Categoria: Approfondimenti

Italiani di frontiera, un libro e un progetto web per sfidare i propri confini. E far crescere l'Italia

Abbandonare le consuetudini di una vita, rassicuranti e limitanti in ugual misura, e partire da zero alla scoperta di nuovi modi di vivere e pensare. Provare a immaginare un futuro che non c'è, rischiare; arrivare ai confini di ciò che si è sempre saputo, superarli. Esporsi alle difficoltà e alle gratificazioni di tracciare strade nuove, più che affollare quelle da tempo asfaltate. Esiste una sana inquietudine ma l'Italia sembra non accorgersene più.A gettare acqua fresca sul viso arriva il bel libro di Roberto Bonzio, 60 anni quest'anno, giornalista e ideatore nel 2008 del progetto di storytelling multimediale Italiani di Frontiera [a fianco, in una foto tratta dagli annuari dell'università Ca' Foscari, che nel 20013 l'ha eletto Cafoscarino dell'anno]. Dallo scorso marzo il progetto multimediale è appunto affiancato anche da un libro, sottotitolo Dal west al web: un'avventura in Silicon Valley (176 pagine, Egea editore, da poco disponibile su cartaceo anche negli USA): una collezione di storie di italiani innovatori di successo raccolte da Bonzio nel 2008 nell'arco di sei mesi di «overdose di adrenalina, idee ed emozioni» in California. Storie che nel libro si incrociano con quelle della corsa all'oro di fine Ottocento, ma anche con le altre emerse negli ultimi anni di attività di IdF, tutte introdotte dalla prefazione di Gian Antonio Stella.No, sembra dire Bonzio con questa ricognizione lunga più di un secolo: la felice "sindrome Marco Polo" non è estinta ma solo sopita. Il bel Paese è ancora seduto su una miniera d'oro di talento ed energia, per quanto difficile da mettere a frutto. Di italiani "inquieti" è piena la storia, del passato ma anche del presente, e a tuffarsi nei racconti di ciascuno è difficile non rimanerne entusiasmati ed ispirati (centro al bersaglio per l'autore). Provo, mi butto, perché no. Quell'idea non è poi così folle. Senza questo spirito probabilmente il mondo non avrebbe mai avuto un Carlos Montezuma, rapito e messo all'asta all'età cinque anni ma riscattato dal fotografo napoletano Carlo Gentile, che lo adotta e lo fa studiare. E chissà come funzionerebbero oggi i computer, senza lo sviluppo della Silicon Gate Technology e l'invenzione del microprocessore da parte del vicentino Federico Faggin.  Oggi, ricorda Gian Antonio Stella, non si vedono più cartelloni "Wanted" nel far west della Silicon Valley, ma la caccia all'uomo continua. «Serratissima. È la taglia sulla testa dei programmatori più creativi, dei laureati più brillanti, dei tecnici più sveliti a trovare le soluzioni... E sono davvero tanti, gli italiani che nella contea di Santa Clara, a sud di San Francisco, hanno trovato la loro pepita». Come le trentenni Elena Favilli e Francesca Cavallo, le menti dietro l'emagazine touchscreen più scaricato al mondo, Timbuktu. Come i giovani Augusto Marietti, Marco Palladino e Michele Zonca, che a San Francisco sono riusciti a far decollare Mashape, oggi marketplace di successo per sviluppatori di app, fondata nel 2009 a Milano. O come Gianluca Iaccarino, 44enne ingegenere di Sorrento laureato alla Federico II di Napoli, premiato già nel 2010 alla Casa Bianca da Obama con il prestigioso Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers.Anche l'autore fa in un certo senso parte di questi eroi moderni. Anche lui ha assecondato - big time, direbbero in America, con tutti i crismi - il pungolio che lo spingeva a scoprire il nuovo, spazzando via decenni di macerie culturali. Ha infatti un bel posto fisso sicuro nella redazione di Reuters quando nel 2008 il 53enne Bonzio decide di lasciare tutto e andare negli USA: prende un'aspettativa dalla sua testata e si butta nell'autoproduzione di quella che sarà un'«avventura entusiasmante, di non ritorno» trasferendosi per sei mesi con la famiglia nella leggendaria Bay Area, quartier generale di titani come HP, Apple, Google, YouTube, Amazon. Un luogo il cui tratto culturale più distintivo è stato efficacemente riassunto da Steve Jobs a Tony Blair: «Se fai una cosa nuova e fallisci, qui sei considerato uno che ha tentato una cosa nuova, nel resto del mondo uno che ha fallito».Volendosi cimentare con il "trova le differenze", la lista è lunga: «In Italia esiste l'idea di una torta finita» racconta lo scienziato Federico Faggin a Bonzio «e se io prendo un a fetta più grande faccio sì che quella degli altri diventi più piccola. Lì no, se uno lavora e crea nuove industrie, la fetta di torta diventa più grande per tutti». Concetto poco intuitivo e ancora meno conosciuto in Italia, dove tendono a prevalere sentimenti di invidia e disfattismo, e la sconfitta è accettabile solo se è comune. O dove, peggio ancora, la sconfitta altrui è motivazione di gratificazione e realizzazione: "sindrome del Palio di Siena", la definisce l'autore, rendendo solo in parte meno indigesta l'idea. L'identikit culturale della Silicon Valley conta anche efficienza («una riunione alle 8 inizia alle 8 e se è fissata di un'ora, un'ora dura»), meritocrazia («ci si scervella veramente per capire qual è il candidato migliore»), informalità nei rapporti con i superiori («Gentile professore Herschlag...» «Chiamami Dan»), valore della pianificazione (l'italico colpo di genio all'ultimo minuto può fare comodo ma non fare curriculum).Italiani di frontiera, va detto, non è stato tanto il prodotto di un salto nel vuoto, ma il suo trampolino: una maniera per dare forma e sostanza al quella sana inquietudine, che da sola non basta ad ottenere un visto di ingresso negli USA. Il prodotto vero per Roberto Bonzio è stata una rivoluzione di sguardo, su di sè, sul modo di fare giornalismo, sui problemi e sulle risorse dell'Italia. Per lui vale ciò che ha avuto modo di dire Renzo Piano, riferendosi ai giovani ma non solo: «devono partire, ma per curiosità non per disperazione. Andare, per capire il mondo ma anche un'altra cosa, ancora più importante: se stessi». Il viaggio per Roberto Bonzio continua tutt'oggi, a tempo pieno dal 2011, quando ha dato le dimissioni da giornalista Reuters per dedicarsi a tempo pieno al progetto IdF, e in ottima compagnia Sull'onda del successo della precedente edizione, partirà il prossimo 22 agosto il secondo Italiani di frontiera Silicon Valley tour 2015, rivolto a manager e imprenditori desiderosi di trovare contatti, ispirazione, idee. E riportarli in Italia.Annalisa Di Palo

Tirocini in tribunale, compenso con beffa: condizioni capestro escludono la maggior parte degli stagisti

Tirocini negli uffici giudiziari, un argomento che sembra essere diventato una costante nelle cronache degli ultimi tempi della Repubblica degli Stagisti. Questo perché i tribunali sono in evidente carenza di personale da anni. Nonostante la riforma della giustizia miri in parte a sopperire a questi vuoti, di fatto una larga parte del lavoro svolto in Italia per applicare la giustizia è svolta da persone che a vario titolo vengono definite “tirocinanti”. L’ultimo “caso” deriva dal decreto interministeriale del 10 luglio e dalla circolare della direzione generale magistrati, che hanno - finalmente - individuato i requisiti per ottenere le borse di studio in favore dei tirocinanti degli uffici giudiziari. È d’obbligo qui fare un passo indietro, per capire a quali tirocinanti si faccia riferimento. Sono quelli introdotti all'epoca del governo Letta dal cosiddetto decreto del Fare, all’articolo 73 del decreto legge 69/2013, in cui si dava la possibilità agli under trenta laureati in giurisprudenza più meritevoli (una media di almeno 27/30 in alcuni esami specifici e un voto di laurea non inferiore a 105) di svolgere dei tirocini di 18 mesi all’interno di tribunali e corti di appello. Quello che all’epoca fece scalpore, e di cui la Repubblica degli Stagisti già si occupò, fu che non era previsto rimborso spese per questi stage; benché l'accordo Stato-Regioni sull'obbligatorietà del compenso per i tirocini curriculari fosse già stato sottoscritto e le normative regionali già si stessero adeguando. Al problema si pensò poi porre rimedio inserendo i commi 8bis e ter dell'articolo 73 del decreto legge 69/2013, il decreto del Fare appunto, prevedendo «una borsa di studio in misura non superiore ad euro 400 mensili», per le cui modalità di assegnazione si sarebbe dovuto tener conto dell'indicatore di situazione economica equivalente (Isee). Una cifra ricalcata non sulle linee guida ma sul documento separato delle Regioni, che indicavano però i 400 euro come minimo, e non certo come massimo. Nelle modifiche introdotte si parlava di una borsa che non poteva essere superiore a 400 euro mensili. Nel decreto ministeriale, invece, c’è scritto che non può essere inferiore a 350 euro.Con il decreto del 10 luglio del 2015 è arrivata un'altra amara sorpresa. Nel descreto si stabilisce, finalmente, l’attribuzione di queste borse di studio. Senza conoscere la platea di riferimento - il ministero a tutt’oggi non è in grado di dire quanti siano i tirocinanti che avrebbero diritto a questo rimborso spese - si stabilisce il tetto limite di 8 milioni di euro di spesa complessiva e all’articolo 2 si specifica che le «borse di studio sono attribuite» ai soggetti «ai quali sia riferibile un indicatore della situazione economica equivalente pari od inferiore a euro 20.956,46». «Il nuovo limite Isee fissato è a nostro avviso bassissimo e sarà sforato dalla maggior parte dei ragazzi che hanno svolto e stanno svolgendo questo tirocinio» denuncia alla Repubblica degli Stagisti Mario Nobile, 26 anni, responsabile di Dike, il network di praticanti e tirocinanti forensi che ha denunciato pubblicamente con una lettera questa situazione. Con il nuovo Isee infatti rientrano nel calcolo del reddito del nucleo familiare anche i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari facendo entrare in una sorta di corto circuito per cui un’erogazione di questo tipo a un familiare, anche una borsa di studio di un fratello, potrebbe incidere - denuncia il Dike - sul ricevimento o meno del rimborso spese di questo tirocinio. Come se non bastasse anche le cifre di questa borsa di studio per i tirocinanti non sono quelle che erano state previste. Nobile è preoccupato: «Sono molto convinto che come avviene di solito in queste situazioni il limite minimo, 350 euro, diventerà limite massimo». Quello che indigna questi meritevoli laureati è il fatto che il decreto del fare rimandava sì alla fissazione seguente dell’isee ma non specificava che la cifra massima di reddito doveva essere di 21mila euro scarsi: «Sono andati avanti tutti per mesi senza sapere il limite minimo e massimo per ottenere la borsa. La gente ha lavorato ogni giorno, verbali, udienze, sentenze, assistenza ai magistrati, tutto questo senza avere la minima idea di quale sarebbe stata la propria sorte». Non solo: nel decreto interministeriale si specifica che l’attribuzione delle borse di studio è per l’attività svolta tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2015. «Ma ci sono molti ragazzi che hanno cominciato precedentemente e per loro, nemmeno per quelli che rientrano tra i requisiti così ristretti, non è previsto nulla. Chi ha cominciato il tirocinio nell’agosto 2014 potrà prendere la borsa di studio solo dall’inizio di quest’anno. Sarebbe stato opportuno» rincara Mario Nobile «introdurre una norma retroattiva. Non è colpa di questi tirocinanti se la norma è stata approvata nell’agosto del 2014 ma il suo sistema applicativo solo un anno dopo. È colpa del ministero: l’ha fatto consapevolmente con l’idea di tagliar fuori un terzo dei tirocinanti». Tra l’altro quei pochi che avranno la fortuna di rientrare nei parametri previsti dal decreto interministeriale potrebbero ugualmente non essere in grado di fare domanda per la borsa di studio entro il 20 agosto. Per farlo è, infatti, necessario allegare l’attestazione Isee rilasciata in data successiva al 1 gennaio 2015. «Con le modifiche del nuovo Isee, i Caf non possono più fare la certificazione classica ma devono inviarla all’Inps che sarà oberato di lavoro tra tirocinanti degli uffici giudiziari, borse di studio per gli studenti universitari e tutti gli altri trattamenti previdenziali in cui è necessario questo indicatore. Era necessario almeno prevedere tempi più lunghi per inoltrare la domanda», osserva il responsabile di Dike.   Eppure i tirocinanti in questione hanno svolto fino ad oggi un ruolo fondamentale per gli uffici. «Studiamo i fascicoli delle cause, redigiamo materialmente le sentenze sotto la guida del magistrato che affianchiamo e ci viene fornita una formazione che è la stessa dell’aggiornamento che ricevono i magistrati» racconta alla Repubblica degli Stagisti una tirocinante che preferisce non divulgare le sue generalità, visto che è indecisa se continuare o meno lo stage. Ma in linea generale Nobile è sicuro che in molti continueranno a fare il tirocinio anche se non riusciranno ad accedere alla borsa perché l’esperienza è altamente formativa: «È un vero e proprio lavoro importante per la collettività». Da qui parte la richiesta del network Dike al presidente del consiglio Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando: «A Renzi chiediamo di rispettare la dignità di chi lavora e ha studiato e di stanziare i fondi necessari per la retribuzione di tutti quanti i tirocinanti. Lo Stato deve capire quanti tirocinanti ci sono, quanti ne servono e quanti soldi sono necessari per retribuirli. Non servono cifre milionarie, vanno bene i rimborsi dei tirocini extracurriculari tra i 400-500 euro. Mentre al ministro della Giustizia il nostro network che si chiama Dike, giustizia, chiede che si prendano le decisioni giuste e si interrompa immediatamente questo sfruttamento legalizzato».Qualora il ministero non volesse ascoltare le richieste di questi giovani non si escludono successive manifestazioni: «Sicuramente andremo sotto il ministero della Giustizia ma non escludiamo nemmeno, come network Dike, di avere delle giornate di astensione dal tirocinio». Uno sciopero dei tirocinanti della giustizia, dunque, per rendere palese l’importanza del loro ruolo e «l’umiliazione continua a cui vengono sottoposti»: l’assenza di borse di studio.Marianna Lepore

Addio Italia: i giovani «emigranti» meriodionali non puntano più alle regioni del nord, ma all'estero

L’estero come il nuovo Nord Italia. Per formarsi e lavorare i giovani del Mezzogiorno si spingono sempre più fuori dai confini nazionali e le evidenze emerse dal focus sul Meridione del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo lo dimostrano chiaramente. Il Rapporto Giovani è la principale indagine italiana sulle nuove generazioni, basata su un panel di 5mila persone tra i 19 e i 30 anni.Ma perché i giovani, soprattutto del sud, si spostano? Ovviamente per l’insoddisfazione legata alla propria situazione occupazionale. «Nel complesso un intervistato su tre ha un lavoro e tra questi solo per una minoranza si tratta di un’occupazione stabile. Un dato interessante è che solo la metà di chi ha un lavoro considera lo stipendio adeguato. Inoltre, nel complesso, oltre l’85% degli intervistati ritiene limitate o scarse le opportunità nel mercato del lavoro per un giovane con la propria preparazione» spiega alla Repubblica degli Stagisti Alessandro Rosina, coordinatore del Rapporto e neo direttore del dipartimento di Demografia e statistica sociale presso l’università Cattolica di Milano.Lo studio è costruito in modo da essere rappresentativo delle caratteristiche dei giovani italiani della stessa età, rispetto a genere, area geografica, titolo di studio e condizione. Tra gli intervistati laureati la percentuale di chi ritiene scarse le proprie possibilità nel mercato del lavoro è più rilevante e arriva all’86%, un dato secondo il docente «particolarmente rilevante e problematico per tre motivi. Il primo è che perdiamo soprattutto i giovani e i più qualificati, ovvero la risorsa più importante per rendere le economie avanzate competitive. Il secondo è che noi già soffriamo in Italia del fatto di avere meno giovani e meno laureati rispetto ai paesi più avanzati. Il terzo è che a fronte dei tanti che se ne vanno pochi altrettanto giovani e qualificati ne ri-attraiamo».Il fenomeno del trasferimento all’estero ha preso piede dal Duemila in poi: «Con l’entrata nel XXI secolo e l’inasprirsi delle difficoltà anche nelle regioni settentrionali, si è osservato un flusso crescente di uscita dal Nord verso l’estero» continua Rosina «Molti meridionali, dopo essersi spostati nelle grandi città settentrionali sono poi ulteriormente rimbalzati verso l’estero. Negli anni più recenti, complice anche la crisi che ha visto aumentare il numero di Neet in tutto il paese, nei giovani del Sud si è consolidata sempre più l’idea che se ci si deve spostare tanto vale partire direttamente per l’estero».Dunque i giovani italiani, sopratutto al sud, non trovano facilmente lavoro. Questo potrebbe far erroneamente dedurre che sia più facile, per le giovani donne, fare figli: senza una carriera che ruba tempo ed energie, chissà quanti figli faranno le ragazze meridionali... Niente di più sbagliato. Poco lavoro uguale pochi figli. Giuseppe Provenzano, ricercatore dello Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell’industria delle regioni meridionali dell'Italia che proprio l'altroieri ha pubblicato le anticipazioni dei risultati - preoccupanti - del suo “Rapporto 2015 sull'economia del Mezzogiorno”, evidenzia infatti come la situazione critica del Sud sia ulteriormente aggravata dal «basso tasso di natalità, che sta producendo un invecchiamento della popolazione meridionale». Volendo fare un bilancio, continua Provenzano, «negli ultimi 10 anni sono andati via dal Mezzogiorno mezzo milione di giovani under 35, quasi tutti diplomati o laureati». Differente la situazione per chi viene dall’Italia settentrionale: «chi risiede al Nord è meno disposto a spostarsi fuori dalla propria regione perché le opportunità sono comunque percepite come maggiori rispetto al resto del Paese e nel caso decida di spostarsi guarda quasi esclusivamente verso l’estero. Maggiore è però anche l’opportunità di tornare, spesso valorizzando l’esperienza internazionale e diventano un ponte per le aziende italiane verso il mercato estero», aggiunge Rosina. La verità però è che chi va fuori dai confini nazionali trovi effettivamente condizioni migliori: «Da dati di fonti diverse, comprese le indagini esplorative dell’associazione ITalents e AlmaLaurea, mostrano come chi ha scelto di andare all’estero si trovi in media con stipendi di oltre un terzo più elevati e con una maggiore soddisfazione per il lavoro svolto» precisa il coordinatore del Rapporto Giovani: «È però anche vero che, da un lato, chi sceglie di lasciare l’Italia mette più facilmente in conto un primo periodo di adattamento e, dall’altro, chi decide di rimanere più a lungo in un altro paese è perché trova condizioni migliori rispetto al luogo di partenza».Cosa si dovrebbe fare per diminuire questo divario? «L’Italia è uno dei paesi che negli ultimi decenni meno hanno investito nelle voci che più si dimostrano utili a inserire in modo adeguato le nuove generazioni nel mercato del lavoro e a trovare maggiore valorizzazione del loro capitale umano» riflette Rosina: «In particolare, alle politiche attive per il lavoro e alla ricerca, sviluppo e innovazione noi destiniamo valori nettamente inferiori rispetto alla media europea. Questo significa che da un lato l’incontro tra domanda e offerta è più inefficiente da noi e, dall’altro, le opportunità di impiego di qualità nei settori più dinamici e competitivi sono più ridotte rispetto agli altri paesi».Lo Svimez parla invece da tempo della «promozione di politiche industriali innovative, che puntino alla crescita delle imprese, e dell’incremento della vocazione all’internazionalizzazione delle aziende stesse», continua Provenzano. A oggi ci sono state iniziative solo sporadiche, come «la stagione pugliese degli incentivi alle imprese giovanili attraverso il progetto Bollenti Spiriti, ma si tratti di casi isolati e non inseriti nell’ambito di una strategia più organica ed estesa a tutto il Meridione». Per confrontare la situazione italiana con quella dei giovani di altri paesi ci sarà nel Rapporto Giovani un focus internazionale: «Il primo di questi approfondimenti internazionali è attualmente in corso» anticipa Rosina: «e coinvolge oltre all’Italia, la Spagna, la Germania, il Regno Unito e la Francia. I risultati dettagliati saranno disponibili in autunno».Chiara Del Priore

Giudici onorari, precari fuori legge senza contributi né ferie proprio nei Tribunali dove si applica la legge

Sono nati nel 1998, con la così detta Legge Carotti, e reclutati con un concorso per titoli e un mandato di tre anni prorogabile per una sola volta: da allora i vice procuratori onorari (Vpo) e i giudici onorari di tribunale (Got) hanno visto puntualmente la propria carica prorogata ogni anno, diventando dei veri e propri dipendenti a cui non sono riconosciuti i minimi diritti. La storia è ben raccontata in Precari (fuori) legge, ogni giorno in tribunale, Round Robin editrice, scritto da Paola Bellone, 41 anni, vpo dal lontano 2002. «L’idea di scrivere il libro nasce davvero dalla voglia di narrare i processi con l’intenzione di raccogliere fondi per finanziare le azioni giudiziarie e chiedere di veder riconosciuta la previdenza. È stata la casa editrice che, conosciuta la nostra storia di precariato, ha chiesto di approfondirla». L’azione giudiziaria nel frattempo c’è stata: i vpo torinesi hanno fatto causa al ministero della Giustizia chiedendo che venisse riconosciuta la copertura pensionistica come collaborazione coordinata e continuativa. In primo grado hanno vinto ma la sentenza è stata impugnata dal ministero e in sede di appello la Corte ha stabilito che «non siamo cococo in quanto sussiste un rapporto di immedesimazione organica». In sostanza la Corte ammette che il rapporto di questi lavoratori è ormai diventata un’occupazione stabile e che la normativa attuale non è più idonea. Ma che non può esprimersi oltre perché la richiesta era stata solo quella di essere assimilati alle collaborazioni coordinate e continuative.Nonostante la causa sia stata persa, le spiegazioni della Corte di appello hanno in un certo senso rinforzato la volontà di veder riconosciuto il proprio lavoro subordinato. Per questo, assistiti dall’avvocato Claudio Tani del foro di Milano, «a settembre partiranno azioni di accertamento del rapporto di lavoro subordinato in tutto il territorio nazionale». Si partirà quindi con una nuova azione legale, ma questa volta non ristretta al solo capoluogo piemontese. «La nostra situazione oggi non è più tollerabile» dice perentoria Paola Bellone alla Repubblica degli Stagisti: «Il magistrato onorario è stato pensato tale dai deputati dell’assemblea costituente in quanto svolge le funzioni in modo occasionale e trae il proprio reddito da altre professioni». Di fatto, però, non è più così e anche il titolo di “onorario” è fuorviante visto che la maggior parte dei vpo ormai vive del solo compenso – definito “indennità” nella legge – riconosciuto per svolgere queste funzioni. C'è però comunque una percentuale, nel caso torinese non superiore al 20%, di vpo che continuano a fare la professione di avvocato, com'è pure consentito dalla legge, trovandosi nella situazione piuttosto strana di avere colleghi che talvolta fanno da controparte e talvolta da giudice. Al momento non c’è in cantiere solo l’azione giudiziaria ma anche la promozione di una riforma che sia conforme alla situazione di fatto. «Il disegno di legge depositato in Senato dal governo non va bene» dice la vice procuratrice onoraria «e non siamo gli unici a dirlo, l’hanno fatto molti professori e avvocati. Si aumentano le competenze dei magistrati onorari e si prevedono tre mandati di quattro anni, in tutto dodici». Non solo, si prevede un compenso con una quota fissa e un’altra incentivante subordinata al raggiungimento di obiettivi fissati dal capo dell’ufficio, ma non si stabilisce a quanto ammonti questo compenso. Per chi è già in servizio, poi, si prevede una maxiproroga «ancorata a fasce di età e senza prendere in considerazione l’anzianità di servizio. Mano a mano che si innalza l’età è previsto un minor numero di proroghe, con la conseguenza di rendere precario chi non lo è e disoccupato in età lavorativa chi è precario di lungo corso». Un esempio? Bellone lo fa proprio sulla sua pelle: «Ho 42 anni, sono in servizio dal 2002, prevedendo altri 12 anni di proroghe a 54 anni dovrei smettere e diventerei disoccupata». Non solo, la riforma non aggiunge altro, nessun contributo previdenziale, lasciandolo volontario a totale carico dei vpo. Come fondamentalmente succede già oggi. «Al momento non abbiamo copertura pensionistica. Chi fa anche l’avvocato ed è iscritto alla cassa forense versa volontariamente i contributi lì. Gli altri no, a meno che non abbiano una previdenza privata. Io, ad esempio, è dal 2002 che non ho un contributo versato». Una situazione pericolosa, per lei e per quanti sono nella sua stessa situazione, perché non aver mai versato contributi significa in prospettiva non poter contare su alcun trattamento pensionistico tra venti o trent'anni. Al momento la media «generosa» la definisce Bellone, è di un guadagno di 1700 euro netti al mese. Calcolati sui 73 euro netti che guadagnano al giorno per cinque ore di lavoro e che raddoppiano qualora, per qualche motivo, le udienze si prolunghino e si superino le cinque ore. Non sono previsti obblighi di giornate o ore di lavoro, «rispondiamo alle richieste che ci vengono fatte». Però è una situazione molto complessa che è difficile generalizzare. «Ho un badge orario che va dalle 7 alle 10 ore di lavoro. Ma il vero punto è che non siamo considerati lavoratori, da qui partono i problemi. Se ho un’udienza con 30 processi il lunedì mattina, la domenica andrò in ufficio a studiare i fascicoli, le eccezioni, gli interrogatori e per questa attività di studio, quindi ore di lavoro, non sono retribuita».  Il punto assurdo è anche il modo in cui questi lavoratori sono pagati, direttamente dal ministero della Giustizia. Per chi svolge contemporaneamente la libera professione e ha quindi una partita iva, «emette fattura alla fine del mese. Ma chi, come me, non ha la partiva Iva, allora ha la busta paga su cui c’è la dicitura “lavoratore a tempo indeterminato”. Il mio cud lo scarico come tutti gli altri dipendenti della pubblica amministrazione». La richiesta di questi lavoratori, oggi, è di essere inquadrati in un ruolo, con la precisazione però che non pretendono di essere arruolati nella magistratura di carriera né avere il suo trattamento economico. Ma veder riconosciuto il proprio lavoro, questo sì, perché senza questi 3800 vpo che si aggirano nei tribunali italiani una gran fetta di contenziosi rimarrebbero senza sentenze. Di quelli non se ne occupa la magistratura ordinaria, già impegnata con molti altri casi, né si potrebbe mai pensare che possa iniziare a farlo in futuro.«Iniziamo giovanissimi e ogni giorno impariamo qualcosa in più, è un lavoro appassionante» sottolinea con entusiasmo Paola Bellone, «che a noi piace tantissimo. Ma si arriva ad un’età in cui bisogna essere responsabili. Personalmente se ci sarà una riforma, continuerò, altrimenti è chiaro che me ne andrò perché non posso più continuare così». Anche perché c’è un fraintendimento che va evidenziato: nonostante la legge preveda la libertà di continuare a fare gli avvocati ricoprendo anche il ruolo di vpo, «la maggioranza fa solo questo. Qui a Torino l’80% lo svolge come lavoro esclusivo». Per chi non riuscisse a capire come è possibile che i magistrati italiani non riescano a seguire tutti i procedimenti, e sia necessario far fronte a queste altre figure professionali, è di aiuto la seconda parte del libro, che racconta le tante storie di processi davanti a cui si sono trovati negli anni questi vice procuratori onorari. Un lungo elenco delle vicende che finiscono davanti ai giudici intasando il sistema giustizia: dalla lite tra condomini all’insulto, dal litigio tra i coniugi all’indicazione errata degli ingredienti nel menù. «Piccole storie» le definisce nel libro Bellone, che arrivano anche al terzo grado di giudizio. Ha senso una giustizia così? «No, non ha senso. Ora è intervenuta la riforma che introduce il principio dell’indennità anche nei processi per i reati di competenza del tribunale monocratico. In alcuni casi ci sarà la possibilità di archiviare i procedimenti e ridurre i contenziosi. È ancora troppo presto, però, per fare una stima dei risultati».Vpo e Got non sono, però, gli unici “precari” della giustizia. Ce ne sono altri di cui la Repubblica degli Stagisti si è ampiamente occupata nell’ultimo anno. Sono i tirocinanti degli uffici giudiziari, che a partire dal 2010 in alcune regioni e 2012 in altre hanno svolto tirocini formativi, di volta in volta rinnovati, per aiutare lo smaltimento dell’arretrato. Giovani laureati alle prime esperienze lavorative ma anche cassintegrati e disoccupati, sfruttati per far funzionare gli uffici e poi puntualmente lasciati a casa. Non può quindi mancare un richiamo alla loro situazione, che per quanto diversa per molti aspetti sottolinea, come in questo caso, la fragilità di un sistema a rischio esplosione per numero di cause, di carte e materiale che si perde nei tribunali, di leggi che non semplificano ma complicano. E della conseguente necessità di personale, vedi vpo, got e tirocinanti, che in qualche modo aiuta a sfoltire questo caos. «Ormai la tendenza è snaturare la funzione formativa del tirocinio e la natura onoraria delle funzioni per risparmiare» commenta Bellone, lanciando un monito e dando un suggerimento su come uscirne: «In questo momento è la qualità ad essere a rischio. Bisognerebbe fare una riforma nazionale, investire nell’ufficio del processo con personale stabile, anche attraverso concorsi, magari decentrati. E, a mio avviso, sarebbe razionale prevedere in prospettiva un altro percorso di accesso alle funzioni attuali della magistratura di carriera: una sorta di cursus honorum». Marianna Lepore

Startupper, chi ha paura di farsi rubare l'idea?

Raccontare la propria idea a potenziali investitori oppure tenerla nascosta per evitare che venga rubata? Un tema cruciale per chi fa startup e che di tanto in tanto riaffiora nel dibattito. L'ultima voce è quella di Emanuele Rivoira, fondatore di AlliumTech che, in una recente intervista a StartupItalia!, ha raccontato di aver rinunciato a bandi, venture capital e business angels: «devi raccontare ai quattro venti cosa hai in progetto di fare senza alcuna garanzia che qualcuno non si prenda il tuo business plan e lo implementi per conto suo».Per dar vita alla sua azienda, fondata insieme al padre e ad un terzo socio, Rivoira si è affidato alle tre 'F', ovvero family, friends and fool. Finora i fatti gli hanno dato ragione, visto che la sua azienda da lavoro a una sessantina di persone. Ma chi non avesse familiari o amici pronti a finanziarlo che dovrebbe fare?«Naturalmente, massimo rispetto per chi ha dato vita ad un'impresa e sta creando valore e posti di lavoro», premette Marco Bicocchi Picchi, neo eletto presidente di Italia Startup, «ma questo timore è poco realistico: le idee valgono per come sono messe in pratica». È qui che secondo il numero uno dell'associazione fondata da Riccardo Donadon sta la differenza: «Chiunque può aprire un bar, ma chi sa trattare con i clienti, arredare il locale e preparare le brioche più buone avrà successo». Detto altrimenti, «il vantaggio competitivo non nasce da un'intuizione, ma dalla capacità di eseguirla. L'essenza dell'imprenditorialità sta nell'organizzare capitale e lavoro».Eppure Rivoira non è certo il solo a nutrire la lieve paranoia di poter essere derubato della propria idea geniale: su Chefuturo! un paio d'anni fa lo startupper Raffaele Gaito aveva dedicato al tema un intero post, intitolato «Quelli che… la startup non la racconto, sennò me la copiano», riprendendolo poi anche sul suo blog personale: «ho avuto la conferma che nell'ambiente startup c'è una forte paura nel raccontare la propria idea»; altrove nel web è stata definita addirittura la "paura atavica" degli aspiranti startupper. «Non parlo della mia idea per paura che me la rubino è una delle ricette per l'insuccesso», afferma perentorio Alberto Onetti, responsabile di Startup Europe Partnership e presidente della fondazione Mind the Bridge. «I progetti non comunicati finiscono per rimanere nel cassetto o per essere realizzati male», aggiunge, «dal confronto nascono i progetti solidi e, risultato ancor più valido, muoiono rapidamente quelli deboli». Anche secondo Onetti, non è l'idea che fa l'impresa: «gli imprenditori», afferma, «sono quelli che la realizzano».Senza contare che parlare di ciò che si ha in mente è fondamentale per convincere potenziali finanziatori ad investire nella propria start-up. «Se vai da un venture capitalist solo per i soldi, hai visto solo metà del film», ammonisce Gianluca Dettori [nella foto a sinistra, di Alessio Jacona], «il denaro è solo una parte del processo. Noi stiamo accanto ai team quotidianamente, aiutandoli a trovare relazioni e nuovi clienti». Il presidente del fondo dPixel spiega anche perché gli startupper non devono aver paura di vedersi rubato il progetto. «La verità è che noi facciamo un altro mestiere, non avremmo nemmeno il tempo di implementare idee altrui. Del resto, se lo facessi poi non potrei più svolgere il mio lavoro. Certo», ammette, «il rischio c'è se si va a chiedere soldi a un'azienda strutturata ma potenzialmente concorrente». Ma questo è un comportamento fin troppo ingenuo.Cosa ne pensa, però, chi si trova dall'altra parte? Ovvero gli startupper, quelli che hanno dovuto cercare dei fondi per realizzare la loro idea? «Purtroppo non ci sono misure di sicurezza» ammette Selene Biffi, fondatrice tra le altre di PlainInk e Spillover: «L'unica cosa che puoi fare è arrivare per primo sul mercato, cosa che non sempre è possibile per motivi economici, di costruzione del team o di complessità nella realizzazione del progetto». Il problema, come detto, tocca più direttamente quelle start-up che non possono proteggersi con un brevetto.Ma non sembra comunque spaventare gli startupper. Ad esempio Luca Sini, oggi ceo di Guide Me Right, start-up che permette di visitare le città affiancati da una guida locale, lo dice chiaramente: «Trovo spesso inconsistente la paura di farsi rubare un'idea. Per lanciare un nuovo progetto occorre sostegno finanziario e lavorativo, ma se non si è disposti a raccontare ciò che si ha in mente non si troverà mai». Ciò che conta, continua quasi citando Bicocchi Picchi, «è essere in grado di trasformare l'idea in fatti nel miglior modo possibile». Ne è convinto anche Daniele Biffoli, fondatore della piattaforma di e-commerce Gourmant. «La paura che la propria intuizione venga 'rubata' è naturale ma insensata. L'idea non è che il primo, piccolissimo passo in un progetto», spiega, «non vedo alcun rischio nel divulgare quello che si è pensato, perché è incredibilmente vero l'adagio per cui tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare».Gli startupper non hanno paura, quindi. Ma questo non significa che siano degli incoscienti. Anche quelli che possono ricorrere a un brevetto “pesano” le parole di fronte agli investitori. «Evito categoricamente di partecipare a bandi e concorsi mediante i quali gli enti erogatori potrebbero acquisire dei diritti sulla proprietà intellettuale», afferma Mary Franzese, co-founder della start-up biomedicale NeuronGuard, «inoltre prestiamo molta attenzione quando raccontiamo il nostro progetto, focalizzandoci molto di più sulle potenzialità del prodotto piuttosto che sulle caratteristiche tecnologiche». La giovane imprenditrice sembra però essere l'unica a concedere qualcosa a Rivoira: «ha ragione nel sostenere che i bandi potrebbero rubarci l'idea, sta a noi saperli selezionare non guardando solo all'aspetto meramente economico ma scegliendo solo quelli che ci consentono di dare risalto al nostro progetto». Del quale bisogna parlare: basta solo fare attenzione a ciò che si racconta.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itPhoto credit: thetaxhaven e Robert Scoble

Fiduciosi ma realisti: in una ricerca il ritratto degli universitari italiani

Oltre 2mila studenti, quasi la metà di età compresa tra i 20 e i 23 anni e iscritti a corsi di laurea triennale, di 15 università italiane. La maggior parte di sesso femminile. Queste in sintesi le cifre della ricerca del centro Impresapiens dell'università La Sapienza di Roma a conclusione del tour #noncifermanessuno, campagna motivazionale partita a ottobre dello scorso anno in 15 atenei (Roma, Varese, Urbino, Siena, Salerno, Palermo, Bari, Cosenza, L'Aquila, Milano, Verona, Foggia, Parma, Pescara, Napoli).I risultati completi della ricerca non sono stati ancora diffusi ma dalle prime evidenza emerse dall'indagine, coordinata dalla ricercatrice de "La Sapienza" Paola Panarese e condotta somministrando personalmente questionari strutturati durante le tappe del tour, è emersa un'indagine dei giovani sostanzialmente entusiasti del proprio percorso di studi e dell'importanza della laurea per la ricerca di lavoro. Il 79% si dichiara infatti soddisfatto del proprio corso di laurea e il 41,4% afferma di essersi iscritto all'università per trovare un'occupazione più facilmente. Questo malgrado gran parte degli intervistati frequenti facoltà come lettere o scienze sociali o psicologiche, non proprio ai primi posti della graduatoria dei corsi di laurea più spendibili nel mercato occupazionale. Ma quanto i giovani sono consapevoli degli sbocchi occupazionali delle facoltà universitarie che scelgono? Relativamente alla spendibilità della facoltà scelta sul mercato del lavoro, il questionario presentava la seguente domanda «pensi che le conoscenze e le competenze che il corso di laurea può darti siano utili per essere competitivi nel mercato del lavoro?», i cui esiti, come spiega la Panarese, dovrebbero essere incrociati con la facoltà di iscrizione. Solo quando questo incrocio sarà realizzato, dunque, si potrà avere la risposta a questo quesito, in effetti tra i più importanti per inquadrare le motivazioni che spingono i diciottenni a scegliere questa o quella facoltà, e il loro grado di consapevolezza del mercato del lavoro che li attende.Purtroppo però il questionario non prevedeva una domanda diretta sulla ragione della scelta della facoltà: una scelta poco comprensibile, se l'obiettivo del team della Panarese era quello, come dichiarato, di indagare l'universo degli studenti universitari di oggi. Ma la ricercatrice ribatte evidenziando la presenza di una domanda relativa alla ragione della scelta dell’università, «qual è il motivo principale per cui hai scelto di iscriverti all’università?», con cinque possibili risposte: «per assecondare le aspettative dei miei genitori­», «per trovare lavoro con più facilità», «perché lo hanno fatto i miei amici», «per approfondire argomenti di mio interesse», «per mancanza di alternative», più l'opzione «altro (specificare)». Questo quesito verrà messo in relazione con la facoltà di iscrizione, aiutando dunque a far luce su questo aspetto.La possibilità di trovare poi lavoro con maggiore o minore facilità è sicuramente un fattore determinante al momento della scelta della facoltà. Ma per gli intervistati scegliere il corso di laurea «giusto» in quest'ottica non è tutto. Forse non è un caso che gli stessi studenti ritengano nel 27% dei casi il contatto diretto il canale più importante trovare un lavoro e riconoscano l’utilità e la diffusione delle raccomandazioni, pur non avendo avuto esperienze dirette (84,3% degli intervistati). Esigenza avvertita più dagli uomini che dalle donne, in aumento al crescere dell’età, e percepita come più presente nel settore pubblico: «Il fatto che in tanti credano che la raccomandazione possa essere utile lo farei derivare più da concezioni diffuse nel senso comune che da convinzioni radicate o esperienze vissute dai ragazzi, vista la loro giovane età» sostiene la Panarese: «Chi si iscrive in facoltà, come lettere, scienze politiche, sociali, psicologiche, con sbocchi lavorativi meno certi rispetto a medicina, per esempio, probabilmente e comprensibilmente crede che la solidità e la qualità del percorso formativo non bastino a trovare lavoro. Inoltre la maggior parte dei rispondenti alla domanda relativa alle raccomandazioni dice poi che non si farebbe raccomandare, se ne avesse occasione. E anche questo è un dato interessante, anche se forse meno notiziabile».Non c’è insomma un’esaltazione della «spintarella» in sé e per sé ma semplicemente la consapevolezza che a oggi il proprio network di contatti resta comunque un elemento importante. Ovviamente non l’unico fattore rilevante. Ad esempio l’idea di spostarsi all’estero per lavoro non dispiace agli intervistati: anche se l’84,7% non ha mai studiato fuori dall’Italia, la maggior parte di essi sarebbe disposta ad andare all’estero per lavoro, un riconoscimento dunque dell’importanza dell’esperienza internazionale. Il 47% risponde “decisamente sì” all’idea di trasferirsi in un paese europeo, il 36,9% in un paese extraeuropeo.«Dalla ricerca emergono due dati importanti. Il primo riguarda la sfera personale e il profilo di tanti giovani che nonostante le molte preoccupazioni per il loro futuro si ritengono ancora fiduciosi e pronti ad un mercato del lavoro sempre più fluido e in continuo cambiamento, ma si attendono una maggiore stabilità e un lavoro coerente alle loro competenze e ai loro studi» dice alla Repubblica degli Stagisti Lorenzo Foresta, consigliere del direttivo del Forum Nazionale Giovani: «C’è poi un secondo aspetto: i canali migliori per la ricerca del lavoro sono sempre meno quelli che attengono ai servizi pubblici, favorendo così meccanismi di intermediazione tra domanda e offerta che spesso non guardano al merito e alle competenze ma alla capacità del singolo di sapere sfruttare contatti diretti e personali. Tutto ciò porta sicuramente all'esclusione di molti giovani, che non vedendo le proprie competenze riconosciute nel mercato del lavoro italiano, o restano per anni ghettizzati nella condizione di Neet oppure sono disposti ad andare a lavorare all'estero. Questo fenomeno, seppure accettabile in una società globalizzata, diventa preoccupante nella misura in cui il saldo tra giovani che rientrano in Italia e giovani che emigrano rimane negli anni negativo, aumentando così il divario generazionale e la possibilità per il nostro Paese di crescere grazie alle energie e le competenze delle giovani generazioni».Mancano nella ricerca suggerimenti su come migliorare l’università o su come ad esempio poter favorire l’accesso al mondo del lavoro, ma non è da escludere che tematiche simili siano oggetto delle prossime indagini: «Il prossimo anno si prevede un nuovo tour con un’indagine empirica, il cui tema però va ancora definito. Quel che è certo è che la prima tappa sarà a ottobre, sempre alla Sapienza», conclude la Panarese. Nel frattempo si attendono però i risultati completi della prima indagine, che dovrebbero uscire entro l'estate.Chiara Del Priore

Business angels, 46 milioni di investimenti in startup nel 2014: ma ci vuole un albo che garantisca trasparenza

Solo nel 2014 hanno investito 46 milioni di euro nelle startup italiane. Ma rispetto al passato lo hanno fatto riducendo il numero di aziende finanziate ed aumentando la somma messa a loro disposizione. Questi i punti salienti dell'attività dei business angels italiani descritta nel rapporto Iban 2014, presentato a fine giugno a Milano.I numeri elaborati dall'associazione Italian business angel networks, presentati nel corso della sua XVI convention annuale e relativi ad un campione di 279 operatori, sono interessanti. I 46 milioni di finanziamenti erogati lo scorso anno fanno segnare un incremento del 45% rispetto all'anno precedente. Inoltre un terzo degli investimenti ha superato i 300mila euro, mentre uno su quattro è andato oltre i 100mila euro. In tutto sono 135 le operazioni di finanziamento perfezionate nel 2014, che hanno interessato soprattutto startup attive nel settore ICT, nel terziario avanzato e nel commercio. E soprattutto hanno portato alla creazione di 180 nuovi posti di lavoro, concentrati soprattutto nelle regioni del centro Nord.Al di là poi dei numeri assoluti, a colpire è una tendenza riscontrata dalla survey 2014. Ovvero quella per cui si è ridotto il numero complessivo di finanziamenti erogati, scesi dai 324 del 2013 ai 135 dell'anno passato, mentre cresce l'investimento medio, più che triplicato dai 98mila euro di due anni fa ai 351mila del 2014. Un andamento, spiega il professor Vincenzo Capizzi di SDA Bocconi nonché autore della ricerca, «che da un lato segnala la capacità degli angels di sviluppare logiche di networking e compartecipazione tipiche degli investitori istituzionali». Dall'altro «testimonia la crescente rilevanza di questo segmento del mercato dei capitali, che sempre più deve rappresentare una delle principali leve da valorizzare e incentivare da parte dei policy maker».Già ma come? «Stiamo portando avanti un ragionamento con Bankitalia», spiega Capizzi alla Repubblica degli Stagisti: «l'idea è quella di introdurre un albo dei Business angels, così che queste figure possano sempre più essere utilizzati come leva di una politica industriale». Un albo, quindi delle regole per entrare a farne parte: non c'è il rischio, come sostennero molti critici dopo l'introduzione del regolamento Consob sul crowdfunding, di ingessare un settore che per sua stessa natura è fortemente “liquido”? «Una start-up quando raccoglie dei capitali ha il diritto di conoscere la tipologia di persona fisica che si trova di fronte. È importante sapere che vengono forniti capitali con lungimiranza e con un portato di competenze e network che siano certificati». Insomma, «sapere chi siano i business angels non vuol dire imporre dei vincoli». Anzi, la trasparenza aiuta: «Possiamo immaginare di favorire gli investimenti attraverso delle incentivazioni a livello di tassazione. In questo modo però c'è il rischio che una marea di soggetti eroghi dei fondi solo per ragioni fiscali o peggio che si creino delle startup solo per intercettare questi vantaggi». Un albo come quello ipotizzato da Capizzi dovrebbe mettere l'ecosistema al riparo da queste “minacce”.E dare così maggiore importanza al ruolo svolto nella crescita delle start-up da parte dei business angels. Figure che, secondo l'analisi di Iban, sono imprenditori con un passato da manager, un'età compresa tra i 30 ed i 50 anni, una laurea ed un patrimonio inferiore ai 2 milioni di euro. Del quale la somma destinata agli investimenti seed rappresenta circa il 10%. Tre gli elementi che vengono maggiormente presi in considerazione prima di “staccare l'assegno”: la crescita potenziale del mercato in cui si muove la startup, le qualità del team che ne fa parte e le caratteristiche del prodotto o del servizio offerto. Oltre all'apporto finanziario, il 57% degli intervistati per l'elaborazione della survey ha affermato di essere molto coinvolto nell'azienda in cui investe, mettendo a disposizione le proprie competenze strategiche e la propria rete di contatti. Un percorso di affiancamento che dura in media tre anni e tre mesi, dopodiché si arriva all'uscita dal capitale sociale del business angel, che cede le proprie quote direttamente al team imprenditoriale oppure ad altri investitori che decidono di subentrare per accompagnare la startup lungo il suo percorso di crescita.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Se il figlio percepisce un'indennità da stagista, è a carico dei genitori?

Un figlio con un rimborso spese da stagista è fiscalmente a carico dei genitori? Tempi di dichiarazione dei redditi e il quesito appare più volte sul forum della Repubblica degli Stagisti, postato da madri alle prese con il 730. «Nel 2014 mio figlio ha svolto un tirocinio non curricolare promosso dalla regione Toscana percependo un rimborso spese mensile di 600 euro. Dovendo presentare il 730 nessuno mi ha saputo dire se è ancora fiscalmente a carico oppure no» racconta ad esempio Pierina. E ancora, chiede un'altra mamma: «Mio figlio è uno stagista con un rimborso spese di 1000 euro al mese. Nel mio cedolino ho diritto a percepire le detrazioni per figlio a carico?». Per rispondere questa testata ha interpellato la Fondazione nazionale dei commercialisti. Da cui arriva innanzi tutto una precisazione sull'inquadramento fiscale delle indennità per gli stagisti: «In linea di massima le borse di studio rappresentano redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente, ed in quanto tali sono tassate come una normale retribuzione, sebbene non lo sia». Nessuna differenza dunque rispetto a una normale busta paga dal punto di vista fiscale. La prima domanda riguarda invece la soglia di reddito sotto la quale i giovani si considerano a carico dei genitori e in generale gli altri requisiti richiesti. «Contrariamente a quanto molti credono, nel nostro ordinamento non sono richiesti particolari requisiti affinché un figlio possa essere considerato fiscalmente a carico: è sufficiente che il reddito complessivo dell’anno 2014 sia uguale o inferiore a 2.840,51 euro» spiegano. Lo è pertanto «anche un figlio che abbia raggiunto la maggiore età, che abbia terminato gli studi, che non conviva con il contribuente o che sia addirittura residente  all’estero». Nel caso della lettrice che si chiedeva se superando «i 2.840 euro annui si avesse diritto alle detrazioni per figli a carico» la risposta è dunque negativa. Non conta in tal senso il reddito complessivo familiare: «Il figlio può essere considerato fiscalmente a carico indipendentemente da quello. Rileva infatti esclusivamente il reddito complessivo del giovane» fanno sapere i commercialisti.Per le detrazioni, nello specifico, funziona così: «Si tratta di agevolazioni 'teoriche' in quanto il loro importo è in funzione del reddito del contribuente e del numero di figli a carico: vanno a crescere nel caso in cui i figli siano di età inferiore ai tre anni, per i figli con disabilità o qualora i figli a carico siano più di tre». Dunque, nel caso delle famiglie con figli a carico, per il calcolo delle detrazioni va preso in considerazione il guadagno dei genitori. «Senza entrare nel merito della specifica formula matematica prevista per il calcolo, è possibile dire che la detrazione, teoricamente pari 950 euro per ciascun figlio di età superiore o uguale a tre anni, decresce all’aumentare del reddito del contribuente, fino ad azzerarsi nel caso in cui il reddito del genitore con unico figlio a carico sia superiore a 95mila euro».Sciolto anche il dubbio se «indicare o meno il reddito del figlio nella dichiarazione dei redditi» come chiedono ancora sul forum. «Nella compilazione della dichiarazione dei redditi del genitore non dovrà essere indicato il reddito del figlio fiscalmente a carico». Anche se non è escluso che il guadagno percepito dal giovane possa avere qualche ripercussione per esempio «nel calcolo del reddito familiare ai fini dell’esenzione dal pagamento del ticket». E gli sgravi possono essere anche altri, come «nell'ipotesi delle spese d’istruzione o delle spese sanitarie», sempre che il figlio risulti ancora a carico. Viene da chiedersi infine se sia in generale più conveniente che i figli restino a casa con i genitori o se convenga dal punto di vista della tassazione che vivano autonomamente. Ma una risposta univoca non c'è. Dipende dalle regolamentazioni degli enti locali. «Con riferimento alle imposte sugli immobili, non è possibile fare considerazioni di carattere generale, in quanto la disciplina è dettata dai singoli regolamenti comunali» fanno sapere dalla fondazione: «Tuttavia in molti comuni sono previste aliquote agevolate per gli immobili concessi in uso gratuito ai familiari», come nel caso «del comodato d'uso gratuito ai figli, oppure nel caso delle detrazioni per canoni di locazione sostenute da studenti universitari fuori sede». Anche se poi, a ben guardare, andare a vivere da soli nella casa sfitta di mamma non è proprio la stessa cosa rispetto ad uscire di casa davvero, affittando una casa e pagandola con i propri soldi. Ma per riuscire a fare questo, i giovani italiani dovrebbero guadagnare dignitosamente: e la Repubblica degli Stagisti sa bene che nella maggior parte dei casi ciò non accade, e in troppi purtroppo restano intrappolati per anni tra stage con rimborsi spese bassissimi e lavori sottopagati.Ilaria Mariotti

Giovani italiani impreparati al mercato del lavoro: «Ma la colpa non è loro»

«L'esodo dei cervelli dall'Italia è un trend in progressiva crescita. Un aumento di quasi il 50% rispetto all’anno precedente si è registrato nel solo anno 2013 con la partenza di 16mila laureati, secondo dati del Rapporto Migrazioni dell’Istat». Michèle Favorite, professoressa di Economia aziendale alla John Cabot University, è molto preccupata e non lo nasconde alla Repubblica degli Stagisti. Uno spreco da «un miliardo e 984 milioni di euro trasferiti all’estero, solo nel 2013» visto che «un laureato costa in media allo Stato 124mila euro in formazione». Eppure dei rimedi ci sarebbero per arginare l'esodo, secondo questa docente italo-americana che di ragazzi italiani e mercato del lavoro si occupa per mestiere: tra le materie di sua competenza c’è per esempio come si redige un curriculum («da bandire quello europeo» è la regola numero uno).  Cosa bisognerebbe fare per porre freno all’emorragia delle nuove generazioni dal nostro paese?Da qui se ne vanno in cerca di quello che pensano di non poter avere. Sono pronti a sostenere difficoltà e spese enormi, ad allontanarsi da famiglia e amici, pur di stare meglio. Ambiscono a un lavoro flessibile sia entrata che in uscita, alle possibilità di carriera che in Italia non ci sono, perché i posti migliori sono degli anziani. Trovano un sistema non meritocratico, dove regnano raccomandazione e lungaggini burocratiche. E fuggono perché non vedono la luce alla fine del tunnel. Bisogna quindi dare loro tutto quello che cercano, tra cui la speranza di un futuro. I giovani italiani e il loro approccio al mercato del lavoro: quali sono le principali criticità?  Qui i ragazzi che escono dai percorsi universitari si trovano impreparati ad affrontare il mercato del lavoro, carenti di quelle soft skills talvolta più importanti del background teorico. Mancano spirito critico, apertura alla diversità, flessibilità, attitudine all'iniziativa. Altro dato è che per cercare lavoro non usano canali professionali, non vanno sui siti aziendali e per esempio solo uno su tre usa LinkedIn. Senza parlare di quando si presentano ai colloqui: il 25% va accompagnato da un amico, o addirittura da mamma e fidanzati. Nessuno ha mai detto loro che non si fa.Sarebbe bene ricordare sempre anche l'altra faccia della medaglia, ovvero quanto il recruitment italiano offra ben poco di qualificato ai giovani…È così, basti pensare che 80% cerca lavoro attraverso amici e conoscenze. Sono bistrattati da mercato: secondo l’Ocse il 31% dei giovani occupati svolge un lavoro di routine che non richiede l’uso di competenze specifiche. E sempre secondo le classifiche internazionali i ragazzi italiani sono ultimi in Europa rispetto a quanto l’organizzazione per la quale lavorano li motivi a dare il meglio di sé. Sono poi sottopagati e il 54% di loro ha un lavoro temporaneo contro una media Ocse del 23%. Una grossa parte di responsabilità è quindi delle aziende. È troppo facile addossare la colpa ai 'mammoni' che non vogliono lasciare casa. La scuola non li prepara al mondo del lavoro. Come si potrebbe migliorare il suo ruolo in questo senso?Scuola e lavoro sono mondi paralleli che non comunicano. Dei giovani italiani non si dice mai di quanto poco siano aiutati a trovare un impiego rispetto a quanto avviene all’estero, dove invece sono supportati moltissimo. I careers services sono centri che i ragazzi americani si trovano a portata di mano, ogni giorno, gratis, nelle scuole e nelle università, e sono servizi che funzionano dove si va in continuazione per trovare stage o lavoro. E ancora, i ragazzi italiani non sanno preparare il curriculum: ma non è colpa loro perché nessuno glielo ha mai insegnato. Negli Stati Uniti il curriculum è materia d’esame al liceo. Ed è molto difficile imparare a presentarsi a un pubblico, come quello professionale, che è diverso da quello con cui si ha avuto a che fare fino a quel momento.I curriculum, specie per i più giovani, contengono spesso solo esperienze di studio. È un dato negativo per le aziende? Dovremmo aprire il discorso di come un americano inizi a lavorare se non dalle medie già dal liceo, tutte le estati e tutta l’estate. E non parliamo di quando va al college, o del Natale. Durante tutto il percorso di studi si ammazzano di lavoro e per questo hanno curriculum pieni zeppi di esperienze. Qui invece la mentalità è diversa, è quella di godersi tre mesi di vacanza l’estate. Ma è sbagliato: tutto va bene, anche lavoretti o il volontariato vanno coltivati, purché ci si tenga impegnati e si imparino a sviluppare quelle famose soft skills…Che è ciò che ricercano soprattutto le aziende. Da noi si pensa che più si studia e più si è attraenti per il mercato ma non è vero. Anche se i giovani italiani studiano moltissimo, non si tratta di un'attività che le aziende nostrane apprezzino. Preferiscono che si studi in fretta anche se non con ottimi voti. E ciò proprio per evitare la pecca tutta italiana dei giovani che non iniziano a lavorare prima dei 25 anni, in grande ritardo sui coetanei europei: per gli anglosassoni l'età media è 20-21anni. Molte aziende preferiscono un giovane che potranno formare loro stesse. Non vogliono candidati che sappiano già tutto, ma persone con competenze di base che verranno plasmate in base ai bisogni specifici dell’azienda. Tante aziende si lamentano che i giovani non hanno soft skills perché master dopo master hanno acquisito solo competenze specifiche. E poi il grande problema del mismatch professionale: quali sono le professione più ambite e quelle più richieste e perché l’incontro tra domanda e offerta è così difficile?Mancano sviluppatori di software, addetti al marketing, infermieri, progettisti elettronici, farmacisti, educatori professionali. E poi tutto ciò che è legato al digitale: secondo uno studio Mckinsey in Italia si sono creati 700mila posti di lavoro legati al web, il 60% direttamente collegato a Internet. Eppure, nell’era digitale, i ragazzi usano ancora poco il computer, al liceo nessuno lo insegna loro. Il dato è spaventoso: il 54% dei giovani che lavora risulta non aver mai usato un computer. Le opportunità quindi ci sono, ma la domanda non è tarata sull’offerta. Se i giovani fossero aiutati a capire quali sono i settori che tirano e aiutati a presentarsi in maniera professionale il mismatch sarebbe ridotto. E poi occorre spingere all'automprenditorialità, una scelta sempre più ambita in Italia dalle nuove generazioni, tanto da posizionarci al quarto posto nelle classifiche europee. intervista di Ilaria Mariotti 

Apprendistato, la via italiana al sistema duale: tutte le novità

Specializzati, competenti, con conoscenze non solo teoriche ma soprattutto pratiche, sviluppate sul campo. In azienda. Lo chiamano sistema duale: la Germania ne ha fatto motivo di vanto di fronte al resto d’Europa dei suoi tecnici e operai, formati attraverso un sistema di apprendistato che miscela l’esperienza concreta - tre o quattro giorni in azienda - alla teoria imparata sui banchi degli istituti professionali per un paio di giorni a settimana.  Il sistema duale ha oltre un secolo di vita eppure è ancora oggi sotto un vortice di critiche, soprattutto di recente. Pare che anche in Germania formare un giovane sia sempre più costoso. E che le imprese disponibili a farlo siano sempre meno (secondo un rapporto del governo tedesco, citato dal Foglio). Ma se la disoccupazione tra i giovani in Italia è esplosa da tempo oltre il 40 per cento, a Berlino e dintorni gli under 25 senza un impiego sono appena il 7%. Anche in Austria e Svizzera - entrambi Paesi grandi circa come la nostra Regione Lombardia, con 8 milioni di abitanti - il sistema duale è ormai parte integrante del sistema scolastico e formativo. A Vienna la lista delle qualifiche possibili è di circa 240. L’apprendistato attraverso il sistema scuola-lavoro coinvolge circa il 40% degli adolescenti, con percorsi di circa 3 anni, un contratto di lavoro che include copertura sanitaria, assicurativa e pensionistica, e l’obbligo da parte delle aziende di garantire degli standard minimi di formazione pratica, affiancata a corsi scolastici professionali (Berufsschule). Le statistiche parlano di 120mila apprendisti formati in 40mila imprese, con un rapporto quindi di tre a uno. Percorso analogo in Svizzera, dove le qualifiche possibili sono oltre 300 e il sistema duale, secondo la Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l'innovazione, è l’opzione più scelta tra gli oltre 230mila giovani che scelgono una formazione professionale di base dopo la scuola dell’obbligo. Un modello da esportare, insomma, quello duale. Ma che in Italia non ha mai preso veramente piede. Nel nostro Paese rientrerebbe nell’apprendistato «per la qualifica il diploma e la specializzazione professionale», come definito nel Testo Unico per l’Apprendistato (decreto legislativo 167/2011), ovvero quella formula che unisce la formazione in azienda al conseguimento di un titolo formativo. Un’opzione che ha sempre registrato cifre irrisorie. Secondo l’ultimo rapporto Isfol, è al 2,4%, appena sopra i contratti di apprendistato per “l’alta formazione e ricerca”, che coinvolge poche centinaia di giovani in tutta Italia (appena lo 0,8% di tutti gli apprendisti). A farla da padrone, con oltre il 97% dei casi, sono i contratti per “l’apprendistato professionalizzante”. Qualcosa, ora, potrebbe cambiare. «L’apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale e quello di alta formazione e ricerca integrano organicamente, in un sistema duale, formazione e lavoro per l’occupazione dei giovani». Queste le intenzioni, contenute nel nuovo Jobs Act. Almeno sulla carta. Nella pratica, nell’ultimo anno sono nati alcuni progetti sperimentali, portati avanti dalle Regioni o da grandi aziende, per tracciare la strada di un’esperienza più concreta. Il Veneto si propone come terreno di sperimentazione con FITT - Forma il tuo futuro. Un progetto europeo, finanziato con quasi 300mila euro nell’ambito del programma Erasmus+, che vedrà impegnati la Regione Veneto insieme all’agenzia Veneto Lavoro, in stretto contatto con il ministero del Lavoro. Tra i partner, l’Istituto tedesco per la formazione professionale (BIBB) e l’Agenzia tedesca per la Cooperazione internazionale GIZ. I primi mesi saranno votati ad approfondire gli aspetti vincenti del sistema tedesco e a selezionare una proposta di alternanza scuola-lavoro da testare in alcune scuole ed enti di formazione, soprattutto nel settore turistico-alberghiero, nei prossimi anni scolastici. Due anni di tempo, per trovare una via italiana al sistema duale tedesco. Una via che coniughi in modo sistematico la formazione in azienda a quella in classe, con il conseguimento di un diploma finale. E  che sia replicabile, poi, anche a livello nazionale. «Dobbiamo chiederci il perché del sostanziale insuccesso dell’apprendistato per la qualifica», riflette Sergio Rosato, direttore generale di Veneto Lavoro. Secondo i dati dell’ente regionale, infatti, sono 19.700 i giovani che frequentano un corso di formazione professionale per la qualifica e oltre 43.700 quelli iscritti agli istituti professionali di Stato. Eppure, secondo l’ultimo rapporto regionale sull’apprendistato, nel 2013 erano poco più di un migliaio quelli coinvolti in percorsi di apprendistato per la qualifica (506) o nell’apprendistato per l’assolvimento del diritto-dovere (590, in via di esaurimento per la progressiva sostituzione della nuova tipologia di apprendistato, ndr). «L’apprendistato per la qualifica attraverso formule di alternanza scuola-lavoro è sfruttato pochissimo. Pesa la concorrenza degli stage e tirocini curriculari, legati ad una vasta offerta formativa», spiega Rosato. Come dire: per i ragazzi stessi, finora, è rimasto una strada molto poco appetibile. «Pesa moltissimo, però, anche la concorrenza dell’apprendistato professionalizzante: si fatica a trovare imprese interessate. Meglio, per loro, assumere un apprendista già diplomato, che passare per la trafila degli accordi formativi da stipulare con le scuole. La crisi, poi, ha inciso non poco: l’apprendistato è visto come un rapporto a medio-lungo termine. Difficile, per un imprenditore che fa fatica, decidere di aggiungere un apprendista ad un organico magari già in sofferenza», precisa Rosato. Non a caso, i dati italiani e veneti registrano una flessione non solo nell’apprendistato per la qualifica, ma anche nella fascia di giovani under 20 assunti con ogni forma di apprendistato. Tra il 2005 e il 2012 si sono dimezzati, passando da oltre il 60% a poco più del 30%. La dinamica si riflette anche a livello nazionale. Secondo l’ultimo rapporto Isfol, presentato proprio oggi, i giovani coinvolti in un percorso di apprendistato per la qualifica sono stati 3.405 nel 2013. E si può dire che sia un "affare" che riguarda quasi solamente il Nordest, che ha registrato in tutto 3115 casi, cioè oltre il 91%. Totalmente assente nel Centro e nel Sud Italia questa tipologia di avviamento al lavoro. Il rapporto Isfol riporta un declino del 3,9% dell’apprendistato in generale, con una media di quasi 425mila apprendisti attivi in Italia nel 2013, rispetto agli oltre 461mila dell’anno precedente (elaborati da Veneto Lavoro su dati Inps). «In Italia dobbiamo lavorare sull’applicazione del sistema duale alle pmi. In Germania il modello funziona in realtà imprenditoriali di dimensioni consistenti», precisa Rosato. «Non a caso uno dei pochi progetti sperimentali già attivi in Italia è stato lanciato da una realtà come la Ducati». Il colosso motoristico di Borgo Panigale, infatti, ha avviato con questo anno scolastico il progetto Desi, in accordo con la Regione Emilia-Romagna: cinque mesi nei centri training di Ducati e Lamborghini, ad assorbire i segreti della meccanica di livello, seguiti da tre mesi sui banchi degli istituti professionali Aldini Valeriani e Belluzzi Fioravanti di Bologna, ad affinare le competenze teoriche, per poi tornare in officina. In totale, un percorso di due anni, coperti da una borsa di studio di 600 euro mensili netti, che coinvolge 48 giovani inoccupati, ma già in possesso di almeno una qualifica triennale. Non è un contratto di apprendistato vero e proprio e nemmeno uno stage. Tecnicamente lo definiscono un percorso di istruzione di secondo livello per adulti.  Gli studenti alternano periodi di apprendimento scolastico a periodi di training on the job, non in linea produttiva, ma in attività di laboratorio o su prototipi, presso i training center di Ducati Motor Holding e Automobili Lamborghini, con una copertura Inail garantita dall’assicurazione scolastica. Di sicuro, una delle esperienze che più si avvicina, nel concreto, al sistema duale tedesco. Sulla stessa lunghezza d’onda, il programma sperimentale messo a punto da un altro gigante dell’industria italiana, Enel, con i ministeri dell’Istruzione e del Lavoro, insieme a sette Regioni (Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto) e alle organizzazioni sindacali: 145 studenti al quarto e quinto anno di sette istituti, questa volta tecnici e non professionali, coinvolti in un progetto di alternanza scuola-lavoro potenziato. A differenza della modalità "normale", che prevede l'inquadramento in stage, i ragazzi qui sono assunti con un contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca. Da quest’anno, passeranno nelle sedi del gruppo Enel almeno un giorno a settimana e continueranno il lavoro nel periodo estivo. Ad accompagnarli, un tutor scolastico ed uno aziendale, con i contenuti formativi decisi a quattro mani tra insegnanti e formatori Enel. Dopo il diploma, la possibilità di continuare l’apprendistato per un altro anno. «L’apprendistato scuola-azienda è una novità assoluta per il sistema italiano in cui crediamo molto e che sarà valorizzata anche nell’ambito dell’Esame di Stato», aveva detto il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini commentando l’iniziativa. Alle potenzialità del sistema duale crede anche la Regione Lombardia, al lavoro su un disegno di legge, ora in discussione al Consiglio regionale, per rafforzare i percorsi di formazione professionale basati sull’alternanza tra aula e impresa, anche grazie all’annuncio di un bonus occupazionale dal governo pari a 2500 euro per le aziende che prenderanno studenti con il sistema dell’apprendistato. Tutti segni di un cambiamento che sta prendendo piede. Nella classificazione normativa precedente, l’apprendistato per la qualifica era definito «apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione». Uno strumento destinato a chi sui banchi proprio non ci voleva stare. Potrebbe trasformarsi in strumento per sviluppare e tramandare un know-how ad alta specializzazione, capace di rappresentare il valore aggiunto di un Paese competitivo sul mercato globale. Germania, Austria e Svizzera docent. Maura Bertanzon@maura07  Crediti: Copertina: Ambra Galassi (Flickr)In altro a destra: Ottawa Technical School - Biblio Archives (Flickr)In centro a sinistra: Olle Svensson (Flickr)In basso a destra: Nicoletta Antonini (Flickr)