Quando decidono di andarsene dall'Italia di solito hanno intorno ai 30 anni. Guardano l'Europa, talvolta anche gli Stati Uniti. Trovano il lavoro per il quale hanno studiato, ottenendo migliori stipendi. Si rifanno una vita. E pazienza se dietro si lasciano lasciato famiglia e amicizie: a tornare sui propri passi, tra gli expat, ci pensa solo uno su dieci. Li ritrae così l'ultimo Rapporto sugli italiani nel mondo pubblicato di recente dalla Fondazione Migrantes, rilevando come gli italiani iscritti all'Aire - l'anagrafe degli italiani all'estero - sono ormai più di 4,6 milioni, in crescita di quasi il 50% dal 2006 a oggi. Se ne vanno sempre di più i Millenials – ovvero chi ha compiuto 18 anni dopo il 2000 – mentre continua a crescere il numero dei Neet, gli inattivi tra i 15 e i 29 anni: l'Italia è l'unico paese che li ha visti aumentare negli ultimi anni.
«Più che in altri paesi, in Italia un ragazzo che finisce gli studi si trova davanti al dilemma tra rimanere in Italia, con il rischio di diventare un Neet, o decidere di emigrare per realizzare pienamente i propri progetti di vita e professionali» spiega alla Repubblica degli Stagisti Alessandro Rosina, docente di Demografia all'Università Cattolica e presidente dell'associazione Italents, che proprio a questo ha dedicato il suo ultimo libro, Neet - Giovani che non studiano e non lavorano, appena pubblicato dalla casa editrice Vita e pensiero. Insomma, dice Rosina, invece di valorizzare quei pochi giovani che compongono ancora la nostra popolazione - «L’Italia, come conseguenza di decenni di denatalità, ha meno giovani rispetto agli altri paesi» - riusciamo perfino «a inserirli di meno nei processi di cambiamento e di crescita del paese. La conseguenza è che aumentano sia i Neet, ovvero i giovani che dopo gli studi non trovano un lavoro, sia gli expat, ovvero i membri delle nuove generazioni che cercano migliori opportunità all’estero».
E Garanzia giovani, che come obiettivo principale avrebbe proprio quello di ridurne il numero? «Anche la realizzazione di questo obiettivo va a rilento» commenta Rosina: «su un totale di due milioni e 400mila Neet solo un terzo si è iscritto al portale. Molti meno sono quelli davvero attivati». Il problema principale, tra l'altro, è che a rimanere fuori è «soprattutto la parte più problematica, ovvero quelli con basso capitale umano e sociale, da più lungo tempo in tale condizione, più demotivati, con più alto rischio di diventare un costo sociale permanente». Tutti gli altri «soprattutto con titolo medio-alto, sono invece spesso insoddisfatti del tipo di offerta e magari dopo essersi iscritti decidono di andarsene autonomamente all’estero».
Quella odierna è però un tipo di emigrazione del tutto diversa da quelle dello scorso secolo. «Le valige degli expat non sono più di cartone» si legge nel rapporto, «ma soprattutto il capitale culturale di chi lascia l’Italia è molto elevato. Sono giovani istruiti, che hanno voglia di mettere a frutto concretamente le conoscenze apprese e che cercano una opportunità concreta e a breve termine per poterlo fare». E se decidono di mollare tutto non è tanto perché in Italia non riescano a trovare un lavoro purché sia. Ma perché quello in cui si imbattono non è all'altezza delle proprie aspettative. Ed è allora che la prospettiva dell'estero fa da richiamo.
Non a caso, come emerge dal rapporto, tra i principali emigranti dello scorso anno si registrano proprio i lombardi (19%), i residenti della più ricca regione italiana. Fenomeno che si spiega perché «la molla non è il livello di occasioni di lavoro del proprio territorio di nascita in sé, ma il divario tra esse, da un lato, e la formazione del proprio capitale umano e le proprie ambizioni, dall’altro» ragiona Rosina.
Secondo Paolo Balduzzi, docente della Cattolica e autore insieme ad Alessandro Toppeta di un recente articolo intitolato Le ragioni della nuova migrazione degli Italiani apparso sulla rivista Neodemos, si sommano ragioni di carattere sicuramente economico («il livello dei salari, le possibilità di lavoro, la competitività in senso lato del Paese») al pari di altre di tipo sociale («la mancanza percepita di meritocrazia in Italia»). Il risultato «è un mix esplosivo: per questo i giovani che decidono di emigrare sono sempre di più e sempre più qualificati».
A lasciare l'Italia non sono più dunque le persone in gravi difficoltà economiche del secolo scorso, ma i laureati che all'estero trovano più spendibile il proprio titolo di studio (lo considera efficace per la propria area di lavoro il 59% degli espatriati, contro il 54 di chi resta), e che in un altro paese quasi sempre trovano un'occupazione - la quota è superiore all'80% - e migliori prospettive di guadagno e di carriera, come dichiarano nelle interviste. C'è infatti tutta la fetta dei dottori di ricerca a infoltire le fila degli expat. Il motivo è presto spiegato: «A un anno dal dottorato 52 dottori su 100 risultano occupati all’estero come ricercatori o docenti universitario, senza particolari differenze per macroarea, contro i 21 dottori su 100 osservati in Italia» chiarisce lo studio.
Far tornare di nuovo in patria chi ormai si è stabilito all'estero e lì ha trovato una propria dimensione è dunque una mission sempre più impossibile. L'unica maniera per arginare l'enorme spreco di risorse prodotto dalla fuga dei migliori talenti potrebbe essere, per Rosina, quella di lavorare per rendere l'Italia allettante per chi è fuori: «favorire la circolazione, mettere in atto un piano credibile di valorizzazione del capitale umano in Italia, ovvero attrarre talenti». E non certo «continuando a investire poco in ricerca, sviluppo e innovazione».
I giovani in Italia sono pochi e pagano «oggi in termini di bassa quantità e qualità della spesa in istruzione, domani in termini di un sistema pensionistico più equo ma meno generoso del passato» ricorda Balduzzi. A maggior ragione, per compensare lo svantaggio, andrebbero premiati, invece che sminuiti: insomma, che almeno questi giovani vengano ricompensati «con opportunità di lavoro che valorizzino e non umilino le loro capacità».
Ilaria Mariotti
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