Sconfiggere la precarietà, le idee dei Giovani Democratici per cambiare il mondo del lavoro
Dieci proposte per riformare a costo zero un mercato dove addirittura un terzo dei lavoratori è precario. E sempre più vecchio. Il problema: i contratti temporanei, che non solo impediscono di progettare serenamente il proprio futuro, ma per giunta non sempre prevedono indennità di malattia e maternità e garantiscono poche tutele di fronte alla mobilità. Se ne è parlato sabato scorso a Roma nell'ambito di «Generazioni ad alta risoluzione», conferenza dedicata ai giovani e alla precarietà organizzata dai Giovani democratici in collaborazione con Lavoro&Welfare e l'associazione 20 maggio.Un evento anticipato dalla pubblicazione di un contributo dedicato a «Flessibilità e precariato in Italia», realizzato da Patrizio Di Nicola, docente alla Sapienza di Roma, con Alessandra Cataldi e Gianluigi Nocella, dottorandi nello stesso ateneo. Lo studio racconta di un Paese dove se 14,7 milioni di persone hanno un contratto a tempo indeterminato, ce ne sono oltre cinque milioni occupate in base alle forme più diverse: collaborazioni, praticantati, stage, finte partite Iva. Tutte accomunate da un unico elemento: la precarietà.Una condizione che nel corso degli ultimi anni è andata aumentando. Elaborando dati forniti dagli enti pensionistici e previdenziali, Istat e enti di ricerca privati, il rapporto mette in luce come tra il 2004 ed il 2010 il numero di lavoratori a tempo sia cresciuto del 14 per cento. Una tendenza che si conferma anche per il 2010, in piena crisi economica: gli atipici sono aumentati dell'1,3%, i tempi determinati del 4,3. E questo in un contesto che ha visto ridursi di quasi un punto percentuale le persone con un'occupazione.Una precarietà che cresce, ma soprattutto che invecchia. Il 67,7% dei titolari di un contratto a tempo determinato ha tra i 30 ed i 49 anni, la stessa età del 47,9% degli atipici. «Il lavoro atipico non è più un 'rito di passaggio' verso quello dipendente», si legge nel rapporto. Nel 2008 a rimanere intrappolati in un'occupazione senza tutele era il 54,6% dei lavoratori, oggi siamo al 59. Tra il 2007 ed il 2010 la percentuale di coloro che sono riusciti a trasformare la precarietà in stabilità è calata dell'8,4%.E gli stage? Nel corso del 2010, secondo questo studio, ne sono stati attivati più di 310mila, circa 90mila nell'industria, il resto nei servizi. Mancano però all'appello, come sottolineato più volte da Repubblica degli Stagisti, quelli attivati nella pubblica amministrazione e nel non profit. Comunque: circa la metà dei tirocini attivati nel privato ha interessato aziende con meno di dieci dipendenti, capaci di garantire un'assunzione ad appena il 12,8% dei tirocinanti (anche se in realtà i dati Unioncamere Excelsior parlano del 12,3% di rapporti trasformati in un contratto di lavoro). Decisamente meglio è andata a coloro che hanno attivato uno stage in grandi aziende con più di 500 occupati: uno su quattro è riuscito ad essere assunto al termine del progetto.Magrissima consolazione di fronte ad un quadro a tinte davvero fosche. Gd, Lavoro&Welfare e associazione 20 maggio però non si sono limitate a descrivere la realtà, ma hanno elaborato un decalogo di proposte che vogliono rendere migliori le condizioni di lavoro dei giovani e dei precari. Piccole riforme a costo zero ma in grado, secondo gli ideatori, di portare grandi cambiamenti nelle vite delle persone.Il primo passo consiste nel superare gli abusi, stabilendo ad esempio che le attività manuali possano essere svolte solo come dipendenti ed abolendo le cosiddette 'dimissioni in bianco'. Ma soprattutto eliminando ogni eccezione oggi prevista per i contratti a progetto, ovvero quelle scappatoie che consentono di utilizzare la formula cocopro per rapporti prolungati nel tempo, privi di ogni tipo di progettualità. Altro tema, il costo del lavoro discontinuo. La proposta è di equipararlo a quello dei contratti collettivi per le categorie iscritte alla gestione separata, di aumentarlo del 15% rispetto a quello di un dipendente per tutte le altre situazioni. In questo modo, viene stimato un aumento di 108 milioni nelle entrate dell'Inps e di 100 milioni per il fisco.Viene proposta una riforma dell'apprendistato, da trasformare in contratto unico d'inserimento formativo della durata di sei anni. I primi tre con salario più basso e contributi meno onerosi, i successivi con i contributi previsti fino al 2011 e, soprattutto, un'assunzione a tempo indeterminato. Al termine del contratto dovrebbe poi svolgersi un'esame che attesti la formazione del lavoratore. Infine, si propone di estendere a tutti i lavoratori il sostegno al reddito in caso di disoccupazione. I costi di quest'operazione, non certo 'indolore' per le casse dello Stato, sarebbero coperti dalle maggiori entrate derivate dall'aumento del costo del lavoro precario, una delle misure proposte nel decalogo.Si tratta in poche parole di invertire quella tendenza tutta italiana che ha declinato la flessibilità solo come un modo per «ammorbidire le tutele a garanzia del lavoro e a ridurne il costo». Il modello da seguire è la flexicurity danese: «La necessità di conciliare le esigenze del sistema produttivo con l’importanza assoluta che il lavoro ricopre nella vita delle persone dovrebbe portare a un modello virtuoso in cui flessibilità e sicurezza non siano necessariamente alternativi».Riccardo SaporitiPer saperne di più, leggi anche:- Chi ha paura del contratto unico? 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