Categoria: Approfondimenti

Infortuni sul lavoro, gli stagisti curriculari non hanno diritto alla copertura in caso di incidenti fuori ufficio

Può capitare a tutti, stagisti inclusi, un incidente nel tragitto verso l'ufficio, o tornando a casa. È successo a una lettrice della Repubblica degli Stagisti, che sul forum ha condiviso la sua vicenda: «Tornando dal lavoro due giorni fa sono stata tamponata da un'auto. Tanto dolore ma niente di rotto fortunatamente: prognosi di sette giorni» racconta, firmandosi 'Matale'. «Al pronto soccorso» specifica «mi hanno aperto il fascicolo Inail». Un tamponamento nel rientro a casa dal luogo di lavoro configura la fattispecie del cosiddetto incidente in itinere: ovvero l'infortunio che si verifica nel percorso casa-lavoro che dà diritto, come per tutti gli incidenti sul lavoro, a un risarcimento. La domanda è: in casi simili i diritti della stagista sono equiparabili a quelli di un lavoratore? E qual è la normativa di riferimento? L'interlocutore più giusto per chiarire quale trattamento debba aspettarsi chi si trovasse in questa situazione è l'Inail, ente assicurativo per gli infortuni sul lavoro. Quanti sono i casi di infortunio sul "luogo di stage" ogni anno in Italia? Come li classifica l'Inail, e sopratutto, come li liquida? La Repubblica degli Stagisti ha rivolto queste domande all'ufficio stampa dell'Inail, e dopo alcune settimane di attesa sono arrivate alcune risposte. Non quella sui numeri: pare infatti che non sia possibile sapere quanti siano mediamente ogni anno gli infortuni che capitano a stagisti, trattandosi di «una richiesta inusuale per cui servirebbero risorse dedicate». L'ufficio stampa spiega poi che c'è una differenza molto rilevante, su questo tema, tra stage curriculari (cioè svolti all'interno di un percorso di studio) e stage extracurriculari (svolti una volta conseguito un titolo - diploma, laurea... - insomma quando non si sta più studiando: è il caso, per esempio, dei tirocini di inserimento/reinserimento lavorativo). All'indennità assicurativa ha pieno diritto solo chi sta svolgendo uno stage extracurriculare. «Come illustrato nella circolare n.16/2014, sia per i tirocini curriculari, sia per quelli extracurriculari sussiste l’obbligo assicurativo presso l’Inail» è scritto in una istruzione interna dell'ente. Premesso questo, va fatta una distinzione. «Mentre per i tirocinanti extracurriculari è prevista la copertura contro gli infortuni sul lavoro di tutte le attività rientranti nel progetto formativo, comprese quelle svolte al di fuori dell’azienda, con conseguente estensione della tutela anche agli infortuni in itinere, lo stesso non può dirsi per i tirocinanti curriculari». Una differenziazione di trattamento scaturita dalla circolare 16/204, «che trova il suo fondamento nelle Linee guida sui tirocini», sottolinea l'ufficio stampa, in piena autonomia rispetto al ministero del Lavoro («l'Inail agisce in autonomia senza necessità dell'avallo del dicastero vigilante»).  Dunque, se la ragazza si trovasse nel mezzo di uno stage extracurriculare – quello per cui è previsto l'obbligo di rimborso spese per intendersi – la copertura assicurativa riguarderebbe anche gli infortuni fuori dall'azienda, come nel caso dell'incidente stradale. Non è così invece per gli stagisti curriculari. «Questi ultimi, infatti, sono tutelabili quali studenti ai sensi del decreto 1124/1965 e cioè limitatamente ai rischi connessi a esercitazioni svolte nel contesto scolastico» chiarisce il documento. La spiegazione sta nel fatto che la strada tra casa e lavoro è esclusa dal progetto formativo: a mancare è «il collegamento teleologico» perché «l’attività protetta costituisce solo una parte della complessiva attività degli studenti di tirocinio curriculare, con la conseguenza che il percorso compiuto da e per l’istituto di formazione non è riferibile esclusivamente a quella parte dell’attività».Recarsi o tornare dal luogo in cui si svolge il tirocinio, insomma, può considerarsi una attività riferibile esclusivamente allo svolgimento del tirocinio stesso nel caso di un tirocinio extracurriculare, mentre non può considerarsi tale nel caso di uno stage extracurriculare. Sembra paradossale, perché la strada è sempre quella e il tirocinio sempre quello: ma le cose stanno così. «Quindi l’Inail ritiene che gli infortuni occorsi ai tirocinanti curriculari devono essere ammessi nei limiti e alle condizioni previste per gli allievi dei corsi professionali». Per questa tipologia di stagisti scatta allora l'equiparazione con chi segue corsi professionali, protetto solo per episodi che «si verifichino in occasione delle esperienze tecnico-scientifiche, pratiche e di lavoro». Dunque solo dentro i luoghi fisici in cui si svolge l'attività, e non fuori. Chiarito questo aspetto, l'altra questione riguarda il tipo di copertura assicurativa, ovvero gli importi. A sciogliere i dubbi in questo caso è il ministero del Lavoro, che tramite il suo ufficio stampa ricorda che il riferimento è di nuovo alla circolare 16/2014 dell'Inail. È qui che si stabilisce che il calcolo del premio assicurativo avviene «sulla base della retribuzione minima annua». Più nello specifico, l'Inail chiarisce che «il pagamento dell’indennità decorre dal quarto giorno successivo alla data di infortunio o di malattia e viene erogata per tutto il periodo dell'inabilità fino alla guarigione clinica». Per il calcolo il riferimento è «al 60% della retribuzione media giornaliera fino al 90esimo giorno e del 75% della retribuzione media giornaliera dal 91esimo giorno».Per uno stage a 600 euro al mese, si andrebbe dai 360 euro fino al 90esimo giorno ai 450 euro per i giorni seguenti. Peccato però che il compenso che gli stagisti ricevono non sia una retribuzione, bensì un "rimborso spese", una "indennità". Il parametro dunque in questo caso dipende «dal rimborso convenzionato annuo pari al minimale di rendita rapportato alle giornate di presenza». Il dovuto è legato insomma ai giorni di tirocinio effettuati. Non va tralasciato un altro aspetto: se lo stagista subisse dei danni permanenti scatterebbe il danno biologico, con due tipologie di indennizzo: «In capitale per gradi di menomazione pari o superiori al 6% e  inferiori al 16%, o in rendita per gradi di menomazione pari o superiori al 16%» specificano dall'Inail. Per due stage con rimborso rispettivamente di 400 e 750 euro «gli importi potrebbero variare da un minimo di 2.250 euro annui fino a un massimo di 33.300 euro» per un raggio di menomazione dal 16 al 100 per cento. E qui chiudiamo... con i dovuti scongiuri! Ilaria Mariotti  

Far ripartire il Sulcis dalle startup, un 25enne sardo ci prova con complementi d'arredo di lusso

Dalla Sardegna alla conquista del mercato del lusso internazionale: questo l'obiettivo di Boutique Sardinia Design 1850, start-up che produce complementi d'arredo utilizzando materie prime che si trovano sull'isola. «I nostri sono tutti pezzi unici», assicura alla Repubblica degli Stagisti Daniele Casti, il 25enne ideatore del progetto. E diversamente non potrebbe essere, visto che uno dei materiali impiegati è rappresentato dai legni di mare, ovvero dal legname che viene trasportato sulla spiaggia durante le mareggiate. Un diploma da perito elettronico in tasca, dopo averlo conseguito Casti ha smesso di studiare ed ha iniziato a lavorare in un settore completamente diverso da quello del scuo corso di studi. Per anni si è infatti occupato di marketing e pubbliche relazioni. «Ho lavorato, sempre da free lance, sia in Italia che all'estero». Fino a che scelte non è tornato a casa, nel Sulcis. Una terra molto povera, dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto addirittura l'incredibile tasso del 74%: praticamente il doppio della - già altissima - media nazionale. «A scuola c'era un professore che diceva che i ragazzi che nascono qui sono svantaggiati, perché è come se nell'aria ci fosse una nebbia che impedisce di conoscere la vita e vedere cosa c'è intorno», spiega il giovane imprenditore. Che, tornato in Sardegna per ragioni di natura personale, si è messo in testa di provare a diradare questa nebbia.È infatti proprio partendo dalle materie prime del territorio che Casti ha deciso di sviluppare la sua idea imprenditoriale. Oltre ai legni di mare, vengono utilizzate pietre originarie della Sardegna. Anche le lavorazioni sono tutte a chilometro zero: un modo per conciliare l'amore per la propria terra con «il design e l'arte contemporanea, due monti che mi sono sempre piaciuti. Il nostro desiderio era quello di contribuire all'evoluzione del design e siamo andati a cercare uno spazio dove non ci fosse la concorrenza dei grandi marchi e che non fosse saturo». Una nicchia di mercato, insomma, che permetta a Boutique Sardinia Design 1850 di crescere.Al momento Casti ha coinvolto altre sei persone nel suo progetto. Si tratta di suoi familiari, artigiani che per hobby realizzavano complementi d'arredo, fino a che Casti non li ha convinti a fare della loro passione una professione vera e propria, progettando e realizzando mobili e complementi d'arredo utilizzando materie prime della Sardegna, con l'obiettivo di conquistare il mercato internazionale del lusso. L'iniziativa imprenditoriale in realtà non ha ancora una forma giuridica precisa: «Siamo partiti a marzo di quest'anno, pensavamo che avremmo impiegato molto più tempo per ottenere visibilità. Invece è nato un grande fermento, specie negli ultimi tre mesi, e stiamo vedendo di organizzarci di conseguenza». A cominciare dalla creazione dell'azienda vera e propria. «L'ipotesi è quella di dar vita ad una srl. Un paio di anni fa ho conosciuto ad un convegno diversi membri di Confindustria Giovani, mi sto confrontando anche con loro per capire quale possa essere l'inquadramento più adeguato». Intanto, però, la start-up ha cominciato a lavorare. Sia per la produzione che per la fatturazione, per il momento si appoggia ad un'altra azienda che la sta letteralmente “incubando”. I primi ordini sono già arrivati e i primi prodotti sono già stati consegnati: merito di un'esposizione organizzata durante l'estate a Porto Cervo, alla ricerca di facoltosi clienti internazionali.«Per il momento io e i sei artigiani coinvolti ci siamo autofinanziati, investendo circa 50mila euro». Fondi che hanno coperto le spese per i primi prototipi e per il catalogo, oltre al sito internet che ha sia una versione in inglese che una in russo. Casti è alla ricerca di un finanziamento seed di altri 50mila euro, soldi che serviranno per aprire un laboratorio e per lanciare una nuova campagna di marketing, «che calibreremo sulla base dei fondi che saremo in grado di raccogliere». Non si pensa però soltanto ai soldi: «cerchiamo un partner che sia anche in grado di garantirci una mentorship. Sarebbe inutile avere chi ti finanzia senza capire cosa stai facendo e quindi senza contribuire alla realizzazione del progetto».Intanto il giovane startupper si gode i primi successi. «In estate abbiamo avuto un buon feedback di mercato da clienti sia europei che asiatici, così come originari dei Paesi arabi. Non posso dire di più rispetto alle quantità, ma posso affermare che stiamo raggiungendo il nostro obiettivo di raggiungere un mercato internazionale». E mentre si smaltiscono i primi ordini, si lavora al nuovo catalogo: «Presenteremo i nuovi prodotti durante l'inverno». Senza perdere di vista gli obiettivi più generali contenuti nel business plan, che prevedono «di raggiungere il pareggio entro il prossimo anno». E chissà che da qui ad allora Casti non sia davvero riuscito a disperdere quella nebbia che avvolge chi, come lui, è nato nel Sulcis.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Tirocini di specializzazione gratuiti, gli psicologi non ci stanno più: e lanciano una petizione online

«Perché i medici tirocinanti/specializzandi sono pagati e gli psicologi no? Perché questa differenza se, per legge, le due professioni sono equiparate?»: parte con questa domanda la petizione online lanciata su Change.org dall’associazione dei Giovani psicologi della Lombardia, per rompere il silenzio su questo tema e cercare di dare pari dignità ai due ruoli professionali. «La nostra mission associativa è promuovere la cultura psicologica e facilitare i giovani professionisti della nostra categoria a realizzarsi il prima possibile. Per farlo, però, è necessario un minimo di portafoglio mentre la nostra categoria è oberata da tirocini gratuiti sin dal percorso universitario» spiega alla Repubblica degli Stagisti Matteo Baruffi, 28 anni, psicologo dal 2014 e tesoriere dell’associazione. «Il vero problema è che i tirocini senza rimborso spese continuano anche nel percorso della specializzazione in psicoterapia, periodo in cui invece un medico viene profumatamente pagato».  E allora «stanchi di questa situazione» ecco che gli attivisti di questa associazione, nata nel 2006 e aperta ai giovani laureati entro 15 anni dal titolo magistrale o 10 da quello triennale, hanno deciso di partire con questa petizione online che al momento ha raccolto quasi 2mila firme: il “traguardo” è fissato a 2.500. «Appena avremo raccolto un numero sufficientemente ampio di firme andremo al passo successivo». Che è quello di presentarsi all’Ordine professionale lombardo, chiedere il sostegno alla petizione e fare pressioni sul governo. «L’idea è quella di usare gli organi che caratterizzano la nostra professione. Un conto è presentarsi al ministero come piccola associazione, un altro spalleggiati da un ordine professionale, come quello degli psicologi lombardi, che conta 16mila iscritti». Anche perché al momento l’associazione è sola nel condurre questa battaglia: «Esistono altre associazioni di giovani psicologi presenti nelle altre regioni» spiega alla Repubblica degli Stagisti Cecilia Pecchioli, presidente della GPL, «ma hanno una natura prettamente politica, quindi non in linea con la nostra realtà. Proprio perché sollecitati da colleghi di altre regioni, ci stiamo però muovendo per creare nuove sedi distaccate». L’obiettivo dei Giovani psicologi lombardi è cercare di equiparare almeno in parte il percorso di specializzazione medica con quello in psicologia. Un problema che riguarda anche le altre professioni sanitarie e di cui la Repubblica degli Stagisti si è già occupata in passato, evidenziando come mentre i colleghi dottori hanno diritto a un contratto di formazione per tutta la durata della specializzazione, a uno stipendio mensile di circa 1.800 euro, alla copertura previdenziale, maternità e malattia, tutti gli altri – biologi, veterinari, psicologi, fisici, chimici, farmacisti – non godono dello stesso trattamento.  La discriminazione tra medici e altri professionisti dell’area sanitaria in realtà non avrebbe ragione di esistere. Baruffi la spiega come una «questione culturale. Il medico c’è da secoli, lo psicologo e le altre figure si sono affermate nel tempo. Quindi nell’immaginario culturale il medico rappresenta colui che ti guarisce dai problemi più impellenti, ma le altre professioni aiutano "solo" a mantenere una qualità della vita migliore. Andrebbe invece cambiata la mentalità della gente e dei medici su questo punto» spiega il giovane psicologo. Certo, almeno sul fronte dell'orario si potrebbe obiettare che la specializzazione di uno psicologo non è così impegnativa come quella di medico: per gli psicologi è concomitante l’anno accademico e deve essere tra le 180 e le 200 ore l’anno per quattro anni. Anche se spesso si finisce per fare molte più ore perché «è una pratica che aiuta molto». Al di là del problema di costi - non indifferente visto che, facendo una media, si arriva a 12.500 euro solo per i cinque anni universitari - c'è però poi «il tirocinio post laurea di mille ore per iscriversi all’albo e fare l’esame di stato abilitante. Anche questo senza rimborso spese». Questo tirocinio professionalizzante deve essere svolto in 12 mesi ed è totalmente gratuito. «Il tirocinio post lauream è definito “osservativo”» spiega la presidente Pecchioli, «e come tale non è retribuibile. Nei fatti, però, la natura di questi stage dipende molto dal contesto in cui vengono svolti. Ufficialmente sono osservativi, ufficiosamente i colleghi sono messi a fare lavori di vario tipo». E poiché occupa il tirocinante fino a 5 ore al giorno, questo tirocinio rende anche piuttosto difficile far svolgere nello stesso periodo altri stage o lavori part time che possano parzialmente ricoprire le spese. Anche perché per legge il monte orario complessivo non può superare le otto ore. Avrebbe quindi più logica aumentare le ore di stage giornaliere per ridurre i tempi dello svolgimento ed evitare che un neolaureato impieghi un intero anno, in cui non può fare null’altro, per raggiungere un monte ore che si potrebbe invece raggiungere in 6 mesi (a un normale ritmo di 40 ore a settimana).  Il problema dell’anno di tirocinio innegabilmente rallenta l’entrata nel mondo del lavoro: per questo è stato affrontato anche dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi. A fine febbraio di quest’anno, infatti, durante un incontro con il sottosegretario al Miur Davide Faraone, il presidente del Cnop, Fulvio Giardina, ha segnalato le criticità relative all’accesso alla professione di psicologo che appare ancora troppo lungo per i giovani laureati e ha proposto di ridurre a sei mesi lo stage post lauream. Proposta presa in carico dal sottosegretario Faraone, ma che non ha ancora avuto esito. E che, è necessario segnalarlo, nonostante venga incontro ai giovani psicologi non è stata commentata positivamente da molti professionisti, tra cui anche il presidente dell’ordine psicologi del Lazio, Nicola Piccinini, che in rete (vari commenti si possono leggere qui o qui) hanno criticato la decisione considerando invece questo tirocinio il primo vero momento professionalizzante.La Repubblica degli Stagisti ha provato a mettersi in contatto con il Consiglio nazionale dell'ordine degli psicologi, per verificare la posizione dell'Ordine nei confronti di questa istanza: ma purtroppo in oltre due settimane non è riuscita ad avere una risposta né alle mail né alle telefonate fatte al coordinatore dell'area comunicazione. Non è dato quindi sapere se il Consiglio nazionale dell'ordine degli psicologi appoggi o meno questa petizione. Il problema, comunque, non è solo il lungo tirocinio gratuito che i giovani psicologi sono costretti ad affrontare, ma anche il fatto che esso si sommi alla scuola di specializzazione di quattro anni. In teoria sarebbe a scelta, «ma ormai è diventata quasi obbligatoria visto che tutti i concorsi la richiedono, e alla fine si arriva a una spesa totale di 25-30mila euro tra università e specializzazione», spiega Baruffi. Cifra impensabile se dietro non c’è una famiglia che paga. Poi c’è l’impatto con il mondo del lavoro reale, in cui trovare un’occupazione è sempre più difficile perché la psicologia attira sempre più studenti - nella sola Lombardia ogni anno circa mille nuovi iscritti - ma gli sbocchi occupazionali, complice anche la crisi economica degli ultimi anni, non sono moltissimi. Ora, però, per l'associazione dei Giovani psicologi della Lombardia la battaglia più importante è ottenere tirocini con il rimborso spese, cercando di raccogliere quanto più sostegno possibile - che, paradossalmente, se tarda ad arrivare da alcuni colleghi psicologi, arriva invece dai medici che, «quando si pongono nei panni di uno specializzando senza riconoscimento, capiscono qual è il problema». Eppure Matteo Baruffi è ottimista e convinto che con calma e perseveranza si riuscirà a raggiungere l’obiettivo. «Forse nel nord Europa questi temi sarebbero stati risolti prima. In Italia ci vuole molto tempo per ottenere qualcosa. Ma siamo ottimisti perché la nostra azione serve per tutelare i professionisti che si affacciano sul mercato del lavoro». Di una cosa Baruffi è sicuro: tornando indietro rifarebbe la scelta di intraprendere questo percorso di studi e lavoro. «È una scelta che arricchisce molto la persona. Bisogna lottare, come ormai in qualsiasi campo. Però con un buon curriculum e una buona preparazione è possibile farsi conoscere e avere successo con la libera professione. O avere la fortuna di farsi notare in qualche ente pubblico e superare quei quattro raccomandati, che ci sono sempre». Perché lì non c’è nessuna petizione che possa aiutare.  Marianna Lepore

Italiani all'estero in aumento per un «mix esplosivo» di insoddisfazioni: lasciano l'Italia i più giovani e istruiti

Quando decidono di andarsene dall'Italia di solito hanno intorno ai 30 anni. Guardano l'Europa, talvolta anche gli Stati Uniti. Trovano il lavoro per il quale hanno studiato, ottenendo migliori stipendi. Si rifanno una vita. E pazienza se dietro si lasciano lasciato famiglia e amicizie: a tornare sui propri passi, tra gli expat, ci pensa solo uno su dieci. Li ritrae così l'ultimo Rapporto sugli italiani nel mondo pubblicato di recente dalla Fondazione Migrantes, rilevando come gli italiani iscritti all'Aire - l'anagrafe degli italiani all'estero - sono ormai più di 4,6 milioni, in crescita di quasi il 50% dal 2006 a oggi. Se ne vanno sempre di più i Millenials – ovvero chi ha compiuto 18 anni dopo il 2000 – mentre continua a crescere il numero dei Neet, gli inattivi tra i 15 e i 29 anni: l'Italia è l'unico paese che li ha visti aumentare negli ultimi anni.«Più che in altri paesi, in Italia un ragazzo che finisce gli studi si trova davanti al dilemma tra rimanere in Italia, con il rischio di diventare un Neet, o decidere di emigrare per realizzare pienamente i propri progetti di vita e professionali» spiega alla Repubblica degli Stagisti Alessandro Rosina, docente di Demografia all'Università Cattolica e presidente dell'associazione Italents, che proprio a questo ha dedicato il suo ultimo libro, Neet - Giovani che non studiano e non lavorano, appena pubblicato dalla casa editrice Vita e pensiero. Insomma, dice Rosina, invece di valorizzare quei pochi giovani che compongono ancora la nostra popolazione - «L’Italia, come conseguenza di decenni di denatalità, ha meno giovani rispetto agli altri paesi» - riusciamo perfino «a inserirli di meno nei processi di cambiamento e di crescita del paese. La conseguenza è che aumentano sia i Neet, ovvero i giovani che dopo gli studi non trovano un lavoro, sia gli expat, ovvero i membri delle nuove generazioni che cercano migliori opportunità all’estero».E Garanzia giovani, che come obiettivo principale avrebbe proprio quello di ridurne il numero? «Anche la realizzazione di questo obiettivo va a rilento» commenta Rosina: «su un totale di due milioni e 400mila Neet solo un terzo si è iscritto al portale. Molti meno sono quelli davvero attivati». Il problema principale, tra l'altro, è che a rimanere fuori è «soprattutto la parte più problematica, ovvero quelli con basso capitale umano e sociale, da più lungo tempo in tale condizione, più demotivati, con più alto rischio di diventare un costo sociale permanente». Tutti gli altri «soprattutto con titolo medio-alto, sono invece spesso insoddisfatti del tipo di offerta e magari dopo essersi iscritti decidono di andarsene autonomamente all’estero».Quella odierna è però un tipo di emigrazione del tutto diversa da quelle dello scorso secolo. «Le valige degli expat non sono più di cartone» si legge nel rapporto, «ma soprattutto il capitale culturale di chi lascia l’Italia è molto elevato. Sono giovani istruiti, che hanno voglia di mettere a frutto concretamente le conoscenze apprese e che cercano una opportunità concreta e a breve termine per poterlo fare». E se decidono di mollare tutto non è tanto perché in Italia non riescano a trovare un lavoro purché sia. Ma perché quello in cui si imbattono non è all'altezza delle proprie aspettative. Ed è allora che la prospettiva dell'estero fa da richiamo. Non a caso, come emerge dal rapporto, tra i principali emigranti dello scorso anno si registrano proprio i lombardi (19%), i residenti della più ricca regione italiana. Fenomeno che si spiega perché «la molla non è il livello di occasioni di lavoro del proprio territorio di nascita in sé, ma il divario tra esse, da un lato, e la formazione del proprio capitale umano e le proprie ambizioni, dall’altro» ragiona Rosina. Secondo Paolo Balduzzi, docente della Cattolica e autore insieme ad Alessandro Toppeta di un recente articolo intitolato Le ragioni della nuova migrazione degli Italiani apparso sulla rivista Neodemos, si sommano ragioni di carattere sicuramente economico («il livello dei salari, le possibilità di lavoro, la competitività in senso lato del Paese») al pari di altre di tipo sociale («la mancanza percepita di meritocrazia in Italia»). Il risultato «è un mix esplosivo: per questo i giovani che decidono di emigrare sono sempre di più e sempre più qualificati».A lasciare l'Italia non sono più dunque le persone in gravi difficoltà economiche del secolo scorso, ma i laureati che all'estero trovano più spendibile il proprio titolo di studio (lo considera efficace per la propria area di lavoro il 59% degli espatriati, contro il 54 di chi resta), e che in un altro paese quasi sempre trovano un'occupazione - la quota è superiore all'80% - e migliori prospettive di guadagno e di carriera, come dichiarano nelle interviste. C'è infatti tutta la fetta dei dottori di ricerca a infoltire le fila degli expat. Il motivo è presto spiegato: «A un anno dal dottorato 52 dottori su 100 risultano occupati all’estero come ricercatori o docenti universitario, senza particolari differenze per macroarea, contro i 21 dottori su 100 osservati in Italia» chiarisce lo studio.Far tornare di nuovo in patria chi ormai si è stabilito all'estero e lì ha trovato una propria dimensione è dunque una mission sempre più impossibile. L'unica maniera per arginare l'enorme spreco di risorse prodotto dalla fuga dei migliori talenti potrebbe essere, per Rosina, quella di lavorare per rendere l'Italia allettante per chi è fuori: «favorire la circolazione, mettere in atto un piano credibile di valorizzazione del capitale umano in Italia, ovvero attrarre talenti». E non certo «continuando a investire poco in ricerca, sviluppo e innovazione». I giovani in Italia sono pochi e pagano «oggi in termini di bassa quantità e qualità della spesa in istruzione, domani in termini di un sistema pensionistico più equo ma meno generoso del passato» ricorda Balduzzi. A maggior ragione, per compensare lo svantaggio, andrebbero premiati, invece che sminuiti: insomma, che almeno questi giovani vengano ricompensati «con opportunità di lavoro che valorizzino e non umilino le loro capacità». Ilaria Mariotti 

Start-up, «Le famiglie potrebbero diventare i business angels del Paese»: da Digital Magics un libro bianco per cambiare l'ecosistema

Un libro bianco per l'ecosistema start-up. Ovvero otto proposte per mettere mano alla normativa introdotta nel dicembre di tre anni fa e renderla più efficace nel garantire lo sviluppo delle nuove aziende, in particolar modo quelle digitali. Questi i contenuti del White paper che il venture incubator Digital Magics ha presentato nei giorni scorsi.Un'iniziativa «che nasce innanzitutto dalla nostra esperienza», spiega alla Repubblica degli Stagisti Enrico Gasperini, fondatore e presidente del fondo: «Lavoriamo da quasi dieci anni in questo settore, aiutando le start-up digitali a crescere. Ci siamo sentiti obbligati a formulare delle proposte di miglioramento rivolte sia al governo centrale che a quelli regionali, oltre che in generale a tutta la comunità degli investitori». Incubatore certificato di startup innovative digitali, che propongono contenuti e prodotti ad alto contenuto tecnologico, dal 2013 Digital Magics è quotato all’Aim Italia – il Mercato Alternativo del Capitale dedicato alle piccole e medie imprese e gestito da Borsa Italiana. Ad oggi ha partecipazioni in 48 startup digitali con un investimento di 18,2 milioni di euro; il 2015 è stato un anno fortunato, con una crescita del 74% sul fatturato aggregato del suo portafoglio rispetto al 2014.Diverse le tematiche affrontate all'interno del libro bianco, tutte legate al tema del finanziamento delle start-up. C'è ad esempio la richiesta di rimuovere il limite alla possibilità di investire nell'ecosistema imposto agli Organismi di investimento collettivo del risparmio e alle Società di gestione del risparmio. Al contrario, si chiede al governo di incentivare questo tipo di investimenti. In un Paese in cui i risparmi delle famiglie, secondo calcoli di Bankitalia, ammontano a qualcosa come 9mila miliardi di euro, Digital Magics si è posta il problema di come favorire il passaggio di questi capitali dall'industria del risparmio all'innovazione digitale. E propone di prevedere una ritenuta del 12,5% sui dividendi generati rispetto al 26% che viene pagato su ogni altro tipo di prodotto finanziario. Oltre alla possibilità di una deduzione fiscale di una quota pari al 20% del capitale investito in start-up, spalmata su cinque anni.Un'agevolazione fiscale che si aggiunge alla richiesta di alzare la soglia del credito di imposta Irpef dall'attuale 19% ad una quota compresa tra il 30 ed il 40% per le persone fisiche che scelgono di “scommettere” su un'azienda innovativa. Deduzione che per le persone giuridiche dovrebbe riguardare l'Ires ed arrivare, secondo l'incubatore guidato da Gasperini, ad almeno il 30%. Persone giuridiche come le piccole e medie imprese che, nella visione di Digital Magics, dovrebbero aver diritto ad una riduzione delle imposte nel momento in cui affidano in outsourcing dei servizi a delle start-up. Un modo per consentire alle giovani aziende di crescere allargando il proprio parco clienti.Altro tema affrontato, quello legato ai fondi di investimento. La prima proposta riguarda la creazione di un fondo di matching, ovvero una realtà in cui collaborino la mano pubblica, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, e grandi industrie italiane. I modello è quello tedesco, dove già nel 2005 la Kreditanstalt für Wiederaufbau e il ministero per lo Sviluppo economico di Berlino diedero vita all'High Tech Gruenderfonds, con una dotazione di 600 milioni di euro. Ora, Digital Magics riconosce che CdP è attiva nel venture capital dal 2012, anno in cui è stato creato il Fondo strategico italiano. Ma, si spiega nel White Paper, «non possiede attualmente competenze e strutture tali da poter sostenere (come invece nel caso tedesco) l’analisi di migliaia di presentazioni di idee e di aziende neonate». Per questo motivo «è preferibile la creazione di un Fondo di matching che agisca quale co-investitore di terzi privati, industriali, istituzionali o qualificati, prevedendo un ruolo centrale per gli incubatori certificati, maggiormente competenti e strutturati per la selezione, analisi e sostegno delle idee imprenditoriali più promettenti». In Italia, poi, sono attivi diversi fondi finanziati direttamente dalle regioni. Per loro la proposta è quella di uniformare le regole di ingaggio di queste realtà. Sul fronte dell'internazionalizzazione, l'idea è quella di creare un Italian Founders Institute, ovvero una realtà che si occupi di promuovere il made in Italy digitale nel mondo.Ultima questione trattata è quella relativa all'equity crowdfunding, la possibilità cioè per le start-up innovative di raccogliere fondi attraverso la rete concessa dal decreto Crescita. Il regolamento Consob, che ha reso operativa questa disposizione di legge, prevede che affinché la raccolta di capitali vada a buon fine una quota pari ad almeno il 5% debba essere sottoscritta da un investitore professionale. Una sorta di garanzia, per le altre persone che decidono di sostenere una start-up, della "bontà" del progetto. «Chiediamo non soltanto di abbassare questa soglia, così come i limiti agli investimenti, che oggi sono di mille euro l'anno e di 500 per singolo progetto. Ma anche di semplificare le procedure di certificazione degli investitori professionali», rimarca Gasperini: «Oggi come oggi abbiamo decine di piattaforme ma gli investimenti sono praticamente nulli: parliamo di qualche milione l'anno. La legge non libera l'enorme potenziale delle famiglie italiane che potrebbero diventare i più importanti business angels del Paese».Queste dunque le proposte di Digital Magics: «Vogliamo che diventino una battaglia collettiva, coinvoilgendo in primis le associazioni di categoria e gli altri attori dell'ecosistema. Questo è solo l'inizio di un lavoro» prosegue il presidente del venture incubator « che verrà arricchito nei prossimi mesi con il contributo di altri operatori, per costruire una piattaforma che serva da indirizzo per continuare l'attività legislativa dedicata alle start-up dopo i primi passi compiuti negli ultimi due-tre anni».Riccardo Saporitistartupper [chiocciola] repubblicadeglistagisti.it 

A Dublino c'è una start-up che ricarica lo smartphone col sole. Ed è italiana

Un colonnina per ricaricare il cellulare alimentata ad energia solare, capace di trasformarsi in una palina dell'autobus, di quelle che si trovano alle fermate per leggere gli orari, così come in un tavolo per l'aperitivo. È l'ultimo dei prodotti lanciato da Garageeks, start-up fondata a Dublino da due giovani lombardi: Davide Viganò, 29enne laureato in fisica, e Niccolò Gallarati, 32enne dottore in Scienze della comunicazione. Due giovani imprenditori che si definiscono makers, ovvero artigiani digitali, e fanno parte di quel movimento che ricerca l'innovazione attraverso l'utilizzo della stampa 3D e delle schede Arduino.I due si sono conosciuti nel 2012 al centro di ricerca europeo JRC di Ispra, dove Gallarati lavorava e dove Viganò è arrivato per uno stage legato alla sua tesi di laurea. «Niccolò si è poi trasferito a Dublino per ragioni personali. Io mi sono laureato a novembre del 2013 e non ho trovato lavori se non come programmatore Java o agente per una compagnia di assicurazione. Dopo cinque mesi ho capito che valeva la pena investire il mio tempo per creare un'attività», spiega il più giovane dei due imprenditori.È così che ha raggiunto in Irlanda quello che di lì a poco sarebbe diventato il suo socio. Con il quale, a settembre dello scorso anno, ha dato vita a Garageeks. «La nostra è una Ltd», l'analogo anglosassone della srl italiana. O quasi: «dal punto di vista burocratico è molto più semplice, anche se dal punto di vista della tassazione non è che abbia trovato tutte queste agevolazioni». Forse anche perché Viganò risiede ancora in Italia, per la precisione in provincia di Varese, e quindi i suoi guadagni sono soggetti alle condizioni del fisco italiano.I due hanno scelto il diritto britannico per una questione meramente pratica. Il primo progetto lanciato è stato infatti un supporto per smartphone stampato in 3D da applicare sui sedili degli aeroplani, un modo per guardare un film senza dover tenere in mano il telefono. «Per finanziarlo abbiamo lanciato una raccolta di fondi su Kickstarter. Abbiamo messo insieme i 6mila dollari che ci sono serviti per produrne 100 e spedirli in tutto il mondo». Il punto è che fino allo scorso anno la piattaforma di crowdfunding non permetteva di lanciare campagne in Italia. E per questo Viganò e Gallarati hanno scelto l'Irlanda. Con il vantaggio che «abbiamo dovuto versare solo 200 euro per fondare l'azienda, mentre l'apertura di un conto in banca ci è costata 50 euro». Il sito lo hanno sviluppato loro, ma l'hanno implementato su Shopify, un portale che permette di gestire in maniera agevole i pagamenti online.Dopo il supporto per smartphone da utilizzare in aereo i due startupper, anzi «makers», sempre fedeli alla loro mission di «portare la tecnologia nella vita di tutti i giorni», hanno realizzato un nuovo prodotto. Si tratta di una struttura per la ricarica wireless delle batterie degli smartphone, alimentata da pannelli solari che possono essere mossi da remoto così da “inseguire” i raggi del sole. Il tutto montato su un palo con un supporto per i cellulari. Questa la parte essenziale: la forza del prodotto è che può essere completamente personalizzato. E così può diventare la palina alla fermata del tram, così si ricarica il telefono mentre si aspettano i mezzi pubblici. Oppure si può trasformarlo in un tavolino per un aperitivo, così si fa il pieno batteria durante l'happy hour.Un prodotto sul quale Viganò e Gallarati hanno scommesso il futuro della loro azienda. «Speriamo che ci permettano di raggiungere il break even: contiamo di arrivarci entro la primavera del prossimo anno, ma molto dipenderà da come risponde il mercato». Per sollecitarlo i due hanno presentato il loro prodotto all'inizio di settembre in piazza Castello a Milano e la prossima settimana parteciperanno al Sun, fiera di Rimini dedicata ai proprietari degli stabilimenti balneari, cornice ideale per il loro prodotto. La loro agenda è ormai fitta: «Siamo stati selezionati per la Maker Faire di Roma a metà ottobre, e poi andremo al Web Summit di Dublino all'inizio di novembre». Obiettivo primario: trovare clienti che vadano oltre quelli «per i quali produciamo targhet o gadget aziendali con la stampante 3D» e che oggi rappresentano la principale fonte di entrata della start-up. Questi ordini permettono ai due startupper di mantenersi, ma «a fatica»: ci vuole un salto di qualità. Finora Garageeks non è riuscita a convincere i fondi di venture capital a investire sulle sue attività; per questo ha deciso di rivolgersi direttamente ai clienti, sperando che il mercato dia le risposte che servono a questa start-up per continuare a crescere.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

La start-up che consegna la cena a domicilio, dallo "Startup Weekend" al business vero

Ordinare il pranzo anche in locali che non effettuano consegna a domicilio, e farselo recapitare a casa, in ufficio, o perché no anche al parco. Per chi vive a Roma e a Milano ora è possibile grazie a Moovenda, un'azienda nata lo scorso anno durante uno Startup Weekend e che ora punta ad espandere il proprio mercato anche in altre città italiane. Dietro a quest'azienda ci sono i tre fondatori: Filippo Chiricozzi, 26enne laureato in economia, Simone Ridolfi, stessa età, laureando magistrale sempre in economia, e Simone Terranova, ingegnere gestionale trentenne con precedenti esperienze di lavoro in grandi aziende logistiche.«In realtà noi eravamo partiti con un'altra idea: volevamo definire un meccanismo per chi chiunque potesse trasformarsi in un fattorino e fare delle consegne, una sorta di pony express 2.0», spiega Chiricozzi, «avevamo testato il modello di business con un buon riscontro, ma ci siamo resi conto che non avremmo avuto mercato. E così ci siamo spostati nella ristorazione, un settore ancora più difficile visto che bisogna essere veloci nelle consegne».Un esempio, dunque, di "riconversione in corsa": perché uno dei segreti, nel fare impresa, sta nel non innamorarsi della propria idea incaponendosi a realizzarla ad ogni costo, ma sapersi invece adattare al mercato. Essere insomma disponibili anche ad abbandonare l'idea iniziale e a riscrivere daccapo il business plan. Così è nata Moovenda, un nome che aggiunge una 'O' al gerundio latino movenda, che significa “ciò che deve essere mosso”. «La 'O' in più si deve al fatto che esisteva già un'azienda di nome Movenda. E poi la doppia 'O' richiama le ruote di un motorino». Un elemento fondamentale per le sorti di questa start-up, che si occupa di «abilitare la consegna a domicilio per i migliori locali della città». Detto altrimenti, «noi scegliamo tra i 100 e i 150 ristoranti migliori della città». Per orientarsi si rifanno alle recensioni pubblicate dagli utenti di TripAdvisor e Zomato, ma anche «ai pareri dei food blogger». Ai ristoratori si propone un accordo di questo tipo: Moovenda si occupa di ritirare il cibo ordinato e consegnarlo a domicilio in cambio di una percentuale sul conto. In questo modo, non ci sono maggiorazioni di costo per il cliente finale, mentre il ristorante serve qualche pasto in più.Ad occuparsi della consegna sono i Moovers, ovvero persone che lavorano facendo i fattorini. O meglio, arrotondano, visto che il loro compenso non supera i 5mila euro l'anno così da poter rimanere all'interno del regime dei minimi. Niente orari di lavoro fissi: ciascuno consegna in base alla propria disponibilità. Un'opportunità che a Roma, la prima città che ha visto il lancio del servizio, ha convinto circa 50 persone. Mentre a Milano, dove Moovenda sta iniziando ad espandersi, ci sono già 20 fattorini pronti a consegnare cibo a domicilio.Moovenda è nata durante lo Startup Weekend romano dello scorso anno. L'idea fu premiata con 60mila euro, metà in liquidi e metà in servizi di incubazione e mentorship offerti da Luiss Enlabs. «I soldi li abbiamo usati per versare i 10mila euro di capitale sociale richiesti per fondare una srl e per le prime spese». Il periodo di ospitalità gratuita si è concluso a fine giugno, ma Chiricozzi e soci hanno deciso di mantenere la sede all'interno dell'incubatore. «Lo abbiamo fatto per le opportunità che ci ha dato questo spazio, soprattutto in termini di networking». Ma c'è anche un aspetto di convenienza economica: «Paghiamo 700 euro al mese per un ufficio che ospita 10 persone!».Oltre ai tre founder a Moovenda lavorano cinque persone, tutte assunte con contratto a tempo indeterminato. E due studenti universitari stanno svolgendo un tirocinio curriculare, con l'auspicio che l'esperienza possa poi tradursi in un contratto di lavoro vero e proprio. «Io e i miei soci ancora non prendiamo uno stipendio, viviamo grazie ai soldi risparmiati durante le nostre precedenti esperienze lavorative». L'obiettivo, però, è arrivare in fretta a vivere della loro idea imprenditoriale. Per questo sono alla ricerca di un investitore che permetta a Moovenda di effettuare un salto di qualità, per continuare ad espandersi sul territorio italiano. Le prossime tappe? «Torino, Firenze e Bologna».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Tirocini extracurriculari, proibito rinunciare al rimborso anche se lo stagista è d'accordo

«Il soggetto ospitante avrebbe dovuto corrispondermi 400 euro lordi al mese. Io non ho bisogno di questo compenso e non voglio gravare l'ospitante di questa spesa, quindi voglio rinunciarvi», racconta Elena, aspirante stagista, sul forum della Repubblica degli Stagisti. Un'eventualità più unica che rara: desiderare di non usufruire del rimborso spese in caso di tirocinio. Per tutti gli stage extracurriculari, cioè quelli svolti al di fuori dei percorsi di studi, da un paio d'anni il compenso è diventato obbligatorio. A questo risultato si è arrivati dopo anni di battaglie, portate avanti sopratutto dalla Repubblica degli Stagisti: tra le tappe principali del percorso, la riforma Fornero del 2012, l'accordo in sede di Conferenza Stato - Regioni del gennaio 2013 e le normative regionali che ciascuna Regione ha emanato successivamente. Eppure per la lettrice, ripagata dal fatto di imparare, l'aspetto economico dello stage sembra irrilevante: «Lavoro, ma non sono soddisfatta del mio impiego e mi è stata offerta la splendida opportunità di imparare il lavoro dei miei sogni direttamente sul campo» spiega nel suo intervento sul Forum. Di lì la scelta di lasciare il posto, e lo stipendio, «per cominciare al più presto questa esperienza». Gratuitamente. Se l'azienda fosse una no-profit, potrebbe risolversi il problema inquadrando la ragazza non come tirocinante bensì come volontaria. Ma non lo è.Per approfondire la questione la Repubblica degli Stagisti ha interpellato Francesco Duraccio, consigliere nazionale dell'Ordine dei consulenti del lavoro. E l'esperto ha chiarito che non è tecnicamente possibile rinunciare all'indennità: uno stagista non può dire 'no, grazie' all'ente ospitante che la eroga - obbligato per legge –  «in quanto la corresponsione del rimborso, derivando da norme imperative, costituisce elemento costitutivo e caratterizzante dello stage, indisponibile alle parti e, dunque, irrinunciabile». Come conseguenza della legge Fornero si andrebbe anzi incontro a una «sanzione amministrativa che va da mille a 6mila euro, previsione ripresa dalle linee guida in Conferenza Stato Regioni del 24 gennaio 2013, che fissano i principi poi recepiti dalle singole leggi regionali». Bisogna insomma accettare il compenso, pena la possibile penale a scapito dell'azienda (anche maggiore che lo stesso emolumento da corrispondere: la stagista si troverebbe quindi in questo caso – paradossalmente - a gravare ancora di più sull'azienda che vorrebbe 'sollevare' dall'obbligo di pagamento).Non che non sia materialmente impossibile rinunciare al rimborso: basta che «il tirocinante, pur formalmente invitato, magari tramite offerta reale» continua Duraccio «non ritiri la somma erogata dal soggetto ospitante e regolarmente prevista in convenzione». Chiaramente, si tratta qui di un vero e proprio escamotage. Come potrebbe essere quello - ancor più oneroso per lo stagista - di iscriversi a un corso di laurea, o a un master, apposta per poter risultare studente e dunque poter attivare lo stage nella modalità curriculare, per la quale non vige l'obbligo di indennità.Volendo invece proprio rinunciare al rimborso dello stage extracurriculare alla luce del sole? Una ipotetica scrittura privata che sancisse un accordo in questo senso tra i due soggetti sarebbe del tutto improponibile: «È evidentemente contra legem, e oltre a contravvenire alle vigenti disposizioni normative, configurando un comportamento sanzionabile amministrativamente, potrebbe addirittura, in estrema ipotesi, ricondurre l’esperienza formativa nella natura subordinata del rapporto». Detto in altri termini, per l'azienda “furbetta” che decidesse di sottrarsi all'obbligo di versare il rimborso, magari proprio attraverso la sottoscrizione di una scrittura privata, l'esito potrebbe essere addirittura la trasformazione del rapporto da quello di tirocinio a quello di lavoro subordinato. Qui ci si addentra negli aspetti più tecnici della legge, ma non è da escludere - commenta il consulente - che il giudice, «come da consolidata giurisprudenza», possa inasprire la sanzione per l'azienda inadempiente «non riscontrando nella fattispecie analizzata quegli elementi costitutivi e caratterizzanti richiesti dalla legge». Come appunto il rimborso spese obbligatorio. Non è facile capire le ragioni che possono stare dietro una scelta così “autolesionista”, almeno in apparenza, come la rinuncia a un rimborso spese cui si ha diritto e che certamente permette, se non di mantenersi, almeno di pagarsi alcune spese come il vitto o l'alloggio. La lettrice Elena dichiara di non averne bisogno, auspicando che sia lasciata ad ogni singolo stagista la scelta di accettare o rifiutare l'indennità; ma se la sua posizione e la sua richiesta venissero considerate valide, il rischio sarebbe evidente. Molte aziende potrebbero cominciare a cercare e a scegliere solo stagisti provenienti da famiglie abbienti, e disponibili a rinunciare alla indennità con la motivazione appunto di non averne bisogno. Certo è vero che mentre si fa lo stage si sta imparando, e per i primi tempi l'apporto dello stagista all'azienda – seppur presente – è limitato. In effetti, attualmente in Italia l'obbligo di compenso (attenzione, mai chiamarlo “retribuzione”!) vige solamente per i tirocini extracurriculari, mentre per i tirocini curriculari no: proprio perché la ratio è che lo studente in stage non sia sufficientemente concentrato sull'attività lavorativa, dovendo ancora studiare e dare esami, e che comunque il suo interesse precipuo sia fare esperienza on the job e magari accumulare crediti formativi, e che dunque per lui la gratuità non sia un problema.Un presupposto che in altri Paesi non esiste (in Francia per esempio l'obbligo di indennità riguarda proprio i tirocini curriculari, anche perché lì quelli extracurriculari sono praticamente inesistenti), e la stessa Repubblica degli Stagisti lo rigetta, sperando invece che presto intervenga il ministero dell'Istruzione con una normativa ad hoc sui tirocini curriculari, che possa estendere anche ad essi – magari con somme minime più basse  – l'obbligatorietà del rimborso («benché prevederla in tale contesto potrebbe costituire un aggravio e, dunque, un deterrente per il soggetto ospitante» frena però Duraccio). Ma per gli stage extracurriculari, come quello che la lettrice Elena si appresta a cominciare, il discorso è ben diverso. Questi stage vengono svolti da soggetti già diplomati o laureati, con un obiettivo che è al contempo sia di formazione sia di inserimento nel mercato del lavoro. In questo caso, chi può negare che dal lavoro del tirocinante l'azienda tragga un beneficio? E infatti la legge, da un paio d'anni, fortunatamente protegge gli stagisti extracurriculari dal pericolo della gratuità. Infine, una riflessione. Le leggi regionali pongono gli importi minimi del compenso agli stagisti, che variano da 300 a 600 euro al mese a seconda della Regione. In media ci si attesta sui 400 euro mensili: per un'impresa con i conti a posto una cifra del genere, parametrata al bilancio complessivo, è davvero poco rilevante. Sopratutto considerando che si tratta esclusivamente di quella somma mensile, senza aggravi aggiuntivi come quote contributive, tfr o altri costi che invece gravano sui veri contratti di lavoro. Può accadere che un giovane, specialmente in questo periodo in cui le porte sbattute in faccia sono numerose, provi un senso di gratitudine per un'azienda che si dichiara disposta ad ospitarlo e a insegnargli un mestiere (soprattutto se quello “dei sogni”). Ma sarebbe bene che questa gratitudine non facesse perdere di vista ciò che è sacrosanto: che lo stage avvenga secondo le regole sancite dalla normativa, rimborso compreso.  Ilaria Mariotti 

A Genova i ciechi possono vedere grazie a una start-up

Dalla tesi di laurea alla start-up per produrre un apparecchio che permette ai non vedenti di “osservare” il mondo che li circonda, rendendo ascoltabile l'invisibile, come recita uno dei motti della società. L'azienda si chiama Horus Technology, un nome che richiama il dio egizio che nella scrittura geroglifica veniva rappresentato con un occhio.A fondarla sono due 24enni, Saverio Murgia e Luca Nardelli. Originario di Savona il primo, di Trento il secondo, si sono conosciuti sui banchi della facoltà di Ingegneria dell'università di Genova. Per un periodo sono stati coinquilini e hanno condiviso la tesi per la laurea triennale. «L'argomento», ricorda Murgia, «era proprio la visione artificiale». Anche se l'idea è nata per strada: «un giorno abbiamo incontrato un cieco che doveva attraversare, ma non riusciva a farlo a causa di un cantiere. Ci ha spiegato che per orientarsi utilizzava gli angoli degli edifici, costruendosi una mappa mentale. Non avevamo mai riflettuto su questa difficoltà, ma è stato come se scoccasse una scintilla: se eravamo riusciti a dare la vista ad un robot, come avevamo fatto per la nostra tesi di laurea, avremmo potuto restituirla a chi l'ha persa o non l'ha mai avuta».Non si tratta di miracoli, né di operazioni chirurgiche. Il “segreto” sta nella tecnologia. «Il nostro apparecchio è composto di due parti», spiega Murgia. La prima «è quella indossabile, che è dotata di sensori, di un meccanismo di conduzione ossea e di telecamere, collegata via cavo ad un'unità di elaborazione dotata di batteria, delle dimensioni di un cellulare». I sensori permettono alla macchina di «percepire il mondo esterno, analizzarlo e fornire delle informazioni all'utente». Al quale basta chiedere per ottenere risposte. Le richieste passano attraverso la seconda parte dell'apparecchio, una cuffia dotata di auricolare che si indossa. «Diciamo che si tratta di un'assistente personale in grado di vedere: chi lo utilizza può chiedere dove sono le strisce pedonali, qual è il colore di un semaforo. Ma anche di descrivere una foto o di leggere un'etichetta al supermercato».Nelle previsioni, il prodotto arriverà sul mercato a metà del prossimo anno e avrà un prezzo «inferiore ai 2mila euro, stiamo cercando di ridurlo il più possibile: piuttosto che guadagnare tanto su poche vendite, vogliamo rivoluzionare il modo con cui chi non vede si relazione con un mondo che non è progettato per essere accessibile a queste persone». Attualmente sono stati realizzati diversi prototipi, che vengono testati in collaborazione con RP Liguria, associazione che si occupa dello studio sulla retinite pigmentosa. «Stiamo facendo provare il nostro device ai loro associati, che poi potranno liberamente decidere se acquistarlo». Non a caso Horus Technology è una start-up innovativa a vocazione sociale, una fattispecie per cui la legge prevede maggiori benefici fiscali sugli investimenti rispetto a quelli già garantiti alle “semplici” start-up innovative. «In un primo momento (l'azienda è stata fondata nel 2014, ndr) non avevamo i requisiti, ma dopo le modifiche introdotte a gennaio di quest'anno sì e allora abbiamo colto l'occasione. Se infatti prima la denominazione era riservata solo alle realtà che operavano direttamente nell'assistenza sociale, ora possono accedere anche quelle che producono un dispositivo tecnologico. Bisogna "solo" rendicontare e dimostrare l'impatto sociale che si produce».Oggi Horus Technology ha un capitale sociale di 500 euro, ma «tra premi, programmi di accelerazione e campagne di crowdfunding siamo arrivati a 150mila euro». Tra i principali premi ricevuti ci sono 25mila euro ottenuti dopo che l'azienda è stata selezionata da Tim-Working Capital, mentre altri 15mila sono arrivati partecipando all'Eit-Ict Labs Idea Challenge. Inoltre 30mila euro sono stati raccolti grazie ad una campagna di crowdfunding. Soldi che «utilizziamo per lo sviluppo del prodotto e per i costi in generale. Mentre per le spese legali abbiamo scelto la formula del work for equity». Gli avvocati vengono cioè pagati con una quota societaria. Il denaro raccolto serve anche per pagare gli stipendi: «io e Luca lo prendiamo da luglio, ma poi ci sono i nostri collaboratori, che sono saliti a bordo quando avevamo i fondi per pagarli. Ci è sembrato il minimo visto che gli abbiamo chiesto di trasferirsi (la sede operative è a Genova, ma c'è già un ufficio a Milano, ndr) e non ci pareva giusto chiedere loro di condividere il rischio al 100%». In Horus Technology, oltre ai due fondatori, ci sono due persone a tempo indeterminato, che sono state assunte grazie al Jobs Act: «Senza questa riforma avremmo assunto lo stesso, ma probabilmente ci avremmo messo più tempo e avremmo inserito in azienda meno persone. Oltre ai due assunti abbiamouno studente universitario che lavora durante il fine settimana con un contratto di collaborazione. E una tirocinante curriculare che sta svolgendo un tirocinio di tre mesi con un rimborso spese di 350 euro al mese, ma con l'obiettivo di trasformare questo rapporto in un lavoro».Con questi argomenti la start-up ligure è alla caccia di un partner industriale, che permetta di avviare entro la prossima primavera la produzione di questo apparecchio che vuole cambiare in meglio la vita dei non vedenti.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Grazie, le faremo sapere: come si fa un colloquio di lavoro, manuale pratico per aspiranti consulenti

Consulenza: è una delle parole più utilizzate nel mercato del lavoro 2.0. Ma chi sarebbe veramente capace di definire le mansioni di un consulente, o spiegare di cosa si occupa? Non molti inoltre sanno che esistono molte specializzazioni e che sono richieste diverse competenze e profili all'interno di questo settore, in continua espansione e sempre più attraente per i neolaureati in cerca di occupazione. A fare chiarezza sul mondo della consulenza ci ha pensato Andrea Iovene con un manuale pratico intitolato Grazie... Le faremo sapere sottotitolo: «Come affrontare i colloqui di selezione nelle società di consulenza» (FrancoAngeli, collana Trend, 240 pagine).Perché oggi molti giovani aspirano a diventare consulenti? Una prima ragione potrebbe essere economica. «Molti recruiter sono concordi nell'affermare che la Ral (retribuzione media annua lorda) di inizio percorso è pari a 25-27 mila euro lordi. Non è escluso che alcune aziende preferiscano iniziare anche con uno stage di massimo sei mesi con un rimborso spese variabile tra 1000 e 1800 euro al mese»: cifre molto più alte della media degli altri settori. Ma c'è altro: «Pur esistendo molte differenze tra le varie tipologie - i grandi rami  sono quelli della consulenza strategica, operativa, finanziaria e legata al mondo dell'Information Technology - la professione del consulente è molto stimolante per i giovani laureati» scrive Iovene: «È sicuramente impegnativa ma permette una crescita professionale a 360 gradi, che aiuta a sviluppare molteplici abilità. Il mondo della consulenza, in continua evoluzione, rappresenta un ottimo punto di partenza per iniziare a lavorare.Inoltre, in controtendenza ripsetto a molti altri settori e all'intero mercato del lavoro, in questi ultimi anni sono aumentate le richieste di neolaureati».L'intento dell'autore, ex dipendente di una società di consulenza finanziaria e oggi responsabile dell'ufficio job placement dell'Ipe (Istituto per ricerche ed attività educative), è quello di fornire un valido strumento di preparazione ai colloqui con le aziende del settore, attraverso esempi pratici, test e l'esposizione di una serie case interview sperimentati proprio dai selezionatori di alcune grandi società di consulenza tra cui anche EY [che fa parte delle aziende dell'RdS network, ndr]. Non solo: Grazie... Le faremo sapere contiene una serie di suggerimenti utili per affrontare al meglio ogni fase della valutazione: come sottolineato nel saggio Le risorse umane di Massimiliano Nicoli, pubblicato pochi mesi fa da Ediesse, il compito dei recruiter è quello di andare oltre le mere competenze professionali. Non mancano quindi indicazioni sul dress code, sul linguaggio del corpo, ma anche consigli in caso d'intervista telefonica o via skype, utili non solo per gli aspiranti consulenti  ma per chiunque si trovi ad affrontare una selezione. «I recruiter sono molto attenti e non possono permettersi il lusso di sbagliare la scelta del candidato» scrive Iovene: «per questo motivo i colloqui sono sempre più difficili, ci si trova di fronte a test, prove di gruppo, discussioni di business case: a volte risultano strani, ma invece servono proprio per testare alcune soft skills quali problem solving, team working e comunication abilities».Dunque una divulgazione di natura pratica, finalizzata anche allo scambio di opinioni coi lettori, invitati ad approfondire il tema sul blog colloquiolavoro gestito dallo stesso Iovene: «Lo scopo principale di questo libro è di aiutare i giovani laureati ad essere più consapevoli e pronti per un colloquio di lavoro con aziende, banche, società di consulenza e così via» dice l'autore alla Repubblica degli Stagisti: «Troppo spesso si va con poca convinzione, poco preparati sulle prove da sostenere e, come a volte dicono alcuni, “per provare”. Ho cercato di spiegare perchè questi non sono gli atteggiamenti giusti e allo stesso tempo perchè i giovani preparati che si affacciano al mondo dle lavoro non dovrebbero provare eccessiva preoccupazione. L'obiettivo che mi pongo, potrei dire insieme al candidato che legge il manuale, è che ogni colloquio si concluda con un'offerta di lavoro».Per questo motivo Iovene non tralascia nessuno dei passaggi delle selezioni: il testo suggerisce risposte a domande che, per quanto banali e ripetitive, riescono a mettere in difficoltà la maggior parte dei candidati durante i colloqui. Una su tutte: «Dove vede se stesso tra cinque anni»? Grazie... Le faremo sapere spiega che il senso della domanda sta nel «sondare quali siano le reali aspettative, ambizioni e prospettive del candidato. In particolar modo, l’intervistatore cerca di comprendere come venga vissuta dal candidato l’opportunità che gli si sta dando e se quest’ultimo la veda solo come uno step momentaneo del proprio percorso». Spunti per costruire una valida risposta?  Per esempio, «A mio parere tutto dipenderà dal mio rendimento professionale e dalle opportunità di crescita che mi verranno offerte. In ogni caso spero di potermi mettere alla prova e di poter crescere personalmente e professionalmente».Ma c'è spazio anche per l'ironia: il manuale si conclude con divertenti aneddoti sui consulenti e l'autore risponde con una battuta all'ultima domanda che gli viene posta: «Oltre alla lettura del libro, che cosa consiglierebbe a chi cerca lavoro?» «La ricerca del lavoro è già un lavoro! L’attenzione e la professionalità con cui si cerca impiego devono essere molto alte perché la concorrenza è notevole. Il libro raccoglie anche molti consigli su errori da non ripetere compiuti in passato, anche dagli allievi dei nostri master». Iovene coordina infatti i quattro master dell'Istituto Ipe - il master in Finanza Avanzata e Risk Management, quello in Bilancio e Controllo di Gestione, quello in Project Management e quello in Shipping e Logistica - che rappresentano una eccellenza formativa del territorio campano, una delle poche che riesce ad attirare studenti dal nord Italia (mentre di solito il percorso è irrimediabilemente inverso) e ad assicurare percentuali di placement molto alte. «Scherzi a parte, non mi stancherò mai di ripetere che un colloquio di lavoro richiede molta, molta preparazione e una cura estrema di tutti i dettagli: abbigliamento, stretta di mano, il linguaggio non verbale» chiude Iovene: «Inoltre le singole prove - test, prove di gruppo, case interview, e così via - richiedono una preparazione specifica, a volte duratura, spesso viene sottovalutata dai candidati. Infine la motivazione, l’umiltà e la conoscenza approfondita dell’azienda faranno sicuramente la differenza».Silvia Colangeli