Categoria: Approfondimenti

Contratti a progetto nei call center, un giro di vite solo annunciato

Un film di qualche anno fa, «Tutta la vita davanti», li presentava come il luogo simbolo del precariato. Sono i call center, un tempo «meta lavorativa» dei giovani con qualifiche basse, oggi sempre più spesso tappa per neolaureati al primo impiego. Secondo Assocontact, associazione nazionale dei contact center, sono infatti circa 80mila gli addetti del settore, la maggior parte con un livello di scolarità alto - studi superiori o laurea - e oltre il 60% donne. La presenza di giovani alla prima occupazione è significativa. Degli 80mila lavoratori totali, più della metà - 46mila - sono dipendenti, per l’80% con un contratto a tempo indeterminato (spesso part time), più una quota di contratti a tempo determinato e di somministrazione. Gli altri 34mila sono collaboratori a progetto - che spesso però nei fatti svolgono vero e proprio lavoro subordinato. Il recente caso dei call center campani di Grottaminarda, nell’avellinese, dove sono state scoperte ben 211 posizioni lavorative irregolari, ne rappresenta l’ennesima dimostrazione.Nel tentativo di porre un freno all’abuso dei contratti di lavoro «flessibili», le disposizioni contenute nella riforma Fornero hanno stabilito dei limiti all’utilizzo del contratto a progetto, che riguardano anche chi lavora nei call center. Il comma 23 dell’articolo 1 stabilisce che «i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore». Ma soprattutto, poco più avanti afferma che «il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».Questo punto riguarda molto da vicino la situazione dei call center: è opportuno, però fare una distinzione tra call center inbound e outbound. Nel primo caso, gli operatori gestiscono chiamate in entrata (come accade, ad esempio, per il customer care). Anche se non è possibile fare una separazione netta, perché moltissimi di essi svolgono entrambe le attività, i call center inbound rappresentano circa il 65% del totale. I call center outbound trattano, invece, le chiamate in uscita, come nel caso del telemarketing, dove è l’operatore a contattare clienti o potenziali clienti per scopi promozionali.È chiaro che la situazione descritta dall’articolo 1, dove si parla di «compiti meramente esecutivi e ripetitivi», per i cui lavori corrispondenti non sarebbe valido il contratto a progetto, si applica alla seconda tipologia di call center: l’intenzione della riforma del lavoro è quella di ridurre il ricorso al cocopro, orientando i datori di lavoro verso forme di impiego subordinato. Per Luca D’Ambrosio (foto a sinistra), presidente di Assocontact, però, «la riforma Fornero minacciava di far sparire il contratto a progetto dalle attività outbound dei call center, non a favore dell’assunzione dei lavoratori, ma della chiusura delle attività e del loro trasferimento all’estero, a causa dell’evidente impossibilità di effettuare quelle attività con personale assunto a condizioni e con modalità accettabili». E quel «modalità» va essenzialmente letto come «costi»: perchè un contratto di tipo subordinato al datore di lavoro costa molto di più che un contratto «atipico».  Quindi il timore è che, anziché stabilizzare la posizione lavorativa dei propri addetti, molte aziende chiudano i battenti per l'impossibilità di sostenere i maggiori costi di personale. E in questo caso il sindacato di categoria ha una posizione simile a quella della sua controparte: secondo Giorgio Serao, segretario nazionale della Fistel Cisl, è infatti vero che «una situazione del genere comporterebbe  una perdita di 30mila posti di lavoro, oltre la chiusura di alcune aziende importanti. Ed è quindi fondamentale ricercare soluzioni condivise, che possano salvaguardare l’occupazione». La nuova normativa però in concreto cambia poco: l'articolo 24 bis del decreto sviluppo consente di mantenere contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cococo) o a progetto per i call center outbound. Una decisione che riprende quanto già stabilito nel 2007 dall’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, che aveva distinto tra lavoratori dell’inbound, da considerare dipendenti a tutti gli effetti, e dell’outbound, che potevano essere anche collaboratori a progetto.Un freno allo sfruttamento del lavoro flessibile dovrebbe essere però quantomeno la norma sulle retribuzioni. Il comma 23 dell’articolo 1 afferma anche che «il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività». Una contrattazione collettiva che, nel caso dei call center, si è appena aperta, comportando il blocco di nuovi inserimenti, come denuncia Assocontact. Oggi le retribuzioni di un addetto ai call center sono regolate dal contratto nazionale delle telecomunicazioni: si parla di 900 euro per un full time e dai 600 ai 750 euro per un part time (a seconda se sia al 70 o al 75%), una delle forme contrattuali più gettonate. Cifre che, però, non comprendono quello che Serao definisce «un sottobosco, costituito da aziende che non appartengono a nessun sindacato e di cui non è possibile monitorare l’operato e le retribuzioni».I cambiamenti annunciati dalla riforma si sono, insomma, conclusi con un nulla di fatto: innanzitutto la norma sancita dall’articolo 1 avrebbe riguardato solo una parte, poco più del 30%, dei nostri call center e, in ogni caso, è stata praticamente azzerata dal decreto sviluppo, che riapre la possibilità di attivare cocopro sui dipendenti di call center outbond. Con questa decisione il governo ha implicitamente ammesso che limitare i contratti a progetto - anche se in larga parte impropri - avrebbe messo in crisi o comportato la chiusura definitiva di molte aziende che gestiscono call center. Circa il 35% di esse è, inoltre, concentrata al sud, dove, in presenza di tassi di disoccupazione molto elevati, i contact center rappresentano una delle poche realtà in grado di garantire sbocchi lavorativi. Assocontact in parte tira una sospiro di sollievo: «La riforma del mercato del lavoro non riteniamo abbia dato o tolto nulla; se non fossero stati apportati i correttivi staremmo invece parlando di una situazione catastrofica», conclude D’Ambrosio. Se, però, molti posti di lavoro per il momento sono salvi, resta l’amara constatazione che ancora una volta poco o nulla è stato fatto per un settore in cui salari da fame, contratti fantasma e irregolarità sono all’ordine del giorno.Chiara Del PriorePer approfondire questo argomento, leggi anche:La riforma del lavoro porterà più lavoro ai giovani? Secondo Pietro Ichino sìRiforma del lavoro approvata: e adesso che succede?Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato

H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up

«Il nostro obiettivo è quello di sviluppare un rapporto di collaborazione già proficuo tra tre acceleratori d'impresa protagonisti della scena italiana: fare sistema, aumentare la capacità di investimento e concentrarla sulle start-up più interessanti, evitando dispersioni».  Riccardo Donadon, patron di H-Farm, racconta così la genesi di Alliance - un progetto che unisce oltre all'incubatore di Ca' Tron anche la realtà milanese di Boox e quella fiorentina di Nanabianca.Non si tratta di una fusione ma, come dice il nome stesso del progetto, di un'alleanza. «È un'iniziativa nata da diversi co-investimenti», prosegue Donadon, «non è escluso che in futuro siano sviluppate delle iniziative proprie di Alliance, ma al momento si vuole mantenere questo carattere assolutamente operativo e pragmatico, coordinando gli sforzi di tre soggetti indipendenti senza creare sovrastrutture o duplicazioni». Detto altrimenti, uno startupper non potrà chiedere di essere incubato in Alliance ma appoggiandosi ad uno dei tre acceleratori avrà accesso alle competenze e ai servizi forniti anche dagli altri due.Si tratta di tre dei principali incubatori attivi nel panorama italiano. H-Farm fa base in provincia di Treviso, ma negli anni ha aperto sedi a Seattle, Londra e Mombai. Sono più di trenta le imprese accolte all'interno della struttura, sei delle quali hanno già superato la fase di exit. Ovvero, una volta cresciute e consolidate, sono state cedute ad altre realtà, completando così il loro percorso di start-up. La realtà fondata da Donadon ha ospitato, a maggio e a settembre, l'ISDay, ovvero i due incontri con il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera. Durante il secondo c'è stata la presentazione di «Restart Italia», le proposte di sostegno alle nuove aziende formulate da una task force voluta dallo stesso esponente del governo e poi confluite in larga parte nel decreto Sviluppo bis.Un gruppo del quale oltre a Donadon fa parte anche Andrea Di Camillo, uno dei fondatori di Boox. Questa realtà, con sede a Milano, ha oggi in portafoglio nove start-up. Tra queste ci sono Fubles, social network per chi cerca amici con cui giocare a calcetto, e Viamente, azienda che si occupa di ottimizzazione dei percorsi per corrieri e distributori. Il terzo partner di questo progetto è Nanabianca, incubatore fiorentino creato dal team che nel 1994 diede vita a Dada. Questa realtà ospita oggi Timbuktu, una delle prime realtà raccontate da Startupper.La nascita di Alliance garantirà innanzitutto nuovi orizzonti alle imprese attualmente incubate nei tre acceleratori. «Sicuramente il network potenziale si amplia in maniera consistente», spiega Donadon alla Repubblica degli Stagisti: «ogni realtà ha un approccio e un bagaglio di competenze specifico e dal confronto scaturiscono sempre grandi vantaggi». Questo non significa che il percorso seguito oggi da queste start-up debba «necessariamente cambiare». Piuttosto, «se dovessero essere intenzionate a spostarsi in una struttura diversa su Milano o Firenze avranno un punto di appoggio importante». Un altro vantaggio è legato alla «dote di competenze e contatti locali, nazionali e internazionali» di ciascuno dei tre incubatori. «Anche sul fronte della capacità di investimento, l'unione di più soggetti permette di spingersi anche oltre il tradizionale seed capital degli  acceleratori». I quali, unendo i fondi che mettono a disposizione delle aziende, potranno così sostenere anche un finanziamento più consistente di quelli attualmente concessi alle start-up.Perché in sostanza di questo si occuperà Alliance: «trovare aziende interessanti, finanziarle e spingerle verso il mercato». Non cambieranno i meccanismi di selezione, nel senso che «ogni acceleratore mantiene assoluta indipendenza nelle sue scelte di investimento, ma ovviamente c'è una forte convergenza nelle modalità di selezione». Mentre non è escluso che un'impresa individuata a Roncade finisca per essere incubata a Milano piuttosto che a Firenze. «Per la localizzazione non ci sono modalità di assegnazione predefinite, si valuta secondo l'opportunità e i singoli casi». Senza dimenticare, poi, che il processo di incubazione potrebbe svolgersi in futuro anche in altre realtà. Sì perché «la naturale evoluzione» di Alliance è proprio quella di «aprirsi ad altri soggetti che ne sposano la visione».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Università in Europa, quanto mi costi

Dopo aver visto come funziona in Spagna il sistema di tassazione universitaria, la Repubblica degli stagisti ha indagato sui costi dell’università negli altri principali Paesi europei per capire dove conviene studiare e se anche altrove, come in Italia e in Spagna, il supporto economico dei genitori è indispensabile. Ebbene, quello che emerge è che, a parte l’Inghilterra, i Paesi in cui le tasse costano meno sono quelli più ricchi.In Francia le università pubbliche hanno tutte gli stessi costi: ci vogliono 181 euro all’anno per la licence (laurea triennale), 250 euro per i master (laurea magistrale), che diventano rispettivamente 120 e 164 se si è in possesso dei requisiti di borsista in base al reddito. Ci sono però studenti, quelli con i redditi più bassi, che pagano solo 30 euro all’anno. I dottorati costano 380 euro (254 con  borsa). A questi importi possono aggiungersi costi supplementari per prestazioni specifiche, che possono aggirarsi tra i 60 e i 140 euro. Questi supplementi sono consentiti dalla legge  solo per servizi non essenziali per l’apprendimento. Il punto è capire quali sono i servizi essenziali e quali no: è capitato che alcune università abbiano aumentato i costi per le spese della biblioteca universitaria o dei servizi informatici o per l’apertura del campus dalla mattina presto alla sera tardi. Secondo i sindacati studenteschi, come l’Unef, si tratta di aumenti spesso illegali.Lo Stato, comunque, si fa carico della gran parte delle spese per la formazione e i borsisti ricevono anche assegni extra oltre allo sconto sull’immatricolazione.Più care sono le scuole pubbliche di ingegneria, paragonabili ai nostri politenici, che costano 596 euro all’anno e che prevedono due anni di classes préparatoires, ovvero corsi di insegnamento universitario, generalmente tenuti nei licei, ai quali possono accedere gli studenti che si sono distinti per il loro alto rendimento scolastico. Le classes préparatoires preparano gli studenti ai concorsi di ammissione delle Grandes Écoles, cioè gli istituti di livello superiore caratterizzati da un'alta qualità dell’ insegnamento, ma anche da selezioni per l’accesso molto dure (ad esempio per l’École Normale Supérieure, l’École polytechnique).Le Grandes Ecoles più prestigiose prevedono un assegno di 1500 euro al mese più vitto e alloggio per gli studenti, quindi il discorso si rovescia e gli studenti vengono pagati per studiare.Il costo di iscrizione negli istituti privati è notevolmente più alto e oscilla tra i 3mila e i 10mila euro all’anno. Le più care sono le Business school, come l’École supérieure des sciences économiques et commerciales. Tuttavia, nonostante il loro costo elevato, anche in queste scuole le tasse coprono solo il 30% dei costi effettivi degli studi, il resto è costituito da sussidi statali o risorse interne.La principale differenza del sistema di tassazione francese rispetto agli altri Paesi europei è l’obbligo di  pagamento dell’assicurazione sanitaria degli studenti, che costa circa 200 euro all’anno. Ogni studente francese o straniero riceve dal governo un aiuto per la casa, la Caf, che varia a seconda della città e del tipo di appartamento, se si è borsisti o meno. Il contributo è di circa 115 euro al mese se si vive in un appartamento con altre persone (150 se si è borsisti) e 200 se si vive soli (250 euro con borsa di studio). «Sono molto contento del sistema universitario francese, soprattutto per quello che accade negli altri Paesi» afferma Emmanuel Reilhac, studente di matematica a Limoges. «Potrebbe essere molto meno caro, o gratuito come in Norvegia, potrebbero esserci molte più borse di studio, nuove residenze universitarie, ma mi sembra tutto sommato un buon sistema il nostro». Soddisfatto anche Amaury Blais, ex studente di ingegneria alla Ecole superieure electronique et du numerique (ISEN) a Lille e che attualmente lavora in Camerun per l’azienda Capgemini: «In Francia ci sono sempre soluzioni per studiare quello che si vuole, ma bisogna mettere il massimo impegno nello studio». «Io ho studiato in un’università privata» racconta Sarah Spiegel, ex studentessa dell’Université catholique de l'Ouest. «Pagavo 3mila euro all’anno, molto più che nelle università pubbliche. Se si riesce a ottenere una borsa di studio dal Crous (Centro regionale di opere universitarie e studentesche) si può sopravvivere, ma in genere c’è bisogno di un’altra fonte di reddito per studiare».Specularmente il Paese europeo in cui gli studenti pagano le tasse universitarie più alte è l’Inghilterra. Qui, infatti, dopo l’ultima riforma universitaria, le rette sono addirittura triplicate, arrivando a toccare il tetto delle 9mila sterline (circa 11mila euro) ogni anno. Solo le università che danno garanzie di sostegno economico per studenti di estrazione sociale più bassa possono toccare i picchi massimi. Le borse di studio, normalmente, si aggirano intorno alle 3mila sterline annue.Per far fronte alla spesa, gli universitari inglesi spesso ricorrono a un prestito dello Stato, che saranno tenuti a restituire solo quando inizieranno a lavorare e guadagneranno 15mila sterline all’anno (circa 21mila euro). L’aumento delle tasse è la principale causa della riduzione delle iscrizioni alle università inglesi, diminuite quest’anno del 9% circa rispetto all’anno scorso (dati Ucas, Universities and colleges admission service). Molti giovani stanno abbandonando gli studi o decidendo di emigrare per studiare in Paesi come la Scozia - dove l’università è gratuita - ma anche Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, Francia e Spagna. In Irlanda del Nord e Galles il tetto delle tasse è rimasto invariato a 3290 sterline. In Germania le università sono finanziate dai Lander, ovvero dagli Stati federali. Fino al 2005 l’università era completamente gratuita, poi una sentenza della Corte costituzionale tedesca ha sancito l’incostituzionalità della legge che proibiva la tassazione universitaria. In seguito a questa sentenza, ci sono state molte proteste degli studenti e ancora oggi l’introduzione della tassazione è molto dibattuta. Alcuni Stati federali hanno introdotto il massimale di 500 euro all’anno (Baviera e Bassa Sassonia), altri 5 Stati lo avevano fatto negli anni scorsi ma poi sono tornati sui loro passi (Baden-Württemberg, Hamburg, Hesse, Saarland and North Rhine-Westphalia). A parte Baviera e Bassa Sassonia, negli altri 14 Stati l’università pubblica è gratuita, fatta eccezione per un contributo amministrativo che si aggira intorno ai 50 euro a semestre e che serve per l’adempimento delle pratiche burocratiche. Non ci sono borse di studio finanziate dalle università, ma una serie di istituzioni pubbliche e private le assegna, solitamente per aiutare gli studenti a sostenere i costi dell’alloggio e dei libri. Inoltre c’è una legge che assicura alle persone bisognose un assegno di 650 euro al mese per 4 o 5 anni se le loro famiglie non sono in grado di sostenere i costi. Una parte – normalmente la metà – di questi assegni è un prestito a tasso zero che deve essere poi rimborsato. Alcuni Stati prevedono tasse solo per i livelli superiori di istruzione universitaria (dal master in poi), mentre altri le richiedono agli studenti che impiegano più del tempo previsto per terminare gli studi (5 o 7 anni). «Le nostre tasse non sono alte se messe a confronto con quelle di altri Paesi» commenta sicura Britta Uhde, studentessa di selvicoltura a Dresda.Le università di Norvegia, Finlandia, Svezia e Danimarca sono totalmente gratuite per studenti locali e per quelli provenienti da altri Paesi dell’Unione europea. Pagano solo gli studenti di Paesi che non fanno parte dell’Unione a 27. Oltre ad essere gratuite, le università del nord Europa danno la possibilità agli studenti di pagarsi da soli, senza il sostegno dei genitori, tutto il periodo di studi: ai danesi tra i 18 e i 20 anni, per esempio, è concesso un assegno che dipende dal reddito dei genitori, ma al di sopra dei 20 anni tutti gli universitari che vivono da soli hanno diritto a 750 euro al mese. «Ho studiato anche in altri Paesi e la mia idea è che il nostro è il miglior sistema al mondo: tutti hanno accesso a un’educazione libera e gratuita, tutti ricevono una borsa di studio, lo studente ha anche a disposizione aiuti gratuiti come lo psicologo» racconta Melisa Rondic, studentessa danese di origine bosniaca, che studia International business comunication all’università di Odense. «Inoltre esiste un vero dialogo tra studenti e professori, ai quali ci si rivolge come a una persona di pari livello. Gli esami non consistono in una ripetizione di quello che ha detto il professore in aula, ma mirano a verificare la capacità di elaborare proprie soluzioni a problemi. Non viene valutato se si dice la cosa corretta o vera, ma se si è stati in grado di risolvere problemi in maniera autonoma».Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali e inalienabili della persona. Se però in alcuni Stati è effettivamente garantito, tanto da essere un indicatore del funzionamento della società, della considerazione che queste hanno dei giovani e del loro futuro, dell’uguaglianza di possibilità offerte a tutti, in altri Paesi è rimasto solo un diritto sulla carta. L’Europa è una comunità molto frammentata e le opportunità offerte dagli Stati ai giovani universitari per accedere liberamente agli studi sono spesso incomparabili tra di loro.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Tasse universitarie in Europa. Spagna, la bocciatura costa- Studiare costa, ma in Italia i prestiti d'onore ancora non decollano- Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all'osso- Borse di studio, un montepremi complessivo a cinque zeri finanzia formazione e idee

A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo

La convinzione di fondo è che il futuro del giornalismo passi da qui. Anche per questo Clara Attene, 30 anni, ha dato vita a Spazi Inclusi, service giornalistico con sede a Torino fondato a novembre dello scorso anno insieme a due colleghe: Mariachiara Voci (37) e Silvia Alparone (39). «Mi sono laureata in Scienze della comunicazione a Trieste nel 2006 e poi ho passato le selezioni per l'istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, che ho completato nel 2008». E che le ha permesso di svolgere stage (purtroppo completamente gratuiti) in alcune importanti realtà giornalistiche: innanzitutto il Sole24Ore e il Venerdì di Repubblica, testate per le quali tuttora scrive, quindi Radio Popolare e la sede dell'agenzia Ansa di Bruxelles. Terminati gli studi ha iniziato con una serie di contratti di collaborazione pagati al pezzo, «che purtroppo sono la regola per gran parte della categoria». Una categoria che ha recentemente cominciato a farsi sentire chiedendo a gran voce l'approvazione del disegno di legge sull'equo compenso giornalistico: «Vista la situazione attuale, credo che sarebbe una norma di civiltà» conferma la Attene «anche perché in questo momento c'è bisogno di educare il mercato. C'è l'idea che il lavoro intellettuale non abbia valore, invece ce l'ha eccome: se chiedo una consulenza ad un avvocato senza che si arrivi ad una causa in tribunale, devo comunque pagarlo, no?». Lei ha scelto di non aspettare i tempi lunghi del parlamento e di mettersi in proprio. «Nel 2010 sono tornata a Torino e tramite il mio caporedattore ho saputo che c'era una giornalista, Mariachiara, che cercava un collega con cui condividere un ufficio». I giornalisti freelance infatti lavorano normalmente da casa propria, oppure affittano uno spazio e condividono le spese. «Abbiamo un ufficio in coworking in via Verdi a Torino. Nello stesso stabile ci sono un'agenzia di comunicazione e un ufficio di grafica». È stato quest'ultimo, una volta che a Clara e Mariachiara si è aggiunta Silvia Alparone e tutte e tre hanno deciso di creare un service giornalistico, a realizzare il logo di Spazi Inclusi. «Il nome nasce dal gergo giornalistico [si tratta della formula che indica la lunghezza in battute degli articoli, ndr], ma c'è anche l'idea dell'inclusione che è nata dalla nostra esperienza: questo è un luogo in cui ci si ritrova e ci si confronta. Abbiamo messo insieme le nostre rubriche di contatti, le idee, gli strumenti di lavoro». Ma di cosa si occupa questa start-up? «Creiamo per committenti diversi dei prodotti editoriali multimediali che abbiano un contenuto di taglio giornalistico». Articoli, servizi radiofonici, video per la televisione o per Internet: sono questi i prodotti di Spazi Inclusi. Le tre fondatrici hanno invece deciso di escludere di lavorare come ufficio stampa, perché «per quanto sia un lavoro complementare a quello del giornalista, si tratta di ruoli che non possono coincidere». L'idea di lanciare una realtà del genere nasce dalla convinzione che «vista la situazione economica delle redazioni ci sarà sempre di più la tendenza ad esternalizzare», affidandosi ai freelance pagati "a pezzo". Questi ultimi «possono considerarsi come dei cani sciolti se sono inviati di un grande quotidiano, altrimenti rischiano di innescare una guerra tra poveri. La nostra idea è quella di provare a sistematizzare la collaborazione, per confrontarci in maniera diversa con le redazioni». L'offerta è quella di un gruppo «con competenze diverse ed approfondite su diversi settori, con conoscenze di tutte le tipologie di media». Una realtà che ha una forza contrattuale maggiore di quella del singolo giornalista, così da riuscire a spuntare dei prezzi migliori. E i pagamenti? «Alcuni lavori vengono pagati come se fossimo collaboratori, per altri c'è una contrattazione relativa al tempo necessario per produrre i contenuti richiesti». Dal canto loro «le redazioni sembrano interessate, anche se sappiamo che il mercato non si cambia in un giorno. Con il tempo, però, penso che inizieranno a confrontarsi con realtà come la nostra e a capire che la contrattazione sul singolo pezzo non è più la forma adatta. Anche perché discutiamo sempre di libertà di stampa, ma non c'è libertà senza un compenso equo». Per la loro start-up Clara Attene e le sue socie hanno scelto la forma dello studio professionale associato, «la formula più leggera per partire». Nessun capitale sociale versato, costi mensili intorno ai 500 euro tra affitto dell'ufficio e altre spese. Per il resto «ognuna usa il proprio computer, abbiamo solo dovuto realizzare i biglietti da visita e investire 500 euro per creare il sito Internet». Quindi hanno iniziato a farsi conoscere. «In alcuni casi ci siamo presentate direttamente, come è successo per Il Fatto Quotidiano. Questa primavera invece siamo state al Festival del giornalismo di Perugia per presentarci alle redazioni. Mentre a settembre siamo stati tra i protagonisti della Social media week di Torino». Del loro lavoro si è accorta l'associazione della stampa subalpina che, riconoscendo il taglio innovativo di Spazi Inclusi, ha erogato un contributo di 2mila euro a fondo perduto. Per il resto «stiamo studiando i bandi europei alla ricerca di finanziamenti». Nonostante le difficoltà, le tre compagne d'avventura riescono a mettere insieme uno stipendio tra le attività della start-up e le varie testate per le quali scrivono. Così come garantiscono il pagamento, anche in questo caso in base al lavoro svolto, per i diversi collaboratori che ruotano intorno all'agenzia. Il pareggio di bilancio è ancora lontano, ma aver dato vita ad un service giornalistico è meglio che lavorare in solitudine e per pochi euro al pezzo.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app- Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sull'equo compenso per i giornalisti? 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Bandi e progetti per finanziare le start-up. In attesa che il crowdfunding diventi realtà

Una delle principali novità introdotte dal decreto Sviluppo bis riguarda il crowdfunding, ovvero la possibilità di raccogliere risorse a sostegno della propria start-up attraverso la Rete. Perché questa norma diventi operativa, a meno di modifiche al testo durante l'iter parlamentare, servirà attendere 90 giorni dalla data di conversione in legge del decreto. Entro questa scadenza infatti la Consob dovrà emanare le «disposizioni attuative» dell'articolo 30, quello che introduce anche in Italia questo particolare meccanismo di finanziamento. Fatti due conti, visto che il decreto è stato firmato dal Presidente della Repubblica il 17 ottobre, l'approvazione del Parlamento dovrà avvenire entro il 17 dicembre. Quindi le norme attuative si avranno per l'inizio della primavera.Nel frattempo per gli startupper in cerca di risorse non restano che due strade: affidarsi alle cosiddette tre 'F', ovvero family, friends and fool oppure mettersi in cerca di uno dei tanti bandi di sostegno alle giovani imprese lanciati dalle regioni e dalle istituzioni locali. Come quelli pubblicati da due Camere di Commercio. Il primo è Startup Venture della CCIAA di Milano ed è rivolto a società di capitali nate da meno di 48 mesi con sede legale nella provincia meneghina il cui capitale sociale sia detenuto per almeno due terzi da under 40. Aperto il 26 ottobre, il progetto prevede due fasi: nella prima i titolari saranno coinvolti in un corso di formazione dedicato alla pianificazione finanziaria e all'accesso al credito, quindi riceveranno un voucher per l'inserimento in azienda di un manager over 45 con alta qualifica. A disposizione ci saranno 145mila euro. Le domande saranno accolte fino ad esaurimento fondi e comunque non oltre il 30 novembre.Con la fine di ottobre si chiude invece «Valoreassoluto» un progetto della Camera di Commercio di Bari destinato alle aziende che hanno sede nella provincia del capoluogo pugliese e che sono attive in uno di questi settori: informatica, salute, energie rinnovabili, integrazione sociale, meccanica. In una prima fase una giuria interna alla CCIAA selezionerà i cinque migliori progetti, che riceveranno un contributo pari a 10mila euro ciascuno. Quindi un comitato esterno indipendente valuterà il grado di innovazione delle singole aziende, che sulla base dei risultati di questa analisi potranno ricevere un contributo per un importo massimo di 100mila euro.Oltre alle realtà camerali, anche le regioni sono impegnate nel sostegno alle nuove imprese. Fino al 31 dicembre è possibile presentare domanda per ottenere i contributi messi a disposizione dalla giunta dell'Emilia-Romagna. Il bando è aperto alle piccole imprese aperte nel territorio regionale dopo il 1 gennaio del 2010 ed impegnati nella ricerca e nello sviluppo di prodotti e servizi ad alta tecnologia. Questo significa che devono lavorare sfruttando un brevetto e aver stipulato un accordo di collaborazione con una delle università o degli enti di ricerca della Rete alta tecnologia dell'Emilia-Romagna. Le spese finanziabili vanno dall'acquisto di macchinari all'affitto degli spazi, fino a quelle di promozione e partecipazione a fiere di settore. La regione finanzia il 60 per cento di ogni singolo progetto, con il vincolo che quest'ultimo debba comportare una spesa minima complessiva di 75mila euro. L'importo massimo concesso alle start-up è pari invece a 100mila euro.In Veneto l'Osservatorio regionale per le politiche sociali ha invece lanciato «Crea Lavoro», un bando per i giovani che hanno un'idea e vogliono trasformarla in un'impresa, sostenuto da un contributo regionale di 2 milioni di euro: ai selezionati viene garantito un finanziamento fino a 50mila euro, che i beneficiari dovranno integrare con un importo pari al 10 per cento. Tra le spese ammissibili l'acquisto di macchinari, materiali, software, brevetti e licenze. Possono partecipare al progetto giovani di età compresa tra i 18 ed i 35 anni che siano cittadini italiani residenti in Veneto da almeno 5 anni. I partecipanti non devono essere titolari di impresa, né avere quote azionarie e/o partecipazioni superiori al 10% in società già costituite alla data di scadenza del bando, fissata per il prossimo 21 dicembre.Le opportunità per ottenere dei finanziamenti dunque non mancano. Basta avere il tempo di cercarli e di espletare tutto l'iter di presentazione delle richieste. In attesa che, si spera senza ritardi, la primavera porti con sé l'entrata in vigore del crowdfunding, aprendo così alle start-up nuove forme per il reperimento delle risorse necessarie per crescere. Riccardo Saporiti startupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Autunno, è tempo di start-up: finanziamenti e bandi da cogliere al voloVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa  

Altro che choosy: un'indagine su giovani e lavoro smentisce il ministro Fornero

Sfigati, monotoni e mammoni, ma anche choosy, cioè «very careful in choosing, highly selective» secondo i dizionari di lingua inglese, «altamente selettivi nelle loro scelte».L’anglicismo, che ha avuto una tale risonanza in questi giorni da avere buone probabilità di entrare a far parte del nostro lessico comune, è stato utilizzato dal ministro del lavoro Elsa Fornero con l’intento di spronare i giovani a un ingresso rapido nel mercato del lavoro, senza attendere per anni l’occupazione dei loro sogni. La traduzione «schizzinosi» non rende abbastanza l’idea della scelta: non a caso l’aggettivo è un derivato del verbo to choose. Pesantemente contestata per le sue parole, la Fornero è subito tornata sui suoi passi, spiegando quanto da lei affermato poco prima: «Non ho mai detto che i giovani italiani sono schizzinosi. I giovani italiani sono disposti a prendere qualunque lavoro, tanto è vero che sono in condizioni di precarietà. Ho detto che in passato poteva capitare, quando il mercato del lavoro consentiva scelte diverse». Ma la smentita, osservando le due dichiarazioni a confronto, a molti non è sembrata pienamente convincente.I social network sono stati inondati da messaggi di indignazione e di ironia: tanti giovani, intrappolati nella precarietà pur avendo magari conseguito alti titoli di studio, si sono sentiti offesi dalle parole del ministro. Ma, al di là delle reazioni a caldo, a smentire le affermazioni della Fornero è stata un’indagine presentata da Ial (Innovazione, apprendimento, lavoro) e Cisl, intitolata Il futuro delle nuove generazioni in Italia. Su 3600 intervistati, il 71% degli under 35 si è detto disposto ad accettare qualsiasi lavoro, anche non interessante, purché retribuito. Solo uno su cinque dimostra un'attitudine choosy, sostenendo che oggi è invece preferibile attendere per trovare un lavoro che rispecchi le proprie aspirazioni. Il 91%, infine, considera la ricerca di un’occupazione la priorità assoluta, persino più importante dei rapporti familiari. «La ricerca di Ial-Cisl conferma che i rappresentanti del governo farebbero bene a proporre iniziative concrete per i giovani piuttosto che rilasciare commenti offensivi» spiega alla Repubblica degli Stagisti il segretario Confederale Cisl, con delega alle questioni giovanili, Liliana Ocmin. «Il Paese deve poter offrire possibilità occupazionali, dando maggiore spazio a ricerca, innovazione e al merito. Deve capire che abbiamo un immenso capitale umano, che non può essere costretto a fuggire all’estero. Tuttavia» continua la Ocmin, dando in parte ragione alla Fornero  «in questi tempi di crisi non si può fare affidamento solo sul welfare e le famiglie devono responsabilizzare di più i figli prima della laurea, spingendoli a fare anche lavori umili. C’è bisogno di un ripensamento complessivo della società sul riconoscimento sociale di alcuni lavori che saranno sempre più utili in futuro, come l’assistenza agli anziani». E i giovani? Si dividono. I più rumorosi sono naturalmente quelli che contestano il concetto di choosy e rinfacciano alla Fornero di parlare senza conoscere la situazione giovanile, da una condizione privilegiata: sono gli stessi che hanno inondato Facebook negli ultimi due giorni con messaggi di dissenso, istantanee anonime o cartelli scritti a mano. Ma perchè i giovani sono cosi solerti nell'indignarsi per una frase e non si mobilitano altrettanto accoratamente per vere e proprie battaglie che li riguarderebbero molto più da vicino? Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto a Giuseppe Failla, portavoce del Forum nazionale dei giovani.«In un contesto di grandi possibilità e opportunità, la frase del ministro avrebbe sortito effetti certamente diversi, ma in un Paese bloccato come l'Italia, con i tassi di disoccupazione giovanile che conosciamo bene e le conseguenti ricadute per gli stessi anche sul piano personale, familiare e psicologico, ritengo naturali le reazioni alle quali abbiamo assistito. Ció detto, è senza dubbio vero che questo non é l'unico motivo che dovrebbe spingere i giovani italiani all'indignazione. Purtroppo la mobilitazione giovanile nel nostro Paese fatica ad essere organizzata, coesa, a rappresentare le istanze di una intera generazione al di sopra delle differenze culturali, sociali, politiche che esistono tra i giovani italiani. Il rischio, in tal senso, é che prevalgano visioni populistiche o fintamente giovanilistiche».Sulla stessa linea anche Ilaria Lani, coordinatrice politiche giovanili della Cgil, che peraltro non risparmia una stoccata alla Fornero: «Di fronte ad un messaggio di pubblica offesa, con un carattere così simbolico, è facile innescare la reazione sul web. Molto più difficile per una generazione che ha tanti lavori, tante condizioni, tanti contratti - e pochi luoghi di incontro - organizzare battaglie comuni: in questo caso non basta il web, bisogna organizzarsi, elaborare proposte, rischiare in proprio. E poi servono interlocutori e controparti chiare affinchè sia visibile lo sbocco. Tutto questo è molto difficile ma se le nuove generazioni non si organizzano rimarranno sempre schiacciate in una eterna condizione di giovinezza e subalternità».Eppure capita anche di trovare ragazzi che non si sono scandalizzati per le parole della Fornero, come nel caso di Davide Maria De Luca, giornalista di 27 anni che scrive di economia e lavoro per ilpost.it: «Siamo i figli viziati di una generazione che si è arricchita, ha comprato casa e ci ha mandato a studiare all'università. A parole siamo bravissimi a dire che siamo disposti a tutto pur di lavorare, ma nella pratica le cose cambiano e ci sono parecchi mestieri che non riteniamo alla nostra altezza. Fornero è stata coraggiosa, come al solito, nel dire una di quelle cose che sappiamo tutti, ma non diciamo mai».Il ministro avrebbe potuto evitare quelle parole, ma se non altro ha aperto un dibattito nella società, toccando un tasto molto dolente di una generazione stufa di essere additata come viziata e passiva. Gli adulti dovrebbero ammettere di aver lasciato sulle spalle dei giovani un peso enorme, quello del debito pubblico, e i ragazzi  riconoscere che molti di loro, anziché cercare di reagire alla crisi, preferiscono la rassegnazione o la comodità dell’ammortizzatore sociale familiare. Antonio Siragusa Hai trovato interessante questo articolo? Leggi anche:- I giovani sono i più colpiti dalla crisi, il Cnel: «Sempre più difficile trovare il lavoro per cui si è studiato»- In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?- Trovare lavoro in Europa, per i giovani c'è Eures    

Tasse universitarie in Europa. Spagna: la bocciatura costa

I sistemi universitari europei si muovono all’interno di due concezioni opposte. La prima considera l’università un servizio di carattere privato, per cui è lo studente che deve far fronte ai costi. Secondo un’altra concezione, invece, il fatto che una quota sempre maggiore di popolazione consegua alti titoli di studio genera vantaggi per l’intera società (in termini, ad esempio, di miglioramento del livello culturale e di promozione del’uguaglianza sociale) tali da giustificare il fatto che lo Stato si faccia carico della totalità  - o quasi - dei costi.Ci sono Paesi europei in cui studiare costa molto, come l’Inghilterra. Fino al 2011-2012 l’iscrizione annuale costava circa 4mila euro, ma da quest’anno accademico il governo ha autorizzato le università a richiedere agli studenti fino addirittura a 9mila sterline (11mila euro circa). Gli universitari possono richiedere dei prestiti per pagare le tasse e restituirli quando iniziano a lavorare con un reddito annuo minimo di 21mila sterline. Altri Paesi garantiscono, invece, un’università gratuita con ampia disponibilità di servizi, come Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia (solo i master sono a pagamento), ma a costo zero sono anche le università di Austria, Repubblica Ceca, di molti Lander tedeschi (escluse Baviera e Bassa Sassonia), Scozia, Cipro, Malta e Grecia. In Croazia, Lituania e Slovenia paga solo una piccola percentuale di studenti. Pagano tutti nel Belgio fiammingo, in Bulgaria, Islanda, Olanda, Polonia, Slovacchia e Turchia. Per farsi un’idea più precisa si può leggere il rapporto, con tutti i costi e benefici per gli studenti delle università europee, realizzato da Eurydice, la rete di informazione sull’istruzione in Europa istituita dalla Commissione europea e dagli Stati membri dell’Unione. In alcune nazioni europee paga la maggior parte degli studenti in rapporto al reddito individuale o familiare: Belgio (zona vallona), Estonia, Francia, Ungheria, Italia, Lettonia e Romania. Bisogna però considerare che in alcuni Stati, soprattutto quelli federalisti, ci sono grandi variazioni di costi a seconda della regione e dell’università.Per quanto riguarda le borse di studio, Danimarca, Svezia, Cipro e Malta le assegnano a tutti gli studenti, che hanno così a disposizione un vero e proprio stipendio per studiare e per vivere autonomamente (in Danimarca è di mille euro al mese), mentre Finlandia, Olanda, Norvegia, Svizzera e Regno Unito riservano le borse alla maggior parte degli iscritti. In altri Paesi, invece, sono pochi quelli che riescono a conseguire una borsa di studio (Italia e Spagna sono tra questi).Gli aiuti familiari e i benefici fiscali sono altre formule per compensare il costo degli studi, prendendo in considerazione il reddito individuale (come nei Paesi nordici) o la situazione economica familiare. Almeno il 5 per cento degli studenti europei, infine, usufruisce di prestiti per pagarsi gli studi.Il viaggio della Repubblica degli Stagisti alla scoperta del sistema della tassazione universitaria nei diversi Paesi europei parte dalla Spagna, dove è finora prevalsa una logica di finanziamento pubblico con una partecipazione degli studenti, che consiste nel pagamento di una ‘matricola’ per gli studi e di tasse specifiche per le pratiche e i servizi offerti dalle singole università. Gli studenti spagnoli, secondo l’Osservatorio del sistema universitario spagnolo, pagano circa il 20% del costo complessivo dei loro studi, il che colloca la Spagna al sesto posto in Europa nella classifica dei Paesi più cari per studiare.Il governo centrale fissa i livelli minimo e massimo di incremento percentuale annuo delle tasse (che prende come base l’incremento dell’indice dei prezzi al consumo) e poi ogni comunità autonoma stabilisce, all’interno di un range prestabilito, i prezzi e il livello di aumento che applicherà. Anche le università possono stabilire costi aggiuntivi.  La conseguenza è una forte variabilità dei prezzi, anche per lo studio delle stesse materie, in differenti territori.  Dall’introduzione nel 2008 del sistema “Bologna” (che ha riformato i sistemi di istruzione superiore europei), in Spagna esistono gli studi di primo livello, il cosiddetto “grado”, che corrisponde alla nostra laurea triennale e che ha prezzi molto variabili da regione a regione: la carriera di Medicina costa 2371 euro all’anno in Catalogna, 1628 a Madrid e 749 in Andalucia. Giurisprudenza costa rispettivamente 1516, 1279 e 749 euro all’anno. Esistono poi i master ufficiali (laurea magistrale) e i master speciali, che arrivano a costare fino al doppio di quelli ufficiali. La situazione finanziaria delle regioni spagnole è molto grave e per l’anno accademico in corso l’aggravio dei costi è stato molto significativo, con un provvedimento del governo  che ha penalizzato soprattutto gli studenti ripetenti.Diversamente dall’Italia, dove si paga una tassa regionale e in genere due rate annuali in base al reddito, in Spagna si pagano le singole materie, ognuna delle quali ha un numero prestabilito di crediti.  Per esempio al Master in Archeologia dell’università di Granada un credito vale quasi 30 euro: per ottenere i 60 crediti dell’anno di master, infatti, gli studenti pagano 1770 euro. Un esame di 4 crediti, dunque, ne vale quasi 120.Se si è bocciati in una o più materie, i prezzi delle singole ’asignaturas’ lievitano notevolmente. Se si è bocciati per due volte nella stessa materia, per ripeterla il prezzo aumenta ulteriormente e così via, fino al 100 e al 200% in più rispetto alla tariffa base. Si può consultare la tabella delle tariffe alla Rey Juan Carlos di Madrid e il prezzo dei singoli crediti all’Autonoma di Barcellona.Eloy Alvarez, studente di Archeologia all’università di Granada, spiega alla Repubblica degli stagisti  perché essere bocciati non conviene affatto. «Alla prima iscrizione, almeno qui in Andalucia, il prezzo non è aumentato molto. Però dalla seconda immatricolazione sono saliti moltissimo i prezzi in caso di bocciatura. Un mio amico per una sola materia, alla sua quarta iscrizione, deve pagare 800 euro». Per gli spagnoli, dunque, è quasi impensabile rifiutare il voto di un esame come avviene in Italia, dove alcuni preferiscono ripetere più volte un esame fino a quando non conseguono un ottimo voto.Anche Manuel Lechuga Herrera, che ha appena terminato un master per l’insegnamento della storia a Granada, conferma il costo delle ripetizioni: «Io per fortuna ero in regola ma a un mio amico tre materie obbligatorie di 9 crediti sono costate più di 2mila euro perché si è iscritto tre volte». I costi aumentano in un contesto di tagli, che ha portato le università a contare su meno docenti (un migliaio in meno solo a Madrid), meno servizi e aule strapiene. A questa situazione bisogna aggiungere un irrigidimento dei requisiti di accesso per merito alle borse di studio: El Pais calcola che a perdere la condizione di borsista sarà una percentuale tra il 17 e il 33% degli studenti tra 2012 e 2014. La Spagna, ancora secondo El Paìs, destina lo 0,08% del Pil al finanziamento di borse di studio e aiuti contro lo 0,24% della media dei Paesi Ocse. «Noi studenti di facoltà umanistiche non capiamo perché i crediti delle materie sono così costosi visto che, oltre allo stipendio dei professori, non disponiamo di mezzi o servizi che giustifichino un sistema educativo così caro» continua Manuel Lechuga Herrera. «Torna la domanda: dove va e come si amministra tutto il denaro delle tasse universitarie? Ci è stato sempre detto che l’educazione pubblica universitaria è sovvenzionata con denaro pubblico perché è molto cara e che noi dovremmo pagare solo una piccola parte dei costi».«L’aumento delle tasse e l’irrigidimento dei requisiti per le borse di studio» conclude Eloy Alvarez  «non permetterà a molti di continuare gli studi universitari». L’università spagnola, di fronte a una crisi economica  che impone alle regioni indebitate di recuperare fondi, assiste al ridursi dell’intervento pubblico sempre più in direzione di una logica privata. Anche in Italia si assiste a un processo simile: a fronte di una percentuale bassissima di borse di studio, è anche molto alto il costo medio degli studi universitari, che ci colloca al terzo posto in Europa, dopo Regno Unito e Olanda. E per giunta in Italia la percentuale del Pil destinata all’istruzione è una delle più basse di tutti i Paesi Ocse.  Antonio Siragusa Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:  - Studiare costa, ma in Italia i prestiti d'onore ancora non decollano- Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all'osso- Borse di studio, un montepremi complessivo a cinque zeri finanzia formazione e idee

Il settore dei servizi salverà i giovani dalla disoccupazione?

Secondo i dati pubblicati dall’Eurostat all’inizio di ottobre, nel 2011 quasi il 70% dei cittadini europei era impiegato nel terziario.Nella forbice tra Romania - 43% - e Lussemburgo - 85% - l’Italia si attesta dunque nella media con il 67,9% dei lavoratori attivi in questo settore. Come spiega Emilio Reyneri, docente di Sociologia del lavoro all’università Bicocca di Milano, nei servizi la produttività del lavoro è stabile o cresce molto poco (al contrario di agricoltura e industria dove la produzione può aumentare anche se non aumentano i lavoratori). Quindi se cresce la produzione deve crescere anche il numero dei lavoratori. Un’equazione semplice che innesca secondo le stime di Maurizio Ferrera, ordinario di Teoria e politica  dello stato sociale alla facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano, un aumento dei tassi di occupazione giovanile. Nei paesi dove i servizi alle imprese, alle famiglie e ai consumatori creano più posti di lavoro, i giovani ne beneficiano non solo per le posizioni meno qualificate e meno retribuite, ma anche per incarichi ad alto contenuto di conoscenze. Ma come creare più servizi? Sicuramente una maggiore liberalizzazione dei settori a forte domanda di lavoro e scarsa offerta di candidature costituisce un incentivo non solo alla diminuzione dei prezzi ma anche alla creazione di nuovi posti.  Nonostante l’apertura dei mercati sia indicata da studiosi e politici come una strada da percorrere, non esistono soluzioni prêt-à-porter, a maggior ragione in un grave momento di recessione come quello attuale. Infatti strategie che mirino esclusivamente all'aumento di privatizzazione nella fornitura di servizi, non sembrano essere misure sufficienti per contrastare  il calo dei consumi e l'aumento del tasso di disoccupazione. Che sia il caso di associare a strategie di liberalizzazione nuove formule di organizzazione del lavoro? In Italia, ma anche all'estero, si va affermando l'idea di una flessibilità da intendersi in senso più ampio.Come intervenire quindi per garantire la crescita del settore dei servizi? Per limitare i danni da perdita del lavoro generata dal circolo vizioso tra il calo dei consumi e della produzione, è necessario affidarsi non solo alle facilitazioni in entrata e di uscita dal mercato del lavoro, ma anche alla rimodulazione dell’organizzazione e dei tempi in cui la prestazione è richiesta. Tito Boeri, docente di economia del lavoro all’università Bocconi e Herbert Bruecker collega di Boeri presso la Otto-Friedrich Universitaet di Bamberg, hanno provato a studiare ed immaginare delle “alternative”: secondo un recente studio, la riduzione degli orari di lavoro rende ottimi risultati in termini di salvaguardia dei posti – è il vecchio adagio “lavorare meno, lavorare tutti” – se applicata a periodi brevi. Eppure in Europa si continua a lavorare molto, ma a guadagnare meno e i tassi di disoccupazione si mantengono a livelli preoccupanti. Sempre secondo i dati fotografati dall’Eurostat per il 2011 [vedi tabella], la media delle ore lavorate nei ventisette paesi si attesta intorno alle quaranta settimanali. Le recenti dichiarazioni del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi aprono ad una scelta diversa: per ottenere un aumento della produttività e ridurre la pressione fiscale di almeno il 10%, rispetto al gap che il nostro paese ha con la Germania, sarebbe necessario lavorare di più.Ma allora quale strada seguire per uscire dalla crisi se liberalizzazione e maggiore flessibilità del mercato del lavoro sembrano essere poco efficaci? Anche in questo caso non è semplice dare risposte. In Italia, start-up di successo – e in particolare aziende legate al mondo di internet - sembrano dimostrare che la necessità sia quella di sperimentare nuove forme di impresa attraverso investimenti lungimiranti. D'altra parte se si chiede flessibilità ai lavoratori, la si deve anche saper ricevere ed il settore dei servizi ben si presta a tutte le sperimentazioni in termini di flessibilità, correndo tuttavia rischi ben noti. Un buon mix di sperimentazione, giovani meno choosy [letteralmente: «esigenti, pignoli, incontentabili» – non necessariamente «schizzinosi»] e flexicurity possono rappresentare la direzione verso cui guardare.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - I giovani sono i più colpiti dalla crisi, il Cnel: «Sempre più difficile trovare il lavoro per cui si è studiato»- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati - Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa  

Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati

«Stiamo lavorando per trasformare le tue idee migliori in rivoluzioni». Con questo slogan che campeggia sull'homepage del sito Roberto Esposito si prepara a lanciare DeRev: «una piattaforma che offre gli strumenti per trasformare un'idea valida in un progetto reale». Un progetto così concreto che è riuscito ad ottenere, prima ancora di essere lanciato, un finanziamento di oltre un milione di euro.Merito dello spirito di iniziativa di questo 27enne salernitano che - mentre aspetta di discutere il prossimo dicembre la tesi di laurea in Ingegneria aeronautica alla Federico II di Napoli - fonda start-up, scrive libri ed entra persino nel Guinness dei primati. «Il primo sito l'ho messo in Rete a 14 anni e da allora non mi sono più fermato» ricorda «nel 2009 ho fondato crashdown.it, un blog in cui trattavo notizie di attualità in tono cinico e sarcastico: in sette mesi ha raggiunto le 150mila visualizzazioni al giorno». Costato i 50 euro necessari per la registrazione del dominio, è stato rivenduto a 15mila euro nel marzo del 2010.L'anno successivo è entrato nel Guinness World Record per aver dato origine al post più commentato su Facebook. «Il primato apparteneva alla Zynga, società che produce videogiochi: 292mila risposte ad un unico intervento». Così il giovane ha scritto una nota sul social network blu intitolandola «Questo sarà il post più commentato di Facebook», spiegando quale fosse il suo obiettivo. Risultato? «Oggi siamo a 560mila commenti». E non si è trattato soltanto di un gioco: «Dietro c'era una strategia di marketing: dimostrare che un ragazzo senza un centesimo riusciva a battere un colosso americano».Lo ha capito GreenPeace che ad aprile 2011 ha coinvolto Roberto Esposito «in una battaglia contro le aziende che lavorano su Internet perché l'energia che alimenta i loro data center è prodotta col carbone». L'obiettivo era quello di sensibilizzare queste realtà rispetto all'uso delle rinnovabili. «Abbiamo creato una pagina su Facebook, che era il paradigma di queste società, con l'obiettivo di realizzare il post più commentato in 24 ore». A fine giornata le repliche erano 80mila, in sedici lingue diverse. Così tanti che «il social network ha subito un rallentamento dei server» e a dicembre dello stesso anno ha accolto l'appello, annunciando di voler passare all'energia pulita.In questi giorni poi è in uscita per Sperling&Kupfer un libro firmato da Esposito dall'eloquente titolo «Figure di merda», una vera e propria antologia di 'figuracce' raccolte via web dai diretti protagonisti. A metà ottobre invece andrà on line DeRev, abbreviazione del latino De Revolutione, la start-up cui il futuro ingegnere sta lavorando insieme ai suoi due soci programmatori Antonio Mottola e Fulvio Sicurezza, ingegneri informatici rispettivamente di 37 e 38 anni. Si tratta di un srl con un capitale sociale di soli 10mila euro, che pure è riuscita a convincere una società di venture capital come Vertis SGR e un gruppo di business angel guidato da Giulio Valiante e Michele Casucci ad investire 1 milione e 250mila euro sul progetto. Grazie alla prima tranche di questo finanziamento, Roberto Esposito e la sua squadra hanno affittato un appartamento in un antico palazzo del centro di Napoli, installandovi la sede della start-up.Ma di che cosa si occupa DeRev? «Noi diamo a chi ha un'idea, ma manca di visibilità e di budget, gli strumenti per valorizzarla e metterla in pratica». Che ci si muova nel mondo della cultura, nella tecnologia, che riguardi la politica o una causa in particolare, poco importa. Sul sito c'è tutto ciò che serve per diffondere il proprio progetto. «Innanzitutto c'è una piattaforma di crowfunding», che permette di raccogliere il denaro necessario a sostenere l'iniziativa, quindi «uno spazio per eventuali raccolte di firme o manifestazioni di adesione ad un evento». Ancora, «un blog ed un forum dedicato a ciascun progetto, un canale di streaming live che può essere usato sia per conferenze private che per dibattiti pubblici».Il ritorno economico arriva da diverse fonti. «Intanto prendiamo una piccola commissione sulle raccolte di fondi, che varia dal 3 all'8 per cento a seconda che si scelga di ritirare l'intera somma a fine campagna o di raccogliere importi minori volta per volta». C'è poi un «sistema di pubblicità integrato»; gli inserzionisti possono scegliere di collegare il proprio messaggio ad un determinato progetto, al quale DeRev devolverà parte degli introiti. Ancora, «le aziende possono fare delle ricerche di mercato creando un sondaggio e pagando sulla base dei voti che ricevono».L'idea per un'impresa di questo tipo è nata dalla considerazione che «Internet sta diventando uno strumento virtuale che ha una ricaduta fortissima sulla realtà». Per riuscire a farsi conoscere e ad attirare investimenti Esposito ha «messo a punto una presentazione formata da 11 slide, che credo di aver rifatto in almeno 60 versioni», scrivendo poi un fiume di email «alle principali realtà di venture capital per chiedere un appuntamento» e iniziando a partecipare ad eventi pensati per le start-up, come Vulcanica-Mente a Napoli». Alla fine ha trovato delle persone disposte ad investire sul suo progetto, grazie alle quali non solo lui e i suoi soci hanno uno stipendio garantito da DeRev, ma hanno assunto a tempo indeterminato cinque persone per lavorare allo sviluppo dell'azienda. Del resto la sfida è ambiziosa: «Vogliamo diventare leader italiani entro l'estate 2013, quindi espanderci in Europa. Penso che tra un anno e mezzo chiederemo un nuovo finanziamento. Di quanto? Tra i 15 e i 20 milioni».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app- Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani- Da Viterbo a Parigi passando per l'India, anche la moda fa start-up- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Professioni sanitarie, tanti posti di lavoro: ma davvero, o solo sulla carta?

Ospedali a caccia di infermieri e operatori sanitari. O almeno così sembrerebbe, perché i dati sul fenomeno del mismatch tra domanda e offerta di lavoro, su cui la Repubblica degli Stagisti torna a indagare, sono apparentemente discordanti per quanto attiene il settore sanitario. I numeri relativi al 2011 forniti da Unioncamere, che parlano di uno stock di occasioni lavorative andate in fumo (per mancanza di risorse da inserire) pari a ben 117mila unità, attribuiscono a questo settore il 7% dei posti rimasti senza copertura. Più di 8mila tra infermieri, ausiliari, tecnici di smaltimento e altre figure (non mediche): in base alle stime dello stesso ente pubblicate a settembre le aziende intervistate avevano previsto 30mila assuzioni per il 2012, un'enormità considerando che quelle del settore media e comunicazione superano di poco le 4mila. Le cronache del resto confermano: è di qualche giorno fa la notizia dell'ospedale Grassi di Ostia, talmente in crisi di personale nel reparto di neonatologia da lanciare l'allarme per la possibile insorgenza di errori medici. In pochi anni, dal 2004 al 2011, si è passati qui da 1200 a 2mila nascite (anche grazie all'apporto dei residenti immigrati), mentre il numero di infermieri per turno è rimasto invariato: solo tre, quando ne servirebbe almeno uno o due in più a detta del sindacato Uil Flp. Le statistiche dell'impiego sono altrettanto chiare in questo senso: Almalaurea colloca il gruppo sanitario sul gradino più alto delle lauree con maggiore tasso di occupazione. Nel 2007 i laureati del settore medico-sanitario, a un anno dalla laurea, avevano un lavoro nell'84,4% dei casi, il doppio del gruppo secondo classificato - quello dell'educazione fisica (i laureati in ambito letterario o giuridico non superano invece il 20%). Nel 2010 invece i laureati del settore sanitario freschi di titolo si sono confermati leader nella classifica degli occupati, ma con un netto calo (73,5%), come probabile effetto della crisi economica. Nel 2011 comunque si è tornati a salire, raggiungendo quota 93%. Risultati davvero incoraggianti a fronte dei quali però le iscrizioni alle facoltà per professioni sanitarie (28 in totale, escluse le private) risultano in diminuzione del 3% rispetto all'anno scorso: 123mila le domande per il 2011, quasi 4mila in meno quest'anno. Nonostante poi anche le aspettativa di reddito siano di tutto rispetto: per gli infermieri si va dai 1.300 ai 1.800 euro al mese, a seconda del livello.«In Italia abbiamo circa 330mila infermieri registrati all'ordine e che risultano attivi» spiega Angelo Mastrillo dell'Osservatorio per la formazione universitaria delle professioni sanitarie del Miur  [nella foto sotto]. Gli infermieri rappresentano il 63% degli operatori del settore (i censiti nel 2011 sono 583mila, tra cui 40mila fisioterapisti, 30mila tecnici di laboratorio, 23mila tecnici radiologi, 16mila ostetriche, solo per indicarne alcuni). «Con un turn over al 3%, occorrerebbero circa 10mila nuove leve all'anno per coprire i posti che si liberano, ma in Italia si formano circa 15mila professionisti ogni anno», ragiona Mastrillo «e se prima premevo sul ministero per ampliare l'organico ospedaliero, ora me ne guardo bene vedendo i tanti ragazzi disoccupati». È evidente infatti che se il fabbisogno stimato è 10mila unità, 5mila laureati restano fuori. Eppure la richiesta di infermieri non è affatto in declino, tutt'altro. Dov'è il bandolo della matassa dunque? Tutta colpa del taglio dei posti letto. Ne è convinto Andrea Bottega, segretario nazionale del Nursind, sindacato nazionale degli infermieri: «I piani di rientro, la trasformazione della chirurgia in day surgery e le varie riorganizzazioni ospedaliere hanno bloccato le assunzioni nelle pubbliche amministrazioni». E questo benché «nel nostro paese la diffusione di infermieri per abitanti sia inferiore alla media europea, a tutto vantaggio dei medici. Che peraltro all'estero sono di meno». Per uscirne «bisogna che il sistema si assesti perché in questo modo scarseggiano i servizi sul territorio e le persone ammalate sono costrette a ricorrere a servizi privati». In buona sostanza: via il personale sanitario dagli ospedali, malgrado le esigenze di assistenza a chi si ammala siano sempre maggiori. E anche gli aspiranti infermieri o tecnici sanitari, da un lato rassicurati dalle statistiche che danno una "quasi certezza" di trovare lavoro subito dopo il titolo, sembrano voler fare marcia indietro perchè sono spaventati, dall'altro lato, dalla stretta sulle assunzioni nel pubblico. «I concorsi sono sempre strapieni» quindi non sono i candidati a mancare, «ma con una dotazione di organico stabilita in base ai posti letto», il personale assunto non può che diminuire, lascia intendere Bottega.I problemi non mancano neppure sul piano dello stipendio per chi lavora nelle cooperative, dove finisce quel 20% di infermieri - spesso immigrati - non assorbito dalle pubbliche amministrazioni. «Qui hanno gioco facile a corrispondere salari inferiori rispetto a quelli percepiti dai colleghi italiani. Inoltre in questi casi a pagare è comunque il pubblico, i cui ritardi si ripercuotono inevitabilmente sulle buste paga». Insomma il caso non sarebbe di quelli in cui il mismatch tra domanda e offerta di lavoro è imputabile ai servizi (mancanti) di orientamento o alla scarsa propensione dei ragazzi a cimentarsi con professioni di questo tipo. «È un mito da sfatare valido forse anni fa, ma ora non più», assicura Mastrillo. I giovani specializzati nel settore ci sono, e la richiesta del mercato è elevata. In mezzo però ci sono il blocco del turn over e la spendig review, che sta forse presentando un conto troppo salato alla sanità.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, un problema sottovalutato- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro?- Le aziende cercano grafici e ingegneri del web: ma non ce ne sono- Giovani e disoccupazione, binomio sempre più stretto: l'Istat traccia un quadro cupo per le nuove generazioni in cerca di lavoro E anche: - Tecnologie fisiche innovative, facoltà poco conosciuta ma molto utile per trovare lavoro