La normativa sull’apprendistato di alta formazione «non ha prodotto nulla per ora, si tratta solo di un progetto a livello nazionale a cui il mondo produttivo non sembra interessato». Commenta così la condizione italiana in materia di apprendistato Fiorella Farinelli, 67 anni, ex assessore all'Educazione e alle politiche giovanili del Comune di Roma e attuale presidente del Comitato scientifico della scuola superiore della Pubblica amministrazione locale. L'istituto è stato riformato attraverso il Testo Unico varato a inizio maggio dal Consiglio dei ministri ed è ora al vaglio di parti sociali e regioni. Una parte della normativa - quella che riguarda l'apprendistato rivolto anche a dottori di ricerca e praticanti di studi professionali - è però al momento sostanzialmente inapplicata poiché le Regioni stanno legiferando soprattutto su una delle tre tipologie di apprendistato previste: il professionalizzante. Se ne è parlato di recente anche sul sito di Sbilanciamoci, associazione no profit "autofinanziata" che divulga informazioni di natura economica, tra cui tematiche inerenti al lavoro.
Di fatto questo tipo di contratto è usato per lo più per persone con un basso livello di istruzione, e il motivo per cui non aumenta la quota di apprendisti laureati non dipende solo dal vuoto normativo regionale: «molte aziende non hanno voglia di infilarsi in situazioni che non sanno gestire. E non sono interessate ad elevare la competenza delle persone», sottolinea la Farinelli. Insomma, dal momento che manca la normativa da attuare – in vigore solo sulla tipologia di apprendistato professionalizzante – e in più questo strumento è facilmente sostituibile da stage o altri pseudo-contratti di lavoro, il mondo produttivo sembra scegliere lo status quo, non azzardando contrattazioni più innovative. La soluzione però esiste, e potrebbe trovarsi «da una parte nel sistema degli incentivi, e dall’altra nel meccanismo del controllo e delle sanzioni», su cui per ora i governi non stanno agendo.
C’è poi la questione del genere: l’apprendistato ha una netta prevalenza maschile. Fiorella Farinelli, che è anche ricercatrice Isfol, spiega alla Repubblica degli Stagisti che la scarsità di donne dipende non tanto da un fatto discriminatorio, quanto dai settori in cui viene applicato, tutti caratterizzati da una forte presenza di uomini, come l’artigianato o l’edilizia: parallelamente, i dati Isfol rivelano che è negli stage dove le persone di sesso femminile sono la maggioranza, laddove di solito la formazione richiesta è più alta.
E per quanto riguarda la durata, è adeguato un lasso di tempo di sei anni? «No: la durata dovrebbe essere più limitata. Se sei anni sono richiesti per un orafo, può anche darsi che una formazione tanto lunga sia giustificabile. Ma per altri profili dico francamente che si tratta di un abuso tipicamente italiano», sottolinea la Farinelli, aggiungendo che anche la questione del limite dell’età a 29 anni è a dir poco «scandalosa» e facendo il paragone con altri Paesi: in Germania l'80% degli apprendisti ha meno di vent'anni, in Svizzera «viene offerta una formazione che è poi riconosciuta a livello nazionale, su tutto il mercato del lavoro. In questo Paese ad esempio si va tre o quattro giorni a settimana a scuola, e il resto lo si trascorre sul posto di lavoro» spiega l’esperta. In Italia invece non funziona così: la tipologia di apprendistato diritto-dovere, riservata ai 16-18enni è utilizzata pochissimo (nel 2008, sono stati solo il 6,5% totale degli apprendisti) e la formazione è quasi del tutto interna, «quella esterna riguarda solo un quinto degli apprendisti». Quindi in pratica iniziare un apprendistato a 16 anni significa abbandonare i banchi di scuola, e passare a un tipo di formazione esclusivamente professionale. Qui la Farinelli critica direttamente il ministro Sacconi, che negli ultimi mesi è sembrato preoccupato non tanto di garantire il valore formativo dell'apprendistato quanto di abbassare la soglia di ingresso a 15 anni: «uno schiaffo all’istruzione obbligatoria, che termina invece a 16».
La Farinelli chiude con un'altra critica: «Sembra che le aziende non abbiano interesse alla formazione, nonostante i fondi per farla ci siano. E’ come se pensassero: cosa lo faccio a fare, una persona molto formata magari è tentata di andarsene da un’altra parte». Il problema tra l'altro è che una qualifica rilasciata dall'azienda per mansioni svolte al suo interno non è detto che poi venga riconosciuta altrove: «le Regioni dovrebbero mettersi d’accordo su una validazione nazionale. La Ue ci sollecita in questo senso». Anche perché quando un’azienda dà una buona formazione «è poi interessata a trattenere i migliori attraendoli» con contratti di buona qualità. Come l'apprendistato aspira a essere.
Ilaria Mariotti
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