Categoria: Approfondimenti

Sconfiggere la precarietà, le idee dei Giovani Democratici per cambiare il mondo del lavoro

Dieci proposte per riformare a costo zero un mercato dove addirittura un terzo dei lavoratori è precario. E sempre più vecchio. Il problema: i contratti temporanei, che non solo impediscono di progettare serenamente il proprio futuro, ma per giunta non sempre prevedono indennità di malattia e maternità e garantiscono poche tutele di fronte alla mobilità. Se ne è parlato sabato scorso a Roma nell'ambito di «Generazioni ad alta risoluzione», conferenza dedicata ai giovani e alla precarietà organizzata dai Giovani democratici in collaborazione con Lavoro&Welfare e l'associazione 20 maggio.Un evento anticipato dalla pubblicazione di un contributo dedicato a «Flessibilità e precariato in Italia», realizzato da Patrizio Di Nicola, docente alla Sapienza di Roma, con Alessandra Cataldi e Gianluigi Nocella, dottorandi nello stesso ateneo. Lo studio racconta di un Paese dove se 14,7 milioni di persone hanno un contratto a tempo indeterminato, ce ne sono oltre cinque milioni occupate in base alle forme più diverse: collaborazioni, praticantati, stage, finte partite Iva. Tutte accomunate da un unico elemento: la precarietà.Una condizione che nel corso degli ultimi anni è andata aumentando. Elaborando dati forniti dagli enti pensionistici e previdenziali, Istat e enti di ricerca privati, il rapporto mette in luce come tra il 2004 ed il 2010 il numero di lavoratori a tempo sia cresciuto del 14 per cento. Una tendenza che si conferma anche per il 2010, in piena crisi economica: gli atipici sono aumentati dell'1,3%, i tempi determinati del 4,3. E questo in un contesto che ha visto ridursi di quasi un punto percentuale le persone con un'occupazione.Una precarietà che cresce, ma soprattutto che invecchia. Il 67,7% dei titolari di un contratto a tempo determinato ha tra i 30 ed i 49 anni, la stessa età del 47,9% degli atipici. «Il lavoro atipico non è più un 'rito di passaggio' verso quello dipendente», si legge nel rapporto. Nel 2008 a rimanere intrappolati in un'occupazione senza tutele era il 54,6% dei lavoratori, oggi siamo al 59. Tra il 2007 ed il 2010 la percentuale di coloro che sono riusciti a trasformare la precarietà in stabilità è calata dell'8,4%.E gli stage? Nel corso del 2010, secondo questo studio, ne sono stati attivati più di 310mila, circa 90mila nell'industria, il resto nei servizi. Mancano però all'appello, come sottolineato più volte da Repubblica degli Stagisti, quelli attivati nella pubblica amministrazione e nel non profit. Comunque: circa la metà dei tirocini attivati nel privato ha interessato aziende con meno di dieci dipendenti, capaci di garantire un'assunzione ad appena il 12,8% dei tirocinanti (anche se in realtà i dati Unioncamere Excelsior parlano del 12,3% di rapporti trasformati in un contratto di lavoro). Decisamente meglio è andata a coloro che hanno attivato uno stage in grandi aziende con più di 500 occupati: uno su quattro è riuscito ad essere assunto al termine del progetto.Magrissima consolazione di fronte ad un quadro a tinte davvero fosche. Gd, Lavoro&Welfare e associazione 20 maggio però non si sono limitate a descrivere la realtà, ma hanno elaborato un decalogo di proposte che vogliono rendere migliori le condizioni di lavoro dei giovani e dei precari. Piccole riforme a costo zero ma in grado, secondo gli ideatori, di portare grandi cambiamenti nelle vite delle persone.Il primo passo consiste nel superare gli abusi, stabilendo ad esempio che le attività manuali possano essere svolte solo come dipendenti ed abolendo le cosiddette 'dimissioni in bianco'. Ma soprattutto eliminando ogni eccezione oggi prevista per i contratti a progetto, ovvero quelle scappatoie che consentono di utilizzare la formula cocopro per rapporti prolungati nel tempo, privi di ogni tipo di progettualità. Altro tema, il costo del lavoro discontinuo. La proposta è di equipararlo a quello dei contratti collettivi per le categorie iscritte alla gestione separata, di aumentarlo del 15% rispetto a quello di un dipendente per tutte le altre situazioni. In questo modo, viene stimato un aumento di 108 milioni nelle entrate dell'Inps e di 100 milioni per il fisco.Viene proposta una riforma dell'apprendistato, da trasformare in contratto unico d'inserimento formativo della durata di sei anni. I primi tre con salario più basso e contributi meno onerosi, i successivi con i contributi previsti fino al 2011 e, soprattutto, un'assunzione a tempo indeterminato. Al termine del contratto dovrebbe poi svolgersi un'esame che attesti la formazione del lavoratore. Infine, si propone di estendere a tutti i lavoratori il sostegno al reddito in caso di disoccupazione. I costi di quest'operazione, non certo 'indolore' per le casse dello Stato, sarebbero coperti dalle maggiori entrate derivate dall'aumento del costo del lavoro precario, una delle misure proposte nel decalogo.Si tratta in poche parole di invertire quella tendenza tutta italiana che ha declinato la flessibilità solo come un modo per «ammorbidire le tutele a garanzia del lavoro e a ridurne il costo». Il modello da seguire è la flexicurity danese: «La necessità di conciliare le esigenze del sistema  produttivo con l’importanza assoluta che il lavoro ricopre nella vita delle persone dovrebbe portare a un  modello virtuoso in cui flessibilità e sicurezza non siano necessariamente alternativi».Riccardo SaporitiPer saperne di più, leggi anche:- Chi ha paura del contratto unico? Panoramica dei vantaggi della flexsecurity per i giovani italiani- Elsa Fornero, ritratto del nuovo ministro del Lavoro: avanti con il contratto unico e il welfare per i precariE anche:- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Ventenni e riforma del lavoro, parla l'ideatore della lettera a Monti

Il conflitto generazionale secondo Ian McEwan: a sorpresa nel nuovo romanzo Solar

Un vecchio barone della Fisica senza più stimoli, aggrappato al prestigio di un premio Nobel ottenuto anni prima. Un uomo ormai lontano dallo studio, dalla ricerca, dall'innovazione e preoccupato più che altro di monetizzare il suo prestigio a suon di incarichi, consulenze e inviti a convegni in hotel a cinque stelle in giro per il mondo. Un giovane ricercatore di provincia, idealista e ancora puro, che ha sviluppato un innovativo sistema di energia solare e che nel professore vede un guru a cui affidare le sue idee, un mentore con cui svilupparle per migliorare il mondo e la vita dell'umanità. A sorpresa l'ultimo romanzo di Ian McEwan, gigante della letteratura contemporanea inglese e autore di bestseller come Cortesie per gli ospiti, L'amore fatale ed Espiazione, racconta sottotraccia un esplosivo conflitto tra generazioni. Al centro di Solar infatti, pubblicato pochi mesi fa da Einaudi, c'è un episodio di insopportabile gerontocrazia - il furto che un vecchio compie ai danni di un giovane. ll furto forse peggiore, quello di un'idea. Un'idea in cui il professore ladro, lungi dal farsi intenerire dall'afflato ambientalista, cerca sopratutto il modo per fare soldi e restare a galla in un mondo accademico-scientifico che lo sta ormai emarginando.Le idee non hanno età, è vero. Ma guarda caso statisticamente le migliori vengono sempre dalle menti più giovani: prova ne sia che il premio Nobel viene sì consegnato solitamente a vecchietti col bastone, ma per ricerche svolte e scoperte fatte decenni prima, nel pieno fulgore della loro immaturità scientifica.Il personaggio di McEwan, Michael Beard, non fa eccezione: le pagine che descrivono il momento dell'ispirazione, dei calcoli, della passione messi in campo per costruire il suo teorema, la "conflazione", sono ambientate in un lontano passato - quando il futuro Nobel ha 21 anni, pochi soldi in tasca, e convive con la prima delle sue mogli in un posto scalcinato condividendo l'appartamento con una coppia di neogenitori alle prese con due gemelli perennemente urlanti. Tra pianti di bambini, ristrettezze economiche e crisi matrimoniali il 21enne Beard mette tutto se stesso nella Fisica, elaborando la teoria che gli varrà vent'anni dopo il super premio (qui l'unico dettaglio poco credibile: quasi nessuno in effetti riesce a prenderlo prima dei 50 anni). Genio a vent'anni, star del panorama scientifico a 40, ma quello che il libro racconta è il Beard dei 50 e poi 60: sempre più cialtrone, disinteressato allo studio, opportunista, venale. Nel declino avviene l'orrendo furto. E illuminante risulta, a un certo punto, il tentativo ormai disperato di negare di aver fatto passare per sua l'idea del giovane Tom Aldous: «Durante la nostra collaborazione, io pensavo e parlavo, e lui scriveva. Anche nella nostra era democratica la scienza rimane un sistema gerarchico, refrattario al livellamento. Occorre accumulare troppa competenza, troppo sapere. Prima di trasformarsi in un vecchio rimbambito, lo scienziato più anziano tende a saperne più del giovane, in base a parametri misurabili oggettivamente. Aldous era un modesto post-doc. Potremmo dire che era il mio amanuense». E di fronte alla minaccia di essere trascinato in causa per il furto dell'idea, il Nobel rincara la dose: nessun tribunale, urla all'avvocato della controparte,  si berrebbe  «la storia di un dottorando che si inventa da solo un lavoro di questa portata».Il vecchio trombone, distrutto dal suo ego, ha dunque dimenticato che anche lui aveva meno di trent'anni al momento del suo exploit scientifico. Forse é la natura umana: invecchiando si comincia a pensare che un giovane sia troppo inesperto per poter creare qualcosa di incredibile. E allora lo si sminuisce, trattandolo come maldestro e incapace e ancora irrimediabilmente immaturo. Il grave é che lo pensino perfino quelli che a venti-trent'anni hanno creato cose incredibili, e in ragione di quelle cose hanno potuto ottenere posti di responsabilità e potere. Il libro di McEwan è ambientato in Inghilterra, e racconta quindi quella che sembra un'eccezione. In Italia invece questa storia è purtroppo la regola: ancora non riusciamo a scrollarci di dosso, in Parlamento e nelle altre istituzioni, all'università come ai vertici dell'imprenditoria e dei sindacati, quegli ex giovani emersi negli anni Settanta che non hanno alcuna intenzione di farsi da parte. E troppi di questi ex giovani - a volte in pubblico, più spesso in privato - sminuiscono i (veri) giovani che lavorano con loro e per loro, spesso fornendo le idee e le soluzioni più innovative e acute. Li trattano appunto come se fossero «amanuensi e modesti post doc». Appropriandosi giorno dopo giorno delle loro intuizioni, dei loro scritti, del loro lavoro. Spesso e volentieri traendo profitti da queste appropriazioni indebite - quasi sempre peraltro compiute, a differenza del libro, con  l'avallo del derubato, rassegnato a dover pagare questo fio per fare gavetta e poter aspirare, un giorno o l'altro, a prendere il posto del caro vecchio. Con buona pace del ricambio generazionale.Eleonora Voltolinaper saperne di più su questo argomento, leggi anche:- La gerontocrazia avvelena l'Italia: se i migliori sono i più anziani, la gara è già persa in partenza- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani

Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione

In Italia ci sono 542mila giovani assunti con un contratto di apprendistato. Ma meno della metà di loro riuscirà a passare al tempo indeterminato. I numeri relativi all'evoluzione di questi rapporti di lavoro dimostrano infatti che sono sempre meno quelli che si trasformano in "posto fisso". Non è tutto: il XII rapporto di monitoraggio dell'Isfol - Ministero del lavoro conferma la scarsa attenzione alla formazione. E il fatto che l'apprendistato sembri essere precluso ai laureati. Il documento contiene i primi risultati di un'analisi che ha messo a confronto due generazioni di apprendisti, quella cioè che ha iniziato la propria esperienza nel 2001 e quella che l'ha cominciata nel 2005. Obiettivo: scoprire la situazione di questi lavoratori a cinque anni dalla firma del contratto. Un primo dato da mettere in evidenza riguarda il fatto che undici anni fa furono 235mila i rapporti attivati nell'arco dei dodici mesi: numero sceso, dopo un lustro, a 225mila. Si tratta di un dato che oscilla: nel 2008 c'era stato un "quasi boom", con 386mila contratti avviati, crollati però nel 2010 a 289mila. Tornando all'analisi 'generazionale': i dati forniti dagli enti previdenziali evidenziano come l'81,5% di coloro che hanno iniziato come apprendisti nel 2001 fosse ancora attivo dopo cinque anni e solo uno su sette non avesse cambiato qualifica professionale. La generazione successiva, invece, dopo lo stesso lasso di tempo vede impiegato il 77,8% dei lavoratori. E in quasi un caso su otto il regime contrattuale non è stato modificato. In altre parole: quei giovani dopo ben cinque anni sono ancora apprendisti.Un altro dato molto significativo è relativo a quanti sono riusciti a trasformare il rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato: la generazione 2001 è riuscita ad ottenere un posto fisso nel 44,9% dei casi, dato che per chi ha cominciato cinque anni più tardi è sceso al 40,4%. Cresce, invece, il ricorso a rapporti di lavoro dipendente che lo studio Isfol ricomprende nella dicitura generica di «altro tipo di contratto». Una formula che, escludendo il tempo indeterminato, si declina giocoforza in rapporti temporanei più o meno precari. Per coloro che hanno iniziato l'apprendistato nel 2001, sempre dopo cinque anni dall'avvio, questa situazione si è verificata nel 12,7% dei casi. Percentuale che sale al 17,7% tra coloro che fanno parte dell'infornata 2005. In altre parole, convivono due tendenze: si riducono gli apprendisti che riescono ad ottenere il posto fisso, aumentano coloro che invece terminano quella che dovrebbe essere un'esperienza formativa e, non riuscendo ad essere confermati in azienda, finiscono nell'universo del precariato.I dati più generali, quelli cioè che riguardano la totalità dei 542mila titolari di un contratto di apprendistato, parlano però di un incremento del 12,3% delle trasformazioni in rapporti di lavoro a tempo indeterminato registrato nel 2010. Possibile questa contraddizione? «Le due analisi sono molto diverse e questo giustifica i risultati», spiega Sandra D'Agostino, responsabile della struttura Metodologie e strumenti per le competenze e le transizioni di Isfol e curatrice del rapporto. «In quest'ultimo caso si confrontano i risultati di due annualità con attenzione al totale delle trasformazioni avvenute nell'anno, a prescindere dall'anzianità dei contratti di apprendistato. Nel primo, invece, si segue il totale degli ingressi di un anno per verificare cosa accade in quelli successivi».I contratti di apprendistato, in questo periodo, sono uno degli argomenti sul tavolo delle trattative tra il governo e le parti sociali sul tema della riforma del mercato del lavoro. Il ministro Elsa Fornero ha affermato di voler agire perché aumentino di numero e diventino un momento di formazione e non di flessibilità in entrata. L'esponente dell'esecutivo ha toccato un nervo scoperto: stando ai dati Isfol, appena il 25,2% dei titolari di questo tipo di rapporto viene effettivamente avviato ad attività formative, con picchi negativi dello 0,5% in Sardegna e del 4,4% in Campania. L'apprendistato infatti è una forma di contratto che prevede che il lavoratore non sia costantemente impegnato in azienda. Dovendo apprendere un mestiere, la legge prevede che svolga molte ore di formazione ogni anno. Ma questo avvviene in un caso su quattro. Il rapporto non entra nel merito delle motivazioni che portano a questo risultato, ma si limita a sottolineare che «i sistemi formativi implementati sul territorio nazionale appaiono adeguare i volumi di offerta».Resta da evidenziare infine un dato preoccupante: l'apprendistato non è un contratto per i laureati. Lo si era visto già nei risultati contenuti nell'XI rapporto Isfol, in base al quale nel 2008 solo il 5,5% degli apprendisti era laureato. In pratica, uno su venti. E oggi? Questo dato è scomparso. Il XII rapporto limita la rilevazione  sul titolo di studio agli apprendisti che davvero vengono coinvolti in attività formative. Un elemento che nel 2010 ha riguardato poco più di 136mila giovani inseriti in azienda con contratti di questo tipo. Ebbene, appena il 7% di questi ha un'istruzione universitaria. Un elemento certamente tra i più problematici: dopo anni di studio i laureati, vedendosi chiusa la porta dell'apprendistato - un contratto che, pur con tanti difetti, assicura retribuzioni dignitose, contributi, ferie pagate, malattia e maternità, permessi e tfr, e  in un caso su tre porta all'assunzione a tempo indeterminato - finiscono nel mare magnum del precariato. Quando va bene. Perchè in agguato ci sono anche gli stage, magari senza rimborso, quasi sempre senza sbocchi, e sopratutto senza controlli.Riccardo SaporitiSe ti ha interessato questo articolo, leggi anche:- Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati- Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»E anche:- Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli- Elsa Fornero, ritratto del nuovo ministro del Lavoro: avanti con il contratto unico e il welfare per i precari

Oltre mille tirocini attivati in un mese: in Veneto stagisti a caccia di aziende

In Veneto gli stagisti sono così bravi che si trovano da soli l'azienda in cui svolgere il tirocinio. Alla Direzione lavoro regionale spiegano così il successo di Welfare to Work, bando per il reimpiego di disoccupati under 30 che nel giro di poco più di un mese ha esaurito i 1.250 posti messi a disposizione - assegnati dunque al ritmo di oltre trenta ogni giorno, domeniche e festivi compresi.Offrendo rimborsi spese totalmente a carico degli enti pubblici, quindi a costo zero per le aziende, l'appetitoso bando si è aperto il 23 novembre ed è stato chiuso il 5 gennaio, quando le domande pervenute nei centri per l'impiego delle sette province erano già 1.317, ben 67 in più di quelle effettivamente finanziate con i tre milioni che lo stato ha messo a disposizione della Regione. Tanto che quest'ultima ha deciso di integrarli con fondi propri, garantendo così una risposta a tutte le richieste pervenute. Ad oggi i tirocini attivati sono 1.205, dei quali 471 hanno preso il via prima della fine del 2011. Quelli mancanti, che la regione quantifica in 37, partiranno entro l'inizio di marzo, visto che il progetto prevede che i tirocini inizino entro due mesi dalla chiusura del bando. Ci sono poi una ventina stage non partiti entro il termine fissato e quasi 50 che si sono conclusi prima della scadenza naturale. Rispetto a quest'ultima fattispecie, è difficile spiegare le ragioni di una chiusura anticipata del progetto. Anche perché il modulo che le aziende devono compilare prevede solo tre opzioni: dimissioni, licenziamento e 'altro' - senza, dunque, approfondire le cause che hanno portato all'abbandono.Ma com'è possibile che in così poco tempo siano partiti così tanti tirocini? Non sarà che qualche azienda ha fatto incetta di stagisti, risparmiando così sulla manodopera per i quattro mesi di durata delle borse? «Sono poche le imprese che hanno attivato più di una posizione e comunque all'interno dei numeri consentiti dalla normativa», spiegano dalla Direzione lavoro della Regione Veneto. Il riferimento va alla legge 142 del 1998 che, al comma 3 dell'articolo 1, stabilisce che le aziende con un massimo di cinque dipendenti a tempo indeterminato non possono avere più di un tirocinante alla volta. Numero che sale a due per le realtà che abbiano da 6 a 19 assunti, mentre per quelle di dimensioni maggiori gli stagisti non possono superare il 10 per cento della forza lavoro. Ad ogni modo, ribadisce chi ha seguito il bando, quello delle aziende con più di una borsa «non è un dato significativo».Il boom di Welfare to Work si spiegherebbe piuttosto col fatto che «l'aspirante stagista andava in cerca di un'azienda disposta ad accoglierlo. Così quest'ultima, quando si è rivolta al centro per l'impiego, non ha richiesto più una disponibilità generica a prendere parte al progetto, ma ha fatto direttamente richiesta per una persona specifica». Una procedura che ha snellito ancora di più l'iter perché, di fronte ad una richiesta con tanto di nome e cognome, le province non hanno dovuto svolgere il lavoro di preselezione previsto dal bando. In altre parole, non hanno cercato diversi profili confacenti alle richieste da sottoporre all'azienda per la scelta dello stagista.Non è tutto. Secondo la Direzione lavoro, anche la scelta di aver messo in concorrenza le diverse province ha contribuito ad una così veloce assegnazione dei posti disponibili. Il bando infatti non fissava alcun criterio di suddivisione territoriale dei progetti: le domande sono state accolte semplicemente in base all'ordine di presentazione. Col risultato che alcuni enti si sono impegnati più di altri: a Padova per esempio sono stati attivati ben 401 progetti, praticamente un terzo delle borse disponibili. I dati forniti dalla Direzione lavoro raccontano di un'azione intensa anche a Rovigo (294), Treviso (280) e Vicenza (162). In altre realtà, invece, l'attenzione al bando Welfare to Work è stata scarsa, come nelle province di Venezia con 91 stage attivati e di Verona con 69, o addirittura quasi nulla. È il caso di Belluno, dove sono partiti appena 20 stage. I 1.317 progetti avviati grazie a WtW rappresentano comunque una minima parte di quelli attivati in Veneto: stando al rapporto Excelsior UnionCamere «Formazione continua, tirocini e stage attivati nel 2010», questa regione è infatti una di quelle in cui le imprese private fanno maggiormente ricorso agli stage e nel 2010 il numero complessivo è arrivato a 39mila - un risultato secondo solo a quello lombardo (69mila). Quasi un quinto delle aziende venete ha attivato percorsi di tirocinio, contro una media nazionale del 13,3%. Ma appena uno stage su dieci si trasforma in un'assunzione, contro una - già bassissima - media nazionale del 12,3%. La speranza ora è che la W di "work" venga onorata e che per i partecipanti all'iniziativa le cose vadano diversamente. Se alla fine infatti venissero assunti solo 130 giovani su 1300, una grande parte dei milioni di euro serviti per finanziare il progetto sarebbero stati buttati al vento. Ma per conoscere i dati sul placement bisognerà aspettare giugno, quando tutti gli stage saranno terminati.Riccardo SaporitiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30E anche:- La legge 34/2008 della Regione Piemonte su mercato del lavoro e stage- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio

E dopo Campus Mentis la proposta che non ti aspetti: uno stage a pagamento

Ci sono cose che, partecipando ad un career day, un giovane non si aspetta. Come sentirsi chiedere dei soldi per attivare stage full time fino a dodici mesi in aziende estere, anche all'altro capo del mondo. Eppure anche questo è successo. E non a un career day qualunque, ma al Campus Mentis dell'ex ministero della Gioventù, la tregiorni di incontro domanda-offerta di lavoro che fa della qualità di laureati e aziende partecipanti il suo bollino distintivo. Protagonista della vicenda è una piccola tour operator romana, l'Avec, che a distanza di un mese dalla conclusione dell'edizione milanese del campus,  alla luce di un «importante workshop internazionale», ricontatta via mail quanti hanno sostenuto il colloquio. Non con un'offerta di lavoro però, bensì con tre proposte di «stage professionali» all'estero. Tutto ok? Non proprio, dal momento che, lungi dal prevedere un compenso per il giovane, gli stage prevedono anzi una quota di adesione che va dai 900 ai 1.800 euro, valida per un periodo di permanenza all'estero a scelta tra i due e i dodici mesi. Mete previste: Stati Uniti, Australia e Inghilterra.Per chi sogna l'America, ad esempio, l'Avec ha elaborato una proposta di stage da 1.800 euro, che finanzierebbero: esame del candidato, servizio di orientamento e consulenza, assistenza per l'ottenimento del visto, assistenza durante lo stage. La durata è a discrezione dell'aspirante stagista: una flessibilità che non sorprende, dal momento che andrebbero a suo carico le voci di spesa più consistenti – viaggio di andata e ritorno, alloggio, vitto, trasporti, assicurazione sanitaria (a cui è bene pensare se si vive oltreoceano per un po'). Praticamente tutto. Facendo due conti, nell'ipotesi di uno stage trimestrale, ai 1.800 euro da versare all'agenzia turistica si aggiungerebbero più o meno altri 5mila euro, per un'uscita totale di quasi 7mila euro. Un «vantaggio professionale» un tantino costoso. Soprattutto se si hanno tra i 21 e i 25 anni, come richiesto dal programma, che per altro ammette solo laureandi e laureati da non più di un anno. Per quel che riguarda i profili ricercati, ce n'è per tutti: Drive your success è il miniprogramma nel settore automobilistico; The sky is the limit quello nell'industria aerospaziale; con Make a difference  ci si avvicina al  no profit; con Build the future all'architettura.Stessa varietà di settori anche per gli «stage professionali» in Australia, a Sidney o Melbourne: finanza, ingegneria, turismo, risorse umane, marketing, legge. Per due mesi la quota di adesione è di 870 euro; se la durata raddoppia la cifra sale a 1.120, per arrivare a 1.600 euro per stage di sei mesi. Soldi che di nuovo ricompensano l'Avec del disturbo di selezionare e assistere i candidati. Questa volta però viene garantita anche l'assicurazione (non viene specificato se medica o di altro tipo) e una lettera di referenza da parte dell'azienda ospitante. Il limite di età è di 26 anni e, a differenza del programma statunitense, cade il limite della laurea conseguita da non più di un anno. E c'è anche la possibilità di frequentare corsi intensivi di lingua inglese, a parte ovviamente: «info e quotazioni su richiesta». Per chi invece non vuole allontanarsi troppo c'è sempre un evergreen, Londra: 945 euro per  avviare stage dai due ai sei mesi in tutti i settori: dall'arte alla ristorazione, dal marketing al no profit; e poi legge, giornalismo, pubblicità. I quasi mille euro di quota questa volta comprendono anche una settimana di alloggio in doppia (in zona 1 e 2 si precisa, quindi centrale) «estensibile a richiesta». Una richiesta che costerebbe 180 euro a settimana, 720 al mese: per una doppia, un prezzo esoso persino per Londra centro. Voli, vitto, trasporti rimangono a carico dell'intern, che per uno stage di media durata deve mettere in conto almeno 5mila euro.Utilizzare la parola «stage» per definire un corso a pagamento, per quanto di notevole disinvoltura, non è illegale; tecnicamente l'Avec può farlo (inesistente invece la categoria di «stage professionali»: la riforma ferragostana distingue solo tra tirocini «curriculari» e non). Ma il punto è un altro: se il web è una giungla e ci si aspetta di trovare un po' di tutto, da un costoso e selettivo career day ministeriale certe sorprese sono indigeste. E le domande nascono spontanee: con quali criteri vengono selezionate le aziende che partecipano a Campus Mentis? Vengono effettuati controlli sulla qualità dell'offerta lavorativa e monitoraggi sugli sbocchi occupazionali? La Repubblica degli Stagisti ha girato questi e molti altri interrogativi a Fabrizio D'Ascenzo, direttore di Impresapiens, il centro di ricerca della Sapienza che organizza Campus Mentis [leggi qui l'intervista completa]. Sul caso Avec il professor D'Ascenzo aveva promesso di fare chiarezza. La promessa è stata mantenuta, e qualche giorno fa alla redazione è arrivato il verdetto: «A seguito della vostra segnalazione, è stata inviata alla azienda che mi avete evidenziato una lettera di esclusione». La speranza naturalmente è che questa decisione dissuada altre imprese dal tentare di utilizzare Campus Mentis per procurarsi nominativi di giovani a cui poi provare a vendere prodotti o servizi, anziché proporre occasioni di lavoro.Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Campus Mentis, D'Ascenzo: «Facciamo orientamento, non placement» E anche:- Campus Mentis, 9 milioni di euro dal ministero della Gioventù per investire sui nuovi talenti: ma il gioco vale la candela?- Ecco il backstage della tappa di Milano del maxi career day sponsorizzato dal ministero della Gioventù- Stage a pagamento: un lettore chiede «help» alla Repubblica degli Stagisti- Aspiranti giornalisti, attenzione agli annunci di stage a pagamento in Rete: la richiesta di help di tre lettori

Reddito minimo garantito: ce l'hanno tutti tranne Italia, Grecia e Bulgaria

In Europa siamo tra i pochissimi a non averlo. È il reddito minimo garantito, qualcosa di molto diverso dal sussidio di disoccupazione. Riguarda infatti anche i giovani, chi cioè, nel mondo del lavoro non è ancora entrato, mentre il secondo impone che una persona abbia lavorato per un determinato periodo perché possa richiederlo e ottenerlo.Il ministro Elsa Fornero ha dichiarato più volte di voler lavorare alla sua introduzione, a patto che sia inserito «in un pacchetto più ampio» di misure. Resta però ancora da capire quanto la sua convinzione possa diventare parte integrante del programma di governo.Per ora sta di fatto che in Italia quello che può essere chiamato anche «reddito di cittadinanza» rimane un’utopia, mentre in altri Paesi europei è una realtà radicata. In Gran Bretagna, ad esempio, a partire dai 18 anni chi non ha un’occupazione o lavora meno di sedici ore a settimana ha diritto al cosiddetto income-based jobseeker's allowance. In pratica qualsiasi maggiorenne in cerca di lavoro si può iscrivere a un Jobcentre governativo (quello che in Italia è chiamato ufficio di collocamento); finchè l’ufficio non gli trova un lavoro, per un massimo di 182 giorni, può godere di un sussidio sociale settimanale che va dalle 53 alle 105 sterline [da 250 a poco più di 500 euro al mese], in base all’età e allo stato civile. Nel 2005 nel Regno Unito il 1,8 % della popolazione in età lavorativa percepiva il reddito minimo garantito (Minimum wage statistics, European Commission, Eurostat).Si chiama Revenu minimum d'insertion (Rmi) il reddito minimo garantito vigente in Francia ed è destinato a chi ha più di 25 anni ed è senza un lavoro o percepisce uno stipendio al di sotto di una soglia minima. La misura consiste in un’integrazione del reddito di circa 425 euro mensili ma il contributo è variabile e, per esempio, sale nel caso di coppie con figli a carico (in tal caso può arrivare a superare i mille euro). Dal 2009 il l’Rmi è stato sostituito dal Revenu de solidarité active (Rsa) che garantisce 466 euro mensili a persone senza reddito sopra i 25 anni. Nel 2005 in Francia il 16,8% della popolazione francese in età lavorativa percepiva tale sussidio (Minimum wage statistics, European Commission, Eurostat).Non solo reddito minimo: l’Arbeitslosengeld tedesco garantisce a chi ha più di 16 anni e meno di 65, ed è senza lavoro, anche le spese d’affitto e di riscaldamento. La quota base ammonta a 299 euro per cittadini fino a 24 anni e 374 per chi li ha superati. Ma una famiglia con due figli e padre disoccupato può sorpassare i 1.665 euro al mese. Durante il periodo in cui si riceve il sussidio si è ovviamente obbligati ad accettare offerte di lavoro.Ancora più generoso il sistema norvegese. Nel Paese scandinavo lo stato sociale offre ai suoi cittadini lo Stonad til livsopphold, una sorta di «reddito di esistenza», senza limiti di età che garantisce un importo mensile di circa 500 euro. Senza particolari restrizioni, è vero. Ma se la Norvegia è uno dei pochi Paesi ad avere oggi un’organizzazione funzionale è anche perché lo stato è sì assistenziale, ma non fa elemosina a nessuno. Dunque a chi ha la concreta possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro il sistema non garantisce il sussidio. Il Paese scandinavo ha un occhio di riguardo particolare nei confronti delle ragazze madri a cui, oltre al reddito minimo, garantisce le spese per il mantenimento del bambino, quelle d’affitto e per terminare gli studi, in modo che la scelta di tenere o meno il figlio non sia dettata da motivazioni di carattere economico.Una qualche forma di reddito minimo esiste oggi in tutti i Paesi dell’Unione Europea, con esclusione del nostro, della Grecia e della Bulgaria. Sono ben quattro i provvedimenti comunitari che sollecitano questa misura di politica sociale; il primo è del ‘92 ed è una «raccomandazione» del Consiglio europeo sulle politiche di protezione sociale. L’ultimo è un documento della Commissione del 2008, relativo «all’inclusione delle persone fuori del mercato del lavoro». Le norme che i vari stati si sono dati sono differenti così come gli effetti che hanno prodotto. L’Inghilterra, l’Olanda, la Germania e i Paesi scandinavi sono quelli che hanno attuato politiche di inclusione sociale ed economica da più lungo tempo e con esiti più apprezzabili.Nel settembre 2010 lo European anti poverty network ha steso un progetto internazionale in tema di «minimum income» che parte con l’asserzione: «Un reddito minimo garantito per una vita dignitosa è un diritto fondamentale e un prerequisito per sradicare povertà ed esclusione sociale» e prosegue: «contraddicendo la raccomandazione adottata dal Concilio nel 1992 la maggior parte degli schemi esistenti di reddito minimo garantito non assicurano un’entrata adeguata per tutti. In alcuni Paesi non ci sono nemmeno». E l’Italia è uno di questi. L’Ente europeo ha dunque prodotto una serie di proposte per attivare una direttiva europea in fatto di reddito minimo garantito. Ma per ora, a un anno dalla sua stesura, nulla si muove.Giulia CimpanelliPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- A Parigi la conferenza internazionale sull'occupazione giovanile promossa dallo European Youth Forum: intervista al vicepresidente Luca Scarpiello- Reddito minimo garantito, parte la raccolta firme della Cgil per ripristinare la legge sperimentale in Lazio. Con due ombre: il costo spropositato e il rischio di assistenzialismo- Elsa Fornero, ritratto del nuovo ministro del Lavoro: avanti con il contratto unico e il welfare per i precari

Medici specializzandi e tirocinanti psicologi, la lunga gavetta delle professioni sanitarie

Invidiati dai giovani professionisti italiani, i medici sono l'unica categoria a cui la legge garantisce una retribuzione – 1.765 euro netti mensili - per il tirocinio di specializzazione. La svolta è arrivata con una direttiva europea del '93 recepita nel '99, ma applicata in Italia solo dal 2006 dopo una lunga battaglia. Risultato: oggi i camici bianchi godono di garanzie che per altre figure, come gli psicologi, restano un sogno. La Repubblica degli Stagisti ha messo a confronto i due percorsi. L'ingresso alle specializzazioni in medicina – 5mila posti all'anno distribuiti tra le varie discipline – si può tentare dopo tre mesi di abilitazione e l'esame di Stato. Per chi ce la fa, scatta un contratto di formazione annuale e rinnovabile al superamento di un esame, in grado di assicurare «condizioni più che soddisfacenti». Al di là dello stipendio, «tra i più alti per un giovane ad un anno dalla laurea» come  spiega Daniele Indiani, vicepresidente della Federspecializzandi, «ad essere pagati sono anche i contributi alla gestione separata dell'Inps. Le ferie non sono previste, ma si possono far ricadere nei 30 giorni di assenza “per motivi personali”. E, in caso di infortunio o gravidanza, con allontanamento superiore a 40 giorni consecutivi - fino a un anno - viene garantito il trattamento fisso di 1500 euro». Alle selezioni partecipa la maggioranza dei 7-8mila dottori licenziati ogni anno dall'università.  Tanto che, secondo l'osservatorio del Miur, a tre anni dalla laurea a specializzarsi è addirittura il 98,6% del totale. Senza questo ulteriore step infatti non si può ottenere nessuna titolarità di ruolo, nemmeno come medico di famiglia.L'impatto col lavoro, però, resta duro anche per i neospecializzati. «Finiti gli studi» racconta Indiani «fatta eccezione per radiologi e anestesisti di cui attualmente c'è carenza, si aprono le porte della precarietà, con contratti semestrali a 1200 euro». Ecco allora il paradosso: lo specializzato guadagna meno dello specializzando. «Finisce che, pur in linea con gli studi, ci si trova disoccupati a 32 anni, ed è un problema». Anche perché in agguato ci sono i tempi morti. Negli ultimi cinque anni, i concorsi per l’accesso alle scuole di specializzazione si sono svolti sempre con almeno 5 mesi di ritardo. Ecco perché la riforma Fazio-Gelmini, laddove punta ad accorciare le  specialità -  da 6 a 5 anni quelle chirurgiche,  da 5 a 4  o 3 anni quelle mediche – e ad inglobare i tre mesi abilitazione nel corso di laurea, ha trovato un certo consenso. I dubbi dei giovani medici si concentrano, però, sulle modalità di svolgimento della pratica. «Per legge non dovremmo sostituire gli organici, ma ci sono ospedali strutturati sulla nostra presenza. E purtroppo» sottolinea Indiani «nessuno vigila. L'Osservatorio è strutturato in modo che i controllati siano anche i controllori». Il risultato? «Piani formativi eccezionali, ma raramente rispettati: specializzandi in chirurgia che invece di operare restano a guardare, riempiendo cartelle o facendo da segretari». E ancora: «La  discrezionalità lasciata ai direttori nella fase di selezione è troppa, col rischio di una sudditanza psicologica e di un ho aggiunto qualche dato guida. implicito ricatto “ ti ho fatto entrare, ora fai quello che voglio”. Così diventiamo assistenti piuttosto che persone da formare». Per questo, conclude Indiani, «ci battiamo per un concorso nazionale che ci liberi dallo zerbinaggio verso i direttori». Ma come funziona la selezione? Avviene su un punteggio ottenuto per titoli ed esami. Il voto di laurea vale fino a 7 punti e il cv fino a 18. Poi c'è un quiz da 60 domande a risposta multipla e una prova pratica da 15 punti. Ed è proprio su quest'ultima che si eserciterebbe la discrezionalità dei direttori delle scuole a capo delle commissioni esaminatrici. «Poiché i questionari sono estratti su un plateau di 5.750 mila domande» spiega Indiani: «totalizzare i 60 punti agli scritti diventa possibile e la vera partita si gioca con la prova pratica». Ma se i medici hanno buoni motivi per cui lamentarsi, sorte ancora peggiore tocca agli psicologi. Il percorso di laurea è più breve (5 anni, o 3+2, invece di 6) però bisogna mettere in conto un anno di tirocinio per accedere all'Ordine. «In questa fase» racconta Roberta Cacioppo, vicepresidente dei Giovani psicologi lombardi «il tirocinante si trova spesso a dover operare come se fosse già un professionista, mettendo a rischio il rapporto di trasparenza con gli utenti a cui non viene presentato come tale». Una volta laureati –  4.638 nel 2010, secondo il Miur - e superato l'esame di Stato (o impegnandosi a superarlo nella prima sessione utile) si può intraprendere, come nel caso dei camici bianchi, la specializzazione, in una scuola di psicoterapia. Ed è allora che le differenze di trattamento tra le due figure diventano macroscopiche. «Non solo il tirocinio viene svolto a titolo gratuito» sottolinea Cacioppo «ma è difficile persino trovarlo. E questo rischia di svilire la nostra professionalità. É vero, rispetto ai medici l'impegno è part-time, ma si tratta comunque di un percorso di 4/5 anni». La penuria di tirocini però non sarebbe causata dalla mancanza del numero chiuso nelle scuole. Anche perché le oltre 340  riconosciute dal Miur offrono già posti superiori alle richieste. «In realtà dei nuovi iscritti all'Ordine della Lombardia, sono in pochi a seguire la via della specializzazione» rivela la vice della Gpl «Forse ci sono troppe scuole, ma purtroppo è il mercato ad essere inflazionato. E molti preferiscono iscriversi a master annuali o biennali che offrono qualche occasione lavorativa in più. Ci sono campi emergenti, come quelli della psicologia scolastica, dello sport e dell'organizzazione del lavoro. Poi c'è la scuola di neuropsicologia che attualmente non è riconosciuta come specializzazione». Chi si ferma all'esame di Stato può dirigersi verso il terzo settore o aprire uno studio privato di  diagnosi e sostegno (non di terapia). Poi ci sono laureati che  scelgono un lavoro in azienda, ad esempio come selezionatori del personale, e non si iscrivono nemmeno all'albo. Infine gli studenti a vita che alla scuola di psicoterapia aggiungono uno o due master. «Di certo non è possibile costringere i giovani alla dipendenza economica oltre i 30 anni. Né ad una formazione perpetua» conclude Cacioppo: «Purtroppo rispetto ai medici facciamo più fatica a farci ascoltare perché il nostro ordine è giovane e siamo di meno. Però stiamo cercando di collegarci con altre provincie e regioni. L'obiettivo è convogliare le nostre istanze verso l'Ordine nazionale».Ivica GrazianiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro? - Tutti geni i neolaureati italiani? Nuovi dati Almalaurea: alla specialistica il voto medio è 108, con punte di 111 per le facoltà letterarieE anche: - Censis: in Italia i laureati lavorano meno dei diplomati. E i giovani non credono più nel «pezzo di carta»- Bamboccioni? Nel libro «L'Italia fatta in casa» Alesina e Ichino spiegano di chi è la colpa

Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero

Oltre due milioni di persone, quanto l'intera popolazione della Calabria. Tanti sono i giovani italiani all'estero: un numero impreciso, fluttuante, e sopratutto in continua crescita. Lo ha calcolato l'associazione Italents a partire dai dati Istat e Aire più recenti (risalenti al 2010), secondo cui i 18/24enni residenti oltreconfine sono più o meno 350mila; quasi 600mila gli "italians" nella fascia di età 25/34, e oltre 650mila tra i 35 e i 40.La somma algebrica dei tre numeri fa 1 milione e 600mila: ma questi dati sono fortemente deficitari perchè - malgrado sia un obbligo sancito dalla legge - non tutti si iscrivono all'Aire, l'anagrafe dei residenti all'estero. Una rilevazione svolta a livello esplorativo nel 2010 da Claudia Cucchiarato, animatrice del blog Vivo altrove e autrice dell'omonimo libro - nonché giovane giornalista veneta trapiantata ormai da anni a Barcellona - ha evidenziato infatti che solamente la metà dei giovani che prendono la strada dell'estero sceglie di trasferire anche la propria residenza: «Anche se non è sempre appropriato parlare di "scelta", perché molti al momento della partenza non sanno per quanto tempo rimarranno lontani, e quindi attendono mesi o anche anni prima di formalizzare con l'Aire il fatto che si sono stabiliti in un altro Paese» puntualizza Alessandro Rosina, presidente dell'associazione e docente di demografia alla Cattolica di Milano: «Anzi, molti partono pensando di tornare indietro dopo un breve periodo, e quindi evitano di proposito le procedure burocratiche connesse al trasferimento della residenza. Però poi, confrontando le opportunità che trovano in realtà più dinamiche e avanzate - e non ci vuole molto: in confronto all'Italia perfino il Cile offre migliori chance! - la voglia di tornare indietro lentamente sbiadisce e il soggiorno che doveva essere temporaneo spesso si trasforma in una scelta permanente». Tra l'altro essere iscritti all'Aire non serve a molto, eccezion fatta per il diritto di votare all'estero: ma poiché molte volte le elezioni diventano anche l'occasione di un viaggetto per riabbracciare parenti e amici, il vantaggio di poter votare da lontano non è percepito come fondamentale.Il problema della mancata registrazione all'Aire sta creando anche qualche difficoltà all'applicazione della legge Controesodo, che prevede importanti sgravi fiscali per i laureati under 40 che dopo un periodo di almeno due anni fuori dall'Italia decidono di fare rientro in Patria. In realtà la legge non prevede esplicitamente l'obbligo di iscrizione all'Aire, sottintendendo che basti poter certificare "informalmente" la permanenza all'estero; ma successive interpretazioni hanno creato confusione. Tanto che a metà gennaio Guglielmo Vaccaro, il deputato del Partito Democratico - che insieme ad Alessia Mosca più si é speso sul fronte di Controesodo - aveva presentato un emendamento che tra le altre cose specificava che «gli incentivi si applicano anche a coloro che non hanno effettuato l’iscrizione all’Aire, conservando la residenza anagrafica in Italia o nel loro Paese d’origine» Ma questa parte del testo non è passata e la questione resta aperta.In realtà comunque i due milioni di giovani italiani all'estero non sarebbero un problema di per sè. Allontanarsi dal proprio Paese per fare nuove esperienze o cercare opportunità migliori fa parte della natura umana e non è un disvalore. Il problema è la bilancia tra i cervelli che si perdono e quelli che si "acquistano". Purtroppo l'Italia perde molti profili alti, cioè persone con istruzione universitaria che scappano e portano le proprie competenze altrove, mentre riesce ad acquisire solo profili bassi: l'immigrazione è composta quasi esclusivamente di manovalanza (anche quando sono laureati nella loro patria, raramente gli immigrati svolgono nel nostro Paese mestieri correlati alla propria istruzione) e l'Italia non viene percepita, a livello internazionale, come un luogo attraente per i giovani cervelli. Lunga e impervia è la strada per traghettare il nostro paese verso standard di meritocrazia ed eliminare quelle sacche di gerontocrazia, familismo e immobilismo che impediscono il sano e ricambio generazionale.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Cervelli in fuga: un doppio questionario per capire chi sono, cosa gli manca, e perchè quasi tutti non tornano (e alcuni sì)- Sulla Rete i giovani italiani scalpitano per fare rete: ITalents sbarca su Facebook, ed è boomE anche:- Claudia Cucchiarato, la portavoce degli espatriati: «Povera Italia, immobile e bigotta: ecco perché i suoi giovani scappano»- «Vivendo altrove, il confronto fra l’Italia e altri paesi diventa impietoso. E illuminante». In un libro le storie degli italiani che fuggono all'estero- Peter Pan non per scelta ma per forza: nelle pagine di «Gioventù sprecata» i motivi che impediscono ai giovani di diventare adulti

Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene

Nell'agosto dello scorso anno l'Osservatorio di Unioncamere ne ha contate 702mila. Ma cosa fanno le istituzioni per sostenere la nascita e la crescita delle imprese guidate dai giovani? Da Roma a Milano passando per la Toscana, sono diversi i bandi che le finanziano. E quattro città - Trento, Torino, Bari e Napoli - si preparano ad ospitare una tappa dello Startup weekend, due giorni dedicati a tutti coloro che vogliono avviare un'impresa nel mondo del web e delle mobile applications.La provincia di Roma ha appena aperto due bandi per sostenere le imprese creative e incoraggiare la nascita di nuove aziende, mettendo a disposizione complessivamente oltre 750mila euro. Il Fondo per la creatività, questo il nome del primo progetto, è promosso in collaborazione con la Camera di commercio della capitale ed è rivolto ai residenti nell'area metropolitana romana. L'obiettivo quello di favorire la creazione di realtà imprenditoriali nei settori come l'architettura, l'arte, l'artigianato artistico, il disegno industriale, la moda, la pubblicità, la comunicazione, la fotografia e l'editoria. La partecipazione al concorso, che mette a disposizione 500mila euro, è aperta anche alle imprese sorte negli ultimi 24 mesi. Le domande vanno presentate entro il 29 febbraio.Provincia e Cciaa ribadiscono la loro collaborazione anche nell'ambito di Promotori tecnologici per l'innovazione, iniziativa volta a favorire l'incontro tra il mondo delle imprese e quello della ricerca. In questo caso i fondi a disposizione ammontano a 254mila euro che saranno distribuiti a realtà nate negli ultimi dodici mesi oppure a singoli laureati e ricercatori che siano occupati come promotori tecnologici all'interno di un'azienda. Anche per questo progetto la scadenza è fissata alla fine di febbraio 2012.Nel dicembre dello scorso anno si è invece concluso FarImpresa Milano, iniziativa congiunta di Palazzo Marino e della Camera di commercio meneghina, che hanno messo a disposizione addirittura un milione e mezzo di euro per le imprese con meno di 18 mesi di vita. Questi fondi sono andati a finanziare gli investimenti sia sul fronte delle risorse tecniche che di quelle umane, con contributi fino a 10mila euro per l'assunzione o la stabilizzazione dei lavoratori. Sono state 130 le domande presentate da altrettante imprese: di queste, 99 sono state ammesse ed hanno ricevuto i finanziamenti previsti. Ai vincitori è stata offerta anche la possibilità di partecipare a corsi di gestione di bilancio, marketing e comunicazione, fiscalità e accesso ai finanziamenti pubblici.Ancora attivo invece in Lombardia - ma questa volta l'iniziativa coinvolge governo, regione, il circuito delle Camere di commercio e i comuni di Milano e Monza - è il progetto Start che sostiene la nascita di nuove aziende con particolare riguardo all'imprenditoria giovanile e femminile. In questo caso i contributi vengono erogati per le diverse fasi della creazione di un'attività, dall'elaborazione del business plan allo start-up, fino alla gestione dei primi due anni di attività. I diversi soggetti promotori hanno messo a budget quasi quattro milioni di euro: le domande potranno pervenire fino a 30 novembre 2012, e la partecipazione è riservata ai soli residenti in Lombardia.In Toscana, invece, la regione ha messo a disposizione 12 milioni di euro per favorire l'avvio di imprese a conduzione femminile oppure guidate da under 40. Il sostengo è rivolto sia allo start-up, ovvero ad aziende con meno di 6 mesi di attività, sia allo sviluppo: in questo caso i fondi vanno a realtà che ancora non abbiano 'compiuto' i due anni di vita. Gli aiuti non consistono però nell'erogazione di un contributo, bensì in una serie di agevolazioni nell'accesso ai finanziamenti. In particolare, questa somma viene utilizzata come garanzia gratuita da parte di Fiditoscana, che arriva a coprire fino all'80 per cento del rischio sui finanziamenti bancari per l'avvio o lo sviluppo di un'attività. È previsto poi il rimborso, a fondo perduto, del 70 per cento degli interessi del prestito, che viene erogato ad un tasso agevolato.Sempre in tema di nascita di nuove attività, da segnalare i quattro appuntamenti italiani con gli Startup weekend, che quest'anno si svolgeranno a Trento, Bari, Torino e Napoli. Si tratta di un'iniziativa diffusa a livello internazionale, una sorta di laboratorio che mette a confronto i diversi soggetti che operano nel settore di Internet e delle applicazioni per gli smartphone. L'idea è quella di mettere a disposizione di quanti abbiano un'idea per un progetto in questo campo gli strumenti per trasformarla in realtà.Magari anche approfittando delle recenti norme approvate dal governo per favorire l'imprenditoria giovanile, come l'introduzione della cosiddetta "srl semplificata" per gli under 35 e la tassazione forfettaria al 5 per cento per le nuove attività. E chissà che grazie a queste norme le 702mila attività da Unioncamere non possano crescere di numero.Riccardo SaporitiPer saperne di più leggi anche:- Ricerca e start-up, centinaia di opportunità di lavoro per giovani imprenditori e ricercatori- Il ministro Giorgia Meloni: «Per investire sui giovani è necessario un cambio di mentalità»E anche:- Lavoro e giovani: ce l'abbiamo un'idea? L'associazione Rena mette pepe al dibattito- Chi ha paura dei giovani che scalciano?

Le 150 ore per il diritto allo studio: una lotta sindacale degli anni Settanta che oggi andrebbe rispolverata

Ci volle una battaglia sindacale, negli anni Settanta, per dare vita alle cosiddette 150 ore per il diritto allo studio. Il risultato fu la possibilità per tutti i lavoratori di usufruire di un monte ore triennale retribuito per seguire corsi di formazione professionale o anche non strettamente connessi con l'attività lavorativa, al fine di ottenere un titolo di studio. L'idea era un po’ quella di potersi affrancarsi dal padrone, mettendosi al suo stesso livello grazie all’istruzione. Francesco Lauria [nella foto sotto], 32enne sindacalista della Cisl, ha appena ripercorso questa storia nel libro Le 150 ore per il diritto allo studio [Edizioni Lavoro], facendo parlare in prima persona chi l’ha vissuta. «Le 150 ore erano una forma, potremmo dire, di risparmio contrattuale: una quota di salario che andava in un’altra direzione, forse la definizione migliore è quella di ‘investimento contrattuale’» scrive Bruno Manghi, uno dei protagonisti di quella lotta, nella prefazione del libro. In sostanza si trattava di sottrarre ore al lavoro, per dedicarle invece all’apprendimento: «Era un diritto non esigibile automaticamente e, all’inizio, la maggioranza dei lavoratori ne era consapevole molto blandamente». Un ruolo centrale lo ebbe chi portò avanti e fece conoscere quella rivendicazione: e allora operai e metalmeccanici iniziarono a utilizzare il tempo del lavoro anche per riprendere gli studi interrotti. Furono anni di cineforum, di corsi di inglese, italiano, storia, messi in piedi grazie all’aiuto degli intellettuali del tempo - organizzati tramite il sindacato nelle scuole per le 150 ore. L’esperienza ebbe però vita breve, spiega ancora Manghi: «negli anni Ottanta tutto cade sulle spalle di pochi sindacalisti a tempo pieno e a livello confederale. Le esperienze migliori si sono trasferite all’azione degli enti locali, ai corsi per stranieri, ma il sindacato non ne è più protagonista». Oggi le 150 ore sono solo un ricordo - anche se la legge prevede tuttora permessi retribuiti per motivi di studio - nonostante la questione della formazione continua sia tutt’altro che marginale. «Non sono pochi coloro che si rendono conto del peso negativo che la deficitaria condizione di literacy e numeracy degli adulti italiani ha su tutta la nostra vita, sociale, produttiva, economica, perfino, ha spiegato una volta Tito Boeri, finanziaria» afferma Tullio De Mauro, professore emerito di Linguistica, nella postfazione al libro. Come a dire che il nostro è un paese in declino forse anche a causa «del mondo oscuro della bassa scolarità intrecciata a una minacciosa e ancor più grave dealfabetizzazione in età adulta». Ipotesi non del tutto remota guardando al problema della disoccupazione: a ben vedere la laurea e più in generale i titoli di studio hanno uno scarso rilievo in Italia nel conseguimento di un posto di lavoro, ed è plausibile pensare che uno dei motivi risieda proprio nel basso tasso di scolarizzazione del nostro Paese, dove possedere un titolo accademico significa in pratica far parte di un élite. E poi c’è il discorso dei posti di lavoro di alto profilo: il fatto che scarseggino non è forse anch'esso legato alla bassa scolarizzazione della nostra popolazione e a una struttura industriale impostata in questo senso?L'avventura delle 150 ore, riportata alla luce dal libro, potrebbe essere dunque una proposta per il futuro, uno spunto da cui ricominciare. Lo dice anche De Mauro: «Il lavoro di Lauria può essere l’occasione per aprire un rinnovato discorso e, soprattutto, un rinnovato, coordinato impegno per ottenere in Italia un sistema nazionale di promozione degli apprendimenti in età adulta. Il lavoro lo merita e lo esige il patrimonio umano, culturale e civile che è il lascito prezioso delle 150 ore».Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Almalaurea fotografa i laureati del 2010 e lancia l'allarme: in Italia ce ne sono troppo pochi in confronto al resto d'Europa- I laureati italiani fotografati da Almalaurea: sempre più disoccupati e meno retribuiti