Categoria: Approfondimenti

130 stage da 1000 euro al mese al ministero della Cultura, esce il nuovo bando: «Ma il problema è a monte» secondo gli archeologi

Con la cultura si mangia? Non è detto, ma il sapere potrebbe aiutare a conquistare uno stage ben rimborsato. Quest'anno il Mibact rilancia «1000 giovani per la cultura», prendendo atto delle proteste - seguite con attenzione qui sulle pagine della Repubblica degli Stagisti - che si erano scatenate nel 2013 dopo l'uscita del primo bando, che aveva promosso 500 tirocini nelle strutture collegate al Ministero dei Beni culturali proponendo però condizioni discutibili, a cominciare dall'ammontare bassissimo (poi aumentato) del rimborso spese. I nuovi «giovani per la cultura» saranno 130 e riceveranno - come già nell'edizione 2014 che aveva coinvolto 150 laureati - un compenso di mille euro lordi al mese.A confermare l'ammontare dell'emolumento per i tirocini 2015 è stato lo stesso ministro della Cultura, Dario Franceschini, già prima dell'estate: «L’obiettivo è quello di individuare i percorsi di studio più brillanti, laurea a pieni voti e corsi di perfezionamento, attribuendo un titolo preferenziale al dottorato di ricerca. Per questa ragione, secondo quanto già previsto nel 2014, l’indennità per i tirocinanti è stata parametrata all’importo delle borse di dottorato nelle università italiane». La Repubblica degli Stagisti ha dunque contattato in questi giorni il Mibact per commentare le novità di «Mille giovani per la cultura», indirizzandosi sia all'ufficio stampa sia direttamente al dirigente responsabile, Gregorio Angelini, in forza presso la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campania. Avremmo voluto raccogliere la voce e il commento del ministero per fare un bilancio delle precedenti edizioni, raccogliere delucidazioni relativamente ai pagamenti dei compensi arrivati in ritardo ad alcuni degli stagisti dell'anno scorso. Avremmo voluto sapere qual è il budget complessivo a disposizione per questi bandi, e da quale fonte arriva il finanziamento. Avremmo voluto che il ministero ci spiegasse la ratio secondo la quale ha deciso di escludere, attraverso il bando, i laureati in antropologia e in storia. E avremmo voluto chiedere perché, nel comparto dei Beni culturali che gestisce un patrimonio artistico importante come quello italiano, e che evidentemente soffre da anni di carenze di personale, non si procede all'assunzione di profili giovani e qualificati anziché ricorrere, anno dopo anno, ai tirocini. Abbiamo telefonato molte volte al ministero, inviato email, anticipando addirittura per iscritto le domande. Dopo oltre una settimana, e dopo esserci sentiti assicurare varie volte che le risposte ci sarebbero arrivate a breve, dobbiamo purtroppo prendere atto che il ministero per ora non ha voluto dire la sua.Per quanto riguarda comunque i documenti "ufficiali", lo scorso 21 agosto è stato pubblicato in Gazzetta il decreto del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo (elaborato insieme ai dicasteri del Lavoro e della Pubblica amministrazione) che riguarda l'istituzione di 130 tirocini formativi, utilizzati per la realizzazione di progetti finalizzati a sostenere attività di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale attraverso il «Fondo mille giovani per la cultura» nelle strutture della Soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia (30 giovani - bando n. 1); dei Poli museali regionali presenti sul territorio nazionale e presso la Direzione generale Musei (rispettivamente 45 e 5 giovani - bando n. 2); dell'Archivio centrale dello Stato, l'Istituto centrale per gli Archivi, le soprintendenze archivistiche e gli archivi di Stato e le Biblioteche nazionali di Roma e Firenze e le biblioteche statali (rispettivamente 30 e 20 giovani - bando n. 3).Le domande di partecipazione dovranno pervenire entro 30 giorni dalla pubblicazione dei bandi; i candidati potranno indicare un ordine di preferenza tra un massimo di tre sedi indicate nell'offerta formativa. Il bando 1, relativo ai progetti formativi su Pompei, Ercolano e Stabia, sarà disponibile sul sito del Mibact entro 30 giorni dalla data di pubblicazione in Gazzetta ufficiale, gli altri 2 entro 45 giorni. Tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre si dovrebbero dunque avere tutte le informazioni sui posti in palio, le modalità di partecipazione e lo svolgimento delle prove. Ma dalle anticipazioni a disposizione è già certo che i tirocini avranno durata semestrale, saranno riservati a ragazzi che hanno fino a 29 anni, da selezionare per titoli e colloquio.«Sicuramente il Mibact ha preso atto di quanto fossero inaccettabili le condizioni del primo bando: nel 2013, per tirocini annuali, il compenso ammontava a poco più di 400 euro al mese»: a commentare l'iniziativa è Salvo Barrano, presidente dell'Associazione Nazionale Archeologi, nata a tutela delle professioni legate al mantenimento e alla valorizzazione del patrimonio artistico, con una pagina Facebook che supera i 14mila iscritti: «Per giunta, inizialmente potevano partecipare "giovani" fino a 35 anni. Su questo già l'anno scorso il ministro Franceschini sembrava aver recepito le nostre indicazioni. Ma il problema è a monte e riguarda tutti e tre le edizioni. Per questo siamo arrivati a  impugnare il bando di fronte al Tar».Secondo il presidente dell'Ana quelli proposti dal Mibact sarebbero infatti tirocini "mascherati": «Non si tratta di esperienze formative perchè si cercano giovani già altamente qualificati, con dottorati, scuole di specializzazione o diverse esperienze di stage. E per giunta quesi giovani non hanno alcuna speranza di essere assunti dopo. Ma così, non viene forse meno la finalità stessa del tirocinio ricompensato? E poi, con le urgenze che si dovranno fronteggiare nei principali poli museali e negli archivi italiani, come si avrà tempo di formare i ragazzi?». Il giudizio di Barrano è severo: «Queste iniziative non funzionano né come politiche del lavoro né come esperienze formative. Si calcola che ci siano circa 30mila professionisti del nostro settore, non solo giovani, senza lavoro. E proporre nuovi tirocini farà aumentare questo numero, senza permettere agli altri di essere assunti. Perché per i principali musei e archivi d'Italia non si sono offerti incarichi professionali aperti anche ad aziende private del settore, che potrebbero realmente offrire prospettive future?»Fra manifestazioni, ricorsi e correzioni del ministero, l'iter del bando uscito nel 2013 fu particolarmente lungo: «500 giovani giovani per la cultura», sotto la guida del ministro Bray, venne riscritto, abbassando il voto di laurea richiesto (da 110 a 105) e l'età per la partecipazione (da 35 a 29 anni), modificando il monte ore e l'ammontare dell'indennità. La conseguenza è che le selezioni vennero bloccate più volte. «Ho passato la prima fase, ma tra esiti e ritardi ho aspettato più di un anno per il risultato» racconta per esempio alla Repubblica degli Stagisti Chiara, laureata marchigiana in Scienze del turismo: «A  noi hanno chiesto persino il conteggio delle ore degli stage passati controfirmati dai tutor, ma quando si è trattato di comunicare cambi di regolamento e slittamenti non si sono degnati neanche di spedirci una mail: bisognava controllare periodicamente un link e sperare che uscisse qualcosa. In due anni però può capitare di tutto». Il risultato è che i primi 500 stagisti, per cui era previsto un anno di tirocinio, si sono "sovrapposti" per un certo periodo ai 150 colleghi selezionati l'anno successivo. Andrea Morricone, 27enne abruzzese, è uno di quelli del 2014 e si dichiara soddisfatto del suo tirocinio: «Ho studiato Tecnologia e conservazione dei beni culturali alla Sapienza di Roma. Mi sono laureato il 25 settembre e la domanda per il bando è uscita più o meno il quel periodo. L'ho fatta a cuor leggero, pensando di non avere molte speranze. Pur essendomi laureato  con un ottimo punteggio e avendo fatto un Erasmus a Valencia, infatti, non avevo molte esperienze di stage alle spalle. Invece ho passato le selezioni per titolo col punteggio minimo, ma all'orale sono andato davvero bene, tanto che sono risultato vincitore per la Sopritendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia».A differenza del primo bando, l'edizione 2014 si è svolta regolarmente e secondo i tempi prestabiliti.  «A ottobre ci hanno convocato per gli iscritti e a dicembre avevano già comunicato i vincitori. Abbiamo iniziato il 9 febbraio e terminato pochi giorni fa, il 9 agosto» racconta Andrea: «Io in particolare mi sono occupato della catalogazione e informatizzazione dei reperti archeologici del sito di Pompei, lavorando molto in laboratorio. È stata un'esperienza davvero formativa, tanto che spero di poter partecipare anche al nuovo bando. I tutor sono stati molto gentili con noi: c'incoraggiavano e ci hanno detto di sperare loro stessi in un prossimo ricambio generazionale». Certo che sarà difficile realizzarlo solo attraverso tirocini semestrali.Ma qualcosa in realtà è andato storto anche nel 2014: in particolare le tempistiche di erogazione delle indennità.  In effetti a fine maggio, quando Franceschini aveva annunciato anche dal suo account su Facebook l'uscita del nuovo bando entro il 2015, alcuni stagisti avevano commentato la notizia denunciando di non aver ricevuto ancora un euro. Fra i commenti, particolarmente tagliente quello di Alessandra Montanaro: «Io faccio parte del tirocinio dei 150, stiamo lavorando da febbraio e non abbiamo ancora visto uno stipendio, mentre paghiamo affitto e tutto il resto. Dovete solo vergognarvi». In effetti anche Andrea Morricone racconta di aver ricevuto tre mensilità insieme, all'inizio di giugno - cioè a quattro mesi dall'avvio dello stage. Ora, secondo le informazioni raccolte dalla Repubblica degli Stagisti, la maggior parte dei 150 stagisti del 2014 attende ancora solamente l'ultima mensilità. Anche su questo punto, come detto, avevamo chiesto un riscontro al Mibact, senza però ricevere risposta.Tornando al nuovo bando, e scorrendo la lista dei titoli validi per le selezioni, si notano alcune novità rispetto alle precedenti edizioni. In Gazzetta viene già anticipato che fra i requisiti di ammissione vi sarà il diploma di laurea specialistica o magistrale, ottenuto con votazione di almeno 105/110 in una delle seguenti discipline: Archeologia, Architettura, Archivistica e biblioteconomia; Beni culturali, Economia, Economia e gestione dei beni culturali, Geologia, Giurisprudenza, Ingegneria, Ingegneria ambientale, Ingegneria civile, Ingegneria informatica, Scienza e tecnologia per i beni culturali, Scienze forestali e ambientali, Storia dell’arte, Tecnologia per la conservazione e il restauro dei beni culturali. Potranno fare domanda anche i laureati in altre discipline se in possesso di diploma delle scuole di alta formazione e di studio che operano presso l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, l’Opificio delle pietre dure, l’Istituto centrale per la patologia del libro, la Scuola di specializzazione beni archivistici e librari, o le Scuole di archivistica del Mibact presso gli archivi di Stato. Quest'anno restano dunque fuori i laureati in Scienze del turismo e, come già nel 2014, i laureati in Lettere, Antropologia e soprattutto Storia. «Mi sembra giusto che questi bandi siano aperti a ingegneri e geologi, tutti capiamo quanto il loro lavoro sia fondamentale a Pompei» riflette Salvo Barrano: «Spero che i laureati in Scienze del turismo siano stati esclusi perché avranno altre specifiche opportunità, ma trovo inconcepibile l'esclusione dei dottori in Storia, che potrebbero dare una grande contributo negli archivi di Stato». Dando una apertura di credito al ministro dei Beni culturali, che contiene però anche un appello: «Apprezziamo che, rispetto ai suoi predecessori, Franceschini abbia messo al centro la questione dei finanziamenti per il suo dicastero. Ma ci aspettiamo politiche innovative e una nuova gestione dei beni culturali che parta proprio dagli operatori che devono tutelarli».Silvia Colangeli

Garanzia giovani: «L'errore è credere che possa cambiare tutto in poco tempo»

Di Garanzia Giovani in Italia si parla ormai da mesi, spesso e volentieri per evidenziarne le mancanze e i punti critici. Ma probabilmente le motivazioni sono da ricercare in fattori preesistenti – come il già alto tasso di disoccupazione giovanile presente pre piano in Italia – e nell’aver esportato un metodo che ha le sue lacune anche nei Paesi in cui è stato creato. Sono gli argomenti che evidenzia Francesco Pastore, 49 anni, professore aggregato di Economia politica alla Seconda università di Napoli e Research fellow dell’Institute for the study of labour di Bonn, in Germania, nel lavoro di ricerca «The European Youth Guarantee: labor market context, conditions and opportunities in Italy». «Per ora mi sembra che il piano stia andando molto male: è una politica importante in cui ho creduto ma i numeri non sono positivi. Riguarda meno dell’1% dei giovani italiani. Certo un numero maggiore è stato preso in carico, ma solo formalmente», spiega il professore alla Repubblica degli Stagisti. L’idea di principio era anche giusta, su questo non ha dubbi, ma non sono stati presi in considerazione tutti i parametri. «Dopo anni e anni che abbiamo provato a importare la flessibilità dai paesi anglosassoni, abbiamo capito che non si riesce a farlo perché fa parte di un sistema, e se fai solo le riforme a margine che coinvolgono i giovani non è detto che siano efficaci. Si diceva poi che non è facile applicare il sistema duale tedesco» continua Pastore «anche se è quello che ora sta provando Renzi, visto che l’alternanza scuola lavoro che c’è nella Buona scuola non è altro che una sua applicazione parziale. E allora si è provato con il modello scandinavo che ha un sistema di istruzione sequenziale come il nostro». Sono, infatti, gli scandinavi ad aver "inventato" la Garanzia, ovvero a garantire entro i quattro mesi dall’uscita di un percorso di istruzione l’offerta di un lavoro o esperienza di formazione professionale. Perché questo sistema, però, in Italia non riesce a decollare? «In realtà non funziona tanto bene nemmeno nei paesi scandinavi» osserva il professore. «Il punto chiave che secondo me è sfuggito a molti è che in questi paesi la disoccupazione giovanile continua ad essere alle stelle. Ed è così perché se non c’è la crescita il sistema non ce la fa a creare occasioni di lavoro ma crea solo, se ci riesce, la formazione professionale». Come alle stelle? I Paesi scandinavi non vengono sempre presi a esempio per il buon funzionamento del loro mercato del lavoro? Pastore è convinto che le cose non stiano proprio così, e cita il forum "Social Europe" e alcuni dati da lui elaborati da cui effettivamente Svezia e Finlandia risultano avere dei tassi di disoccupazione alti, mentre i Paesi che fanno meglio della media sono quelli dell'Europa centrale, Germania e Austria, e quelli anglosassoni.Insomma, in Italia la Garanzia non funziona perché non c’è crescita. La differenza con i Paesi scandinavi è che lì almeno se le imprese non possono assumerti sono i centri per l’impiego a prenderti per offrirti la formazione. «Però in Italia sappiamo in che stato sono i cpi. La bella novità è che il governo vuole mettere mano e riformarli. Perché finché non ci sarà crescita l’unica cosa che possiamo fare è far funzionare i centri per l’impiego». Partendo anche dall’idea che non può esserci una qualsiasi persona al loro interno. «Due anni fa mi invitarono in Germania in una città di cui non conoscevo l’esistenza e dove esisteva un’università per chi deve lavorare nei centri per l’impiego. Lì c’è una specializzazione più alta, perché non posso mettere chiunque all’interno di questi uffici, è un lavoro serio».Pastore è convinto però che generalizzare sia sbagliato e che nonostante tutto esistano lo stesso degli ottimi casi funzionanti. Il vero problema è «un quadro istituzionale confuso e confusionario. Quando si è cambiato il titolo V della costituzione si è messa la scuola in mano allo Stato, la formazione professionale sotto la competenza delle regioni e i centri per l’impiego sotto il controllo delle province. Invece di far dialogare quelle che dovrebbero essere parti di un solo sistema si è deciso di dividerli. E la conseguenza è stata la balcanizzazione del sistema: alcune regioni stanno malissimo mentre altre con una capacità amministrativa maggiore stanno meglio». In questo senso la creazione dell’Anpal, un’agenzia nazionale che dovrebbe coordinare i cpi ed evitare le differenze tra le regioni, pensata recentemente dal governo, è vista in modo positivo dal professor Pastore. Anche se alcune competenze dell’ente sono poco chiare. «Per ora stiamo andando sulla buona strada. Resta da chiedersi perché le regioni virtuose debbano essere bloccate. Quelle del sud devono solo ringraziare che è stata creata l’Anpal, ma per chi invece è riuscito a creare da solo, che deve fare: rinunciarci? Penso ad esempio alla Lombardia e all’esperienza della dote unica lavoro. Mi sembra un’esperienza interessante, la introdurrei a livello nazionale. L’unico modo per riattivare i centri per l’impiego è, infatti, dargli la possibilità di guadagnare dall’offrire dei servizi. Solo così si riesce a incentivarli».L’idea in sostanza è metterli in competizione. «Si dà un voucher formativo a un giovane iscritto alla Garanzia e gli si dà la possibilità di spenderlo dai soggetti accreditati, pubblici, privati o no profit. A quel punto anche il pubblico sarà spinto a offrire qualcosa perché se per il giovane il voucher è solo un foglio di carta, per l’ente sono soldi. Si darebbe un interesse anche all’ufficio pubblico a muoversi». In sostanza in questo modo si stimolerebbero tutti, imprese e aziende pubbliche, a offrire qualcosa di concreto. «Oggi se faccio l’orientamento, un corso di formazione o non faccio nulla, ha poca importanza perché la Regione mi darà i soldi in base a quello che ha deciso di fare». Nell’attesa che si decida cosa fare per migliorare l’applicazione della Garanzia, il dato certo, al momento, è il crollo di iscrizione dei giovani al programma, dovuto secondo il professor Pastore a un insieme di fattori, ma principalmente all’entusiasmo «inizialmente alto poi, viste le notizie raccontate da amici e conoscenti e quelle che riportavano i giornali, è crollato. Il problema ora sarà convincere di nuovo i giovani a re-iscriversi. E il Governo dovrà spendere qualche euro per fare una campagna di stampa di diffusione di informazioni positive». Su una cosa però il professor Pastore è positivo: dopo anni si è iniziato a provare a fare qualcosa su questo tema nel nostro Paese. Certo, «nessun sistema esterno all’Italia è facile da copiare. Non lo è il modello anglofono, quello tedesco o quello scandinavo. Ma non abbiamo fretta. In Italia abbiamo questa idea che se una legge non funziona allora la togliamo. Spesso, però, le cose non cambiano in un giorno, ma in dieci o trenta anni. Non ci aspettiamo, quindi, che la Garanzia giovani cambi qualcosa domani, ma che lo faccia nei prossimi anni». Marianna Lepore

Un universo molteplice per nulla compreso dalla politica: i neet di Giovani Senza

La parola neet è diventata centrale negli ultimi tempi nel dibattito politico, mediatico e pubblico. Spesso e volentieri accentuando, in Italia, l’uso di questo acronimo (che sta per not in employment, nor in education or training) per generalizzare una categoria che in realtà è molto diversificata e dargli prevalentemente un’interpretazione che sta per "giovani sfiduciati con poca voglia di lavorare e studiare". Partendo proprio da questa constatazione Erica Antonini, ricercatore in sociologia generale e professore aggregato alla Sapienza di Roma, ha cercato di andare in profondità e raccogliere dati e interviste. Nasce così Giovani senza, sottotitolo «L’universo neet tra fine del lavoro e crisi della formazione» (Mimesis edizioni). «Mi sembrava prevalesse la tendenza a rappresentare una sola categoria, più che un universo all’interno del quale ci sono tanti profili diversificati», spiega alla Repubblica degli Stagisti la Antonini: «Ma quella rappresentazione si riferisce al fatto che sembra prevalere una dimensione di volontarietà, quindi di giovani con scarso spirito di sacrificio, quando invece andando in profondità si scoprono diversi profili. Certo c’è anche una componente volontaristica ma non è assolutamente maggioritaria».Ed è evidente che identificando i neet nei soggetti tra i 15 e i 29 anni si mettano insieme persone con situazioni totalmente differenti. È proprio contro questa rappresentazione semplificante che parte la ricerca del libro Giovani senza. «Fare molto riferimento alla dimensione della volontarietà» spiega l’autrice «nasconde qualche ombra su alcuni nodi strutturali e culturali che riguardano il nostro contesto e richiederebbero una maggiore attenzione. Senza enfatizzare, invece, una lettura del fenomeno solo in termini di responsabilità individuali». Perché altrimenti si finisce, come dice anche il sociologo Franco Ferrarotti, con lo «psicologizzare dei fatti sociali» e rendere le vittime responsabili della loro condizione. Invece, secondo la ricercatrice, per molti di questi giovani c’è più un’assenza di opportunità che non una mancanza di volontà o di spirito di sacrificio. «Anzi, molti sono sottopagati e disposti a lavorare prendendo in considerazione anche proposte non corrispondenti alle proprie competenze». Per analizzare il fenomeno dei neet Erica Antonini è partita da una ricerca condotta nel 2012 da Eurofound, una fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e da studi e rielaborazioni di dati condotte da ItaliaLavoro. Fonti che alla fine convergono in una certa caratterizzazione. «Ci sono i giovani in cerca di occupazione, poi c’è il sottogruppo più ampio che è quello dei disoccupati, divisi in quelli di breve e lungo periodo. C’è poi il gruppo degli indisponibili, quindi quelli che per ragioni prevalentemente familiari non intendono cercare lavoro anche se è difficile stabilire se questa indisponibilità sia una scelta o una necessità visto che sono in prevalenza donne, spesso sposate e madri, quindi con responsabilità di cura. Infine ci sono effettivamente i disimpegnati, quelli che non hanno interesse a cercare lavoro e non sono impegnati in percorsi di formazione sia perché scoraggiati sia perché disinteressati».  Andando a sommare le percentuali delle varie categorie si scopre che tra i neet quelli in cerca di occupazione o di opportunità sono il 60% del totale. «Quindi i veri e propri disimpegnati sono una quota assolutamente minoritaria». Ma una parte di questi potrebbe essersi creata negli ultimi anni anche grazie alla riforma universitaria del cosiddetto 3+2. Nel testo c’è una valutazione negativa sull’impatto di questa legge che nel mondo accademico è ancora oggetto di dibattito. «Effettivamente la riforma ha prodotto un gran numero di laureati che eccedono la domanda di lavoro. E la grande varietà dei profili delle lauree magistrali non sembra essere stata apprezzata nemmeno da chi offre il lavoro stesso». La Antonini condivide l’idea che la laurea triennale per come è strutturata oggi non sia sufficiente per accedere al mondo del lavoro, ma il vero nodo critico fondamentale per l’Italia lo ritrova nello «scarso rendimento dell’investimento per la formazione rispetto ad altri Paesi. Il nostro tessuto produttivo, forse perché ancora fondato sulla piccola e media impresa, preferisce assumere il diplomato e poi fare la formazione specifica sul campo che non il laureato triennale che non ha competenze specifiche». C’è ancora una fortissima distanza tra mondo del lavoro e della formazione, specie nel nostro Paese: «Sta diventando meno conveniente continuare lo studio o investire nella formazione» rimarca la Antonini con la Repubblica degli Stagisti «perché rispetto ad altre realtà, come gli Stati Uniti o i Paesi Scandinavi, da noi c’è una probabilità quasi pressoché identica nel trovare lavoro tra laureati e diplomati, almeno in alcuni ambiti disciplinari». Cosa che invece non si verifica all’estero, dove, prendendo ad esempio la Germania, un laureato ha una probabilità almeno quattro volte superiore di trovare un impiego rispetto a un diplomato. Nel libro l’autrice scrive che «l’istruzione superiore non fornisce più uno scudo di difesa», perché nonostante il fatto di continuare gli studi sia sempre un valore aggiunto, è anche vero che «questo investimento sia sempre meno conveniente. Anche se certo, un laureato o specializzato riesce comunque a tenere insieme meglio le varie esperienze lavorative, a districarsi e orientarsi meglio sui vari percorsi, meno lineari del passato». E andrebbe valorizzata di più anche la formazione professionale e l’apprendistato. «Da noi c’è molta separazione tra momento formativo e lavorativo: prima si studia e poi si lavora. Mentre ci dovrebbero essere riforme di maggior raccordo tra le due realtà».Inoltre dovrebbero essere aumentati gli investimenti diretti proprio ai giovani. Nel libro si mette infatti in evidenza come la quota di pil riservata dall’Italia alla spesa sociale non sia molto al di sotto della media europea. Il problema è nella distribuzione di questa spesa: se nel resto d’Europa solo il 39% è destinata ai trattamenti pensionistici, da noi sale al 50%, riducendo inevitabilmente la cifra diretta ai giovani. «È proprio la ripartizione interna di questa spesa che ancora una volta sembra privilegiare chi è già all’interno del mondo del lavoro rispetto a chi adesso si affaccia, contribuendo al disorientamento e alla sfiducia giovanile». L’auspicio della Antonini è che queste politiche prima o poi escano dalla logica occasionale ed episodica e siano invece impostate in maniera più continuativa, come sembra stia andando la garanzia giovani. Certo il programma europeo, come fanno notare Massimiliano Mascherini, ricercatore Eurofound, e Giuseppe Sverzellati, presidente di ReteLavoro, entrambi intervistati dall’autrice nel suo libro, difficilmente riuscirà ad assorbire i circa due milioni di neet presenti oggi in Italia. Ma in questo senso la professoressa non è negativa, «Anche se non sono sufficienti per il momento questi tentativi vanno comunque valorizzati. Certo la logica deve essere in prospettiva continuativa, non deve essere solo un’iniziativa simbolica».  Quello che è certo ed è ben messo in evidenza nel volume, è che i fattori che hanno inciso sulla crescita dei neet nel nostro Paese sono tanti, non sono esplosi necessariamente negli ultimi tempi e hanno bisogno di tempi piuttosto lunghi per vedere una soluzione. «La ripartizione della spesa pubblica in una certa direzione è uno dei motivi, come anche la netta demarcazione tra protetti e non protetti» spiega Antonini. «Il fenomeno neet non è una novità, ma l’esito di una serie di processi che sono andati ad aggravarsi a causa di carenze di politiche risolutive. Così complice l’ultima crisi, che è quindi un fattore concomitante, in Italia c’è circa il 24% di giovani in questa situazione, molto distante dalla media europea, poco sotto il 16». Per cercare di invertire la tendenza bisognerebbe puntare su una riforma della formazione, sul recupero dell’abbandono scolastico e incentivare le politiche attive per il lavoro puntando su orientamento e intermediazione. E c’è poi la flessibilità «con cui dobbiamo fare i conti e che non significa necessariamente deregolamentazione selvaggia». Ma quello che è più importante è non ricorrere al classico stereotipo del giovane italiano con poca voglia di studiare e lavorare che si adagia su una famiglia troppo protettiva, perché «la famiglia fa solo da ammortizzatore sociale rispetto alle carenze del welfare italiano». Servirebbero quindi più sostegni e ausili verso i giovani che dipendono, come ancora una volta Erica Antonini ripete, solo da scelte di tipo politico. Che al momento tardano ad arrivare e che, invece, potrebbero invertire la rotta per i giovani neet.Foto rettangolare: di Flazingo photos in modalita Creative commons 

Alternanza scuola-lavoro, una svolta con il Jobs Act e la Buona Scuola?

C’è Giulia, 18 anni, che segue un corso per segretaria di azienda e fa pratica nell’amministrazione di una società di servizi, e c’è Tommaso, 17 anni, che vuole fare il cuoco e con l’alberghiero negli ultimi quattro mesi di scuola ha lavorato una sera a settimana in un ristorante. «Ma l’alternanza scuola-lavoro non è mai stata davvero realizzata in Italia» sostiene Franco Chiaramonte, direttore dell’Agenzia Piemonte Lavoro.  Secondo il dirigente infatti i tirocini formativi fino ad oggi non sono stati davvero integrati nel sistema, non realizzando mai un vero sistema duale, come avviene invece nei paesi del nord Europa. «La vera alternanza era molto marginale e si faceva in pochissimi posti, come Bolzano» prosegue Chiaramonte. «In Piemonte, credo unici in Italia, abbiamo avviato progetti di apprendistato per i ragazzi dai 15 ai 17 anni con percorsi che prevedevano che studiassi e lavorassi contemporaneamente. Hanno partecipato appena un centinaio di ragazzi all’anno perchè era molto complicato e difficile da strutturare». Dal report disponibile sull’alternanza scuola lavoro, realizzato da Indire (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa) per conto del Miur risulta che, nell’anno scolastico 2012/13, il 45,6% delle scuole secondarie di secondo grado (3.177 su 6.972) ha utilizzato l’alternanza come metodologia didattica per sviluppare le competenze previste dall’ordinamento degli studi. Molto differente l’uso di questo strumento a seconda del tipo di scuola: dei 3.177 istituti, il 44,4% sono professionali, il 34,2% tecnici, il 20% licei, 1,5% di altro tipo.  Sono stati 11.600 i percorsi realizzati per formare 227.886 studenti, pari all’8,7% della popolazione scolastica della scuola secondaria di secondo grado. La maggior parte (7.783, pari al 67,2%) è stata erogata negli istituti professionali. Seguono gli istituti tecnici (22%) e i licei (7,8%). Anche il mondo del lavoro ha dato un contributo: gli studenti in alternanza sono stati ospitati in 77.991 strutture, di cui il 58,2% (45.365) sono imprese. Seguono liberi professionisti (7,5%), Comuni (3,2%) e altri enti pubblici come Province e Regioni, oltre ad asili e scuole dell’infanzia, associazioni, biblioteche, Camere di commercio e associazioni di categoria. La distribuzione regionale degli studenti che hanno partecipato ai percorsi mostra percentuali molto diverse a seconda delle zone: in generale il 51,6% degli alunni in alternanza si concentra al nord, percentuale che scende 23,7% nelle regioni centrali e al 17,2 nel Sud, con un 7,4% nelle Isole. La maggior parte dei percorsi di alternanza-scuola lavoro nel periodo analizzato è annuale (51,1%), seguono quelli biennali (36,7%), i triennali (11,1%) e infine i quadriennali (1,1%), e la maggioranza (55,7%) risulta avere un monte ore totale minore di 100 ore. Ore che si distribuiscono in modo diverso nel corso dell’anno a seconda del progetto di stage. Seppure l’uso dell’alternanza ha registrato un generale incremento nel tempo, se si analizzano in profondità i dati si scopre che i percorsi realizzati nelle diverse realtà scolastiche presentano caratteristiche molto diverse, in termini di lunghezza, articolazione interna, tipo di stage, utenza, risorse coinvolte, modalità di valutazione e certificazione, costi. In particolare, secondo il rapporto  di Indire, le esperienze di alternanza attivate negli istituti scolastici sono caratterizzate da una grande differenziazione dell’offerta, che solo in parte risente delle diverse realtà socio-economiche, ma che sembra molto centrata sul modello organizzativo proprio di ciascuna scuola. Tutto ciò «sembra richiamare la necessità di azioni, strumenti, indicazioni» sottolineano gli esperti «che rendano unitarie le diverse esperienze realizzate nei singoli territori». Ora però le cose potrebbero cambiare radicalmente. Almeno sulla carta: nella riforma della scuola e nel Jobs Act infatti ci sono diverse indicazioni che riguardano proprio l’alternanza tra i percorsi scolastici e quelli lavorativi. «Credo si possa parlare di un primo intervento che prevede un’alternanza di massa, ma ora si dovrà vedere come andrà nei fatti» evidenzia Chiaramonte che parla di "una scommessa". «È un momento di grande cambiamento: non sono stati fatti cambiamenti solo nella normativa scolastica o solo in quella lavoristica, ma sono trasversali. Per la prima volta c’è un asse tra scuola e lavoro e tra le istituzioni che fa ben sperare». La Buona Scuola prevede piani formativi di alternanza scuola-lavoro nell’ultimo triennio di 400 ore per gli istituti tecnici e professionali e di 200 ore nei licei: «sono molte ore  e le scuole dovranno studiare un progetto formativo costante» rileva il dirigente dell’Agenzia per il lavoro che sottolinea «si apre un mondo totalmente nuovo: bisogna strutturare un percorso con aziende e istituzioni». «La difficoltà fondamentale sta nei numeri» spiega Tommaso De Luca, preside dell’Istituto Tecnico Avogadro di Torino «in passato abbiamo fatto alternanza, ma mai in maniera così diffusa come prevede la nuova normativa». Il preside racconta che negli scorsi anni «avevamo avuto una trentina di alunni l’anno, per lo più in quarta, che partecipavano a stage e un’altra ventina che prendeva parte a un progetto di apprendistato con Enel. Ma ora parliamo di oltre 200 studenti per i quali bisogna pensare a percorsi strutturati». Per questo partiranno incontri con istituzioni e aziende: «il primo passo è reperire le aziende. In questo le Camere di Commercio dovranno fare un registro con le aziende disponibili in cui dovrà essere indicato anche il periodo di disponibilità ad accogliere studenti e in che numero. Poi ogni scuola deve programmare le 400 o 200 ore nell’arco dei tre anni» sottolinea De Luca, secondo il quale «non possiamo giustapporre 400 ore di alternanza alla scuola tradizionale, bisogna riuscire a integrarle altrimenti sono buttate». Anche in questo senso, considerando che l’ultimo anno tutti gli studenti devono affrontare la maturità, secondo il dirigente scolastico «bisognerebbe anche modificare l’esame di Stato affinchè in qualche modo tenga conto di questi percorsi di alternanza». Il primo triennio sarà un banco di prova per tutti  «man mano metteremo a punto il meccanismo» si augura De Luca. Un percorso tutto da costruire che chiama in gioco scuole, servizi per l’impiego, parti sociali e imprese. Ma la sfida è fondamentale se è vero, come sosteneva la ricerca di McKinsey "Studio ergo lavoro", che il 40% della disoccupazione giovanile in Italia ha natura strutturale e affonda le sue radici nello scarso dialogo tra sistema educativo e sistema economico.Sara Settembrino  

Crea, condividi, pubblica: ecco Intertwine, startup di storytelling collaborativo

Nasce nel 2012 dall’idea di un laureato in filosofia e di un suo amico ingegnere e da allora è riuscita a collezionare successi e ad essere sempre più seguita sul web tanto da avere ad oggi circa 7mila utenti. È Intertwine, una piattaforma di storytelling collaborativo che prende il nome dalla parola inglese “intreccio” e che basa il suo successo proprio grazie alle connessioni fra gli utenti. Ideatore di questa srl è Gianluca Manca, trentenne napoletano che insieme a Salvatore Imparato, Gennaro Mangani e Luigi Maiello, tutti coetanei, e Daniele Moretti e Stefano Imparato, 24 e 23 anni, costituisce il team di questa startup digitale innovativa. Che ha ben tre sedi, una a Fisciano, una operativa a Napoli e una a Milano.«Eravamo già tutti amici, così è stato più semplice sviluppare questa idea che si è creata un po’ per insoddisfazione lavorativa, quindi per darci un’opportunità che ci permettesse di fare un lavoro che ci piace, e un po’ per passione» spiega Manca alla Repubblica degli Stagisti: «L’idea è nata mettendo insieme proprio le cose che ci piacciono, quindi la letteratura, il cinema, la musica». I sei giovani si sono buttati a capofitto nel progetto, lavorando per un anno e mezzo senza vedere guadagni. Poi hanno partecipato a un concorso, che si chiama Vulcanicamente, e hanno vinto: «Da lì è diventato tutto più serio: abbiamo ampliato il sito e dopo circa un anno abbiamo avuto il primo finanziamento da 110mila euro da Digital Magics». Una cifra importante che ha permesso ai soci di Intertwine di investire per sviluppare il software, di fare un po’ di comunicazione e di darsi anche un rimborso spese. Nell’aprile dello scorso anno, Intertwine è stata poi incubata da RCS nest, un acceleratore di startup di Rcs MediaGroup e Digital Magics che offre un’incubazione di tre anni mettendo a disposizione una sede a Milano, computer, rapporti commerciali con il gruppo RCS, e la possibilità di un finanziamento che può arrivare a 500mila euro. E la startup, che è quindi al primo dei tre anni di incubazione, ha cominciato a crescere. «La nostra è una piattaforma di narrazione collaborativa che funziona secondo una logica un po’ particolare» spiega Gianluca Manca: «C’è un utente che scrive una trama e su questa gli altri utenti possono aggiungere testo, video, immagine e continuare l’incipit che è stato creato dall’autore. Una volta raccolti tutti i contenuti, il primo scrittore sceglie quelli migliori, li edita e noi pubblichiamo questa storia a più mani, che non è solo testuale ma multimediale». A quel punto comincia la fase della distribuzione digitale, attraverso la vendita delle opere multimediali prodotte «con prezzi che vanno dagli 0,99 ai 4,99 euro». Ed è qui che cominciano anche i guadagni di Intertwine. Perché la ripartizione degli utili avviene tra tutti gli autori e la piattaforma, in proporzione alla quantità della collaborazione. In linea di massima, anche se Manca ci tiene a precisare che è una proporzione non fissa, il guadagno è diviso tra l’autore che intasca il 50% da ogni libro venduto, i brickers, ovvero gli altri utenti che hanno collaborato, a cui va il 30% e Intertwine a cui resta il 20%. «Siamo ancora in una fase di crescita» spiega l’ideatore: «Non ci paghiamo uno stipendio, ma un piccolo rimborso spese quando possiamo. Stiamo facendo traction, ma è anche una nostra scelta quella di investire quello che guadagniamo nel progetto e non nei nostri stipendi, o quantomeno pagarci il meno possibile. Stiamo facendo, però, qualcosa che ci appassiona molto. E per noi, che andiamo dai 23 ai 30 anni, già il fatto di avere un lavoro che facciamo con estrema passione è importante. Se da un punto di vista economico non ci sono ancora grandissime soddisfazioni, da un punto di vista personale siamo molto contenti di quello che stiamo facendo».Per questo motivo al momento sono tutti concentrati solo su Intertwine, per pianificare meglio i prossimi traguardi e lavorare sull’aumento di fatturato. Il trend, comunque, è in crescita: al momento Intertwine è già abbastanza conosciuta e nei prossimi quattro-cinque mesi potrebbe diventare, a detta del suo fondatore, una realtà aziendale consolidata. Per questo ha partecipato all’ultimo Salone del libro, a Torino, nell’area dedicata alle startup, Book to the future, dove ha presentato la nuova piattaforma e ha avuto il primo vero contatto con un pubblico non esclusivamente tecnologico. «Partecipare al Salone è stata una gran bella esperienza» spiega Manca alla Repubblica degli Stagisti, «abbiamo incontrato un pubblico molto interessato e verticale su ciò che facciamo». Ora l’obiettivo è continuare a crescere e diventare ancora più strutturati. Nel frattempo si festeggia il superamento della prima fase di avviamento, con le prime fatture: «La possibilità di fare azienda in questo modo, soprattutto nel digitale che comporta poche spese iniziali, è un’opportunità reale. Bisogna crederci e lavorarci. Però a mio avviso il fatto di guadagnare poco ma essere felici è un dato impagabile. Durante questi due anni e mezzo ho imparato molto più di quanto sarebbe stato possibile se avessi fatto l’impiegato da qualche parte. E oggi possiamo festeggiare ben tre sedi fisiche per Intertwine». Traguardi che fanno dire orgogliosamente a Gianluca Manca di aver superato il primo miglio, quello più difficile. E che danno alla startup la possibilità di vedere un futuro davanti a sé.  Marianna Lepore

Microcredito anche in Italia, per creare lavoro per i giovani: l'esperienza dell'Emilia Romagna

In un periodo di forte disoccupazione tra i giovani in Italia, ci sono progetti che riescono a costruire delle risposte di lungo periodo al problema dell’accesso al credito, limite per le iniziative imprenditoriali. Uno di questi è l’esperienza associativa di Fare lavoro che nell’area della bassa bolognese è ormai diventata un punto di riferimento ed è raccontata dalla ricercatrice Silvia Paglia in «Come fare microcredito per fare lavoro per i giovani» edizioni Homeless book. «Il testo è nato sulla base dell’obiettivo della Fondazione, espressione del credito cooperativo impresa e delle cooperative dell’Emilia Romagna, di investire sui giovani per dare loro la possibilità di sviluppare delle competenze specifiche» racconta alla Repubblica degli Stagisti Everardo Minardi, presidente della Fondazione Giovanni Dalle Fabbriche che ha promosso e finanziato la ricerca per farsi raccontare il progetto: «La Fondazione vuole anche tornare all’antica tradizione del prestito sociale. Perciò abbiamo deciso di fare un lavoro di ricerca sull’esperienza che stava nascendo intorno a Bologna da parte di un gruppo di pensionati che si sono posti il problema di cosa potevano mettere a disposizione dei giovani in difficoltà con il mondo del lavoro».E ha promosso e sostenuto la costituzione dell’associazione Fare lavoro, attiva nell’area bolognese, con al suo interno un gruppo di imprenditori, consulenti, liberi professionisti che cercano di favorire l’avvio al lavoro dei giovani sostenendoli nei primi anni di vita. Fare Lavoro ha quindi stabilito una convenzione, promossa dalla fondazione Giovanni dalle Fabbriche, con la BCC EmilBanca attraverso cui «è stata messa a disposizione una somma consistente, oltre 50mila euro, come garanzia del micro credito concesso dalla banca a casi selezionati, tutorati e garantiti dall’associazione Fare Lavoro», spiega Minardi alla Repubblica degli Stagisti. È quindi l’associazione ad analizzare le domande e i progetti, a valutarli e ad accompagnare o invitare a rinunciare, se il progetto non regge, i giovani che vogliono fare impresa. Mentre la fondazione Giovanni dalle Fabbriche fornisce i servizi di consulenza, formazione e accesso facilitato alle Bcc. Nel libro si racconta cosa è avvenuto e si presentano gli 11 progetti avviati - per 10 imprese - attraverso questo microcredito, numero salito oggi a 18. Al momento si stanno esaminando una trentina di idee, tutte riguardanti, come previsto da bando, giovani under 35 residenti a Bologna e provincia da almeno un anno. Circa il 25% delle richieste, però, ha di solito esito negativo perché mancano i requisiti. I progetti al momento finanziati vanno dalla piattaforma di crowdfunding per l’Emilia Romagna, Ginger, il primo ad essere stato finanziato, alla cooperativa Tatami che dopo il primo prestito ha ampliato le proprie aspirazioni e chiesto un secondo aiuto, accordato, per nuovi obiettivi portando a casa anche l’aumento del numero di soci passato da tre a sette. Fino alla gelateria yogurteria Yoog che è stato il nono progetto ad essere finanziato. I soggetti coinvolti attraverso le nuove realtà create sono, ad oggi, circa una trentina, per un totale di 172mila euro erogati, e arrivano un po’ da tutta Italia: una ventina sono di Bologna o provincia, 2 provengono da altre città dell’Emilia Romagna, poi c’è una romana, un torinese, un milanese, un giovane da Bergamo, uno da Potenza, uno da Trento e uno dall’Abruzzo e anche una signora iraniana residente a Bologna.Che il microcredito funzioni, almeno quello di Fare lavoro, lo dimostrano i dati: ad oggi le idee finanziate crescono e vanno avanti restituendo in tempo i prestiti e riuscendo anche, in alcuni casi, a creare nuova occupazione. Esempio per tutti è Ginger, sito di crowdfunding che offre aiuto nella costruzione del business plan o del piano di comunicazione e che, ad oggi, è riuscita a far completare ben 23 raccolte fondi.  Eppure questa forma di aiuto, oggi, è poco diffusa nonostante esistano ancora i soggetti in situazione di marginalità. Perché la società moderna, secondo Minardi, è volta al solo mantenimento di se stessa. «Basta guardare i grandi imprenditori: non aggrediscono più il mercato. Stanno mollando. Per questo bisogna trovare una risposta».Che può essere il microcredito, perché dà autonomia responsabilizzando: «Chi riceve deve restituire. Con il tasso più basso che ci sia, ma tale per fare in modo che non lo usi per altro». Minardi spiega alla Repubblica degli Stagisti il processo che ha portato alla formazione di queste imprese: «In primo luogo si ascoltano i giovani e la loro idea, spesso vaga». Dopo di che l’associazione fa due valutazioni: la prima, informale, con la presentazione del progetto e le previsioni dei costi e ricavi. La seconda vede invece l’approfondimento degli aspetti tecnici del business plan e un’indagine sulle motivazioni che sono alla base di queste future imprese.Gli ex dirigenti e imprenditori di Fare lavoro fanno quindi i tutor aiutando i giovani nei rapporti con le banche e nel miglioramento del business plan. Aiuto che si concretizza non appena l’impresa chiede il contributo alla banca. Ricevuta la somma, che va fino a 25mila euro, «l’associazione deposita il 30% a garanzia. E questo rende praticabile l’avvio dell’ impresa». Ed è questo rapporto tra giovani, che hanno l’idea, l’associazione che mette la garanzia e la banca che eroga con tassi bassi che evita si creino situazioni di crisi. Ma non si pensi al microcredito come panacea per la disoccupazione: «In termini generali non è la soluzione. Il discorso cambia con le micro imprese: lì abbiamo enormi potenzialità, ma nessuno ci crede». Ora il microcredito prova ad allargarsi fino alla Romagna, ma l’associazione non ha interesse ad ampliarsi in altri contesti, nonostante la federazione delle banche di credito cooperativo nazionali abbia proposto questa esperienza come riferimento ai suoi associati. «La nostra idea è che si formino altre associazioni tipo Fare lavoro». Basterebbe, suggerisce il professore, smettere di ragionare per comparti stagni. «Non è vero che solo lo Stato può garantire. Nel nostro caso si sono fatte imprese dove prima non c’era futuro. Altre associazioni potrebbero prendere spunto, in una logica di intervento sociale», perché è bene ricordarlo «Qui non c’è niente da portare a casa. C’è da fare garanzia». Cosa significa? Che nel momento in cui l’associazione mette il 30% come garante per 30mila euro dati a un giovane, ognuno dei membri versa 3mila euro. Certo, fruttano degli interessi, ma c’è sempre il rischio di perderli. «Non c’è finalità di business. Ci sono delle scelte di valore in campo, che oggi, più di ieri, sono importanti». Si crea una sorta di patto tra le generazioni: qualcuno che ha avuto tanto, per merito, competenza e fortuna nei tempi, aiuta chi ha una buona idea, ma non potrebbe altrimenti realizzarla. Se quindi un under 35 residente in Emilia Romagna interessato a fare una nuova impresa volesse fare richiesta di questo microcredito dovrebbe allora, per prima cosa, «Prendere contatto con il sito dell’associazione. Poi potrebbe cominciare a orientarsi ai problemi delle comunità territoriali, anche attraverso le bcc. Infine informarsi sulle iniziative messe a disposizione dagli enti locali. E contattare le associazioni di giovani cooperatori all’interno di confcooperative che aiutano chi fa una scelta di questo tipo». Ecco, infine, tre suggerimenti che il presidente Minardi dà a un ipotetico giovane emiliano interessato al microcredito proposto da Fare lavoro e raccontato in Come fare microcredito per fare lavoro per i giovani: «Avere una buona idea», dice sicuro, «ben documentata e strutturata. Ricordarsi che da soli non si va più da nessuna parte: è necessario mettersi insieme per raggiungere dei risultati. Cominciare dal locale sapendo che se si vuole vincere e crescere è il globale che conta. Anzi il glocale, perché chi opera oggi in un contesto solo localistico non ha futuro».Marianna Lepore

Al lavoro col sorriso, guida facile per partite Iva e non solo

«Pensate a tutti i milioni di persone che vivono insieme anche se non gli piace, odiano il lavoro ma hanno paura di perderlo» scriveva Charles Bukowski: «Non c’è da meravigliarsi che abbiano la faccia che hanno». Il libro degli psicologi del lavoro Matteo Marini e Gaetano Torrisi, Happy worker, nasce come guida agile e schietta per aspiranti lavoratori autonomi, ma qualsiasi tipo di lavoratore disamorato può trovare spunti utili a migliorare la situazione. È come fare una chiacchierata con due amici competenti e di buon senso, che senza troppi fronzoli ti dicono come la pensano.Si inizia, come sempre, dal capire bene dove sta il problema, partendo dal sintomo. Lavoro uguale stress, la consequenzialità è quasi automatica. A maggior ragione se non si può contare sulle molte sicurezze che offre il lavoro subordinato - stipendio puntualmente sul conto, ferie pagate, diritto a malattia e maternità, niente oneri burocratici. Happy worker, sottotitolo Come vivere il lavoro autonomo senza stress (Giunti Editore, 160 pagine) sostiene che innanzitutto è fondamentale assecondare le proprie inclinazioni. «Non è la quantità, il carico di lavoro, a stressarci, ma la qualità del lavoro in relazione alla nostra personalità» scrive Marini [a fianco in foto], nonostante poi esistano tratti universalmente stressanti, come mera esecutività reiterata, mancanza di discrezionalità o autonomia di scelta, zero creatività. («Non c’è da stupirsi se si vedono manager belli pimpanti dopo 10 ore di lavoro e dipendenti alla frutta dopo 4 ore di data entry»). Le differenze tra lavoro autonomo e lavoro dipendente ci sono e sono molte, ma ciò che bisogna davvero considerare è l’effetto che hanno su di noi.Per lavorare in proprio ci vuole “un fisico bestiale” - e sopratutto grande resistenza. Chi è autonomo non stacca mai veramente dal lavoro, o per lo meno mai con totale serenità. Al lavoro si va anche con la febbre, se necessario, o in avanzato stato di gravidanza, pur realizzando che il guadagno arriverà solo a lavoro finito, se non con molto ritardo. E comunque, specie in questo periodo storico, meglio non farsi illusioni sull'entità di questo guadagno: innanzitutto i ritardi nei pagamenti sono all'ordine del giorno; poi c'è la questione delle tasse, che dimezzano puntualmente il fattuarto e il rischio è che le conversazioni con il commercialista diventino più frequenti di quelli con i familiari stretti. Ci sono però anche dei pro, come decidere quando e quanto lavorare, dove, con chi. Non avere capi e scegliere i propri collaboratori risolverebbe la vita a molti lavoratori infelici. I guadagni possono arrivare con ritardo, ma non c’è un tetto definito, e potenzialmente un autonomo può guadagnare più di un dipendente, se sa proporsi bene.Cosa pesa di più sulla bilancia dunque, dinamicità o stabilità? Siamo più aperti al nuovo o più conservatori? E quanto assertivi? La personalità del perfetto lavoratore autonomo non esiste, ma certo possedere alcuni tratti dà una marcia in più. Partendo dalla teoria dei Big Five, Happy worker valuta come più prezioso il tratto dell’amicalità, intesa capacità di supportare gli altri e cooperare, mettendo a frutto il «superpotere dell’empatia». Estroversione, coscienziosità e apertura mentale sono altri asset importanti, ma chi sente di non possederne in quantità sufficienti non è detto che sia inadatto a gestire con successo una partita IVA. Come suggerisce Gaetano Torrisi [a fianco in foto] nel quarto e ultimo capitolo, si può essere timidi e conosciuti, se si sa come promuovere la propria attività. Individuando il nostro punto di forza sul mercato e una strategia di comunicazione adatta, che non è detto passi necessariamente per il web – un idraulico, un podologo, un imbianchino non hanno bisogno del sito web personale, né di un profilo LinkedIn aggiornato: il tradizionale passaparola “analogico” risulta più efficace.Happy worker è una lettura leggera e scorrevole, con ampie finestre informali di psicologia applicata alla quotidianità. La tesi di fondo però è di spessore, soprattutto in questo post crisi ancora così poco rassicurante: «chi trova nel lavoro un’espressione sana di se stesso non sarà solo efficiente, ma anche più soddisfatto nella vita extralavorativa. Lavoriamo per gran parte della nostra esistenza; se il lavoro non ci piace significa che faremo per molte ore al giorno qualcosa che non ci gratifica». L’idea che il lavoro debba fornire anche gratificazione, oltre che sostentamento economico - che sia addirittura un fattore cruciale nel determinare la felicità delle persone - è in realtà piuttosto recente. Un prodotto del benessere, difficile da capire per i nostri nonni ma difficile da capire anche per quei giovani di oggi che, a dispetto di tanto benessere,  un lavoro vero e proprio magari non l’hanno mai avuto, palleggiati tra stage e contrattini e che, avendo un problema urgente di quantità, non si pongono quello della qualità. Potrebbe, però, trattarsi solo di una questione rinviata, che tornerà a galla passata l’emergenza. Questo libro allora potrebbe tornare utile. Come una lunga e amichevole seduta dallo psicologo.Annalisa Di Palo

"Spegni la luce quando esci dalla stanza!", un software intelligente riduce le bollette

Un apparecchio in grado di ottimizzare i consumi energetici di appartamenti e uffici. E che promette di garantire un risparmio in bolletta fino a 700 euro l'anno. Si chiama Almadomus la startup fondata da Marco Zanchi (40 anni) e Alessandro Benedetti (37), capace di attirare l'interesse del fondo di venture capital e incubatore di impresa Digital Magics e del co-fondatore di Sorgenia Marco Molinari, che hanno investito in una quota del capitale sociale.L'azienda rimane al momento saldamente nelle mani dei due fondatori, che detengono l'86% delle quote societarie. Entrambi laureati in informatica con alle spalle una lunga carriera di programmatori, «l'idea di Almadomus ha iniziato a girare nelle nostre teste nel 2011» racconta Zanchi alla Repubblica degli Stagisti. È stato allora che ha abbandonato la società di sviluppo software fondata quindici anni prima e ne ha aperta una nuova insieme a Benedetti. «Si chiamava Almaweb e Almadomus era solo un side project». I due, in altre parole, continuavano a mantenersi programmando, lavorando nel tempo libero al prodotto che ora stanno per lanciare sul mercato.Quattro anni di sviluppo durante i quali sono entrati in contatto con Digital Magics: «Sono stati loro a cercarci. Ed è grazie a loro che abbiamo conosciuto Molinari». È stato grazie a questo incontro che «abbiamo capito che il nostro era un progetto sul quale puntare». Ma cosa ha visto il fondatore di Sorgenia in questa start-up? «Mi è piaciuta molto Almadomus perché si basa su una business idea originale, molto in linea con le linee di sviluppo del settore energetico che prevedono attenzione al risparmio e clienti e consumatori sempre più attivi e consapevoli», spiega alla Repubblica degli Stagisti Molinari: «Spero che la mia esperienza possa essere utile allo sviluppo di almadom.us».Oltre ad aver acquistato il 4% delle quote societarie - per un importo che non è stato reso noto - Marco Molinari, che non detiene partecipazioni in nessun'altra start-up innovativa, sta affiancando i due founder nella ricerca di nuovi partner. È anche grazie alla sua collaborazione che a maggio 2015 è stata costituita la startup innovativa Almadomus, con un capitale sociale di 10mila euro e sede a Milano. Azienda che, questa volta sì, dovrà dedicarsi interamente all'apparecchio capace di ridurre i consumi energetici. Già, ma come funzione lo strumento sviluppato dai due programmatori bergamaschi?Si tratta di un dispositivo di automazione dotato di un software di apprendimento, che impara i comportamenti degli abitanti della casa in cui è installato, o degli impiegati dell'ufficio in cui viene utilizzato, per ridurre i consumi energetici. «Faccio un esempio: diciamo che mia moglie e mia figlia lasciano perennemente accesa la luce in camera. Grazie ad un sensore di presenza, Almadomus riconosce che nella stanza non c'è nessuno e la spegne», spiega Zanchi. Ma questo è il meno. Non solo il software è in grado di determinare l'orario in cui accendere il riscaldamento in modo da ottenere una data temperatura ad una certa ora. «Diciamo che la macchina sa che io arrivo a casa tutte le sere alle 19. E che per farlo devo uscire dall'ufficio alle 18.30. Se dovessi essere in ritardo, Almadomus capirebbe dal gps del mio smartphone che sono ancora al lavoro e ritarderebbe l'accensione dei caloriferi». Risparmiando così un po' di metano.L'apparecchio si installa con costi contenuti: «Per un piccolo appartamento parliamo di 500 euro». Ma le proiezioni realizzate su dati dell'Autorità dell'Energia e del Gas parlando di un risparmio annuale compreso tra i 300 ed i 700 euro. «Diciamo che in un paio d'anni si rientra dall'investimento». Almadomus si installa sostituendo una placca degli interruttori della luce. «All'interno ci sono l'interfaccia utente, la sensoristica ed un microfono. L'idea è che si debba installare un apparecchio in ogni stanza». Al momento «abbiamo realizzato quattro prototipi, che stiamo certificando. Alla fase di industrializzazione arriveremo nei prossimi mesi: l'idea è quella di arrivare sul mercato per la primavera del 2016. O almeno speriamo!».Per riuscire a centrare questo obiettivo «adesso siamo in fase di fundraising. Digital Magics ci sta seguendo dal punto di vista dei servizi e ci ha messo a disposizione un network per la raccolta di fondi». Oltre ad aver incubato Almadomus: un percorso che, nonostante per quindici anni abbia guidato una società, viene definito molto importante da Zanchi. «La mia precedente esperienza imprenditoriale era limitata ad una piccola realtà, quindi tutto ciò che ci sta portando è di grande valore anche per me». Un modo come un altro per dire che l'ambizione di Zanchi e soci è quella di conquistare il mercato.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Naspi e tirocini, per l'Inps nessuna incompatibilità

«Tirocini e stage non sono forme di lavoro dipendente e possono essere indennizzati solo con un rimborso spese: per tale motivo risultano compatibili con la Naspi». A chiarire la questione, sollevata anche dai lettori del Forum della Repubblica degli Stagisti, è l'ufficio regionale Inps di Torino, secondo cui gli utenti che usufruiscono del sussidio di disoccupazione possono anche incassare il rimborso spese del tirocinio o dello stage, a patto che l'importo non sia superiore a 650 euro. Rimanendo in Piemonte, è curioso però osservare la relazione tra i tirocini semestrali attivati con Garanzia Giovani e la Naspi. «In questo caso esiste invece una sorta di incompatibilità» spiegano dall'Inps «ma tutto dipende dalla retribuzione: se l'importo della Naspi è superiore a quello del tirocinio - che in Piemonte, erogato dall'Inps, può raggiungere i 500 euro, eventualmente integrati dai soggetti ospitanti - l'utente non percepisce quest'ultimo. Se, al contrario, la Naspi è inferiore alla cifra del tirocinio, l'utente riceve la differenza tra i due importi». Un esempio può aiutare a comprendere meglio. In caso di Naspi pari a 600 euro, a fronte di un contributo di 500 euro per il tirocinio attivato con Garanzia Giovani, l'utente finale percepisce solo i 600 euro del sussidio di disoccupazione. Se, invece, la Naspi è pari a 400 euro, a fronte dei 500 euro per il tirocinio, l'utente percepisce 500 euro, ossia la differenza tra indennità Naspi e rimborso del tirocinio, quest’ultimo da sommare all'importo totale della Naspi. Non vi sarebbero quindi delle incompatibilità tra tirocini, stage e la Naspi, che dal 1° maggio ha sostituito l'Aspi, creando comunque non poca confusione tra utenti e addetti ai lavori. Entrata in vigore dal 1° maggio 2015, la Nuova assicurazione sociale per l'impiego è un sussidio destinato a chi ha involontariamente perso il lavoro: nella categoria rientrano i lavoratori dipendenti (compresi apprendisti e artisti subordinati) mentre restano esclusi i dipendenti a tempo indeterminato della pubblica amministrazione e gli operai agricoli, sia a tempo determinato che indeterminato. La prima, vera differenza tra Naspi e Aspi indennità riguarda i requisiti d'accesso: per accedere all'Aspi servivano due anni di anzianità assicurativa e aver lavorato per almeno 52 settimane nell'ultimo biennio; nella Naspi, invece, scompare l'anzianità, sono richieste un minimo di 13 settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni e, soprattutto, almeno 30 giornate di lavoro effettivo nell'anno precedente la disoccupazione. Per quanto riguarda la durata e l'importo del sussidio, a chi usufruisce della Naspi spetta un periodo equivalente alla metà delle settimane lavorate negli ultimi 4 anni, mentre con l'Aspi il periodo variava a seconda dell'età del richiedente e comunque non superava i 16 mesi. Attenzione però: ai fini del calcolo della durata della Naspi, non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo a erogazione delle prestazioni di disoccupazione. Con la Naspi aumenta la soglia massima dell'importo erogabile (1300 euro lordi mensili contro i 1195 dell'Aspi), calcolato prendendo come riferimento la retribuzione media degli ultimi 4 anni e non più 2 come per l'Aspi. Il salario medio è poi diviso per il numero di settimane effettivamente lavorate e il risultato moltiplicato per 4,33, coefficiente convenzionale di settimane in un mese. Se con l'Aspi, già dopo 6 mesi, il sussidio subiva un taglio del 15%, a cui seguiva un ulteriore riduzione del 15% dopo 12 mesi, con la Naspi, dal quarto mese in avanti, l'indennità si riduce gradualmente del 3% ogni trenta giorni. Un periodo più lungo, quindi, ma importi più ridotti in prossimità della scadenza. Un'ultima differenza riguarda, infine, la richiesta di accesso al sussidio, che per la Naspi deve essere inoltrata entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, mentre per l'Aspi entro due mesi dall'inizio del periodo indennizzabile.Marco Panzarella 

In Italia due giovani su tre vivono con mamma e papà. Anche quando hanno un lavoro

In Italia due giovani su tre vivono in famiglia: quasi sette milioni di ragazzi e ragazze tra i 18 ed i 34 anni che, nel 2013, non erano ancora riusciti ad uscire di casa. Sono studenti, disoccupati, ma anche lavoratori con uno stipendio insufficiente per rendersi indipendenti.Lo afferma l'Istat, che ha recentemente pubblicato i dati relativi ai giovani che vivono in famiglia. Cifre che parlano di 6 milioni e 975mila persone tra i 18 ed i 34 anni, pari al 62,4% del totale, che non riescono a costruire la propria vita. «Questi numeri danno il segno di un Paese che non considera l'intraprendenza dei giovani un valore da sostenere», commenta Alessandro Rosina, professore ordinario e da poco eletto direttore del dipartimento di Demografia all'università Cattolica di Milano: «L’Italia è una delle nazioni sviluppate con la più alta incidenza di giovani che fino ai 30 anni e oltre abitano ancora con i genitori, ovvero non hanno iniziato il proprio percorso di autonomia, mentre in larga parte del mondo occidentale a 25 anni la maggioranza della popolazione vive già indipendentemente da mamma e papà, imparando a cavarsela da soli e a esprimersi in tutti gli ambiti sociali come pieni cittadini e non come figli».Una problematica, quella evidenziata dall'Istituto nazionale di statistica, che colpisce indistintamente da Nord a Sud: si va dal 28,4% di giovani che vivono con mamma e papà della Valle d'Aosta, al 57,6% della Basilicata, passando dal 40,4% della Lombardia e dal 46% del Veneto. Ecco la situazione regione per regione:[Grafico: Percentuale di giovani che vivono in casa per regione]Ma la cosa forse più grave è che dei 7 milioni di ragazzi e ragazze under 34 che non riescono ad uscire di casa, ben 2 milioni e mezzo non sono in grado di farlo pur avendo un lavoro. La regione più colpita da questo fenomeno è la ricca ed operosa Lombardia, dove 502mila giovani, nonostante siano occupati, dormono ancora nella loro cameretta. Ma attenzione: «Questo vale in numeri assoluti, visto che si tratta della regione più popolosa, ma non necessariamente in termini relativi». In altre parole, spiega Rosina, «se guardiamo all'incidenza sul totale dei giovani ci accorgiamo che negli ultimi vent'anni a vedere inasprito questo fenomeno è stato soprattutto il Sud». In particolar modo quelle regioni del Mezzogiorno con la più alta percentuale di disoccupazione giovanile.Questo non significa che il Nord sia esente dal problema. Anche in questi territori «continua ad essere troppo ampio il divario tra le aspettative e i desideri di autonomia degli under 34 e l'effettiva possibilità di realizzare questi obiettivi». La mappa mostra, regione per regione, il numero di occupati, disoccupati e studenti che vivono con i loro genitori.[Mappa: i giovani che vivono in famiglia]L'unico aspetto positivo della faccenda lo si coglie guardando indietro. Rispetto al 2005, anno cui risale la più vecchia indagine Istat in materia, il numero di giovani che vivono con i genitori è sceso da 7,5 a poco meno di 7 milioni. Più significativa la riduzione della quota di occupati che non possono prendere casa, passati da 3,6 a 2,5 milioni. Dati parzialmente positivi, ma subito controbilanciati dall'aumento del 50% dei disoccupati che abitano con la famiglia, saliti da 1,2 a 1,8 milioni. Anche se in calo, il numero di ragazzi e ragazze che non riescono a diventare autonomi ha però ancora i contorni dell'emergenza. Ecco l'andamento dal 2005 al 2013: [L'evoluzione negli ultimi anni]Ma sono solo aspetti economici a frenare l'emancipazione delle giovani generazioni? «Il fenomeno è da ricondurre ad un mix di fattori culturali e strutturali», l'analisi del docente della Cattolica. Intanto, «alcuni aspetti del “familismo” italiano rischiano di lasciare più a lungo immaturi gli adolescenti e ritardare la conquista di autonomia da parte dei giovani». Una tendenza che i Millenials avevano provato ad invertire, salvo scontrarsi con la crisi economica «e con la carenza di politiche di sostegno attivo all'autonomia e all'inserimento nel mercato del lavoro». Un contesto che li ha ricondotti da mamma e papà.Eppure, questi 7 milioni di under 34 che vivono ancora con i genitori non lo fanno solo perché costretti dalle circostanze. «Come evidenziano i dati del Rapporto giovani dell'Istituto Toniolo, è rilevante anche la quota di giovani lavoratori che rimangono in famiglia per aiutarla a superare la crisi contribuendo con le proprie entrate» dice Rosina. Sì, nel Paese che ha delegato il welfare ai nuclei familiari succede anche questo: «Noi diamo per scontato che siano i genitori ad aiutare i figli, ma non sono rari i casi in cui avviene il contrario, non solo in termini economici ma anche di assistenza a parenti non autosufficienti. È il modello di solidarietà familiare italiano che compensa i limiti delle politiche pubbliche». Che invece avrebbero 7 milioni di casi dei quali occuparsi.Riccardo Saporiti