Piastrellisti, carpentieri, camerieri, meccanici, parrucchieri. Sono alcune delle professioni meno ambite in Italia stando ai dati messi in luce da una recente indagine di Confartigianato, in base alla quale circa il 65% delle offerte di lavoro che riguardano mestieri artigianali rimane pressoché ignorato. Stessa sorte anche per ciabattini, mulettisti o infermieri, introvabili secondo altri dati pubblicati da uno studio di Fondimpresa del Veneto. Da un'indagine del senatore Pietro Ichino, molto impegnato su questo tema, emerge come gli skill shortages - ovvero i posti di lavoro che restano scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria per occuparli - sarebbero addirittura 117mila, sparsi in tutte le regioni italiane e distribuiti in tutti i settori (censimento di Unioncamere nel 2011).
Un problema sottovalutato in Italia, che tecnicamente viene definito mismatch tra domanda e offerta di lavoro. In pratica, nonostante i numeri allarmanti sulla disoccupazione crescente specialmente tra i giovani, si verifica il paradosso per cui migliaia di posti di lavoro rimangono vuoti. Gli annunci non trovano risposta e le aziende rinunciano a cercare.
C'è ovviamente chi mette in guardia dalla scorciatoia di accusare i giovani di presunzione o "snobismo" verso lavori considerati poco gratificanti, sottolineando quanto sia comprensibile che una persona, a cui è stato "venduto" il sogno di una laurea e l'aspirazione a un'occupazione intellettuale in linea con le proprie attitudini, storca il naso di fronte a mansioni che avrebbe potuto svolgere anche senza passare per un ateneo. Innegabilmente è uno spreco per la società mandare a vuoto una risorsa meritevole e competente, costringendola a svolgere un mestiere per il quale non è necessario il grado di istruzione ottenuto.
La questione ha infatti diverse sfaccettature e non si limita alla giacenza di posti di lavoro di natura manuale. Da una recente pubblicazione dell'Isfol emerge non solo un generico problema di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma anche di un educational mismatch, ovvero di «mancata corrispondenza tra livello di istruzione raggiunto e quello richiesto da un'impresa», oltreché di skill mismatch, vale a dire di «mancata corrispondenza tra le abilità di un individuo e quelle richieste dall'azienda». Insomma non si tratta solo di non riuscire a trovare giovani disposti a dedicarsi a impieghi manuali, forse perché cresciuti nel falso mito della superiorità dei lavori intellettuali o della poca dignità di quelli in cui si utilizzano le mani. Si ha a che fare con uno sfasamento più profondo, che inficia tutto il mercato del lavoro a vari livelli. Come appunto il caso dell'overeducation, ovvero di quando si viene assunti per svolgere un impiego per il quale è richiesto un grado di istruzione inferiore. I dati a cui si riferisce il rapporto Isfol risalgono al 2009 (non sono numerosissimi gli studi sull'argomento), e rivelano come in Italia ci sia uno degli scarti minori tra diplomati e laureati occupati rispetto agli altri Paesi europei. Se da noi circa il 74% di chi possiede un diploma ha un impiego e chi dispone di istruzione universitaria lavora nel 77% dei casi, in Francia la differenza è di almeno cinque punti percentuali in più mentre supera i dieci punti in Germania. La media Ue è in generale del 10% in più di occupabilità per chi ha un titolo universitario. A fronte di ciò, in Italia sono quattro laureati su dieci a essere interessati dal fenomeno del mismatch, dati che fanno concludere ai ricercatori dell'Isfol che «il possesso di un titolo universitario non implica necessariamente l'accesso a occupazioni di rango tale da ricompensare l'investimento in istruzione effettuato».
Per non parlare poi di un'altra caratteristica squisitamente italiana: la carenza di personale qualificato in posti di lavoro di alto livello rispetto alla media internazionale. Il 19% della totalità dei posti di lavoro risulta 'qualificato', e di questi solo il 54% è ricoperto da persone con istruzione universitaria. In Spagna sono il 75% (su un totale di occupazioni qualificate pari al 20%), in Francia e in Germania il 70.
La recessione economica mette tutti nelle condizioni di essere più pragmatici. E allora, se è la concretezza l'obiettivo, forse anche il sistema dell'istruzione andrebbe riformato e adeguato alle richieste del mercato del lavoro. E i ragazzi andrebbero indirizzati da subito, da giovanissimi, prospettando loro quali sono le effettive possibiltà di impiego una volta che si affacciano al mercato del lavoro. Così facendo, si andrebbe peraltro incontro alle richieste dei giovani: quasi il 60% di quelli intervistati da Eurobarometro nel 2011 ritiene molto utile l'orientamento ai fini della ricerca di un'occupazione.
In una recente intervista Ichino ha ricordato l'importanza delle agenzie private di outplacement, a fronte di servizi pubblici per l'impiego spesso incapaci di svolgere questo compito. «Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell’assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell’occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene. Certo, i servizi di outplacement costano cari: mediamente, l’equivalente di cinque o sei mensilità dell’ultima retribuzione del lavoratore interessato. Ma sempre meno della cassa integrazione “a perdere”». Ichino ipotizza anche una possibile opzione per i fondi: «Potrebbe essere utilizzato anche quel 60% dei contributi del Fondo sociale europeo che spetterebbero all’Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso». Senza contare le possibili ricadute di questi giacimenti di lavoro sugli inattivi, chi né studia né lavora: «Tali qualifiche sarebbero accessibili agevolmente da quasi tutti i nostri Neet; ma nessuno li informa, né dell’esistenza di questa possibilità di lavoro, né dei canali formativi disponibili per raggiungerla. E non è solo questione di mancanza di buona informazione: ai nostri giovani forniamo informazioni sbagliate, che li inducono a compiere scelte sbagliate». Una distorsione grave, a cui porre rimedio al più presto.
Ilaria Mariotti
Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
- Meritocrazia, una notte per convincere i giovani a crederci (e le aziende a metterla in pratica)
- Disoccupazione giovanile, la vera emergenza nazionale: l'SOS di Italia Futura e le interviste a Irene Tinagli e Marco Simoni
- Istat, pubblicato il nuovo rapporto sull'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro: situazione preoccupante sopratutto al Sud
Community