributo addizionale pari all’1,4% della retribuzione, che normalmente grava sui datori di lavoro per i rapporti non a tempo indeterminato, era prima escluso solo per i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali fissate dal decreto 1.525 del 7 ottobre 1963 (qui il testo con l’elenco completo). Il pacchetto emendamenti estende l’esclusione, per i periodi contributivi che vanno dal 2013 al 2015, anche alle attività stagionali che non sono specificate dal decreto del presidente della Repubblica, ma che vengono definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 2011. Ci saranno quindi tre anni di adeguamento per i datori di lavoro che utilizzano contratti a tempo determinato per attività di tipo stagionale, prima che il contributo aggiuntivo gravi anche su di loro. L’emendamento determinerà una riduzione delle entrate pari a 7 milioni l’anno per tutto il triennio.Sul fronte della Miniaspi, sparisce dall'art. 20 ogni riferimento al mancato raggiungimento delle 52 settimane di contribuzione (richieste per accedere all’Aspi). L’unico requisito rimasto nel testo approvato dal Senato è che i lavoratori possano far valere almeno 13 settimane di contribuzione di attività lavorativa negli ultimi 12 mesi, per la quale siano stati versati o siano dovuti i contributi dell’assicurazione obbligatoria. Ovviamente, resta implicito che i lavoratori con 52 settimane di contribuzione accedano all’Aspi: la modifica, quindi, sembra più che altro formale.Gli emendamenti approvati dal Senato, dunque, non vanno nella direzione indicata dal relatore della Commissione lavoro della Camera Cesare Damiano (Pd), il quale aveva suggerito di rimandare l'entrata in vigore dell'Aspi di un anno a causa del prolungarsi della crisi economica ben oltre il 2012. Il timore, secondo Damiano, è che le aziende possano aumentare i processi di ristrutturazione e di mobilità creando un picco di disoccupazione socialmente inaccettabile. Uno scenario simile mal si concilia con i nuovi ammortizzatori, che proteggono i lavoratori per periodi più brevi, senza peraltro essere universali.L’indennità una-tantum per i collaboratori coordinati e continuativi disoccupati, infine, sarà sottoposta a un periodo di prova negli anni 2013, 2014 e 2015. In questo triennio la misura sarà di fatto potenziata: prima di tutto, il requisito relativo alle mensilità accreditate presso la Gestione separata dell’Inps è ridotto da 4 a 3, aumentando la platea potenziale di interessati. Inoltre l’importo dell’indennità è aumentato dal 5 al 7 per cento del minimale annuo (da moltiplicare per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione). Infine, le risorse disponibili per l’erogazione delle indennità sono integrate da un contributo straordinario di 60 milioni di euro l’anno, che va a sommarsi ai 54 milioni di euro l'anno destinati dal Fondo per l'occupazione previsto dalla legge 2 del 2009. Cosa accadrà nel 2016? Tutto dipende dalle valutazioni sul funzionamento dell’indennità nei prossimi tre anni. Se la misura dimostrerà effettivamente di rispondere alle esigenze di sostegno ai cococo e cocopro in misura proporzionale all’onere per lo Stato (ovvero: se il gioco varrà la candela), l’indennità una-tantum potrebbe restare in forma normale o, eventualmente, potenziata da nuove disposizioni normative. In caso contrario, potrebbe essere sostituita del tutto dalla mini-Aspi, come suggerisce sin d’ora l’emendamento approvato dal Senato.di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- I tirocini nel mezzo del cammin della riforma- Cocopro, partite Iva e stipendi dei precari: le proposte dell'emendamento Castro-Treu- Contratto di inserimento addio: ecco l'unica tipologia abrogata dalla riforma

Partite Iva, associati in partecipazione e interinali: la riforma dopo il passaggio in Senato

Entro il prossimo 28 giugno il Parlamento potrebbe dare il via libero definitivo alla riforma del mercato lavoro. La nuova deadline è stata resa nota da Gianfranco Fini, presidente della Camera - dove il disegno di legge è arrivato a fine maggio dopo essere stato approvato dal Senato. Rispetto al testo originario presentato dal ministro Fornero lo scorso 4 aprile, quello giunto a Montecitorio contiene tuttavia novità importanti (e non sempre positive) anche per quanto riguarda le partite Iva, gli associati in partecipazione e i lavoratori in somministrazione. Tipologie utilizzate nella maggior parte dei casi  per inquadrare i lavoratori più giovani. Autonomi. Per quanto riguarda il variegato universo degli autonomi, nelle scorse settimane la Repubblica degli Stagisti aveva calcolato in circa 350mila i potenziali destinatari della riforma. Un esercito di “false partite Iva” che a distanza di un anno dall’entrata in vigore della legge avrebbero potuto o trasformarsi in collaboratori coordinati e continuativi per i rispettivi committenti o, nelle ipotesi peggiori, vedere interrotti molti degli attuali rapporti di lavoro.  Ma nella nuova formulazione il ddl Fornero propone una versione assai depotenziata dell’originario art. 9. Intanto perché restringe - seppure di poco - due dei tre requisiti necessari per individuare il falso autonomo. Ferma restando la condizione della postazione fissa presso la sede del committente, la durata massima della collaborazione per uno stesso datore di lavoro si allunga infatti da 6 a 8 mesi nel corso dell’anno solare. Anche il tetto delle fatture emesse dal collaboratore ad uno stesso soggetto viene ritoccata al rialzo, passando dal 75% all’80% del totale dei corrispettivi annuali. Le novità più significative si leggono tuttavia ai commi 2 e 3 del nuovo articolo 69bis della legge 276/2003 introdotto dal ddl, dove si elencano tutta una serie di casi di esclusione dal campo di applicazione della norma. Anzitutto si stabilisce una nuova soglia di reddito, fissata in circa 18mila euro lordi annuali (circa 800 euro netti mensili), al di sopra dei quali l’autonomo sarà in ogni caso considerato “autentico” per la legge. Insieme a questi professionisti, considerati autenticamente liberi benché sulla soglia della povertà, si ribadisce poi la parziale esenzione degli appartenenti agli ordini professionali per quanto riguarda lo svolgimento delle prestazioni per le quali è indispensabile essere iscritti «ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi professionali». Un passaggio che aveva già suscitato le critiche di molte associazioni di professionisti, che lamentavano l’oggettiva difficoltà nel distinguere tra attività svolte in qualità  iscritti o di non iscritti ad un determinato ordine professionale. Il governo sembra in effetti  aver preso atto del problema, affidando ad un decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali l’arduo compito di definire - entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge - un elenco puntuale delle attività soggette alle nuove disposizioni. In attesa di capire in quanti e quali casi le professioni regolamente saranno esentate, il perimetro della riforma si restringe ulteriormente se si considera il passaggio relativo a quelle prestazioni connotate «da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività». Con questa generica formula il dispositivo lascia presupporre un'esclusione dal nuovo regime della totalità dei prestatori di lavoro intellettuale, dal momento che una "formazione significativa” e una "esperienza rilevante” rappresentano due requisiti basilari per avviare qualsiasi collaborazione di questo tipo. Se, com’è possibile, il testo verrà approvato in questa forma anche dalla Camera sarà dunque piuttosto difficile parlare di un'autentica riforma del lavoro autonomo. In questo ambito la legge Fornero si limiterebbe di fatto a sanare la posizione di alcune migliaia di lavoratori inquadrati come autonomi per svolgere mansioni meramente esecutive e ripetitive, come nei casi limite dell’edilizia e del commercio. Associati in partecipazione. Proprio sul fronte del commercio il testo uscito da palazzo Madama conferma le modifiche peggiorative già apportate alla disciplina del contratto di associazione in partecipazione nella traduzione delle linee guida in ddl. Diffuso soprattutto tra commesse e commessi impiegati nelle attività commerciali, l’istituto è oggi uno dei più convenienti per la parte datoriale e in assoluto uno dei più rischiosi per il lavoratore. Che con questa formula partecipa agli utili ma anche alle eventuali perdite dell’impresa, pur svolgendo il lavoro tipico di un dipendente, per il quale percepisce mediamente anche un compenso inferiore. Dall’iniziale volontà di abolire l’istituto, si è infine optato per una restrizione ad un massimo di tre associati per impresa, esclusi i coniugi, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado dell’imprenditore. A vantaggio del lavoratore il ddl introduce tuttavia una sanzione più severa per il datore che utilizza impropriamente questo contratto: in caso sia accertata la violazione, l’associato si trasformerà d’ora in avanti in un dipendente a tempo indeterminato. Lavoratori in somministrazione. Sul fronte della somministrazione, la prima novità introdotta al Senato riguarda il raddoppio, da sei mesi ad un anno, della durata del primo contratto a tempo determinato stipulato in assenza di causale, senza cioè la necessità di indicare le ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive con cui l'impresa è sempre tenuta a  giustificare l’apposizione di un termine al rapporto di lavoro. La norma riguarda anche la prima missione (a termine) svolta dal lavoratore in somministrazione, incentivando così imprese e agenzie per il lavoro a stipulare nuovi contratti a tempo. Il governo non ha invece fatto sconti sulla richiesta avanzata da Assolavoro di esentare gli interinali dal costo aggiuntivo dell'1,4% che a partire dal 2013 si applicherà a tutti i contratti di durata prefissata, somministrati inclusi. Nulla di fatto anche per quanto riguarda la richiesta dell'associazione che riunisce le agenzie interinali di non computare i rapporti a tempo svolti in somministrazione nella somma dei 36 mesi oltre i quali il contratto a termine stipulato con lo stesso datore di lavoro si trasforma automaticamente in tempo indeterminato. L'ultima importante novità riguarda infine l'apprendistato in somministrazione: una tipologia contrattuale molto discussa, che nei mesi scorsi aveva spaccato il sindacato tra favorevoli (Cisl e Uil) e contrari (Cgil) alla possibilità di svolgere in questa forma i tre anni formazione-lavoro. Con una modifica dell'ultim'ora, la riforma blocca sul nascere la possibilità di impiegare apprendisti in somministrazione a tempo determinato. Ilaria CostantiniSu questo argomento leggi anche: - Partite Iva vere e false: cari senatori, 18mila euro all'anno sono un reddito sotto la soglia della dignità- I tirocini nel mezzo del cammin della riforma- Cocopro, partite Iva e stipendi dei precari: le proposte dell'emendamento Castro-TreuE anche:- Contratto di inserimento addio: ecco l'unica tipologia abrogata dalla riforma

Bando per stage pagati e incentivi all'assunzione in Puglia: le ragioni del ritardo

Aspettando Godot. Qualcuno ricorda il progetto per tirocini rimborsati e incentivi all'assunzione della Regione Puglia? Il 31 dicembre scorso era scaduto il bando valido per le imprese e da allora molti giovani pugliesi fremono per inviare le candidature. Sentendosi un po' come i protagonisti della celebre opera teatrale di Samuel Beckett: in eterna attesa e senza lumi. La Repubblica degli Stagisti ha interpellato il Servizio Politiche attive per il lavoro, titolare dell'iniziativa, per chiarire questo e altri dubbi sul progetto. E capire ad esempio se è davvero il caso di finanziare e avallare stage in panifici o centri di bellezza; perché quasi tutte le aziende offrono un solo posto di stage, e cosa succede in quel caso agli incentivi. E ancora, se e quanto ci guadagnano i datori di lavoro a prendere stagisti.È bene chiarire subito che i giovani che attendono, continueranno ad attendere ancora per molti mesi, forse addirittura fino all'inizio del prossimo anno. Perché, se è vero che l'iter del progetto in queste ultime settimane è stato riavviato, è vero anche che questa seconda fase ha come protagoniste di nuovo le aziende. Si tratta di una nuova fase di selezione dei soggetti ospitanti. Il lato aspiranti stagisti, invece, è bloccato da «difficoltà tecniche» nel mettere a punto un sistema informatico di match tra domanda e offerta di stage. Difficoltà che ancora adesso stanno causando il ritardo, spiega la dirigente del Servizio Luisa Anna Fiore. Per procedere con l'intervento uno - l'attivazione di stage pagati fino a 800 euro al mese - è necessario infatti stilare degli elenchi di disponibilità che contengano un identikit preciso dell'aspirante stagista: titolo di studio, conoscenze, competenze tecniche e trasversali etc. «Queste informazioni devono risultare immediatamente accessibili ai soggetti ospitanti, in modo che essi possano conoscere le candidature, provincia per provincia, selezionando, attraverso l'utilizzo di adeguati filtri, i curricula che presentano maggiore corrispondenza ai fabbisogni aziendali». Finché questa griglia di match non sarà pronta, la Regione non potrà aprire il bando agli aspiranti partecipanti.In più c'è un altro inghippo, stavolta legato alla parola «provincia». Il sistema informatico utilizzato è una vecchia conoscenza della Regione Puglia, Sintesi, approvato dalla giunta regionale nel 2002 all'interno del Piano di Azione Territoriale per l'e-government - e da allora finanziato a più riprese per un ammontare totale di circa 40 milioni di euro, come si deduce dalle varie delibere regionali. Il sistema però è stato creato per incrociare dati solo a livello provinciale: i Sintesi delle diverse province non dialogano tra loro e, ad esempio, un giovane leccese non può sapere di un'offerta proveniente dal territorio di Bari. Perché allora scegliere proprio Sintesi per l'attuazione di un bando regionale? Perché l'adattamento di un sistema vecchio e familiare si presentava comunque più agevole della costruzione di un altro ex novo. Ma siccome è indispensabile garantire mobilità geografica all'interno della Regione, il Servizio ha incaricato un proprio tecnico informatico di risolvere il problema. Pare che a questo punto manchi davvero poco: «si può ipotizzare la riapertura dei termini entro il mese di giugno», conclude la dirigente. La riapertura, come detto, riguarda di nuovo le aziende. Quando e come potranno farsi avanti i giovani allora? Sulle tempistiche il Servizio non si pronuncia; ma sulle modalità di domanda l'idea, ancora in fase di sviluppo, è quella di coinvolgere i centri pubblici per l'impiego - e solo loro - utilizzandoli come antenne per la raccolta e l'inoltro dei curricula. Incaricandoli di stilare poi le famose liste di disponibilità. Per i futuri soggetti ospitanti - imprese, cooperative, consorzi - che potranno ospitare stagisti finanziati dalla Regione e godere di incentivi qualora ne assumano almeno la metà, a valere su un budget di 15 milioni di euro fino ad esaurimento fondi, non sarà però obbligatorio impegnarsi ad attingere a questi elenchi: potranno anche individuare autonomamente gli stagisti, perdendo così solo il diritto a qualche punto in più in graduatoria. In ogni caso gli stagisti non sceglieranno, ma verranno scelti. Intanto a fine marzo è stata completata la prima fase di selezione delle aziende vincitrici, quelle che potranno ospitare cioè gli stagisti. E la lista contiene parecchie sorprese. Ha senso, ad esempio, attivare tirocini fino a 960 ore (sei mesi full time) in un panificio-biscottificio, un bar, un beauty center, piuttosto che presso un hair stylist - ergo un parrucchiere? Serve davvero così tanto tempo per imparare le basi dei relativi mestieri? «I progetti formativi sono stati oggetto di valutazione da parte dei centri per l'impiego e delle organizzazioni sindacali e datoriali di appartenenza, con criteri particolarmente rigorosi» ribatte la Fiore. «E l'esperienza dimostra come la formazione scolastica, anche negli istituti tecnici, sia prevalentemente di natura teorica; quindi un più ampio periodo di tirocinio assicura l'acquisizione di quelle abilità tecnico-pratiche di cui il giovane, generalmente, nella fase di ingresso nel mercato del lavoro non risulta in possesso». Oltre i due terzi delle imprese vincitrici del resto cercano proprio diplomati da istituti tecnici e professionali: periti informatici, industriali, elettrotecnici, agrari; estetiste, parrucchieri - andrà a finire come con gli stage-vergogna della Sardegna? Pochissimo spazio invece per i laureati.Eppure la Regione si era dimostrata particolarmente sensibile al pericolo che il tirocinio si tramutasse in lavoro a costo zero. Si leggeva infatti nel primo bando: «Sono escluse dal finanziamento le imprese operanti: nei settori dell'industria carboniera, siderurgica, della costruzione navale, fibre sintetiche e agricoltura; in attività connesse all'esportazione [...]; in settori condizionati all'impiego di prodotti interni rispetto ai prodotti d'importazione; che esercitino attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli». Queste però sono alcune delle ragioni sociali che compaiono nelle graduatorie dei vincitori: Gentile  Costruzioni srl,, Diamante Costruzioni srl, ML Costruzioni srl, Ortofrutta Congedi. Inevitabile che il campanello d'allarme scatti. La dirigente Fiore spiega: «Il paragrafo D dell'avviso pubblico, in effetti, prevede alcune esclusioni. Le imprese citate, secondo quanto risulta dalle dichiarazioni rese nella istanza di partecipazione, al codice Ateco [utilizzato dall'Istat per classificare le attività economiche, ndr] e all'attività aziendale, non rientrano nelle predette esclusioni. Non si tratta in realtà di imprese che effettuano costruzione navale, né che svolgono attività agricola primaria». A dispetto dei nomi. Ancora uno sguardo a queste prime graduatorie: quanti percorsi di tirocinio potrebbero essere attivati? La stragrande maggioranza delle istanze ammesse, 73 su 84, ne prevede uno solo, trattandosi appunto di piccole realtà imprenditoriali. C'è una sola, grossa, eccezione. Un gigante tra i pigmei: Alenia Aeronautica del gruppo Finmeccanica, che in Puglia ha due sedi in forte espansione a Foggia e a Grottaglie, dove i tirocini disponibili in totale sono addirittura 65 [a fianco, la vicepresidente della Regione Loredana Capone in un incontro ufficiale a Parigi con l'amministratore delegato di Alenia, Giuseppe Giordo]. Nulla di strano per il Servizio politiche attive per il lavoro: è stata semplicemente valutata la dimensione aziendale e applicata la normativa sugli stage. Un'altra forte disomogeneità è rappresentata dalla distribuzione territoriale delle imprese: circa l'80% sono in provincia di Foggia, con la località di San Marco in Lamis indiscussa capofila della lista. «Al momento non possediamo elementi che consentano di spiegare» questa circostanza, ammette la Fiore. «Sarà interessante vedere se tale tendenza sarà confermata anche all'indomani della riapertura dei termini. Certamente, sarebbe auspicabile una distribuzione omogenea sul territorio regionale». E un altro dubbio emerge: il bando garantisce incentivi all'assunzione solo se l'impresa assume almeno la metà dei tirocinanti ospitati, calcolati per difetto sui numeri dispari (se ne ha cinque è sufficiente tenerne due). Come ci si regola allora nel caso in cui ci sia un solo stagista, in cui il criterio "almeno la metà" non può essere applicato? «Il bonus assunzionale verrà erogato qualora si proceda all'assunzione, nei termini previsti».A questo punto non rimane che attendere ancora: prima la riapertura dei termini per le candidature delle imprese, e poi la pubblicazione del bando per i giovani. Alla prossima puntata dunque. Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Regione Puglia, tirocini pagati e incentivi all'assunzione: in chiusura il bando per le aziende. E nel 2012 sarà la volta dei ragazzi- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini- La Regione Sardegna promuove stage-vergogna: 10 milioni di euro per tirocini di sei mesi come inservienti, operai, camerieri. E perfino braccianti agricoli- Un anno di Soul, il servizio di placement pubblico delle università del Lazio

Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia

Il decreto Sviluppo votato ieri dal consiglio dei ministri ha eliminato il limite di età: d'ora in avanti chiunque potrà fondare una ssrl, anche gli over 35. Peccato che fino ad oggi non ci siano riusciti nemmeno gli imprenditori più giovani. Sì, perchè della società semplificata a responsabilità limitata, la cosiddetta «impresa a 1 euro», si sono perse le tracce. Il governo Monti con il decreto 1/2012, poi convertito nella legge 27 approvata il 24 marzo, aveva istituito questa formula societaria per i giovani. Condizione per fondarla: che i soci, alla data della firma dell'atto costitutivo, non avessero ancora compiuto il 35simo anno di età. Un limite che ieri è stato cancellato. Obiettivo dichiarato della norma originaria era quello di favorire l'imprenditoria giovanile, sia riducendo i costi di avviamento che snellendo gli aspetti burocratici. In particolare abolendo l'imposta di bollo (65 euro) e i diritti di segreteria (92,60 euro), oltre agli oneri notarili, quantificabili tra i 600 e gli 800 euro. E concedendo di versare un capitale sociale pari a 1 euro anziché 10mila. Un elemento, quest'ultimo, che non ha mancato di suscitare qualche critica. Una su tutte: come potranno queste aziende accedere al credito? Chi si fiderà a diventare loro fornitore visto che il capitale sociale, la garanzia in caso di mancato pagamento, è pari ad appena un euro? Anche per rispondere a queste sollecitazioni l'esecutivo ha deciso ieri che il 25% degli utili dovrà essere accantonato fino a che non sarà raggiunta la somma di 10mila euro, che diventeranno il capitale sociale dell'azienda.La legge votata a marzo ha creato intorno a sé una grande attesa. Il testo prevedeva che entro 60 giorni dall'approvazione il governo avrebbe emesso un decreto attuativo, all'interno del quale avrebbe definito un modello standard di statuto societario. Quest'ultimo elemento è il 'grimaldello' che permette di abbattere i costi legati ai notai - che non dovrebbero più elaborare un atto, ma limitarsi a riempire il modulo tipizzato con i dati anagrafici dei soci. I 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale sono però scaduti il 25 maggio, e del decreto attuativo nemmeno l'ombra. Un ritardo che viene segnalato anche da alcuni diretti o indiretti interessati, come Franco Meloni sul blog aladinpensiero e Maurizio Frontera con una lettera pubblicata sul sito del senatore Pietro Ichino. «La legge viene applicata con comodità» è il commento amaro di Meloni [nella foto a sinistra]. Suo figlio Francesco, grafico 32enne, ha ricevuto un finanziamento nell'ambito del progetto Promuovidea: inizialmente pensava di dar vita ad una società individuale, ma si è fermato in attesa che venisse definita la ssrl. Il risultato è che è ancora fermo. Il padre, dopo aver scritto più volte ai ministeri competenti, è finalmente riuscito ad ottenere una risposta. In pratica, il ministero dell'Economia e quello dello Sviluppo economico hanno fatto la loro parte, inviando la documentazione al ministero della Giustizia il 18 maggio. Quest'ultimo, il 25 maggio, ha trasmesso il tutto al Consiglio di Stato, chiamato ad esprimere un parere ai sensi della legge 400 del 1988.Peccato però che la richiesta sia partita in grandissimo ritardo: proprio il giorno in cui la legge avrebbe dovuto diventare pienamente operativa. Il CdS si è mosso anche in fretta, esaminando la questione lo scorso 7 giugno, ma il relatore non ha ancora messo per iscritto la decisione dei giudici. Stando al regolamento avrebbe un anno di tempo per farlo: ma, assicurano dall'ufficio stampa di Palazzo Spada, il parere verrà consegnato in «tempi brevi». Quanto, non si sa. Il Consiglio di Stato esprimerà le proprie osservazioni in un parere non vincolante che il ministero potrà recepire in tutto o in parte. Nel caso in cui il guardasigilli decida di modificare il decreto attuativo dovrà poi rimandare il testo perchè venga approvato dal ministero dell'Economia e da quello dello Sviluppo economico. A questo punto almeno non sarà più necessario un secondo passaggio al CdS.Intanto, mentre la burocrazia è al lavoro, i giovani aspiranti imprenditori aspettano. Il problema per loro non riguarda solo la frustrazione ben riassunta da Frontera che, nella sua lettera a Ichino, si definisce «un giovane cittadino italiano che dà l’ultima possibilità al suo Paese prima di andare via». Al danno si aggiunge una piccola beffa: il parere del Consiglio di Stato è solo consultivo, non vincolante. In altre parole, paradossalmente il ministero della Giustizia potrebbe anche decidere di ignorarlo. Intanto però aspetta di riceverlo prima di pubblicare il decreto attuativo - e di dare dunque la possibilità di fondare una ssrl.  L'inerzia dell'esecutivo rispetto a questo provvedimento crea qualche malcontento all'interno della stessa maggioranza. La deputata Amalia Schirru [nella foto a destra] insieme ad alcuni colleghi del gruppo del Partito democratico ha infatti depositato lo scorso 6 giugno un'interrogazione parlamentare per chiedere al ministro Paola Severino «quali iniziative si intendano avviare perché venga adottato con la massima urgenza il provvedimento», così che si possano dare «risposte certe e rapide ai nuovi imprenditori».I quali è bene che sappiano fin da subito che, anche quando il decreto attuativo verrà pubblicato, non potranno pensare di avviare un'attività con un solo euro. Lo slogan si riferisce infatti al solo capitale sociale ma ci sono alcune spese che il governo non ha affatto abolito: per fondare una società semplificata occorre comunque versare l'imposta di registro (168 euro), la tassa annuale per la bollatura dei libri contabili (309,87 euro) e l'iscrizione alla Camera di Commercio (200 euro). Sarà anche semplificata, insomma, ma l'«impresa a 1 euro» ne costa quasi 700.  In più, gli over 35 che decideranno di usufruire di questa tipologia dovranno pagare l'imposta di bollo sull'atto costitutivo e sui libri contabili. Il testo approvato dal governo stabilisce poi che «il ministero della Giustizia fissa l’importo massimo per il rimborso delle spese generali che il notaio può chiedere nel caso in cui i soci abbiano età superiore ai 35 anni». In ogni caso, al momento, sia over sia under 35 aspiranti fondatori di società semplificate a responsabilità limitata  restano in attesa - e ancora non si sa per quanto. Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter- Matteo Achilli e Davide Cattaneo, due giovani imprenditori si raccontano

Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter

«Quando mi si è presentata quest'occasione, ho capito che non potevo rimandare». Sarà stato il dna imprenditoriale - la madre ha un negozio per bambini, il padre un'azienda di sanitari - fatto sta che quando si è trovata di fronte alle condizioni giuste, Monica Archibugi non ha esitato. Ed ha fondato «Le Cicogne».Quasi 24 anni, al primo anno del biennio di specializzazione in Economia e gestione delle imprese e dei servizi sanitari alla Cattolica di Roma, ha trasformato il passaparola in impresa. Sì, perché Lecicognebabysitter è un sito dove i genitori possono trovare studentesse universitarie disponibili ad accudire i loro figli, ad andarli a prendere a scuola, ad aiutarli a fare i compiti. «Lavoro da quando ho 18 anni. Ho fatto la commessa in diversi negozi, ho avuto un posto da segretaria, ho svolto anche un tirocinio in università. E ho fatto anche la babysitter: ma all'inizio solo sporadicamente».Col tempo, Monica si è resa conto che «era il lavoro più comodo: si svolgeva vicino casa ed era quello maggiormente remunerativo». E garantiva 8 euro l'ora contro i 6 euro guadagnati facendo la commessa o la segretaria. Senza contare che si trattava di un impegno più flessibile e meno gravoso in termini di tempo. L'idea che ha permesso di fondare un'impresa è arrivata quando «mi è stato chiesto di accompagnare, con la mia macchina, una bambina a fare sport». Da qui è nato il «baby-taxi», uno dei servizi offerti dalle Cicogne. «In poco tempo la voce si è sparsa e io non facevo altro che girare per andare a prendere i bambini a scuola e portarli in palestra, a lezione di musica, alle feste di compleanno». Le richieste erano così tante che «non riuscivo più a gestire la domanda. Allora ho coinvolto delle amiche».È stato in questo momento che ha visto «un'occasione d'oro per fare incontrare la domanda dei genitori e l'offerta delle ragazze», capendo che non era possibile rimandare: «Se avessi aspettato, avrei perso i contatti con i genitori. In più, le ragazze arrivavano da sole, grazie al passaparola. Ho visto un bisogno e ho voluto approfittarne per creare un business». Ecco quindi che, nell'ottobre dello scorso anno, è nato il sito: pensato per ragazze che hanno dai 18 ai 28 anni, che ancora studiano oppure si sono appena laureate e cercano un lavoro. E intanto arrotondano facendo le babysitter.L'esistenza ufficiale delle Cicogne, con la dichiarazione di inizio attività e l'attivazione della partita Iva, è avvenuta però solo a febbraio 2012. «Mi ero rivolta alla Camera di commercio di Roma ma, registrando così la mia attività, avrei dovuto pagare ogni tre mesi 800 euro all'Inps, una cifra che non guadagno nemmeno ora». Continuando ad informarsi su Internet, Monica ha realizzato di possedere le caratteristiche di un lavoratore autonomo: «A quel punto sono andata all'Agenzia delle entrate dove è bastata una mattinata per ottenere la mia partita Iva». Nessun capitale versato, quindi, ma solo le spese di creazione e registrazione del sito, i volantini pubblicitari, i biglietti da visita e il materiale di cancelleria. Circa 2mila euro di risparmi che la giovane ha voluto investire per dare vita alla sua attività. Senza bisogno di un ufficio: «Lavoro da casa, dove ho collocato la sede legale», e grazie a degli amici disposti ad aiutarla nella realizzazione del sito, le Cicogne sono finite online.Ma come funziona questo portale? In pratica, fa incontrare domanda ed offerta. Ai genitori l'utilizzo del sito non costa nulla, visto che versano quanto dovuto direttamente alle ragazze (chiamate «cicogne»). Per ogni attività viene segnalato un prezzo di massima, ma Monica tiene a sottolineare che non prende alcuna percentuale: «Si tratta solo di indicazioni per aiutare i genitori e le babysitter a definire il costo del servizio». Resta, al momento, un problema: verificare che i pagamenti non avvengano in nero. «Purtroppo ancora non ho un meccanismo che mi consenta di farlo» ammette «ma io esorto le famiglie ad utilizzare modalità di pagamento regolari come i buoni lavoro o i contratti di tipo occasionale, addirittura part-time per quelle giovani che lavorano di più. Il problema più comune è la scarsa conoscenza: molti non conoscono queste tipologie o pensano che siano troppo complicate». L'intenzione, però, è quella di implementare il sito con una sezione informativa dedicata a queste tematiche.I ricavi di quest'attività arrivano dunque dalle babysitter: 20 euro per registrarsi sul sito, più un rinnovo mensile dell'iscrizione, a partire dal terzo mese, di 10 euro. Per ora i pagamenti avvengono solo in contanti, in futuro anche online. «Sono partita a ottobre con cinque amiche, oggi abbiamo superato le 150 iscrizioni anche se le ragazze attive sono novanta». Cui si aggiungono anche dieci «Cicogne blu», ragazzi disponibili innanzitutto per le ripetizioni ma piano piano anche per le altre attività. A loro il compito di occuparsi dei figli di oltre un centinaio di famiglie che utilizzano i servizi offerti. Ovvero il classico babysitting, il «baby taxi» che ha dato vita a questa realtà e il «baby teaching»,  appunto le lezioni a domicilio.Come vengono scelte, però, le cicogne? «Conosco personalmente tutte le ragazze e i ragazzi e questo è un fattore fondamentale. Voglio essere sicura che siano tutti educati, gentili, disponibili e soprattutto volenterosi». Una volta arruolati, è direttamente Monica a scegliere quale inviare nelle singole famiglie sulla base di tre criteri: la disponibilità nei giorni richiesti, la vicinanza, l'anzianità di registrazione sul sito. In futuro però questo meccanismo cambierà: «Voglio modificare il portale dando alle ragazze la possibilità di rendersi disponibili per una o più offerte. A quel punto i genitori potranno scegliere, tra le persone disponibili, una sola persona, in base alle referenze e ad un sistema di feedback che misuri il gradimento del servizio che verrà implementato sul nuovo sito». Prima di assumere una ragazza le famiglie non avranno accesso «alla foto, al cognome e nemmeno al cellulare». Questo «per evitare discriminazioni e per evitare che vengano sommerse di telefonate, magari anche per dei lavori troppo lontano da casa loro».Una volta entrate in contatto con le famiglie, però, perché le Cicogne dovrebbero rimanere attive sul portale? «Per due motivi» risponde sicura Monica: «Intanto per trovare altre offerte di lavoro ed incrementare i guadagni, e poi per assicurarsi una sostituta in caso di necessità». Il sito offre infatti anche questo servizio, possibile grazie al fatto che «i genitori si fidano». Anche se è capitato che, dopo i primi due mesi, qualche cicogna abbia abbandonato il nido per continuare in solitaria. «Io sono felice comunque. Non voglio obbligare nessuno a rimanere registrato. E poi possono tornare in qualsiasi momento».Fin qui il presente. Le prospettive per il futuro, però, non mancano. Un vero e proprio boom di contatti il sito li ha registrati dopo che, a fine marzo, Monica ha partecipato ad una puntata di «PiazzaPulita», il programma di Corrado Formigli su La7. Oltre a raccontare della sua esperienza di imprenditrice, la giovane ha avuto modo di dire la sua anche sulla modifica dell'articolo 18: «Licenziare più facilmente non è un tabù, anzi dovrebbe essere un modo per incentivare le persone a dimostrare che possono dare di più».Anche grazie a questa visibilità mediatica, che ha portato «Le Cicogne» perfino sul Corriere della Sera, Monica punta ad espandere la sua attività: al momento sta partecipando ad un corso per start-up chiamato InnovAction Lab. Iniziato a metà aprile, entro fine giugno le permetterà di elaborare un business plan da presentare ad alcuni potenziali investitori. E chissà che tra loro Monica non trovi qualcuno disposto a spendere i 3mila euro necessari per modificare il sito, allargando così il volo delle Cicogne dalla sola città di Roma a tutta l'Italia.Riccardo SaporitiVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- Milano si impegna per attrarre i cervelli in fuga- Regione Piemonte, un milione di euro per chi sostiene i giovani imprenditori

Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all'osso

L'articolo 34 della Costituzione recita «La scuola è aperta a tutti», e aggiunge: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Studiare è dunque un diritto, anche se l'istruzione superiore comporta costi non sempre facili da sostenere: le tasse universitarie variano a seconda dell'ateneo e del corso di laurea, ma l'importo rimane sempre piuttosto elevato. A questo scopo a partire dagli anni Novanta ogni Regione ha istituito per legge un ente per il diritto allo studio universitario che si occupa di garantire l'accesso allo studio e agevolazioni per la vita quotidiana degli studenti sotto varie forme: borse di studio che coprono parzialmente o totalmente l'importo delle tasse; assegnazione di alloggi presso strutture legate all'università (casa dello studente); servizio mensa gratuito; buoni per l'acquisto dei libri di testo; contributo per usufruire del trasporto pubblico locale. Il fondo per il diritto allo studio è regolamentato dalla legge 390/91, che prevede che esso sia erogato in parte dal ministero dell'Istruzione e in parte dalle Regioni, le quali integrano lo stanziamento ministeriale con fondi propri con i proventi delle tasse regionali per il diritto allo studio universitario. Le agevolazioni sono erogate con un bando che viene indetto annualmente e che prevede la formulazione di una graduatoria basata sul reddito (certificato con attestazione Iseeu) e sul conseguimento di un numero minimo di crediti nell'arco dell'anno accademico.Alcuni dati riguardo l'accesso ai servizi per il diritto allo studio sono rilevabili dall'ultimo rapporto annuale Almalaurea, che riguarda oltre 190mila studenti che si sono laureati nel corso del 2010 nelle 57 università italiane facenti parte di questo consorzio. Secondo l'indagine i servizi maggiormente utilizzati dagli studenti sono il servizio mensa (55%), il prestito libri (39%) e la borsa di studio. In particolare, sono circa 45mila gli studenti laureati nel 2010 che hanno beneficiato della borsa di studio, meno di un quarto del totale - e peraltro uno su tre ne ha ritenuto inadeguato l'importo. La fruizione della borsa di studio è maggiore per le università del Sud e delle Isole (28%). Poco più di un terzo degli studenti ha invece usufruito di un alloggio o posto letto, per esempio un monolocale o una stanza in appartamento privato, ma di questi solo il 4,1% ha abitato in strutture messe a disposizione dall'università.Nella relazione di Federconsumatori sul costo della vita per gli studenti universitari si scopre poi che le tasse di iscrizione all'università hanno un importo medio compreso tra 515 e 866 euro annui. Il picco massimo supera i mille euro nella fascia di reddito massima degli studenti iscritti alle facoltà del Nord. Il costo medio nazionale per l'acquisto di libri e materiale didattico è 625 euro, mentre per mettere un tetto sopra la testa ai propri pargoli fuorisede le famiglie sborsano mediamente 3.900 euro all'anno (per una stanza singola) oppure 2.790 (se ci si accontenta di un posto letto in doppia). Qualche esempio concreto per le città dove l'afflusso di studenti è maggiore: a Perugia una camera singola costa 250-350 euro al mese e una doppia 200-250 euro, mentre a Bologna l'affitto di una singola è 400-500 euro al mese e una doppia 300-350 euro.I tagli al diritto allo studio operati dall'ultimo governo Berlusconi, con provvedimento congiunto da parte dei ministri Gelmini e Tremonti all'interno del cosiddetto «ddl stabilità», hanno ridotto - all'interno del bilancio di previsione - da 246 a poco meno di 26 milioni di euro i finanziamenti per l'anno accademico in corso. Con l'effetto collaterale che 29mila studenti (circa il 20% del numero complessivo degli aventi diritto), pur figurando vincitori di borsa, non hanno potuto beneficiarne. E per il 2013 è previsto una ulteriore riduzione che porterebbe i fondi a soli 12 milioni di euro: il 95% in meno rispetto a soli due anni fa - a meno che non intervengano di nuovo correzioni a fine anno. Le conseguenze di questo provvedimento si stanno delineando in diverse Regioni, che attraverso i mezzi di informazione locali provano a denunciare la situazione che potrebbe verificarsi a partire dal prossimo anno accademico. Qualche esempio. L'ultima in ordine di tempo è il Piemonte, dove si prevede un taglio di 9 milioni di euro a Edisu, l'ente piemontese per il diritto allo studio, circa il 60% in meno rispetto a quanto erogato fino a oggi (4mila borsisti in meno rispetto allo scorso anno accademico). Non solo: ai requisiti già presenti per entrare in graduatoria si è aggiunto l'obbligo di una media di voti non inferiore a 25/30, pena l'esclusione.Situazione analoga anche in Sicilia, dove il taglio del 30% rispetto all'anno scorso potrebbe portare alla chiusura delle mense universitarie, una drastica riduzione degli alloggi e il taglio di oltre la metà delle borse di studio finora erogate (circa 2mila all'anno).La Liguria ha invece deciso di azzerare completamente le borse di studio per le prossime matricole: negli ultimi due anni è stata l'Azienda regionale a coprire il totale dei rimborsi per gli studenti aventi diritto, ma con i recenti tagli questo non sarà più possibile.Questo problema sta gradualmente toccando tutte le regioni italiane. In un clima di crisi economica come quello che stiamo vivendo si parla molto di crescita e rilancio all'impresa, ma forse si dimentica che per accedere al mondo del lavoro bisogna prima avere un'istruzione. E se l'istruzione diventa un lusso, si genera una condizione di immobilità per cui solo i figli di famiglie abbienti possono accedere ai livelli più alti del percorso di studi. In barba a quel diritto costituzionale che dovrebbe essere invece garantito sopratutto ai «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi».Marta Traversocon la collaborazione di Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Università, i corsi iper-professionalizzanti non sempre pagano- Master post-laurea, un giro d'affari da 100 milioni di euro. E se la "bolla" stesse per sgonfiarsi?

Provincia di Padova, giallo sulle linee guida per i tirocini di qualità

Una maggioranza che approva linee guida per garantire stage di qualità, ma poi non le applica. O almeno non a tutti i tirocini. Un'opposizione, che pure ha collaborato a questo provvedimento, che annuncia un'interrogazione per far luce sull'accaduto senza presentarla mai - almeno a quanto risulta agli uffici della segreteria del consiglio provinciale. Insomma un vero e proprio giallo. Succede a Padova, dove lo scorso 22 novembre la giunta di centrodestra guidata da Barbara Degani [nella foto a destra] approva un documento che dovrebbe arginare lo sfruttamento dei tirocinanti nel territorio provinciale. Un'iniziativa proposta da Paolo Giacon (Pd) e subito abbracciata dalla maggioranza. La delibera introduce un rimborso spese minimo (400 euro al mese per i laureati, 300 per i diplomati), vieta l'uso degli stagisti in sostituzione di personale in maternità o in malattia, impedisce l'attivazione di progetti in aziende in cassa integrazione, stabilisce l'impossibilità di organizzare tirocini per mansioni di basso profilo. Misure tanto più importanti se si pensa che, negli ultimi tre anni, la provincia di Padova ha visto crescere del 43% gli stage.Sempre alla fine di novembre il Veneto attiva «Welfare to work», un progetto che finanzia 1.250 percorsi formativi in tutta la regione. Il bando prevede un rimborso spese pari a 600 euro, più alto di quello imposto dalla giunta padovana, ma non pone alcun altro limite all'utilizzo degli stagisti. E chi si aspetta che le linee guida colmino questa lacuna, almeno per gli stage attivati sul territorio della provincia di Padova, rimane deluso. Alcuni lettori segnalano l'anomalia alla Repubblica degli Stagisti, che riceve una conferma da Giorgio Santarello, responsabile della direzione lavoro provinciale.«Sono davvero stanca delle polemiche sterili e pretestuose. Come si possono applicare delle regole ad un bando già chiuso?» ribatte subito Degani: «il progetto WtW non ha seguito le nostre linee guida perché il finanziamento è relativo ad un bando regionale approvato prima della delibera provinciale». La presidente, oltre a confermare la mancata applicazione del contenuto della delibera che lei stessa ha votato, entra nel dettaglio ricordando che «le linee guida sono state approvate nella seduta di giunta del 22 novembre 2011, quindi sono entrate in vigore dal 1° gennaio del 2012, mentre il bando WtW è stato realizzato prima, aperto il 1° settembre e chiuso il 31 dicembre».Alla Repubblica degli Stagisti queste date però non tornano. Dal bollettino ufficiale della Regione Veneto (n° 88 del 25 novembre 2011) risulta che il bando sia stato indetto con decreto 1427 della direzione regionale del lavoro datato 9 novembre 2011: solo 13 giorni prima della delibera sui tirocini di qualità, e non oltre due mesi prima come afferma la presidente. Inoltre la pubblicazione sul web dell'avviso relativo a Welfare to Work è avvenuta il 29 novembre, quindi quattro giorni dopo l'approvazione delle linee guida. Infine il bando non si è chiuso il 31 dicembre, ma il 5 gennaio.Degani afferma poi che il documento sui tirocini di qualità «è entrato in vigore dal 1° gennaio 2012». Ma nel testo approvato dalla giunta, reperibile sul blog dell'assessore al Lavoro Massimiliano Barison, non vi è alcun cenno a questo tipo di scadenza. Anzi a ben guardare la normativa di riferimento, cioè l'articolo 134 comma 3 del testo unico degli enti locali, stabilisce che le deliberazioni diventino esecutive «dopo il decimo giorno dalla loro pubblicazione» all'albo pretorio. Le linee guida sui tirocini di qualità, insomma, sono entrate in vigore quando il bando WtW era appena stato aperto. Ma la provincia ha ugualmente deciso di non estenderne l'applicazione al progetto regionale.Ancora la Degani specifica: «Il bando regionale prevedeva al termine del periodo di stage l'impegno dell'azienda all'assunzione e aveva dunque già di per sé una valenza qualitativa molto elevata, oltre a prevedere una borsa lavoro di 500 euro mensili». A parte il fatto che il rimborso spese a favore degli stagisti era pari a 600 euro, qui la presidente della Provincia si avventura in un territorio impervio: perchè in realtà non era affatto previsto, per questa iniziativa, l'obbligo di assunzione al termine dello stage. L'unico meccanismo che incentivava l'apertura di un rapporto di lavoro era legato al fatto che, se la firma fosse arrivata prima della conclusione dei quattro mesi di tirocinio, la borsa per il periodo rimanente sarebbe stata versata direttamente nelle casse dell'azienda ospitante, una sorta di bonus per aver inserito il tirocinante in azienda.Rimane il fatto che i centri per l'impiego padovani hanno attivato all'inizio del 2012 decine di stage non conformi agli standard di qualità prescritti da una delibera provinciale. Cosa ne dice Paolo Giacon, l'ispiratore di quella delibera? L'esponente del Pd, nello scorso mese di marzo, aveva annunciato alla Repubblica degli Stagisti l'intenzione di presentare un'interrogazione, e recentemente si era lamentato di non aver «mai ricevuto risposta, nonostante siano trascorsi i tempi previsti dal regolamento».A questo punto la vicenda si fa misteriosa. «Agli atti non risultano interrogazioni presentate in merito dal consigliere Giacon», dichiara infatti Degani. Ma questo documento c'è o non c'è? La giunta nega, il Pd giura il contrario. Nonostante le ripetute richieste della Repubblica degli Stagisti, Giacon non ha mai trasmesso una copia del testo. Insomma, un vero e proprio giallo. Di questo pasticcio chi sia il colpevole non è dato sapere, ma certamente si può intuire chi siano le vittime: gli stagisti della provincia di Padova.Riccardo SaporitiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Padova, le linee guida sui tirocini di qualità ci sono ma non vengono applicate- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30- Oltre mille tirocini attivati in un mese: in Veneto stagisti a caccia di aziende- Provincia di Padova, la giunta detta le linee guida: stop agli stage gratuiti e niente stagisti nelle imprese non virtuoseE anche:- La legge 34/2008 della Regione Piemonte su mercato del lavoro e stage- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio