Categoria: Approfondimenti

Nuove norme sui tirocini, per applicarle bisogna capirle: ecco i punti ancora oscuri

L'articolo 11 della manovra finanziaria di Ferragosto, il decreto legge 138/2011, determina  tra le altre cose  nuovi «Livelli di tutela essenziali per l’attivazione dei tirocini».  Riducendone drasticamente la durata massima: «i tirocini formativi e di orientamento non curriculari non possono avere una durata superiore a sei mesi, proroghe comprese». E riservando questo strumento a chi sta compiendo o ha appena completato un percorso formativo: «Possono essere promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento dei relativo titolo di studio». Le nuove disposizioni, già in vigore dal 14 agosto grazie all'immediata efficacia dello strumento del decreto legge, sono quindi già operative e impediranno fino a metà ottobre di attivare stage più lunghi di sei mesi, e di attivarli in favore di persone che abbiano già conseguito l'ultimo titolo di studio da oltre un anno. Entro il 14 ottobre il contenuto dell'articolo 11, come tutta la manovra, dovrà poi passare per il Parlamento ed essere trasformato in legge. Come, si vedrà. Intanto stagisti e soggetti promotori, università e centri per l'impiego in primis, brancolano nel buio. Ecco i punti oscuri individuati dalla Repubblica degli Stagisti: speriamo che il ministero del Lavoro intervenga quanto prima a dissiparli.1) come si definisce il tirocinio curricolare? In particolare:a) si tratta di tirocini attivati esclusivamente nell'ambito di corsi di laurea universitari, o si definiscono in questo modo anche quelli inseriti in altri percorsi formativi, per esempio nell'ambito di scuole secondarie, scuole professionali, corsi di specializzazione, master universitari e non universitari, dottorati? b) durante l'università si definisce "curricolare" qualsiasi tirocinio svolto da uno studente e attivato prima della laurea, o solamente quei tirocini che danno diritto a cfu (crediti formativi universitari)? c) può definirsi "curricolare" un tirocinio svolto senza l'obiettivo di ottenere cfu, ma con l'obiettivo di scrivere la tesi di laurea?2) in caso si possano definire curriculari anche gli stage inseriti in corsi, master etc: qualsiasi percorso formativo è da considerarsi valido? Anche un percorso che preveda pochi giorni o addirittura poche ore di formazione in aula? Anche un percorso extrauniversitario?3) il decreto legge ha validità urbi et orbi o solo per una determinata fascia anagrafica, in particolare quella dei giovani? Cioè possono ad oggi essere attivati stage per persone al di fuori delle categorie esplicitamente elencate nel decreto (disabili, invalidi fisici-psichici-sensoriali, soggetti in  trattamento  psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, condannati ammessi a misure alternative di  detenzione, neodiplomati e neolaureati)? In particolare, possono continuare ad essere attivati stage in favore di persone inoccupate e disoccupate, così come prassi comune specialmente da parte dei centri per l'impiego?4) In caso possano essere al momento attivati stage anche per persone disoccupate e inoccupate, come mai questa categoria non è citata nel testo del decreto? Quale elemento fa sì che una categoria non citata tra i beneficiari in realtà sia prevista?5) il dispositivo si applica integralmente anche agli enti pubblici?6) Possono ad oggi essere attivati tirocini per persone che stanno frequentando corsi, master, scuole di specializzazione, dottorati e altri percorsi formativi? Vi sono differenze di applicazione in caso questi corsi-master etc siano universitari oppure extra-universitari?7) In caso vi sia differenza tra corsi-master universitari e non, come mai questa differenziazione non è specificata nel testo del decreto? Quale elemento fa sì che una differenziazione non esplicitata nel testo in realtà sia prevista?8) In caso l'attivazione di tirocini curriculari sia da intendersi come consentita solo nell'ambito di corsi di laurea universitari e non nell’ambito di percorsi formativi post-laurea, cosa succede per quei percorsi, come per esempio le scuole di giornalismo, che prevedono obbligatoriamente lo svolgimento di uno o più stage nell’ambito degli anni anni di corso? 9) il dispositivo parla di persone "neodiplomate" e "neolaureate", nei primi 12 mesi dal conseguimento rispettivamente del diploma e della laurea. Come vanno considerate le persone che hanno svolto nel recente passato percorsi formativi successivi - come per esempio master, corsi professionalizzanti, scuole di specializzazione, dottorati? Al termine di uno di questi percorsi formativi "riparte" la finestra dei 12 mesi oppure no?10) in caso la risposta alla precedente domanda fosse affermativa: qualsiasi percorso formativo è da considerarsi valido? Anche un percorso che preveda pochi giorni o addirittura poche ore di formazione? Anche un percorso extrauniversitario?11) cosa succede in caso una persona si laurei durante il percorso di stage?[fattispecie: un laurendo ha attivato a fine agosto uno stage di 12 mesi e si laurea a settembre: potrà svolgere tutti gli ulteriori 11 mesi di stage previsti inizialmente, concludendo cioè a fine agosto 2012, o in quanto laureato potrà svolgere solamente altri 6 mesi di stage?]12) cosa succede per stage extracurriculari già attivati nei mesi precedenti l'entrata in vigore del decreto legge, con un accordo sulla modalità 6+6? [In particolare due fattispecie:a) un neodiplomato o neolaureato che abbia attivato a marzo 2011 un tirocinio 6+6, allo scadere dei primi 6 mesi alla fine di agosto potrà vedere attivata la proroga di altri 6 mesi?b) e per una persona diplomata o laureata da oltre 12 mesi che si trovi nella stessa situazione?]13) in caso il decreto abbia validità urbi et orbi, e vieti di attivare stage in favore di inoccupati o disoccupati che si siano diplomati o laureati da oltre 12 mesi, che fine fanno i programmi ministeriali e regionali attivi in questo momento che prevedono il finanziamento e l'attivazione di stage per questi soggetti? Sono da considerarsi sospesi? Annullati? In caso contrario, su quali basi possono continuare ad essere attivati da questi soggetti, nell’ambito di questi programmi, tirocini non più conformi alla normativa vigente?14)  come si pone questo decreto legge nei confronti delle Regioni che hanno emanato negli anni scorsi normative ad hoc sugli stage? Qual è la gerarchia delle fonti? Una Regione potrebbe in questo momento emanare una legge regionale palesemente in contrasto con uno dei limiti espressi nel decreto legge? Per esempio prevedendo che gli stage possano essere attivati nei primi 24 o 36 mesi dal diploma o dalla laurea, in luogo dei 12 mesi previsti dal decreto legge? Se sì, perchè?Per saperne di più su questo argomento:- Nuova normativa sui tirocini nella manovra di Ferragosto, il diario di bordo: tutti gli articoli, gli approfondimenti e le interviste della Repubblica degli StagistiE in particolare:- Anche gli stage finiscono nella manovra del Governo: da oggi solo per neodiplomati e neolaureati, e per un massimo di sei mesi- Manovra, Michele Tiraboschi: «I nuovi paletti per i tirocini potranno essere modificati dalle Regioni»- «Allarme, con meno tirocini i giovani restano disoccupati, sarà un dramma per l'occupazione». Ma non è vero: ecco perchè

"Jilted generation", futuro svendesi: un libro inglese spiega come i baby boomers hanno mandato in bancarotta i propri figli

Nel 1994 The Prodigy le avevano dedicato un intero album, una presa di posizione tanto musicale quanto politica. Oggi dopo più di quindici anni la jilted generation, quella dei piantati in asso, degli abbandonati dalla società che conta, torna a fare bella mostra di sè su un'altra copertina, di un libro questa volta. «Jilted generation: how britain has bankrupted its youth», (Icon Books, 223 pagine, per il momento disponibile solo in inglese) è stato pubblicato lo scorso settembre a firma di Ed Howker e Shiv Malik [a fianco ad una presentazione londinese del volume, rispettivamente a destra e sinistra]. I due hanno in comune età - 29 anni - e professione - giornalisti - ma soprattutto una convinzione: la Gran Bretagna ha mandato in rovina i suoi giovani, le responsabilità sono sue e le gatte da pelare nostre. Altro che  british style. Della jilted generation tanto per cominciare si può fare un identikit abbastanza preciso: in Gran Bretagna sono 13 milioni, hanno tra i 18 e i 32 anni e sono i figli dei baby boomers, dei nati nel decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando «le ostetriche facevano fatica a stare al passo». I baby boomers sono tanti, oggi hanno tra i 55 e i 65 anni, occupano poltrone importanti o stanno andando in pensione, stanno invecchiando. E, secondo il punto di vista degli autori, dopo aver «sbafato» e rubato dal futuro dei propri figli per oltre un ventennio, contribuendo ad accumulare un debito pubblico di 890 miliardi, continuano a fare il bello e il cattivo tempo in politica ed economia.L'attacco è frontale e si sviluppa su quattro direttrici: «quattro fondamenti della vita di una persona, a prescindere dalla generazione di appartenenza: casa, lavoro, politica ed eredità», intesa come benessere individuale e collettivo che si passa oltre. Tra dati e interpretazioni c'è da perdersi, ma ecco alcuni highlights. Partendo dall'inizio, dal primo passo verso la maturità: una casa propria. Non considerando l'inflazione, un'abitazione che nel 1949 costava 2mila sterline nel 1960 era salita a 2.500; oggi ne servono 230mila. Nel 1990 la fascia 25-34 anni possedeva una casa di proprietà nel 43% dei casi; oggi sono il 27%. Un giovane su tre è a casa con i genitori perché non può permettersi un affitto - non ce l'ha fatta nemmeno il parlamentare John Prescott, intervistato dagli autori. In fatto di lavoro si sfonda una porta aperta: il 68% riceve sussidi per la disoccupazione, la percentuale più alta dal dopoguerra (e a conti fatti intascano di più che se non trovassero lavoro); chi ha una carriera avviata oggi guadagna il 35% in più di chi sta iniziando (quarant'anni fa la differenza era solo del 4%); quasi un quarto dei chi ha una laurea "debole" anni dopo è ancora in stage, a zero sterline. E a proposito di stage gratuiti: «Non verrà mai fatto niente per questa vergogna, perché i ragazzi sono così disperati da accettare tutto e perché il governo continuerà ad sostenerli per accorciare l'infinita lista dei disoccupati», nonostante poi non si tratti formalmente di lavoro. La verità di Malik e Howker è che chi è venuto prima della generazione degli abbandonati «ha dimenticato che esisteva un dopo e ha svenduto il nostro futuro in nome del profitto del momento. Sono stati soldi facili, dal momento che quanti oggi ne pagano i costi non erano lì per difendersi.  Bene, adesso ci siamo». E come difendersi, esattamente? Gli autori non lo dicono. È un libro che analizza - in dettaglio - e per farlo necessariamente "smonta" un problema, lasciandone poi i pezzi sul tavolo, per così dire. C'è da sperare che a Jilted generation segua una pars construens con lo stesso carattere. Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - I giovani secondo Pier Luigi Celli? Una «generazione tradita». Di cui continuano a parlare soprattutto i vecchi- Giovani disillusi e conservatori: da un sondaggio di Termometro politico emerge il ritratto di una generazione terrorizzata dal futuro- Giovani, riprendiamoci la scena: «Non siamo figli controfigure». La 27enne Benedetta Cosmi lancia la sfida in un libro

Io voto fuori sede: quando la partecipazione politica passa per la Rete

Votare, oltre che un dovere civico, è un diritto. Evidentemente, però, non per tutti. Se si è uno degli oltre 286mila studenti fuori sede, cioè oltre un quinto del totale degli universitari italiani secondo i dati dello stesso ministero, si va incontro a qualche oggettiva difficoltà. Stesso problema anche per chi è lontano dal proprio luogo di residenza per lavoro: sommando le due categorie si arriva a un totale di 800mila persone.Nel 2008 un gruppo di amici siciliani «emigrati» a Torino per motivi di studio (nella foto a destra, con Ficarra e Picone durante una manifestazione) si trova a fare i conti con il disagio di tornare a casa in vista delle elezioni politiche: prendere un treno espresso da Torino a Palermo vuol dire fare complessivamente oltre 40 ore di viaggio per un week-end. Spendendo anche molto: il  60% di sconto previsto per i treni regionali e il 70 per tutte le altre tipologie si applica infatti solo alla tariffa intera e risulta poco conveniente, mentre le agevolazioni sui voli sono applicate in maniera forfettaria dalle compagnie aeree. Per non parlare del fatto che la maggior parte delle volte si va alle urne in piena sessione d’esame e perdere tre giorni di studio è difficile.Prima di loro, nessuno si era mai posto il problema: le uniche «eccezioni» previste dal nostro ordinamento riguardano militari, detenuti e degenti ospedalieri. Da qui l’idea di una petizione online per chiedere al Parlamento di trovare delle soluzioni in modo da garantire l’«effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese», così come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione.Dal 7 aprile 2008 l’appello è in Rete e non lascia indifferenti né gli studenti né la classe politica. Il web inizia a mobilitarsi - a oggi i firmatari sono oltre 9700 - e dal Palazzo arrivano segnali di interesse. Sia il capo dello Stato Giorgio Napolitano che il presidente della Camera Gianfranco Fini rispondono alle lettere dei fuori sede e in tre anni vengono formulate quattro proposte di legge, riguardanti gli universitari fuori sede.La prima, presentata dal senatore Stefano Ceccanti (Pd) nell'aprile 2009, sottoscritta da 22 parlamentari e attualmente in corso d’esame in commissione Affari Costituzionali, prevede il voto per corrispondenza per gli studenti iscritti in un ateneo di una regione italiana non confinante con quella in cui esercitano il diritto al voto, ricalcando una procedura già attuata in nazioni come Spagna e Stati Uniti. «La proposta nasce da un'esigenza diffusa, che ho deciso di trasformare in progetto.  Bisogna riscontrare, però, che l'iniziativa  - l'unica in Senato al momento - ha suscitato interesse soprattutto esterno. I lavori della Commissione sono stati condizionati dallo stallo politico sulla riforma elettorale, dovuto alla volontà della maggioranza di non toccare la legge vigente», commenta Ceccanti. Poco più di un mese dopo, il 25 maggio, la deputata del PdL Annagrazia Calabria chiede ulteriori facilitazioni per i viaggi degli studenti che vanno a votare: uno sconto pari al 70% del biglietto per tutti i tipi di treno e la riduzione del 50 per i viaggi aerei e marittimi. Qualche giorno prima, il 18, la democratica Federica Mogherini Rebesani rilancia l’idea del voto per corrispondenza. Entrambe le proposte sono in prima lettura alla Camera. «Mi ha sempre colpito in positivo come ci siano migliaia di giovani che rivendicano con orgoglio il loro diritto a poter esercitare la responsabilità elettorale», spiega la deputata. «E’ importante che questa mobilitazione popolare degli studenti prosegua anche nei prossimi mesi, tanto più in vista della conclusione della legislatura, del dibattito che si sta aprendo sulla riforma della legge elettorale, elle elezioni politiche che, al più tardi, si celebreranno nella primavera del 2013, tra meno di 2 anni». L’ultimo provvedimento ha come principale promotore l’onorevole dell’Udc Roberto Occhiuto: presentata il 5 maggio scorso alla Camera ma non ancora discussa, la proposta di legge batte nuovamente sul voto per corrispondenza. «L’interesse per la questione è nato un paio di mesi prima del referendum. Il voto ai cittadini in mobilità è un tema di interesse generale e mi auguro che, in sede di discussione, si arrivi all’elaborazione di una proposta comune. La politica fino a qualche anno fa è stata poco reattiva nei confronti di questo problema, che invece la Rete ha contribuito a far conoscere», afferma Occhiuto. Al momento, però, nessuna di queste soluzioni è stata adottata.All’estero, invece, il problema è già risolto da tempo. Si va dal voto per procura francese, basato sul principio della delega, a quello in un seggio diverso dal luogo di residenza, applicato in Paesi Bassi, Austria, Polonia e Slovacchia, fino al voto per corrispondenza spagnolo e americano e a quello anticipato sul modello scandinavo: in Finlandia e Danimarca chi è impossibilitato ad andare al seggio il giorno delle elezioni può infatti esprimere la propria preferenza seguendo precise modalità, prima dell’election day. Sarebbe proprio l’advanced voting il modello attuabile più facilmente nel nostro Paese, da realizzare attraverso seggi speciali istituiti in un giorno prestabilito prima del voto. L’elettore avrebbe modo di esprimere la propria preferenza, che verrebbe poi scrutinata insieme alle altre. La battaglia dei fuori sede non si è ancora conclusa: resta sul tavolo un provvedimento definitivo, che magari includa anche altre categorie, che non possono andare al seggio, come i tanti lavoratori lontani dalla propria città di residenza. Però sono già stati messi a segno punti importanti: sul fronte legislativo, lo scorso 18 maggio, in occasione delle  amministrative, è stato discusso e approvato il decreto legge che ha permesso a 80mila fuori sede di votare per le elezioni, attraverso la delega a rappresentanti di lista. Un altro grande successo arriva dal web: il boom di contatti in Rete per l’iniziativa Io voto fuori sede dimostra che il dibattito politico e civile non può più fare a meno di Internet, uno strumento ormai sempre più potente per farsi sentire senza intermediari. Chiara Del Priore Per saperne di più su quest'argomento, leggi anche:- Stefano La Barbera: «Con delle semplici mail ci siamo fatti sentire in Parlamento. E in risposta abbiamo ottenuto quattro proposte di legge»- E se il voto di un ventenne contasse triplo?- Elezioni alle porte: se tutti votassimo un candidato giovane, entrerebbe un po' d'aria fresca nei consigli regionali

Tirocini nei tribunali, per aumentare l'indennità dei disoccupati in mobilità la Regione Abruzzo inventa il nuovo ibrido «lavoratore - stagista»

Nuovi particolari sul caso dei tirocini nei tribunali dell’Abruzzo. Dal bando del  «Progetto sperimentale Percorsi integrati per l’utilizzo di lavoratori in mobilità presso gli uffici giudicanti del distretto della Corte d’Appello di L'Aquila», parte del piano operativo 2009-2011 per il programma regionale del Fondo sociale europeo, si apprende che i quasi duecento lavoratori in mobilità che stanno per essere reclutati per i posti vacanti nelle sezioni della Corte d’Appello dell’Aquila verranno inseriti in un percorso che risulta "doppio". Composto cioè da 16 ore settimanali di tirocinio più 20 ore di svolgimento di attività socialmente utili. Dunque un tempo pieno per un totale di 36 ore, mescolate in una forma mista di tirocinio e lavoro. La Repubblica degli Stagisti ha contattato più volte l’assessorato al Lavoro della Regione Abruzzo, e in particolare il dirigente responsabile del bando Giuseppe Sciullo, per avere delucidazioni su questa inedita forma di inserimento, a metà tra la formazione e il lavoro. Ma la risposta non è mai arrivata. Dal bando intanto si evince che i 191 prescelti percepiranno anche un emolumento sdoppiato: 500 euro mensili di «indennità di partecipazione ai servizi formativi», che andranno a sommarsi all'indennità standard della mobilità (intorno agli 800 euro al mese). Trasformando i selezionati, anche dal punto di vista fiscale, in uno strano ibrido di lavoratori-stagisti. Pur non essendo le Province l'interlocutore principale, in quanto il bando è emanato dalla Regione (cui le candidatura vanno inviate per raccomandata entro il 1° di agosto), in mancanza di risposte da chi di dovere la Repubblica degli Stagisti si è rivolta al settore Politiche del lavoro e formazione professionale della Provincia dell'Aquila, per chiedere qualche chiarimento. «I centri per l'impiego provinciali, come previsto dal Protocollo d'intesa, rispetto a questo bando danno assistenza: controlliamo che i lavoratori siano iscritti nelle liste di mobilità, li aiutiamo a fare la domanda» spiega il dirigente Tiziano Amorosi. Un ruolo di supporto insomma: ma l'iniziativa è utile? «Certamente permette che queste persone per 12 mesi abbiano un'ulteriore integrazione al reddito, entrino in un ufficio pubblico, acquisiscano ulteriori esperienze e capacità, e che siano insomma occupate, anzichè restare a casa o lavorare in nero», riflette: «Ricordiamoci che qui si parla di lavoratori che in mobilità percepiscono circa l'80% della loro paga base, ma senza contare straordinari o altro; che quindi si sono visti diminuire il reddito mensile magari di 500, 600 euro, spesso avendo anche una famiglia da mandare avanti. Insomma, ben vengano le iniziative che attraverso procedure trasparenti riescono a utilizzare fondi pubblici per venire incontro a lavoratori svantaggiati». Anzi secondo Amorosi andrebbero allargate a tutti gli enti pubblici, dato che alcuni sono sotto organico e c'è il blocco delle assunzioni e del turn-over. «In mobilità si va di solito quando un'azienda chiude e opera licenziamenti collettivi: difficile riconvertirsi a quaranta, cinquant'anni» conclude «Il tirocinio non per forza dev'essere utilizzato solamente per i giovani come primo ingresso nel mondo del lavoro».Però, come già la Repubblica degli Stagisti aveva evidenziato, un altro e ancor più evidente problema di questo progetto è la durata fuori norma dei tirocini: 12 mesi anzichè i 6 previsti come massimo dal dm 142/1998 per la categoria dei disoccupati. Un anno intero di "percorso formativo" perfino per l'apprendimento di mestieri semplici come quello dell'autista o dell'ausiliario, per i quali - come per gli altri profili - il bando prevede 16 ore  di formazione settimanali, vale a dire oltre 750 ore nell'arco dei dodici mesi. Obiettivo: fare un po' di lavoro d'ufficio («la movimentazione di fascicoli, oggetti e documenti, la fotocopiatura e la fascicolazione») e qualche volta rispondere al telefono: «In tale ambito rientra anche la gestione di centralini telefonici e, in generale, compiti di ricevimento del pubblico, nonché la preparazione della corrispondenza». A cui si aggiunge, per gli autisti, il compito di  imparare a «condurre autoveicoli di Stato e assicurarne le operazioni di semplice manutenzione». Tutte mansioni da svolgere per il 60% del tempo con la casacca di "lavoratore socialmente utile", e per il 40% con la casacca di "stagista". Ma allora come verranno considerate queste persone, lavoratori o tirocinanti?È accettabile che proprio un ente pubblico promuova un progetto di tale confusione, investendoci oltre un milione di euro? Scorrendo il curriculum di Paolo Gatti [nella foto], avvocato 33enne eletto in Regione a fine 2008 con oltre 10mila preferenze e voluto come assessore al Lavoro dal governatore PdL Giovanni Chiodi, non appaiono in effetti significative esperienze nel settore del mercato del lavoro. In ogni caso, non è solo l’inesperienza a creare ibridi e forzature come il progetto dell’Abruzzo: l’utilizzo degli stagisti nei tribunali al posto di personale regolarmente assunto è ormai una realtà consolidata, come documentato di recente da questa testata. «Tutto questo ci dice come sono ridotte le condizioni della giustizia italiana, al di là delle leggi ad personam», commenta Antonio Crispi, segretario nazionale della Funzione Pubblica della Cgil, che glissa però quando gli si chiede conto delle criticità di questa forma di tirocinio abruzzese. «Con il blocco del turno over, si ricorre a questi mezzucci invece di affrontare il problema del lavoro», aggiunge parlando di come la mancanza di personale qualificato, sostituito da stagisti tuttofare ma evidentemente privi di specializzazione, stia distruggendo l’apparato della giustizia. Una seria riforma della giustizia, che non faccia affidamento su tirocinanti presi in prestito dalla mobilità, potrebbe contribuire al suo risanamento. E a dare opportunità di lavoro reali alle categorie più svantaggiate: tra cui i disoccupati abruzzesi.Eleonora Voltolinacon la collaborazione di Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento leggi anche: - Tribunali sotto organico, in Abruzzo 200 adulti in mobilità reclutati per un maxistage di un anno. Fuorilegge e senza sbocchi professionali- Tribunali al collasso, sempre più stagisti per coprire i buchi di organico E anche:- Superstage in Calabria, l'incredibile mossa della Regione: ancora una proroga. Così gli stage dureranno tre anni, anche se per legge il massimo sarebbe uno

Per risollevare l'economia bisogna ripartire dalle donne

Non tutto ciò che conta si può contare, e viceversa. Un gioco di parole con cui Albert Einstein, uno che di conti se ne intendeva, voleva sottolineare una verità un po' paradossale: il valore a volte non si può quantificare. Valore inteso come importanza, rilevanza, e non appunto come misura quantitativa. È l'assunto di base da cui partono l'economista Elena Sisti e la trentenne Beatrice Costa, ricercatrice sulle politiche di genere per Actionaid, per rispondere alla domanda "Quanto vale il lavoro delle donne?". Stando all'economia ufficiale - quella del Pil, delle statistiche, dei numeri - molto meno di quello maschile, ma l'economia reale racconta tutt'altra storia: le donne reggono il mondo, come recita il titolo del libro (Altraeconomia, 116 pagine, a fianco la copertina). Lavorano complessivamente più degli uomini, ma il loro lavoro fuori casa è svalutato - nonostante per accedervi abbiano fatto più fatica - e quello tra le pareti domestiche non riconosciuto. Per di più proprio in tempi di crisi - spesso derivanti da un'impostazione prettamente maschile dell'economia - sono le donne ad andarci di mezzo per prime, sobbarcandosi il surplus di fatica richiesto. Il volume vuole affermare il ruolo cruciale delle donne ma anche indicare che un altro modo è possibile. «Intuizioni femminili per cambiare l'economia», è appunto il sottotitolo, intuizioni che nascono da dodici conversazioni con altrettante esperte, donne tenaci e preparate ma per la maggior parte poco note - e quindi eccole: sono l'economista Ann Pettifor, la giornalista Monica D'Ascenzo, la sociologa Manuela Naldini, Francesca Bettio docente di politica economica e ideatrice del portale Ingenere, e ancora Paola Villa, Liana Ricci, Silbia Macchi, Stefania Scarpoini, fino all'editorialista di Io Donna del Corriere della Sera Marina Terragni e alla stessa Beatrice Costa. Il risultato è una panoramica "con gli occhiali rosa" che ripensa in termini economici i più diversi ambiti della vita: economia, ambiente, politica, comunicazione, sviluppo e sostenibilità.Innanzitutto va esplicitato che (diversamente da quanto ritengono organismi pure autorevoli come l'Ilo, l'International Labour Organization dell'Onu) una persona economicamente attiva non necessariamente è impegnata in un'attività economica retribuita, in un lavoro formale, contrattualizzato o meno. È una definizione che non può che stare stretta, alla donna come all'uomo. «Perché le cose cui viene attribuito un prezzo tramite lo scambio sul mercato devono avere un valore superiore a quelle che non hanno un prezzo, tanto più se tra queste ultime risultano esserci la cura dei figli e dei malati, la produzione di cibo , la manutenzione e la pulizia della casa?», si chiedono le curatrici del volume. Del resto economia, dal greco, vuol dire "legge della casa". Del lavoro di cura quotidiana delle donne non c'è però traccia nelle statistiche ufficiali; e non è questione da poco, perché «se non ci sono i dati, non ci sono i problemi, non ci saranno le politiche», affermano Sisti e Costa. Al di là del mancato riconoscimento, ci sono poi potenzialità messe a tacere. Capacità di mediazione, ricostruzione, lungimiranza, cura delle relazioni: sono alcune delle caratteristiche tipicamente femminili che, ricerche alla mano, costituirebbero una quanto mai necessaria iniezione benefica all'economia globale. Mencession, fusione inglese delle parole "uomini" e "recessione": questo è il termine con cui non a caso negli Stati Uniti hanno definito la recente crisi. «Sono in molti a credere che essa sia stata causata da una visione "al maschile" del mondo, che ha come caratteristiche una più alta propensione al rischio, una concentrazione maggiore sull'individuo rispetto alla comunità e una minore spinta a tenere conto del futuro nelle decisioni».Eppure le donne sul lavoro fanno ancora tanta manovalanza e pochissima dirigenza. In Italia nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa rappresentano un misero 2% - questo quando è stata da poco approvata la legge che prevede almeno di decuplicare la cifra: il 20% a partire dal 2012 - e il Gender Equity Index del Social Watch, indice di parità sessuale che tiene conto di istruzione, partecipazione economica e politica, ci classifica al 72esimo posto - subito dopo Paesi come Grecia, Slovenia, Cipro e Repubblica dominicana. A questo punto le tanto discusse quote rosa sembrano alle autrici «un male necessario, per un periodo di tempo transitorio, per poter cambiare la cultura del paese», abituando alla presenza delle donne sulle poltrone che contano. Presenza che aiuterebbe senz'altro a mettere in campo i cambiamenti. A sviluppare un sistema di welfare che supporti attivamente le famiglie, ad esempio, sia in termini monetari con assegni o detrazioni fiscali sia di servizi e qui si parla di asili nido aziendali, periodi di congedo per i padri, potenziamento statale dell'apparato di assistenza agli anziani (oggi più che altro «badantato» assistenzialistico). Ma la sfida vera è innanzitutto cambiare la cultura e la percezione del ruolo della donna nell’economia, e realizzare questo cambiamento senza cadere nel tranello della lotta tra sessi, come è avvenuto in passato con le teorie femministe. A essere ripensato deve essere innanzitutto il rapporto uomo-donna: non competizione, ma collaborazione, un equilibrio in cui le diversità vengano valorizzate in modo virtuoso per creare un benessere misurabile non solo in termini monetari.Annalisa Di Palo Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Le domande personali in sede di colloquio non sono lecite: lo dicono il Codice delle pari opportunità e la Costituzione  - Rita 101+, l'omaggio della Rete a Rita Levi Montalcini e alle ricercatrici italiane: la Repubblica degli Stagisti trasmette in diretta streaming l'evento- Umberto Veronesi: la fatica delle donne e dei figli suoi: ma in realtà sono i figli di nessuno che fanno una fatica bestiale per emergere

Giovani disillusi e conservatori: da un sondaggio di Termometro Politico emerge il ritratto di una generazione terrorizzata dal futuro

È un ritratto sfacciatamente, drammaticamente conservatore degli under 35 italiani quello che emerge dal sondaggio Lavoro, formazione, partecipazione. Cosa vogliono i giovani under 35?  presentato a Roma da Termometro Politico nel corso di Italia110, un evento ideato e realizzato da Marco Meloni del PD. E alla domanda contenuta nel titolo la risposta potrebbe essere questa: conservare lo stato attuale delle cose - rifiutando il ruolo proprio delle nuove generazioni, cambiare il mondo in vista del futuro. Devono mancare completamente delle prospettive di vita certe se è quasi l’80% degli intervistati a dichiarare di non essere disposto a tagliare le pensioni dei genitori per permettere a quelli della propria generazione di averne una anche solo “dignitosa” in futuro. Nessuno è portato a volere una condizione peggiore per la propria famiglia d’origine, è chiaro. Ma viene da pensare che dietro una percentuale così alta di contrari ci sia la paura di sovvertire lo stato delle cose, e ridurre quelle pensioni dalle quali troppo spesso – se ci si trova impantanati nella precarietà del lavoro - si è costretti a dipendere. Del resto i favorevoli alla stabilità sono quasi la totalità degli intervistati quando si chiede di scegliere tra un lavoro fisso ma con uno stipendio più basso e uno precario ma con stipendio più alto: l’87% è sicuro di volere il primo, a prescindere dal guadagno, perché è proprio la sicurezza del lavoro a premere. E se si parla di aiuti all’imprenditoria giovanile, solo il 12% (al Centro il 18%) crede nei contributi a fondo perduto. Tutti gli altri vorrebbero tasse più basse e meno burocrazia. Anche qui è come se si pensasse che non è bene confidare nell’iniziative e nelle idee di un giovane imprenditore: tutt’al più gli si può rendere la vita un po’ più semplice. E ancora, quasi la metà degli intervistati (siamo attorno al 45%) crede che le “conoscenze” siano il  miglior canale di ricerca di un lavoro, mentre solo uno su tre ritiene che stage ed esperienze professionali siano importanti per ottenere un buon impiego (percentuale che sale al 45% tra i lavoratori autonomi). E lo studio universitario? Ci crede solo il 23% (sono di più gli studenti: un terzo degli intervistati). Se poi si chiede di abolire gli ordini professionali, emblema delle corporazioni, si solleva quasi un muro di contrarietà: ben il 60% è per nulla o poco d’accordo.Si delinea così il quadro di una generazione conservatrice, che non mette in discussione la condizione sociale dei padri ed è alla ricerca di stabilità, che è liberale ma al contempo corporativa (difende gli ordini professionali), e disillusa, nella consapevolezza che le reti informali dei contatti ‘giusti’ sono più efficaci di stage ed esperienze di lavoro. E anche impaurita da un futuro che non riesce a prefigurarsi.Un’immagine che si riflette sulla propensione alla partecipazione in politica: solo un giovane su quattro ha pensato di cimentarsi in questa attività. Del resto i governanti raccolgono bassissimi livelli di fiducia (solo il 24% la ripone nei partiti). Interessante anche la tabella che descrive le opinioni dei giovani in quanto a cause di ingiustizia sociale: quasi la metà la imputa al fenomeno dell’evasione fiscale. Mentre solo il 32% lo attribuisce a uno squilibrio tra generazioni e uno su cinque al corporativismo. Ancora una volta sembra che gli under 35 la pensino come i loro padri, verso i quali rifiutano lo scontro. Che se non è necessario a ogni costo, è però un passaggio naturale nell’evoluzione della società.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Censis: in Italia i laureati lavorano meno dei diplomati. E i giovani non credono più nel «pezzo di carta»- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato  

Apprendistato, ancora indietro l'alta formazione. Fiorella Farinelli: «Il mondo produttivo non sembra interessato»

La normativa sull’apprendistato di alta formazione «non ha prodotto nulla per ora, si tratta solo di un progetto a livello nazionale a cui il mondo produttivo non sembra interessato». Commenta così la condizione italiana in materia di apprendistato Fiorella Farinelli, 67 anni, ex assessore all'Educazione e alle politiche giovanili del Comune di Roma e attuale presidente del Comitato scientifico della scuola superiore della Pubblica amministrazione locale. L'istituto è stato riformato attraverso il Testo Unico varato a inizio maggio dal Consiglio dei ministri ed è ora al vaglio di parti sociali e regioni. Una parte della normativa - quella che riguarda l'apprendistato rivolto anche a dottori di ricerca e praticanti di studi professionali - è però al momento sostanzialmente inapplicata poiché le Regioni stanno legiferando soprattutto su una delle tre tipologie di apprendistato previste: il professionalizzante. Se ne è parlato di recente anche sul sito di Sbilanciamoci, associazione no profit "autofinanziata" che divulga informazioni di natura economica, tra cui tematiche inerenti al lavoro. Di fatto questo tipo di contratto è usato per lo più per persone con un basso livello di istruzione, e il motivo per cui non aumenta la quota di apprendisti laureati non dipende solo dal vuoto normativo regionale: «molte aziende non hanno voglia di infilarsi in situazioni che non sanno gestire. E non sono interessate ad elevare la competenza delle persone», sottolinea la Farinelli. Insomma, dal momento che manca la normativa da attuare – in vigore solo sulla tipologia di apprendistato professionalizzante – e in più questo strumento è facilmente sostituibile da stage o altri pseudo-contratti di lavoro, il mondo produttivo sembra scegliere lo status quo, non azzardando contrattazioni più innovative. La soluzione però esiste, e potrebbe trovarsi «da una parte nel sistema degli incentivi, e dall’altra nel meccanismo del controllo e delle sanzioni», su cui per ora i governi non stanno agendo. C’è poi la questione del genere: l’apprendistato ha una netta prevalenza maschile. Fiorella Farinelli, che è anche ricercatrice Isfol, spiega alla Repubblica degli Stagisti che la scarsità di donne dipende non tanto da un fatto discriminatorio, quanto dai settori in cui viene applicato, tutti caratterizzati da una forte presenza di uomini, come l’artigianato o l’edilizia: parallelamente, i dati Isfol rivelano che è negli stage dove le persone di sesso femminile sono la maggioranza, laddove di solito la formazione richiesta è più alta. E per quanto riguarda la durata, è adeguato un lasso di tempo di sei anni? «No: la durata dovrebbe essere più limitata. Se sei anni sono richiesti per un orafo, può anche darsi che una formazione tanto lunga sia giustificabile. Ma per altri profili dico francamente che si tratta di un abuso tipicamente italiano», sottolinea la Farinelli, aggiungendo che anche la questione del limite dell’età a 29 anni è a dir poco «scandalosa» e facendo il paragone con altri Paesi: in Germania l'80% degli apprendisti ha meno di vent'anni, in Svizzera «viene offerta una formazione che è poi riconosciuta a livello nazionale, su tutto il mercato del lavoro. In questo Paese ad esempio si va tre o quattro giorni a settimana a scuola, e il resto lo si trascorre sul posto di lavoro» spiega l’esperta. In Italia invece non funziona così: la tipologia di apprendistato diritto-dovere, riservata ai 16-18enni è utilizzata pochissimo (nel 2008, sono stati solo il 6,5% totale degli apprendisti) e la formazione è quasi del tutto interna, «quella esterna riguarda solo un quinto degli apprendisti».  Quindi in pratica iniziare un apprendistato a 16 anni significa abbandonare i banchi di scuola, e passare a un tipo di formazione esclusivamente professionale. Qui la Farinelli critica direttamente il ministro Sacconi, che negli ultimi mesi è sembrato preoccupato non tanto di garantire il valore formativo dell'apprendistato quanto di abbassare la soglia di ingresso a 15 anni: «uno schiaffo all’istruzione obbligatoria, che termina invece a 16».La Farinelli chiude con un'altra critica: «Sembra che le aziende non abbiano interesse alla formazione, nonostante i fondi per farla ci siano. E’ come se pensassero: cosa lo faccio a fare, una persona molto formata magari è tentata di andarsene da un’altra parte». Il problema tra l'altro è che una qualifica rilasciata dall'azienda per mansioni svolte al suo interno non è detto che poi venga riconosciuta altrove: «le Regioni dovrebbero mettersi d’accordo su una validazione nazionale. La Ue ci sollecita in questo senso». Anche perché quando un’azienda dà una buona formazione «è poi interessata a trattenere i migliori attraendoli» con contratti di buona qualità. Come l'apprendistato aspira a essere. Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli E anche:- Stagisti col Bollino / Filippo Villa: stage ben pagato poi subito apprendistato. E il sogno di lavorare in Nestlé si è avverato dopo un mese dalla laurea

Censis: in Italia i laureati lavorano meno dei diplomati. E i giovani non credono più nel «pezzo di carta»

Nel nostro Paese la laurea non aiuta a trovare lavoro. Almeno secondo quanto emerge dall’«Indagine conoscitiva sul mercato del lavoro tra dinamiche di accesso e fattori di sviluppo» del Censis, uno dei più importanti istituti di ricerca italiani, specializzato soprattutto in analisi di tipo socio-economico. I dati delll'analisi sono stati presentati a maggio dal direttore generale Giuseppe Roma nel corso di un’audizione presso la commissione Lavoro della Camera.Se paragonata ai principali paesi europei (Germania, Spagna, Francia, Regno Unito), infatti, l’Italia ha un triste primato: è  quello con il tasso di occupazione più basso tra i laureati, 66,9%, contro una media Ue dell’84%. C’è di più: da noi chi ha un diploma ottiene più facilmente un lavoro rispetto a chi ha una laurea (la percentuale di occupati con un’istruzione secondaria e post secondaria non universitaria è del 69,5%). A un percorso di studi più lungo e articolato non corrispondono, quindi, maggiori prospettive di inserimento lavorativo. E questo nonostante il numero dei nostri laureati sia anche inferiore alla media europea e agli altri paesi: in Italia chi possiede un titolo universitario è il 3,1% nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni e il 20,7% in quella 25/34; la media dei paesi dell’Europa a 27 Stati è del 7,8% nel primo caso e del 33% nel secondo. Il problema è in parte legato al nostro sistema universitario: i giovani iniziano a lavorare tardi (fino ai 25 anni ha un’occupazione solo uno su cinque) e spesso senza la preparazione giusta. Non a caso, secondo lo studio dell’istituto di ricerca, oltre un quarto degli imprenditori italiani afferma di avere difficoltà a trovare profili professionali adatti, per mancanza di candidati o per scarsa preparazione degli aspiranti tali.A questo si aggiunge un altro dato rilevante: negli ultimi tre anni, il calo occupazionale ha colpito soprattutto le persone di età inferiore ai 35 anni, mentre il mercato lavorativo “adulto” ha addirittura registrato un incremento. Dal 2007 al 2010, per la fascia 15/34 anni l’occupazione è diminuita del 6,6%, mentre per gli over 35 si è rilevato un +1,7%. I nostri atenei, dunque, “sfornerebbero” laureati il più delle volte senza le competenze adatte, che si affacciano su un mercato dove i posti di lavoro sono in netta diminuzione.Come invertire la tendenza? Il documento del Censis comprende una serie di proposte: innanzitutto, sul fronte formazione, una riqualificazione della laurea breve, che dovrebbe essere non una fase intermedia verso la specialistica, ma un momento conclusivo nel percorso di studi, sufficiente a svolgere alcuni tipi di professioni. Anche per le lauree specialistiche sarebbe opportuno accorciare i tempi: come avviene già in altri paesi europei, per alcune professioni (per esempio magistrati, medici, architetti) si potrebbe accorpare il periodo di formazione post laurea con la stessa specialistica o almeno con il suo ultimo anno. In questo modo, si renderebbe più snello un percorso oggi spesso dispersivo e poco funzionale all’inserimento lavorativo. Un modo per metterci al passo con il resto dell’Europa: nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 mediamente il 34,1% dei giovani europei ha, infatti, già un lavoro, mentre in Italia la percentuale è pari al 20,5%. Allo stesso tempo, però, per il Censis bisogna rivitalizzare il mercato del lavoro, favorendo, ad esempio, l’attività in proprio (ad esempio mediante sistemi di detassazione per le nuove imprese), o puntando sul ricambio generazionale all’interno delle imprese.Al momento a prevalere è la sfiducia verso l’effettivo valore del titolo universitario. La cartina di tornasole dei dati dell’istituto di ricerca italiano è la recente indagine di Eurobarometro su aspirazioni e timori di 30 mila ragazzi europei tra 15 e 35 anni. Secondo il servizio della Commissione europea che fotografa le tendenze dell’opinione pubblica, quattro su dieci giovani italiani di questa fascia d’età ritengono che la laurea non sia una soluzione appetibile, il doppio rispetto alla media europea. Sull’effettivo valore del “pezzo di carta” siamo attualmente i più scettici, insieme a Francia (35%) e Spagna (23%), mentre i più ottimisti sono i giovani del nord Europa (le percentuali qui scendono sotto il dieci per cento). Tra gli italiani prevale anche il timore di non trovare un’occupazione coerente con il proprio percorso di studi: la pensa così oltre la metà degli intervistati. Dati come questi rischiano di deprimere tanti giovani, convincendoli di aver investito a vuoto tempo e denaro per raggiungere il traguardo della laurea. Alla politica e al mondo delle imprese il compito di convincerli che invece la laurea paga.Chiara Del PriorePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Roma: «Potenziamento delle lauree triennali e sgravi fiscali per i giovani che si mettono in proprio: ecco la ricetta del Censis per rilanciare l'occupazione» - Nelle pagine del Rapporto sullo stato sociale un allarme sulla questione giovanile: e tra 15 anni la previdenza sarà al collasso - L'Italia è un paese per vecchi che parlano di giovani- Milledodici, ovvero almeno mille euro netti al mese per almeno un anno. Ecco le condizioni minime per offerte di lavoro dignitose

Nelle pagine del Rapporto sullo stato sociale un allarme sulla questione giovanile: e tra 15 anni la previdenza sarà al collasso

Bisogna cominciare dalle conclusioni per cogliere il senso del Rapporto sullo stato sociale 2011, incentrato su giovani, crisi e welfare e curato dall’economista Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica economica all’università Sapienza. L’indagine, annualmente redatta con il sostegno del dipartimento di Economia e diritto della Sapienza e del Criss (Centro di ricerca interdipartimentale sullo stato sociale), fa luce su una situazione sociale al collasso. «Se gli adulti che oggi hanno maggiori responsabilità decisionali avranno la capacità di invertire le tendenze economiche, sociali e politiche sfociate nella crisi globale, la condizione presente e futura delle attuali giovani generazioni di cittadini europei potrà avvantaggiarsene». Pizzuti ha concluso così il suo intervento alla presentazione del Rapporto presso la facoltà di Economia dell’ateneo romano, auspicando un cambiamento di rotta delle politiche governative.Il Rapporto parte da un dato: se nel 1980 le persone tra i 15 e i 29 anni erano il 22% della popolazione, adesso sono il 16%. Un crollo che rende i giovani non solo una minoranza, ma anche un elemento privo di peso sociale. In un paese in cui i padri di questa generazione hanno potuto garantire condizioni economiche più favorevoli rispetto a quelle vissute in prima persona, ma «se si analizzano i problemi attuali dell’entrata nel mondo del lavoro e quelli attesi sia nel periodo lavorativo sia negli anni della pensione il confronto è decisamente sfavorevole ai figli».A colpire è soprattutto un aspetto. Si dice che questi figli «nati e cresciuti in un contesto medio di abbondanza sconosciuto ai padri, sono psicologicamente disarmati dall’erroneo convincimento che le scelte in materia di formazione e di lavoro non siano vincolate dallo stato di bisogno, ma occasioni di realizzazione individuale». Mentre la crisi economica rimette in discussione tutto, compresa la possibilità stessa di autosostentamento indipendente dalla famiglia. Alle giovani generazioni viene spesso rinfacciata  la mancanza di umiltà e la scarsa voglia di mettersi in gioco accettando lavori di ogni tipo. Si finisce per colpevolizzare insomma chi, dopo aver studiato per anni puntando una meta professionale, si sia incaponito a volerla raggiungere a tutti i costi, mentre avrebbe dovuto solo imparare ad adattarsi alla realtà. Un discorso che a tratti appare un po’ ingiusto. C’è poi una parte del Rapporto dedicata alla cosiddetta “overeducation”, ovvero l'eccesso di specializzazione in rapporto al mestiere svolto. Il tasso di occupazione medio europeo per i laureati sotto i 30 anni, riferisce l’analisi, raggiunge l’86% con una retribuzione pari al 40% in più della media. In Italia invece i laureati non ancora trentenni con un impiego sono il 60%, e guadagnano solo il 15% in più. Il gap – confermato da dati per cui ad esempio il 20% dei laureati triennali svolge un lavoro per cui la laurea non è richiesta - si spiega facendo riferimento alla struttura del sistema produttivo italiano, dove prevalgono lavori che non richiedono formazione universitaria (e di qui il basso investimento nell’istruzione). E anche quando i posti si liberano, per esempio a seguito di pensionamenti, «spesso o non vengono riassegnati o vengono coperti con contratti meno appetibili». Il vero problema, sottolinea Pizzuti, è nella «scarsa capacità del sistema produttivo di creare buona occupazione e risorse da distribuire tra tutte le generazioni».La questione previdenziale poi è uno degli elementi più allarmanti dello studio. «Il calo della copertura pensionistica offerta dal sistema pubblico sarà naturalmente maggiore per i non pochi lavoratori cui si prospetta la combinazione di una carriera lavorativa discontinua, lunghi periodi di contratti con basse aliquote contributive e retribuzioni salariali modeste». E il problema «manifesterà maggiormente il suo impatto economico e sociale solo tra 15-20 anni, ma è già adesso che richiede di essere affrontato con modifiche dell’assetto normativo». Pizzuti lancia come idea argine del problema l’equiparazione al 33% delle aliquote contributive dei lavoratori parasubordinati «per eliminare una differenziazione del costo del lavoro economicamente e socialmente distorsiva che incentiva rapporti di lavoro instabili e settori produttivi meno innovativi». Susanna Camusso della Cgil [nella foto] gli fa eco nel corso della tavola rotonda: «Bisogna evitare di continuare a moltiplicare le forme previdenziali. Una parte del problema è che è sui lavoratori che pesa maggiormente la contribuzione, perché spesso le imprese la evadono. Costruendo un sistema troppo povero oggi, si sta creando un debito per il paese che verrà».Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- «Precari. Storie di un’Italia che lavora» Il libro di Marianna Madia accende il dibattito tra Tremonti e Camusso sul welfare per gli atipici - «Caro Gesù Bambino, ti chiediamo una pensione per i precari»: il direttore della Repubblica degli Stagisti e altri quattro giovani scrittori lanciano una proposta

Quasi 80mila studenti universitari ogni anno fanno stage negli enti pubblici italiani: ma con quali garanzie di qualità?

All’interno dell’indagine che annualmente Almalaurea produce per fornire un quadro dettagliato dei laureati dell’anno precedente, una intera sezione è dedicata ai tirocini. In questo modo si riesce a verificare quanto questo strumento sia utilizzato all’interno dei percorsi formativi accademici. Quest’anno emerge che 109.250 giovani, vale a dire il 56,8% dei 192.358 che si sono laureati nel corso del 2010 in una delle università che fanno parte del consorzio Almalaurea, al momento della proclamazione a «dottore» avevano all’attivo almeno una esperienza di tirocinio durante il percorso di studi.Considerando che Almalaurea copre il 77% dei laureati italiani, facendo un rapporto si può anche ipotizzare che il numero totale dei laureati 2010 con uno stage nel cv sia di poco superiore a 134mila (il 56,8% di 236.600).La Repubblica degli Stagisti ha chiesto ad Almalaurea di ripescare, all’interno della grande mole di informazioni raccolte, alcuni dati che nelle precedenti edizioni dell’indagine erano stati inseriti, e che in quest’ultima – probabilmente per esigenze di sintesi – erano invece andati perduti. Quello più importante è relativo al luogo di svolgimento del tirocini. Da qui emerge che oltre la metà dei tirocini universitari avviene in uffici pubblici: ci si arriva sommando la percentuale di stage svolti presso enti o aziende pubbliche (34,2%) a quella degli stage svolti direttamente all'interno atenei (23,8%), che nella stragrande maggioranza dei casi sono pubblici. Se il totale degli studenti stagisti Almalaurea è 109.250, e il 58% di essi ha fatto la sua esperienza all’interno della pubblica amministrazione, il calcolo è presto fatto: oltre 63mila studenti universitari si sono riversati – idealmente, l’anno scorso – negli enti pubblici italiani. Anche qui, partendo dal fatto che Almalaurea rappresenta i tre quarti dei laureati italiani, si può fare un  ulteriore passo avanti e provare a dedurre il numero totale: dal calcolo, assolutamente deduttivo, emerge che gli studenti stagisti, considerando tutti gli atenei italiani, sarebbero più di 77mila ogni anno. Tornando ai dati certi di Almalaurea, in particolare fanno stage quasi esclusivamente in strutture pubbliche gli studenti di medicina, odontoiatria e altri corsi di studi legati alle professioni sanitarie (oltre nove su dieci), e quelli di facoltà geo-biologiche (più di tre su quattro, sommando il 56,1% che lo svolge in ateneo e il 21,6% che va in qualche ente). A seguire, gli studenti di psicologia (due su tre: il 43,4% in enti, più un 23% in università) probabilmente per l’alta propensione di asl e ospedali ad accogliere tirocinanti – non di rado, purtroppo, per far fronte a buchi di organico. A seguire, vanno spesso in strutture pubbliche gli studenti di lettere (quasi due su tre: 30,2% in università e 35,4% in enti) e di materie politico-sociali (tre su cinque: l’11% in università più il 45,7% in enti), e quelli che frequentano facoltà legate all’insegnamento (58,7% in enti, più un piccolo 4,9% in ateneo). Alta anche, un po’ a sorpresa, la percentuale di chi fa stage nel pubblico mentre studia materie giuridiche (14,3% in università e 32,3% in enti): sarebbe forse più logico pensare che gli studenti preferiscano fare esperienza negli studi legali, ma in effetti sempre più tribunali, prefetture e avvocature aprono posizioni di tirocinio al loro interno. All’estremo opposto, per chi studia materie economico-statistiche lo stage in un ente pubblico è più raro (poco più di un caso su cinque, 8,3% in università più 14,5% in un ufficio della p.a.): mentre quasi due su tre si indirizzano invece verso il mondo aziendale. Ricapitolando: dei 109.250 laureati Almalaurea del 2010 che hanno svolto uno o più stage mentre studiavano, il 58% lo ha fatto «prevalentemente» in ambito pubblico; un altro 29,5% è andato in un’impresa privata; il 2,9% in enti di ricerca. Vi è poi uno studente-stagista su dieci non meglio identificato: l’8,4% degli intervistati ha infatti indicato genericamente «altre organizzazioni», che si può presumere ricomprendano associazioni non profit, fondazioni di tipo artistico-culturale e così via, e infine un 1,2% non ha dato indicazioni sul luogo in cui ha svolto lo stage.Questi dati mettono di fronte all’assoluta urgenza di censire gli stagisti negli enti pubblici italiani – tutti gli stagisti, non solo gli studenti universitari – e di assicurarsi che la pubblica amministrazione sia in grado di offrire percorsi formativi seri e tutor competenti, e di assicurare che gli stagisti non lasciati a scaldare la sedia o, all’estremo opposto, utilizzati come dei dipendenti aggiuntivi.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Almalaurea fotografa i laureati del 2010 e lancia l'allarme: in Italia ce ne sono troppo pochi in confronto al resto d'Europa- Almalaurea, crollano occupazione e stipendi dei laureati. E chi fa uno stage ha solo il 6% in più di opportunità di lavoro