Categoria: Approfondimenti

Ministero degli Esteri, ancora niente rimborso per i tirocini malgrado i buoni propositi della riforma

Il ministero del Lavoro punta all'abolizione dei tirocini gratuiti, quello degli Esteri no. O perlomeno non con tutta questa fretta. Mercoledì 2 maggio sono stati attivati 560 progetti promossi nell'ambito del primo bando - sui tre previsti per il 2012 - della Farnesina in collaborazione con la Fondazione Crui e 67 università. Venerdì 4 scadono invece i termini di candidatura per il secondo, che ne ha messi in programma 555. In entrambi i casi si tratta di attività gratuite: i bandi, che offrono la possibilità di tre mesi di formazione in centinaia sedi del Mae, non prevedono infatti alcun rimborso.E questa non è una novità. Ma la riforma del lavoro della quale si discute da settimane non ha in programma l'abolizione dei tirocini gratuiti? Il testo presentato alle Camere dal ministro Elsa Fornero è molto chiaro in questo senso. L'articolo 12  prevede infatti che entro sei mesi dall'entrata in vigore della riforma il governo in collaborazione con le Regioni emani un decreto legislativo stabilendo, tra le altre cose, la «previsione di non assoluta gratuità del tirocinio, attraverso il riconoscimento di una  indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta». La questione è in discussione in questi giorni, con grandi resistenze da parte della conferenza delle Regioni. Possibile però che sia lo stesso governo a non conformarsi allo spirito di una legge che ha proposto al Parlamento?«Le riforme non si anticipano, si seguono», tagliano corto dall'ufficio stampa della Fondazione Crui, assicurando che «il prossimo bando terrà conto della normativa». E rifiutando di mettere la Repubblica degli Stagisti in contatto con i responsabili del progetto. Più fortuna con il ministero: «È chiaro che non possiamo fare altro che applicare il provvedimento. Se interverrà una modifica ci adegueremo», spiega Daniele Di Ceglie, referente del Mae-Crui per la Farnesina. Insomma: nonostante sia stato proprio il governo a proporre di abolire gli stage gratuiti, i singoli ministeri non hanno intenzione di anticipare la norma. Cosa che invece rappresenterebbe un segnale politico nei confronti di coloro che chiedono di non rendere obbligatorio il rimborso spese.Eppure per la Farnesina prevederlo non richiederebbe una spesa inaccessibile. Questo ministero ha a disposizione ogni anno un budget di oltre 2 miliardi di euro: se decidesse di garantire 500 euro per gli stage in Europa, che sono i due terzi del totale, e di mille per quelli in Paesi extraeuropei, in totale servirebbero più o meno tre milioni e mezzo di euro. Nel 2010 la Repubblica degli Stagisti aveva rivolto un appello all'allora ministro Franco Frattini, rimasto però senza risposta. Oggi, secondo De Ceglie, bisognerebbe addirittura «cambiare la legge 196 del 1997, in base alla quelle l'unico onere è quello della sottoscrizione di un'assicurazione ed è posto in carico alle università». In realtà la normativa in questione non vieta affatto di erogare un emolumento agli stagisti, semplicemente non lo prevede come obbligatorio: darlo o non darlo è una libera scelta. Nella prassi sono i soggetti ospitanti ad offrire una borsa agli stagisti: lo stesso dipartimento della Funzione pubblica ha emanato nel 2005 una direttiva proprio per ricordare che le legge 196/97 «ha previsto la possibilità di ammettere al rimborso, totale o parziale, degli oneri finanziari, ivi comprese le spese sostenute per il vitto e l’alloggio dei giovani tirocinanti» da parte delle pubbliche amministrazioni che ospitano stagisti. Più raramente è il soggetto promotore ad erogare un rimborso, svolgendo una funzione in un certo senso "suppletiva": nel caso specifico del Mae-Crui alcuni atenei, rendendosi conto che uno stage all'estero comporta grandi spese, hanno deciso di istituire una borsa. Ma si tratta di una minoranza.In definitiva, non ci sono ostacoli normativi che impediscano di prevedere un rimborso per i tirocinanti Mae-Crui. È solo una questione di volontà politica. Tanto che già in passato qualche dirigente del ministero aveva sollevato il problema, rimanendo però inascoltato. «Sul piano personale posso anche dire che non è carino, ma come funzionario io applico la legge» commenta De Ceglie. Che condanna «in maniera esecrabile i casi di sfruttamento» ed è convinto che la Farnesina si comporti bene. Ma senza rimborso i tirocini Mae-Crui non rischiano di restare riservati solo ai più ricchi? «Noi offriamo una possibilità, tocca ai ragazzi valutare le loro disponibilità economiche e darsi da fare» spiega, aggiungendo: «Non li condanniamo certo alle miniere di sale, hanno anche tempo per fare altro». In altre parole per affrontare i costi di uno stage senza rimborso - che richiede come minimo un biglietto aereo di andata e ritorno e tre mesi di affitto - i partecipanti dovrebbero anche trovarsi «dei piccoli lavoretti». Del resto «gli orari sono flessibili» e poi «gli istituti di cultura offrono la possibilità di tenere dei corsi di lingua». Affidati magari a chi ha studiato architettura e nulla è tenuto a sapere di come si insegna l'italiano.Ma come si può conoscere se la legislazione dei Paesi ospiti consenta ad uno straniero di lavorare? Dal sito dell'Istituto diplomatico è possibile scaricare una guida alla stesura del proprio curriculum e la «Bussola del tirocinante», un opuscolo che per ogni Paese che ospiti uno stage Mae-Crui offre informazioni sul viaggio, i documenti necessari e la situazione sanitaria. Questo nella convinzione che «chi non è abbiente può scegliere una sede non costosissima, purché si informi prima». Oppure rinunciare.I tirocini il cui bando è scaduto oggi saranno attivati il 3 settembre, quando con tutta probabilità la riforma sarà già legge. Quasi sicuramente mancherà ancora il decreto legislativo coi «principi fondamentali e requisiti minimi dei tirocini», ma cosa succederà ai 555 ragazzi selezionati per i progetti? Avranno diritto a un rimborso spese oppure no?Per i laureati e i laureandi che hanno deciso di investire tempo e denaro per un'esperienza internazionale queste sono domande più che legittime. Ma che, al momento, non trovano risposta. «Non è molto produttivo parlare di cose che non si possono prevedere» chiude Di Ceglie: «non sappiamo nemmeno se il testo sarà licenziato dal Parlamento in questa forma. Nel momento in cui la riforma prenderà corpo in un testo chiaro, il ministro valuterà il da farsi». C'è da augurarsi che, dopo averla votata in CdM, il titolare degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata [nella foto] decida di applicare la riforma del lavoro. Magari senza aspettare il decreto che dovrà fissare i requisiti minimi dei tirocini di formazione. Per garantire, da subito, un giusto rimborso spese ai ragazzi e alle ragazze che prendono parte a questi progetti. Come peraltro già fanno tante aziende private e anche tanti enti pubblici.Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo argomento, leggi anche:- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini- Simoncini risponde: «Ecco perché noi Regioni chiediamo di eliminare l'articolo sugli stage»E anche:- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?- Le università «virtuose» del Mae-Crui: tutti i dettagli sui rimborsi spese e le borse di studio per i tirocini in ambasciate, consolati e istituti di cultura

Interinali, 226mila sono under 30: «Buona flessibilità e diritti» garantisce Assolavoro

Una volta si chiamavano «interinali», oggi la dicitura corretta è «lavoratori in somministrazione»: nelle pieghe della riforma Fornero ci sono significative novità anche per quanti arrivano in azienda tramite una delle agenzie per il lavoro autorizzate a fornire manodopera a soggetti sia privati sia pubblici. La peculiarità di questo contratto, normalmente a tempo determinato, consiste proprio nel fatto che il lavoratore è assunto direttamente dall'agenzia, pur svolgendo un'attività «nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore» cioè dell'azienda (articolo 20 del decreto legislativo 276/2003), che a propria volta è legata al soggetto somministratore da un contratto di tipo commerciale. Nonostante alcuni limiti imposti al loro impiego, nel 2011 i lavoratori somministrati hanno raggiunto quota 515mila (+10% sull'anno precedente) e tra questi il 44% erano giovani fino a 29 anni. Che cosa potrebbe cambiare per loro con la riforma giunta ora all'esame della commissione Lavoro del Senato lo spiega alla Repubblica degli Stagisti Agostino Di Maio, direttore di Assolavoro, l'associazione nazionale che rappresenta oltre il 90% degli operatori presenti sul mercato italiano. «È importante superare il pregiudizio  diffuso in passato verso la somministrazione» premette Di Maio «che è l'unica forma di flessibilità in grado di garantire al lavoratore gli stessi diritti, le stesse tutele e la stessa retribuzione dei dipendenti dell'azienda presso cui svolge una missione». Dato che la stragrande maggioranza di questi rapporti ha però durata prefissata, anche il lavoro interinale è finito nel mirino del ddl Fornero. Che all'articolo 3 stabilisce che per il computo dei 36 mesi, oltre i quali il contratto di lavoro a termine si trasforma in tempo indeterminato, si debba tener conto anche dei periodi di lavoro eventualmente svolti in somministrazione per una stessa impresa. «Bisogna distinguere tra un contratto a termine e un contratto di somministrazione a tempo determinato» sottolinea Di Maio (nella foto). «In caso di mancato rinnovo da parte dell'azienda, il lavoratore a termine resta solo,  mentre alla fine della missione il lavoratore in somministrazione trova nell'agenzia servizi utili al suo reinserimento». Vero: ma se per tre anni un'azienda continua ad utilizzare la stessa persona mediante contratti a tempo o interinali, non è evidente che di quel lavoratore ha bisogno in maniera stabile? «Questo atteggiamento sanzionatorio può avere senso per i contratti a termine, che per l'impresa sono sicuramente più vantaggiosi. Ma non nel caso della somministrazione che ha comunque dei costi aggiuntivi per la parte datoriale». L'associazione ha dunque intrapreso una serrata battaglia su questo aspetto della riforma, che nella versione definitiva quasi certamente vedrà esclusa la somministrazione dal computo dei 36 mesi - dato che «sia il Pd che il Pdl si sono espressi favorevolmente».  Resta invece da vedere se il settore riuscirà ad ottenere anche l'esenzione dal costo aggiuntivo che a partire dal 1 gennaio 2013 si applicherà ai contratti di durata prefissata per finanziare la nuova Aspi. «L'aggravio dell'1,4% colpisce direttamente la formazione, uno dei nostri punti di forza. Per quanto riguarda la somministrazione a termine questa percentuale viene infatti ritagliata dall'aliquota del 4% che le agenzie impiegano oggi per la formazione». La questione non è di poco conto se si considera che soltanto lo scorso anno le agenzie hanno versato a Formatemp - l'ente bilaterale preposto - circa 140 milioni di euro, corrispondenti appunto al 4% del monte retributivo derivante dalle missioni dei lavoratori a termine, garantendo così una formazione a più di 185mila persone, per la metà delle quali vige peraltro un obbligo di placement successivo ai corsi. Se la norma fosse già stata in vigore, calcola l'associazione, nel 2011 non sarebbe stato possibile collocare più di 30mila interinali. Ma non tutti gli articoli del ddl vengono per nuocere al lavoro a termine: il punto B dell'articolo 3, esclude infatti il primo contratto a tempo determinato, se di durata non superiore a 6 mesi, dall'obbligo della causale, ovvero dall'indicazione  delle ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive con cui il datore è sempre tenuto a giustificare l'apposizione di un termine ad un contratto di lavoro subordinato. «Occorre fare di più» è la replica di Di Maio, che per il settore auspica ovviamente una maggiore deregolamentazione delle assunzioni a tempo. C'è da dire che dal 2010 l'obbligo della causale è già venuto meno per le persone in mobilità e più di recente, con il decreto legislativo n. 24 del 2 marzo 2012, anche per i lavoratori così detti svantaggiati e per quanti percepiscono ammortizzatori sociali da almeno sei mesi.Per quanto riguarda più da vicino i giovani, un'importante novità è costituita invece dall'apprendistato in somministrazione, un istituto nuovissimo a cui  il ddl Fornero fa esplicito riferimento nell'articolo 5. Già previsto nel relativo testo unico del settembre scorso, dal 6 aprile l'apprendistato in somministrazione è diventato operativo grazie ad un accordo firmato da Assolavoro, Cisl-Felsa e Uil-Temp, con l'esclusione della  Nidil Cgil.  D'ora in poi l'apprendista potrà dunque svolgere i tre anni formativi come "somministrato", anche per più datori di lavoro. Le singole missioni non potranno tuttavia avere durata inferiore a 12 mesi e, dopo il primo anno di contratto, in mancanza di un ingaggio l'agenzia dovrà corrispondere all'apprendista un'indennità di circa 700 euro mensili per un periodo di 10 mesi; durante i quali sarà anche chiamata a garantire la continuità formativa del lavoratore. Quale sia l'appeal di questo contratto lo spiega bene Di Maio: «Le aziende si liberano così da incombenze burocratiche e si affidano alle agenzie per la formazione». Non solo: perché in questo modo per l'impresa viene anche meno qualsiasi obbligo circa la stabilizzazione di questi lavoratori. Alla fine del percorso vige infatti un vincolo stringente di conferma per gli apprendisti somministrati, che dovranno essere assunti a tempo indeterminato in una percentuale non inferiore al 50%: ma anche in questo caso l'obbligo ricadrà per intero sulle spalle dell'agenzia. Ilaria CostantiniSu questo argomento leggi anche:  - Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato E anche:  - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati

Lavorare gratis: anche il cinema sfrutta gli stagisti

«Si lavora gratis per anni. Molti anni. Finché non sei proprio... grande». Dimenticate i lustrini, i red carpet, i flash dei fotografi. Dietro le quinte del cinema la realtà è quella dello sfruttamento della manodopera. A denunciarlo è Irene Iaccio [nella foto a destra], 27 anni, napoletana trapiantata a Roma che ha lasciato il cinema dopo un anno e mezzo. Motivo? Semplice: «Lavorando gratis non si mangia». Eppure sono in tanti a farlo. Nel 2011 Enpals, la cassa pensionistica dei lavoratori dello spettacolo, contava 85mila impiegati nel cinema. Un dato che il coordinamento Cresco (che raggruppa le realtà che lavorano nella produzione e nella diffusione della scena contemporanea - quindi compagnie di produzione, sale, teatri, residenze, festival, rassegne, artisti, critici, operatori dello spettacolo dal vivo) ritiene invece maggiore: il numero reale degli addetti oscillerebbe tra 120 e 140mila. Tra questi c'era anche Irene, che ha accettato di raccontare la sua esperienza alla Repubblica degli Stagisti: «Tutte le figure professionali legate alla produzione non vengono pagate. Succede perfino agli attori, ovviamente quelli meno affermati». Ma di quante persone si tratta? «L'ultimo film al quale ho lavorato mi ha visto impegnata alla scenografie, io e altri due, poi ce n'erano tre ai costumi. Diciamo che si arriva ad essere anche una decina di persone». Tutte 'assunte' a zero euro. Difficile definire una media dei lavoratori impiegati nella realizzazione di un film, molto dipende dalle dimensioni della produzione: quelle più grosse possono arrivare ad occupare una cinquantina di persone tra assistenti alla regia, scenografi, macchinisti, costumisti, elettricisti e fotografi. E non è detto che tutti vengano retribuiti. «Se il budget è basso, non essere pagati è la regola». E se il film piace al pubblico e incassa oltre ogni aspettativa? «Tendenzialmente non c'è mai una redistribuzione dei ricavi». Così che il successo di un film, per chi ci ha lavorato gratis, diventa solo un motivo in più per masticare amaro.Il fenomeno è diffuso: «Nessuno di quelli che hanno fatto il corso con me al Centro sperimentale di cinematografia ha mai lavorato in forma retribuita. Nemmeno due lire». Il Csc è una scuola che offre corsi di formazione della durata di tre anni, al costo di 1.500 euro l'anno. «Io ho lasciato dopo un anno e mezzo, perché non dava prospettive». È stato durante questo periodo che Irene ha avuto occasione di lavorare gratis - così come continuano a fare i ragazzi iscritti come lei all'istituto. Loro mantengono il silenzio per il semplice motivo che vogliono rimanere nel mondo del cinema. Irene invece ha fondato «ilgattohanuovecode», un collettivo di produzione di audiovisivi web-oriented che si occupa di produrre contenuti di ogni genere: da quelli per la Rete alle riprese di spettacoli ed eventi dal vivo, fino ai filmini dei matrimoni. Mettersi in proprio, oltre ad uno stipendio, le ha dato anche la libertà di raccontare la sua esperienza. «La parola merito, nel cinema, non esiste. E nemmeno la carriera, al massimo puoi dire che hai conosciuto qualcuno che ti fa lavorare: è un meccanismo esplicito, non c'è nulla di nascosto». Una conferma al racconto di Irene arriva dal rapporto «Professionisti: a quali condizioni?», pubblicato da Ires nella primavera dell'anno scorso. Secondo questa ricerca il 64,9% dei lavoratori del settore della cultura e degli spettacoli, tra i quali rientrano anche quelli del cinema, afferma che le conoscenze servono molto per trovare un'occupazione; più o meno la stessa percentuale ritiene importantissimo il passaparola tra i datori di lavoro.«Di solito, almeno una persona per ogni settore della produzione viene regolarizzata. Gli altri non vengono pagati, oppure gli vengono riconosciuti i contributi Enpals per una sola giornata. È capitato anche a me, per un film per il quale ovviamente avevo lavorato per molto più tempo». Come si spiega il fatto che le case cinematografiche possano permettersi di far lavorare gratis le persone? «Non è che ci voglia tutta questa competenza: occuparsi delle scenografie spesso si riduce a spostare dei mobili in una stanza, chiunque può farlo». Anche se questo non giustifica che venga fatto gratis. Comunque, anche quando c'è, lo stipendio di chi opera nella cultura non è certo tra i più alti. Sempre secondo il rapporto Ires, nel 2009 tra i lavoratori con contratto di lavoro dipendente uno su tre ha dichiarato un reddito inferiore ai 15mila. Ancor peggio va a chi è inquadrato come autonomo: qui due su tre stanno sotto a quella soglia, e ben un quarto si ritrova a dover spesso chiedere aiuto alla famiglia.Davvero è possibile che stipendi di questa misera entità siano in grado di far saltare i bilanci delle case cinematografiche? «Ora che si utilizza la tecnologia digitale i costi si sono ulteriormente ridotti. I contributi statali potrebbero essere utilizzati per pagare chi lavora». Contributi? Sì, questa prassi è così comune che la seguono anche alcune delle realtà che ricevono sovvenzioni pubbliche. Ogni anno, infatti, attraverso il Fondo unico per lo spettacolo, il ministero dei Beni culturali sostiene la cinematografia italiana. Lo scorso anno il settore ha ricevuto 75 milioni e 800mila euro, una parte dei quali è stata destinata alla produzione. In particolare, secondo il recente rapporto «Il cinema italiano in numeri» realizzato da Anica e dal Mibac, 10 milioni e mezzo di euro hanno finanziato 21 pellicole ritenute di interesse culturale, mentre 7 milioni e mezzo hanno contribuito alla realizzazione di 40 opere prime e seconde. Per il 2012 il governo ha stanziato oltre 76 milioni di euro: ma solo le briciole arriveranno ai giovani che tentano di avviare un percorso professionale nel mondo del cinema.Da quanto le cose vanno in questo modo? «Io ho iniziato quattro anni fa a lavorare in questo settore, ma ho il sospetto che sia sempre stato così». Anche perché ci sono tante persone disposte a lavorare gratis. «Questo è un mestiere molto ambito, sono in tanti a voler fare cinema: ecco perché si accettano queste condizioni». Irene no, si è trovata un altro lavoro. Ma non ha dimenticato. E così, quando qualche settimana fa ha ricevuto una mail di una casa di produzione che cercava stagisti a costo zero per le riprese romane del film «Vi perdono» di Valeria Golino iniziate a metà aprile (il film ha anche ottenuto un contributo di 200mila euro dal ministero), ha deciso di rompere il silenzio. Pubblicando sul blog «ilgattohanuovecode» lo scambio di comunicazioni con i responsabili della produzione. A chi cercava tra gli studenti e i diplomati del Csc degli stagisti per le riprese, l'ex scenografa ha ribattuto: «Mi sembra che lei abbia piuttosto necessità di forza lavoro a titolo gratuito per far fronte ad esigenze che con tutto hanno a che fare meno che con la formazione degli allievi. Potrà smentirmi spiegando nel dettaglio quale sarebbe l'offerta formativa oppure indicando la retribuzione che avete pensato per il periodo di lavoro». La smentita non è arrivata. E così la giovane ha deciso di raccontare: «Credo che sia la strada più semplice. Il primo passo è parlarne, poi i giudizi sulla vicenda li lascio a chi legge, così che ognuno si faccia un'idea. L'importante è che non rimanga un discorso tra gli addetti ai lavori».Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo leggi anche:- Stage gratuiti, Caterina versus Flash Art: il botta e risposta con Giancarlo Politi. E il web si rivolta- Io, schiavo per tre anni in una piccola casa editrice- Stage gratuiti e lavoro nero, così sopravvive la microeditoriaE anche:- Emergenza stage anche in Usa, un giornalista si chiede: come sarebbe un mondo senza più stagisti?- Pasquale Carrozzo, animatore del blog dei praticanti commercialisti: «Per evitare lo sfruttamento servono più controlli»

Riforma del lavoro, ma l'associazione in partecipazione non doveva essere abolita?

Catene di intimo, profumerie, agenzie di viaggi, erboristerie, rivendite di divani, accessori, abbigliamento, centri estetici e librerie. È qui, secondo i dati raccolti dalla campagna Dissociati! della Cgil, che si concentrano oggi gran parte degli associati in partecipazione. Un miniesercito che nel 2010 ha raggiunto quota 52.500 lavoratori, di cui circa un quarto under 30, in maggioranza donne, concentrati per lo più tra Lombardia, Emilia Romagna e Toscana. Tecnicamente si tratta di lavoratori autonomi, inquadrati da un contratto che li assimila a "soci" delle imprese commerciali presso le quali svolgono in realtà mansioni di semplici dipendenti, in cambio di una (solitamente poco conveniente) partecipazione agli utili aziendali.Una flessibilità così cattiva da aver indotto il ministro Fornero ad ipotizzare una sostanziale scomparsa dell'istituto: preservato «solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi», si leggeva nelle linee guida della riforma del lavoro approvate dal Consiglio dei ministri il 23 marzo scorso. Peccato che questo lodevole intento sia stato fortemente diluito: il disegno di legge attualmente all'esame della commissione Lavoro del Senato stabilisce infatti solo un massimo di 3 associati per ciascuna impresa, fatta eccezione per i coniugi, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (art.10). «Ma con tre associati, più poniamo l'associante e un paio di familiari, si riesce a gestire tranquillamente un negozio con più vetrine» fa notare Roberto D'Andrea, 32 anni, della segreteria nazionale Nidil. Insieme alla Filcams, attiva nel settore del commercio, la sigla che rappresenta le nuove identità lavorative della Cgil ha avviato lo scorso novembre una campagna volta proprio a contrastare l'impiego di questi contratti, diffusi soprattutto nel commercio. «Sono già arrivate un centinaio di denunce, per lo più anonime, soprattutto da commesse e commessi impiegati in grandi catene» quantifica il sindacalista. Con la formula del franchising l'azienda "madre", proprietaria del marchio commerciale, ha in effetti il vantaggio di non essere responsabile dei contratti di lavoro stipulati dai rivenditori affiliati.   Lo scandalo dei grandi marchi era giunto però all'orecchio del ministro del Lavoro. «Gli elementi raccolti con la campagna sono serviti  a porre con chiarezza il problema al tavolo della riforma» ricorda D'Andrea. Che cosa sia accaduto dopo 23 marzo non è dato sapere, anche se non è un mistero che Rete Imprese avesse dato «un giudizio negativo su questo aspetto della riforma». Certo è che sul punto il governo ha innestato una significativa marcia indietro.Perché il contratto in questione è in molti casi un contratto capestro per il lavoratore e in assoluto uno dei più convenienti per i commercianti. Basta dare un'occhiata alle retribuzioni degli associati, che in media non arrivano 9mila euro in un anno. A livello previdenziale sulle loro spalle è inoltre caricato il 45% dei contributi da versare alla gestione separata dell'Inps, quando ad esempio il contratto a progetto prevede una ripartizione di 2/3 a carico del datore di lavoro e solo di 1/3 per il parasubordinato. A differenza delle false partite Iva - tra le quali possono esserci anche professionisti che svolgono mansioni tali da giustificare il ricorso al lavoro autonomo - gli associati sono poi impiegati per lo più in mansioni esecutive e ripetitive, tipiche cioè del lavoro dipendente. «Né il sindacato, né l'ispettorato si è mai trovato dinanzi ad un vero associato» spiega ancora il sindacalista: «in Italia esistono già infiniti modi per fare impresa e il ricorso a questo contratto è di fatto una modalità per non assumere le persone, come suggerisce tra l'altro una giurisprudenza ormai consolidata anche di Cassazione».  Ma la controindicazione principale dell'associazione in partecipazione consiste nel rischio d'impresa che scarica sul lavoratore: perché se l'azienda va male o se, grazie all'aiuto di un commercialista abile, gli utili si abbassano, l'associato può anche vedersi negare lo stipendio, o peggio essere chiamato a ripianare eventuali perdite. «A Napoli, dopo un furto nel negozio, ad una nostra iscritta è stato chiesto di contribuire a ripagare il danno. Ad un'altra iscritta di Bologna che aveva deciso di fare causa all'azienda, è stato presentato un conto di 11mila euro».L'unica novità  introdotta dalla riforma a tutela di questi lavoratori riguarda la certezza della sanzione per il datore che utilizza impropriamente il contratto «senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare, ovvero senza consegna del rendiconto». Se il testo non subirà ulteriori modifiche, d'ora in poi il falso associato dovrebbe essere inquadrato con un contratto a tempo indeterminato; mentre ora la parte datoriale ha la possibilità di assumerlo con tipologie contrattuali ben più convenineti, se in grado di dimostrare la natura non subordinata del rapporto di lavoro. «Puntiamo a tornare alla bozza originale del ddl» conclude D'Andrea. «Per giovedì 10 maggio è stata intanto indetta una manifestazione nazionale contro il precariato, per il quale questa riforma fa davvero poco». Nel frattempo la campagna contro i falsi associati va avanti. Un'intesa tra la Nidil e direzione provinciale del lavoro di Napoli consentirà agli ispettori di effettuare controlli mirati sul territorio sulla base delle denunce giunte al sindacato. Un modello che potrebbe essere presto replicato in altre città. Quanto ai grandi marchi del franchising, non appena il quadro normativo sarà definito, la Cgil chiederà alle case madri di impegnarsi a stipulare contratti commerciali solo con quelle imprese che utilizzano "veri" lavoratori dipendenti: inquadrandoli come tali.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzione- Riforma del lavoro, quanto porterebbe in tasca ai precari la MiniAspi?- Con l'Aspi sussidio di disoccupazione anche ai precari: ma solo se cercano lavoroE anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini

Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa

Arriva l’indennità una tantum per i collaboratori coordinati continuativi (coloro che sono inquadrati come «cococo» e «cocopro») disoccupati, ed è subito polemica. L’intento è anche nobile: garantire una forma di assistenza sociale a una categoria di lavoratori sostanzialmente priva di diritti e tutele. E di certo è sempre meglio aggiungere qualcosa che togliere ulteriormente. Ma i parametri sono talmente stringenti, e le cifre tanto ridotte, che il provvedimento previsto dal disegno di legge Fornero, attualmente all'esame del Senato, rischia di sembrare una vera e propria beffa per i precari.Nella versione attuale del testo «l’indennità è pari a una somma del 5 per cento del minimale annuo di reddito» (fissato dall'Inps a 14.930 euro per il 2012), «moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione».   Potranno accedervi i cococo e cocopro che abbiano operato in regime di monocommittenza (vale a dire, per un solo datore di lavoro nell’anno precedente); che abbiano conseguito un reddito non superiore a 20mila euro; che abbiano versato almeno quattro mensilità di contributi presso la gestione separata dell’Inps nell’anno precedente (per il primo anno di applicazione, il 2013, ne basterà una); che siano stati disoccupati per almeno due mesi ininterrotti nell'anno precedente. L'ammontare dell'indennità, quindi, non dipende dalla retribuzione dei collaboratori, ma dalla durata del loro contratto: un cocopro che guadagnasse 1.000 euro per 4 mesi, ricorrendo le altre condizioni, otterrebbe la stessa una tantum di un cocopro che avesse percepito il triplo o il quadruplo, 3mila euro o anche 4mila, sempre per 4 mesi.Secondo una stima elaborata da Patrizio Di Nicola, esperto di lavoro atipico, l’indennità potrebbe riguardare potenzialmente meno del 10% dei parasubordinati: circa 90mila lavoratori, quando gli iscritti alla gestione separata dell'Inps sono oltre un milione e mezzo. Ipotizzando che nel corso del 2013 un terzo di questi parasubordinati perdesse il lavoro, stima Di Nicola, l'indennità con questi paletti potrebbe essere erogata solamente a meno 30mila persone e con importi pro capite ridottissimi - compresi tra 750 e 4.500 euro l'anno. Esborso totale: solo 72 milioni di euro, contro i 250 fruttati all'Inps dall'aumento dell'1% dell'aliquota previdenziale per la categoria, sempre secondo le stime di Di Nicola.Non che le forme attuali di sostegno ai cococo disoccupati (un contributo pari al 30% del reddito dell’anno precedente entro un tetto massimo di 4mila euro) abbiano dato risultati migliori. Tra il 2009 e il 2010, stando a dati Inps, sono stati erogati appena 25 milioni di euro (su uno stanziamento da 100 milioni) a meno di 10mila lavoratori, con una media del 70% di domande respinte.I calcoli di Di Nicola vengono sostanzialmente confermati anche da Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro per la Bocconi: «La formulazione del ddl è un po’ astrusa, ma basta fare un po’ di conti per accorgersi che l’importo dell’indennità sarà veramente modestissimo. In pratica, il totale sarà pari al 5% del minimale moltiplicato al massimo per sei mesi». Secondo Del Conte, «veniamo da una situazione in cui i lavoratori a progetto non hanno praticamente nessuna delle tutele garantite ai lavoratori subordinati. L’una tantum vorrebbe essere un ammortizzatore sociale, ma non permette certo ai collaboratori disoccupati di vivere con dignità tra un periodo di disoccupazione e l’altro, né di programmare serenamente il proprio futuro lavorativo. Il termine è un po’ forte, ma verrebbe quasi da definirla come una forma di elemosina».Ma ci sono anche altre ombre sulla riforma di Fornero. Prima di tutto, la natura dell’una tantum: da intendersi per lavoratore o per periodo di disoccupazione? «La formulazione non è chiara ma si può supporre che, dopo aver percepito l’indennità, il lavoratore possa ottenerne un’altra solo dopo aver maturato daccapo i requisiti, difficilmente prima che siano passati almeno due anni», afferma Del Conte.Ancora da chiarire, infine, il limite della “disponibilità di risorse” introdotto dal ddl, e a cui è subordinata l’erogazione dell’indennità. Spiega ancora Del Conte: «Non è l’unica norma, purtroppo, che ha questa clausola di salvaguardia. In sostanza c’è un plafond limitato di cui ancora non è chiaro l’ammontare. L’indennità verrà probabilmente erogata a chi la chiederà per primo, e poi si andrà avanti fino ad esaurimento delle risorse. È il discorso che si fa anche per gli esodati. Se il numero di richiedenti dovesse eccedere le stime del governo, a un certo punto un cococo si sentirà rispondere: mi dispiace, sono finiti i soldi». E fine anche dell'elemosina... pardon, dell'indennità.di Andrea CuriatSe vuoi saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stageE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Con l'Aspi sussidio di disoccupazione anche ai precari: ma solo se cercano lavoro

Ammortizzatori sociali: cosa cambierebbe se il disegno di legge Fornero venisse approvato? La legge 223 del 1991 stabilisce le regole in base a cui i lavoratori hanno diritto a ricevere - in caso di disoccupazione, cassa integrazione e altre condizioni di mobilità - un sussidio economico e un supporto nella ricerca di un nuovo lavoro.Se il ddl entrerà in vigore, le varie forme di sussidi di disoccupazione e gli assegni di mobilità previsti dalla normativa precedente saranno accorpati dal 2017 in due strumenti, Aspi («Assicurazione Sociale per l'Impiego») e MiniAspi. Entrambe le misure sono destinate ai lavoratori dipendenti, pubblici e privati, con contratto a tempo indeterminato, determinato, part-time o di apprendistato (escluse invece le forme di contratto atipico). L'Aspi verrebbe erogata a chi ha due anni di anzianità assicurativa e che ha lavorato per almeno cinquantadue settimane nell'ultimo biennio; la Mini Aspi a chi ha lavorato in un periodo compreso da tredici settimane a sei mesi nell'ultimo anno. Secondo l'articolo 37 comma 3 del ddl Aspi e MiniAspi durerebbero fino a dodici mesi - con a proroghe per casi specifici, per esempio la frequenza di un corso di riqualificazione professionale: in caso di una o più proroghe, la somma sarebbe inferiore rispetto all'indennità erogata inizialmente, nello specifico del 10 % alla prima proroga, del 30 % alla seconda e del 40% alla terza e successive. L'articolo 35 illustra invece un'indennità una tantum per i disoccupati il cui ultimo impiego è stato con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e iscritti alla gestione separata dell'Inps.Come nella normativa ancora in vigore, il ddl tiene conto anche dei requisiti di decadenza, ossia le condizioni per cui viene meno la fruizione degli ammortizzatori sociali, illustrati negli articoli 30 e 62. Si decadrebbe dal ricevere Aspi e MiniAspi in caso di perdita dello stato di disoccupazione (perché si è firmato un contratto di lavoro o si è avviata un'attività autonoma) o di raggiungimento dei requisiti per il pensionamento, ma anche rifiutando una o più opportunità di lavoro o formazione proposte dal centro per l'impiego.Cosa significa quest'ultimo punto? Che se una persona iscritta al centro per l'impiego riceve un'offerta per partecipare a un corso di formazione o di riqualificazione professionale, oppure un'offerta di lavoro con contratto subordinato, e rifiuta questa opportunità (oppure accetta ma non frequenta il corso o non si reca regolarmente sul luogo di lavoro) automaticamente non ha più diritto a ricevere il sussidio. In particolare, la decadenza si applica se il lavoratore rifiuta di partecipare a opere o servizi di pubblica utilità mentre è disoccupato, oppure se rifiuta un'offerta di impiego «professionalmente equivalente» alle sue mansioni precedenti e la cui retribuzione è - come si legge all'articolo 62 comma 2b del ddl - «non inferiore al 20% rispetto all'importo lordo dell'indennità cui ha diritto», e ove il luogo di lavoro o la sede del corso - comma 3 - «si svolgono in un luogo che non dista più di 50 chilometri dalla residenza del lavoratore, o comunque che è raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto un'opinione su questa "clausola di non rifiuto" a Patrizia Avellani, segretaria Camera del lavoro di Genova: «Le criticità non sono legate tanto alla parte economica, poiché dalle tabelle allegate alla relazione tecnica essa risulta in linea o lievemente superiore rispetto all'attuale indennità, piuttosto all'incertezza sul reperimento delle risorse per il suo finanziamento. Per quanto riguarda l'universalità vengono escluse alcune figure professionali, i requisiti richiesti non allargano di fatto la platea dei lavoratori. Ovviamente quando andrà a regime, nel 2016, e di fatto verrà cancellata la mobilità in deroga, avremo grossi problemi di sostegno al reddito per tutti quei lavoratori coperti oggi dalla deroga. La durata, rispetto all'attuale indennità, viene di fatto dimezzata, e in presenza di grave crisi occupazionale ciò rischia di diventare un problema drammatico. Le prime conseguenze si stanno già verificando: le aziende in crisi stanno accelerando i processi di mobilità e fuoriuscita dei lavoratori al fine di utilizzare le norme attualmente in vigore».Cosa accade invece all'estero? Nei Paesi dell'Unione europea il diritto a ricevere l'indennità è strettamente collegato al salario maturato nell'ultima esperienza lavorativa, ma non tutti garantiscono in contemporanea un "salario minimo" per gli inoccupati (ossia chi non ha mai lavorato), come del resto l'Italia, o per chi dimostra di vivere in condizioni di indigenza. Tutti i Paesi dell'Ue pongono la disponibilità al lavoro come requisito fondamentale per accedere agli ammortizzatori sociali: questo perché i fondi devono essere erogati a chi si trova in uno stato di "disoccupazione involontaria", ossia è rimasto senza impiego, risulta iscritto al collocamento ed è alla ricerca attiva di una nuova collocazione. In Germania, dove si applica un sussidio tra il 60 e il 67% rispetto all'ultimo stipendio e un reddito minimo di 359 euro mensili a chi è in cerca del primo impiego, è requisito indispensabile per accedere ai sussidi il dimostrare che si sta cercando un lavoro e l'accettare un eventuale impiego che viene proposto. La stessa cosa avviene in Paesi come Francia, Spagna e Inghilterra, dove l'importo dell'indennità varia a seconda dell'età o dei contributi maturati nell'ultimo biennio. La Finlandia impone addirittura che la persona che richiede i sussidi stia ricercando un lavoro full time, mentre in Svezia e Paesi Bassi bisogna dichiarare di non aver rifiutato opportunità di lavoro tra il momento in cui si è diventati disoccupati e quello in cui si è fatta richiesta del sussidio.È giusto imporre l'obbligo di cercare lavoro per legge? Certamente, a fronte di risorse pubbliche sempre più scarse, è opportuno rendere il sussidio di disoccupazione una misura limitata nel tempo. Un "tampone" deputato esclusivamente ad aiutare una persona nel momento di transizione da un lavoro all'altro non può diventare uno "stipendio di Stato", erogato per anni, magari a persone che non intendono trovare un nuovo impiego. Il problema però si porrà per quelle persone che durante il periodo di disoccupazione non si sentiranno offrire nessuna proposta di nuovo lavoro. E questa è un'altra sfida della riforma, ancora tutta da valutare: rivitalizzare e riorganizzare i servizi rivolti a chi cerca lavoro, a cominciare dall'attività dei centri per l'impiego sparsi per il territorio.Marta TraversoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche gli articoli- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Riforma del lavoro, il ministro Fornero: «Non andrà in vigore prima del 2013» 

Riforma del lavoro, quanto porterebbe in tasca ai precari la MiniAspi?

Con la riforma del lavoro elaborata dal ministro Fornero anche l'indennità di disoccupazione non sarà più la stessa. Se il disegno di legge ora al vaglio del Parlamento non sarà modificato, il nuovo ammortizzatore sociale per chi perde il lavoro in maniera involontaria - escluse quindi le dimissioni o le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro - si chiamerà Aspi («assicurazione sociale per l'impiego», articolo 22 del ddl), e avrà una variante in forma ridotta: la MiniAspi (art. 28). Che, dati i requisiti molto stringenti per accedere all'Aspi, si prospetta essere il nuovo paracadute per i precari in senso assoluto, quelli cioè che in un anno riescono ad accumulare pochi mesi di lavoro. La differenza sostanziale con il regime precedente consiste sia nel tempo necessario a maturare l'indennità, sia nel requisito della permanenza dello stato di disoccupazione, indispensabile - secondo l'attuale disegno di legge - affinchè si instauri il diritto a percepire l'assicurazione. Superato il regime transitorio che si concluderà nel 2017, gli aventi diritto riceveranno infatti la MiniAspi mentre sono ancora disoccupati, e non più l'anno successivo come in passato. Inoltre basterà aver lavorato per un periodo di 13 settimane negli ultimi dodici mesi (nel caso dell'Aspi le settimane sono invece 52 nell'ultimo biennio, mentre gli anni di contribuzione devono essere almeno due - requisito assente per la versione ridotta). Ma a chi spetta l'indennità? In entrambi i casi - Aspi e MiniAspi - a lavoratori dipendenti con contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, inclusi dipendenti della pubblica amministrazione, artisti e apprendisti. Restano fuori invece cococo, titolari di contratti a progetto e operai agricoli. Come si articolerà in concreto la MiniAspi? La Repubblica degli Stagisti, con l'aiuto di Andrea Candidori della direzione risorse umane di Groupama, ha tracciato alcune proiezioni di sussidio per tre tipologie di lavoratori con diversi periodi di contribuzione. Il primo esempio è quello di un lavoratore con contratto a tempo determinato che abbia lavorato da settembre a novembre del 2013, quindi per tre mesi, con un lordo mensile di 900 euro e un contratto che prevede 14 mensilità. In questo caso, così come previsto dall'articolo 28 del ddl, il lavoratore avrà diritto al 75% della busta paga (se lo stipendio fosse stato invece superiore ai 1.180 euro, l'indennità sarebbe cresciuta del 25% «del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo», si legge nel ddl). Ipotizzando che abbia percepito un totale di 3.450 euro (tra straordinari e ratei di aggiuntiva, quindi tredicesima e quattordicesima), il lavoratore maturerebbe un'indennità pari a 861,84 euro al mese (l'imponibile va infatti diviso per le settimane di contribuzione e moltiplicato poi per il numero 4,33). Per quanto riguarda la durata del miniAspi, il ddl stabilisce che l'indennità «è corrisposta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione dell'ultimo anno». Il contrattista di tre mesi avrebbe quindi diritto alla MiniAspi per 6 settimane e mezzo: il secondo mese l'indennità sarà dunque dimezzata, per un totale di 488 euro. Un secondo caso è quello di un lavoratore a tempo determinato che abbia lavorato per nove mesi, con uno stipendio di 1.500 euro lordi mensili su 14 mensilità. Partendo da un imponibile di 15.750 euro, il calcolo questa volta va fatto aggiungendo il differenziale del 25%, in quanto la retribuzione supera i 1.180 euro mensili. Il lavoratore percepirebbe dunque 1.119 euro al mese per 19 settimane e mezzo, quindi quasi cinque mesi. Terzo caso è quello di un apprendista che abbia lavorato per sei mesi, pagato mille euro lordi al mese, con quattordicesima, per un totale di 8mila euro di reddito. In questo caso al lavoratore andrebbe un sussidio di 999 euro mensili per tre mesi.Non tutto è perduto poi per i lavoratori coordinati e continuativi. A dar loro un po' di respiro dovrebbe arrivare la una tantum prevista dall'articolo 35 del disegno di legge, che in base alle promesse del governo potrebbe diventare finalmente 'strutturale' e non più estemporanea come avvenuto finora. I requisiti: aver lavorato in regime di monocommittenza e non aver percepito più di 20mila euro, aver maturato un periodo di disoccupazione di almeno due mesi non stop, almeno quattro mensilità versate presso la Gestione separata nell'anno precedente e almeno un mese di lavoro nell'anno in corso. Un esempio: il titolare di un contratto a progetto di quattro mesi che avesse guadagnato meno di 20mila euro prenderebbe 2.986 euro (il calcolo è realizzato sul 5% del minimale annuo di reddito, fissato per il 2012 a 14.930 euro in base all'art. 1 della legge 233/1990, poi «moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione», come indica il ddl). L'una tantum in questo caso, in quanto superiore a mille euro, verrebbe corrisposta in tre rate mensili in ottemperanza al dettato del comma 3 dell'articolo 35 del ddl. In sostanza la cosa importante da sapere è che questo tipo di sussidio non dipenderebbe dal fatto che il collaboratore abbia avuto uno stipendio mensile di mille piuttosto che di tre-quattromila euro, ma dal numero di mesi in cui è stato impiegato. Tutto questo naturalmente a patto che il Parlamento non intervenga sul capo IV° del disegno di legge: se così fosse, le proiezioni potrebbero cambiare anche in maniera rilevante.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariatoE anche:- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta

In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?

Un giovane su tre è disoccupato. Giornali e televisioni hanno semplificato così i dati contenuti nel rapporto Istat «Occupati e disoccupati. Media 2011», diffuso all'inizio di aprile. Chi ha parlato di disoccupazione record, chi di conflitto generazionale. Ma Assolombarda, l'unione degli industriali milanesi, ha smentito seccamente questa notizia sostenendo che in realtà gli under 24 senza lavoro sono meno del 10%. Il punto è che hanno ragione entrambi: dipende solo da come si vogliono leggere i dati.Effettivamente scorrendo i numeri forniti dall'Istituto nazionale di statistica sembrerebbe proprio che l'allarme lanciato dai media sia più che fondato. Il prospetto 9, tabella dedicata al tasso di disoccupazione nella fascia di età tra i 15 ed i 24 anni, parla di un 29,1% di disoccupati. Una percentuale che nel Mezzogiorno si attesta addirittura al 40,4% e che, per le ragazze del Sud, tocca il 44,6%. In pratica, una su due è senza lavoro. Numeri che fanno notizia e che hanno così attirato l'attenzione dei media.Ma Assolombarda sul proprio webmagazine ha spiegato che «le persone tra i 15 ed i 24 anni che non trovano lavoro sono complessivamente 483mila». Una cifra pari «all'8% dei 6 milioni e 53mila italiani che rientrano in questa fascia di età». Fornendo anche una spiegazione tecnica: «Per calcolare il tasso di disoccupazione si considera solo la ‘popolazione attiva’, cioè quella che ha un lavoro o lo cerca attivamente. In una fascia di età in cui la grande maggioranza è impegnata nello studio, la popolazione attiva è di soli 1 milione e 660mila individui, contro i quasi 4 milioni e mezzo di ‘inattivi’ da un punto di vista lavorativo».Ma allora chi ha ragione? I giornali che parlano di un terzo di giovani disoccupati o gli industriali che riducono questa quota a meno del 10%? «Nei nostri comunicati stampa non scriviamo mai che un terzo dei giovani è disoccupato e lo spieghiamo ai giornalisti in conferenza stampa. Proviamo anche a correggere le agenzie, ma è difficile fermare una notizia quando diventa virale», spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesca della Ratta della divisione Formazione e lavoro di Istat. La questione, chiarisce l'analista, sta nella modalità con cui si calcola il tasso di disoccupazione.Stando alle «definizioni statistiche internazionali», questo dato non viene rapportato all'intera popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni, ma solo a quella attiva, che rappresenta il 27,4% del totale. Si tratta, in buona sostanza, di quel milione e 660mila persone cui fa riferimento Assolombarda. Per popolazione attiva si intendono quei giovani che sono entrati o cercano di entrare nel mercato del lavoro. Da un punto di vista statistico, rientrano in questa definizione coloro che, nella settimana in cui Istat ha effettuato l'intervista, hanno svolto almeno un'ora di lavoro, hanno cercato un'occupazione oppure hanno dichiarato che la inizieranno entro tre mesi. E appunto il 29,1 per cento di questi soggetti, di questi ragazzi e ragazze considerati popolazione attiva, è risultato essere disoccupato. In numeri assoluti, si tratta di quelle 483mila persone delle quali parlano gli industriali milanesi. Istat del resto calcola i disoccupati in questo modo non solo rifacendosi agli standard internazionali, ma anche per sottolineare  «la partecipazione al mercato del lavoro, perché si tratta di un indicatore economico di un certo interesse», come spiega della Ratta. Prendere in considerazione persone che rientrano nella fascia di età ma che non cercano di entrare nel mondo del lavoro, banalmente perché stanno finendo le scuole secondarie piuttosto che l'università, renderebbe meno significativo il dato. Detto brutalmente, non ha senso considerare disoccupata una persona che nemmeno sta cercando un'occupazione, nel caso specifico perché è concentrata sugli esami universitari. Quindi per chiarire una volta per tutte si potrebbe dire così: è disoccupato un terzo dei giovani italiani nella fascia d'età 15-24 anni che cercano attivamente lavoro.Il dato rimane comunque interessante: un terzo dei giovani che tenta di entrare nel mondo del lavoro si trova di fronte a una porta sbarrata. Una situazione preoccupante, che diventa ancora più grave se si considera che oltre ai disoccupati ci sono anche tanti giovani che cercano un accesso al mondo del lavoro attraverso il tirocinio. «Quando si parla dei neet, che di solito la stampa etichetta come dei 'fannulloni', si dimentica che tra questi potrebbero esserci molte persone che non risultano essere studenti né lavoratori perché sono impegnate in uno stage», sottolinea della Ratta, anticipando alla Repubblica degli Stagisti che nel 2012 verrà introdotta anche una domanda relativa ai tirocini. Così che il prossimo anno si avrà il primo dato ufficiale relativo a quanti siano gli stagisti in Italia.Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirociniE anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzione

Sono professionisti ma anche commesse e muratori; svolgono mansioni da dipendenti, ma non hanno nessuna autonomia di orario e di sede. Sulle loro prestazioni il datore di lavoro, spesso unico, ha potuto finora risparmiare parecchio. Le false partite Iva sono l'emblema di quella cattiva flessibilità che la riforma Fornero si propone di combattere, e stavolta con norme davvero severe. Tanto da aver messo in allarme non solo imprese e studi professionali, ma anche i diretti interessati. Spaventati dalla possibilità di vedere interrotti quei rapporti che, nel bene e nel male, negli ultimi anni hanno consentito a molti di loro di restare sul mercato. Secondo l'Ires in Italia sono attive circa sei milioni e mezzo di partite Iva, suddivise tra un milione di società di capitale, oltre un milione di artigiani e commercianti, tre milioni e mezzo di professionisti non regolamentati e più di un un milione di iscritti ad albi professionali. È tra queste attività individuali che secondo le stime dell'Isfol si anniderebbero circa 400mila falsi autonomi.«Le nuove norme potrebbero in effetti rappresentare un deterrente per il datore di lavoro», ammette Laura Calderoni, 37 anni [nella foto], una delle fondatrici di ivaseipartita, noto blog animato da architetti e ingegneri atipici. «Ma è necessario ripartire da un principio di legalità e la riforma è un primo segnale di contrasto al fenomeno». Per individuare i falsi autonomi, il disegno di legge arrivato in commissione Lavoro al Senato prevede che si debba tenere conto della compresenza di due di tre indici presuntivi: ovvero una collaborazione di durata superiore a sei mesi nell'arco dell'anno, che comporti una postazione di lavoro presso una delle sedi del committente e da cui il collaboratore tragga almeno il 75% dei corrispettivi annuali (anche nel caso in cui le fatture siano emesse a soggetti diversi ma riconducibili alla stessa attività imprenditoriale). Quando almeno due di queste condizioni siano verificate, l'art. 9 del ddl stabilisce che il prestatore d'opera sia da considerarsi un collaboratore parasubordinato, e come tale inquadrato dall'impresa che, in caso di rivalsa da parte del lavoratore, sarà anche costretta al versamento dei 2/3 dei contributi pensionistici ad essa spettanti per questo tipo di contratto. In mancanza di uno specifico progetto, necessario d'ora in poi per attivare il cocopro, l'impresa potrebbe essere addirittura costretta ad inquadrare il falso autonomo come dipendente a tempo indeterminato. Di qui il timore di molte associazioni di professionisti come Acta, che riunisce i consulenti del terziario avanzato, operanti per lo più al di fuori degli ordini professionali: «Prima di affidare una commessa, d'ora in poi il committente dovrebbe accertarsi che il consulente non rientri nelle fattispecie indicate. Nel dubbio preferirà probabilmente rivolgersi ad una società», spiega Anna Soru, 53 anni, presidente di Acta.«La sanzione non è automatica» chiarisce tuttavia Laura Calderoni: «sarà necessario che il lavoratore  denunci la propria condizione di falso autonomo: a quel punto dovrà essere il datore di lavoro a dimostrare il contrario».Se riuscirà a passare indenne dall'iter parlamentare - cosa che appare ormai improbabile - la norma agirà da subito nei confronti dei rapporti aperti dopo la sua entrata in vigore, mentre per quelli preesistenti le imprese avranno un anno di tempo per regolarizzarsi.Discorso a parte meritano tutte quelle partite Iva costituite da professionisti iscritti agli albi professionali, per i quali il testo prevede una parziale esclusione dal nuovo regime qualora svolgano attività «per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali». Il dispositivo non brilla per chiarezza, ma precisa che l'iscrizione ad un albo  non è «di per sé circostanza idonea a determinare l'esclusione dal campo di applicazione» della legge. Il che lascia presupporre che gli iscritti alle professioni regolamentate potranno di fatto continuare a lavorare come false partite Iva, ma solo nel caso in cui svolgano mansioni per le quali sia indispensabile l'appartenenza ad un ordine: in caso contrario saranno invece soggette alla nuova normativa. «In questo modo si creano grosse ambiguità», osserva la Calderoni, «moltissime mansioni svolte dagli architetti all'interno degli studi non sono previste dall'ordine». Come dovranno regolarsi in questi casi i professionisti resta per il momento uno dei punti più oscuri della riforma.Ma il destino degli iscritti e dei non iscritti alle professioni regolamentate si divide anche in materia di contributi pensionistici: l'articolo 36 del ddl prevede infatti che soltanto per gli iscritti alla gestione separata dell'Inps - e dunque per i professionisti non appartenti agli ordini - l'aliquota salga progressivamente dall'attuale 27% fino al 33% nel 2018, «mentre i professionisti iscritti agli albi   continueranno a versare alle rispettive casse professionali intorno al 14%. Una differenza abissale» protesta la presidente di Acta.La ratio che ha portato ad una distinzione così netta tra le due categorie non trova peraltro riscontro nella realtà in cui si muovono oggi gran parte dei professionisti italiani. «Per entrambi le condizioni di lavoro sono notevolmente peggiorate», spiega infatti Daniele Di Nunzio, 34 anni, uno dei ricercatori Ires che lo scorso anno ha seguito per l'istituto di ricerca della Cgil una delle indagini più complete mai realizzate sull'argomento. I quasi 4mila professionisti che hanno risposto al questionario online «mostrano un forte grado di subordinazione rispetto al datore di lavoro, con il quale hanno difficoltà a contrattare lo stipendio ma anche l'orario», racconta ancora Di Nunzio. Oltre che poco autonomi, molti professionisti appaiono poi letteralmente poveri: più del 20% degli iscritti e il 25% dei non iscritti dichiara di aver guadagnato meno di 10mila euro netti nel 2009.«Sul problema si deve intervenire» ammette Anna Soru, «con questi criteri si rischia però di creare un serio danno anche a chi vuole continuare a svolgere la propria attività da autonomo».Ma quanti liberi professionisti rischierebbero di scomparire con la riforma Fornero? «Le stime esistenti indicano una percentuale di false partite Iva compresa tra il 5 e il 15%, su un totale di 4 milioni e mezzo di posizioni individuali». Escludendo il milione di professionisti parzialmente esentati in quanto appartenenti ad ordini professionali, si parla quindi di circa 350mila posizioni a rischio estinzione, per i pessimisti; o assunzione, per gli ottimisti.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini E anche:- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stage- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni

Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?

L'apprendistato è un contratto a tempo determinato o indeterminato? L'annosa questione, da tempo dibattuta, si ripropone leggendo la bozza di riforma del mercato del lavoro approvata dal consiglio dei ministri il 23 marzo. Perché quella che dovrebbe essere la principale porta di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro in quel testo viene definita prima in un modo e poi in un altro.L'apprendistato è un contratto che può essere sottoscritto da un giovane di età compresa tra i 16 ed i 29 anni, ha una durata massima di 6 anni e prevede che il lavoratore svolga un determinato numero di ore di formazione. Il ministro Elsa Fornero considera questa tipologia contrattuale uno dei pilastri della sua riforma: nel disegno di legge pubblicato il 4 aprile viene definita come la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».Ma più che il ddl, in questo frangente è il testo del documento del 23 marzo a interessare. Vi si legge infatti che l'apprendistato dovrebbe essere sempre più inteso come «il punto di partenza verso la progressiva instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Il che lascerebbe supporre che si tratti di un contratto a tempo determinato. Eppure, poche pagine oltre, cambia tutto.Una delle modifiche all'attuale struttura delle norme sull'occupazione riguarda infatti un aumento del costo del lavoro delle diverse di alcune tipologie di contratti temporanei che nelle intenzioni del governo dovrebbe incentivare le aziende ad assumere a tempo indeterminato. Ebbene, nel testo in questione si legge che «l'aliquota aggiuntiva non si applicherà agli apprendisti» visto che essi sono «titolari di contratto a tempo indeterminato». Ma allora l'apprendistato è un tempo determinato o indeterminato?La Repubblica degli Stagisti ha cercato di chiarire la questione interpellando ad alcuni giuslavoristi. «Il contratto di apprendistato è sempre stato considerato come un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che ha la peculiarità di permettere un licenziamento immotivato al termine della parte formativa, senza bisogno da parte del datore di lavoro di addurre giusta causa né giustificato motivo» afferma Gianguido Balandi [foto a sinistra], ordinario di Diritto del lavoro e preside della facoltà di Giurisprudenza dell'università di Ferrara. Cosa accada lo spiega nel dettaglio Angelo Pandolfo, che insegna Diritto del lavoro alla Sapienza di Roma: «Alla fine dell'apprendistato il datore di lavoro può recedere dal rapporto. Ma se da parte dell'azienda c'è quella che si definisce "inerzia", allora questo continua automaticamente. Ed è a tempo indeterminato». Quanto spesso avviene il passaggio al tempo indeterminato? Stando all'ultimo rapporto Isfol, coloro che hanno iniziato a lavorare con un contratto di apprendistato nel 2005 sono riusciti, dopo cinque anni, a trasformare questo rapporto in un tempo indeterminato nel 44,9% dei casi.Per queste ragioni la proposta di riforma non prevede un aumento del costo del lavoro di un apprendista. Ma servirà far crescere quello dei contratti precari per convincere i datori di lavoro a preferire forme di contratto più stabili? «Il problema rimane tutto intero», contesta Claudia Pratelli [foto a destra] del dipartimento per le politiche giovanili della Cgil. «Restano in piedi tutte le oltre 40 tipologie contrattuali precarie che conoscevamo»: insomma, se l'obiettivo fosse stato quello di combattere il precariato sarebbe servito abolirne almeno qualcuna. In più «l'aumento del costo del lavoro vale per i contratti a tempo determinato, ma non per i parasubordinati» - ovvero contratti a progetto, collaborazioni coordinate e continuative, occasionali. Anzi, per queste categorie «il rischio è che l'aumento del costo contributivo si scarichi sulle buste paga nette». Chi lavora in queste condizioni infatti non ha un salario definito in base ai contratti nazionali. E quindi le aziende potrebbero ridurre i loro compensi, scaricando su di loro l'aumento del costo del lavoro.«Non solo non si è disincentivato l'utilizzo dei contratti precari» chiude Pratelli «ma contemporaneamente si produce un effetto perverso legato all'abbattimento del compenso netto». Senza essere riusciti a trasformare l'apprendistato nella principale via d'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.Riccardo SaporitiSe ti ha interessato questo articolo, leggi anche:- Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati- Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»E anche:- Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli