Categoria: Approfondimenti

Jobs Act, è vero che una circolare farà sparire i disoccupati dalle statistiche? No

Il governo Renzi vuole davvero tentare di diminuire la percentuale di disoccupati con un trucco burocratico? In realtà no. Eppure la settimana scorsa due quotidiani, prima il manifesto e poi il Fatto, hanno lanciato l'allarme con articoli dai titoli catastrofistici: ne «La circolare che cancella i disoccupati», sul “quotidiano comunista”, il sottotitolo recita «I disoccupati saranno classificati come inattivi […] In questo modo il governo farà calare il numero di disoccupati e dirà che la ripresa esiste». Ancor più allarmistico il Fatto: «Jobs act, ministero del Lavoro ha cambiato le regole. “E i disoccupati spariranno dalle statistiche”». Tanto che il caso è arrivato addirittura in Parlamento, con una presa di posizione dei deputati 5 Stelle.Tutto si basa sulle affermazioni di una ricercatrice, Marta Fana, che firma in prima persona l'articolo sul manifesto e che viene citata in quello sul Fatto. La Fana commenta una circolare emessa dal ministero del Lavoro lo scorso 23 dicembre, affermando che «rendendo superflua l’iscrizione ai centri per l’impiego e quindi la ricerca attiva di lavoro, tramite i canali istituzionali, il governo procede a modificare le statistiche stesse del lavoro. Infatti, i soggetti "non occupati" non rientrano tra i disoccupati secondo la definizione dell’Istat». Pertanto, deduce, «se l’effetto scoraggiamento e fuga dai centri per l’impiego prevarrà, dal punto di vista statistico ci sarà un calo del numero dei disoccupati e del relativo tasso, senza che nulla sia realmente migliorato sul mercato del lavoro».Il giorno dopo il Fatto riprende la notizia: «Una quota di disoccupati rischia di sparire dalle statistiche Istat. E non perché hanno trovato un posto, ma solo grazie a un cambio di regole nei servizi per l’impiego». Nell'articolo Marta Fana, presentata come «dottoranda in Economia a SciencesPo Paris e collaboratrice de il manifesto» nonché come «colei che per prima ha segnalato l’errore del ministero del Lavoro sui numeri relativi ai contratti stabili ad agosto», viene invitata a dettagliare la sua denuncia, e spiega che «il questionario Istat sulla rilevazione delle forze di lavoro dedica un’ampia sezione ai contatti con i centri per l’impiego» e che «i dati dei centri per l’impiego sono usati sia dai sindacati sia dalle Regioni per la definizione e lo sviluppo di politiche attive a livello locale». Ma a sorpresa la Fana nell'intervista dice anche che «quindi, al di là della rilevazione Istat, una distorsione nel numero di disoccupati rende questa attività molto meno efficace». Come «al di là della rilevazione Istat»? Che senso ha questo inciso, considerando che è giustappunto la rilevazione Istat a fornire al pubblico le informazioni statistiche sui disoccupati in Italia? Purtroppo l'articolo non fornisce approfondimenti in questo senso: dalla percentuale di disoccupati citata nel titolo vira invece verso la critica del Jobs Act, paventando che i disoccupati saranno «dirottati verso le agenzie interinali», col risultato che «soprattutto quelli più vulnerabili saranno sempre più in balìa degli attori privati».I grillini, con una dichiarazione attribuita al «M5S Camera» e pubblicata sul blog del deputato bergamasco Claudio Cominardi, membro della Commissione lavoro della Camera, tuonano «Ecco svelata un’altra truffa del Jobs act. Non sapendo come abbattere la disoccupazione, il governo preferisce nasconderla» e proseguono accusando Palazzo Chigi di «inquinare le statistiche per nascondere il fallimento delle scelte dell’esecutivo».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto lumi a Francesco Giubileo, ricercatore tra i massimi esperti in Italia del funzionamento dei servizi per l'impiego e di recente entrato nel consiglio di amministrazione di Afol Metropolitana, la struttura che governa i centri per l'impiego del territorio milanese. Giubileo è categorico nel rispondere che tutte queste preoccupazioni non hanno semplicemente fondamento. «Una circolare che si occupa di aspetti amministrativi non può interferire con un'indagine campionaria di tipo statistico». Giubileo, classe 1980, spiega che le modifiche alle procedure introdotte dalla circolare «non avranno nessun effetto sul calcolo del tasso di disoccupazione: riprendendo le parole di Emilio Reyneri, professore emerito di Sociologia all'università Bicocca di Milano, non posso che evidenziare come la definizione di disoccupazione, adottata da tutti i paesi europei secondo le linee guida di Eurostat, si basi su coloro che dichiarano di aver fatto un’azione di ricerca di lavoro nel corso dell’ultimo mese».È importante a questo punto specificare che né Giubileo né Reyneri, che è anche co-autore del libro "Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi" uscito nel 2013, sono nemmeno lontanamente definibili come “renziani di ferro”: si tratta di due studiosi che anzi non hanno lesinato negli ultimi mesi critiche ad alcuni aspetti del Jobs Act che ritenevano insufficienti. Non ci troviamo dunque di fronte a una “difesa d'ufficio” dell'operato del governo, ma semplicemente di fronte a due esperti che smentiscono con decisione l'allarme lanciato da un'altra studiosa. A beneficio dei non addetti ai lavori Giubileo spiega con semplicità che per individuare i disoccupati l'Istat nella sua indagine statistica pone una domanda al suo campione rappresentativo chiedendo “Nelle ultime 4 settimane ha fatto qualcosa per cercare lavoro?”: «Da qui nasce la divisione tra disoccupati e inattivi». Chi risponde di sì viene classificato come disoccupato, chi risponde di no invece finisce nella casella degli inattivi.Semmai Giubileo condivide con Reyneri e altri la convinzione che «in Italia tale definizione esclude totalmente coloro che vorrebbero lavorare, ma non hanno fatto una recente azione di ricerca: il calcolo reale del tasso di disoccupazione dovrebbe considerare anche coloro che sono immediatamente disponibili al lavoro, pur non cercandolo attivamente. Il che porterebbe il tasso di disoccupazione in Italia al 20%». Entrano qui in gioco anche le definizioni internazionali e le convenzioni Eurostat che dicono a ciascun Paese come deve conteggiare i suoi disoccupati in modo da poter raffrontare le statistiche nazionali su basi omogenee. Modificare le modalità di “incasellamento” dei disoccupati non è affatto semplice: la Repubblica degli Stagisti si era occupata di questo, tempo fa, denunciando come molti stagisti venissero  – e tuttora vengano – ricompresi tra gli occupati pur senza avere un contratto di lavoro.Ma in conclusione, la circolare del ministero del Lavoro di dicembre cosa c'entra con il tasso di disoccupazione rilevato dall'Istat? Nulla. Anzi, secondo Giubileo anche «la considerazione che i dati sulle dichiarazioni di disponibilità (DID) possano essere utilizzati per attività di “concertazione” o sviluppo di “azioni anti-crisi” tra le parti sociali» è del tutto «errata». Il ricercatore, che ha portato avanti negli ultimi anni numerosi studi sull'incrocio domanda-offerta di lavoro e ha fornito consulenze a varie amministrazioni pubbliche su questo tema, assicura di non aver «mai visto utilizzare questi dati». Questo perché «le DID raccolte dai centri per l'impiego contengono numerose duplicazioni ed errori» e per la presenza, «soprattutto in passato, di molteplici “anomalie”  del sistema, per esempio disoccupati che si registravano solo per le cure mediche oppure per particolari  adempimenti amministrativi, come accadeva con i precari della scuola».Dunque, conclude Giubileo, «soprattutto in questi ultimi anni, nella gestione della Cassa integrazione in deroga sono state utilizzate altre fonti amministrative, in particolare alcuni microdati Inps, per individuare i destinatari delle politiche passive».La circolare insomma non modifica nulla (per la cronaca: si tratta della n° 34 del 23/12/2015 intitolata «Primi chiarimenti e indicazioni operative, relativamente al decreto legislativo n. 150/2015, con particolare riferimento allo stato di disoccupazione, alla condizione di non occupazione e all'applicazione delle norme del Capo II del suddetto decreto legislativo "Principi generali e comuni in materia di politiche attive del lavoro" al collocamento dei disabili di cui alla legge n. 68/1999»), e sopratutto non incide sulle domande del questionario Istat attraverso cui vengono rilevati i dati sulla forza lavoro e di conseguenza stilate le statistiche con i tassi di occupazione, disoccupazione e inattività, rendendo di fatto infondato l'allarme lanciato la settimana scorsa.  «La circolare, seppur complessa, è assolutamente condivisibile» conclude Giubileo: «Tuttavia è bene evidenziare, come del resto in merito a tutta la riforma del mercato del lavoro, che sarà necessario del tempo per un accurata e dettagliata valutazione. Meglio dunque evitare inutili allarmismi e analisi preliminari sulla presunta “efficacia” o meno di uno strumento che è entrato a regime da pochissimo tempo».Eleonora Voltolina

Alternanza scuola lavoro: dove sono le aziende, sopratutto al Sud, capaci di accogliere i giovani?

Apparentemente l’idea dell’alternanza scuola-lavoro – far fare a studenti delle superiori stage nelle aziende come parte integrante del percorso scolastico, uno dei pilastri della “buona scuola” di Renzi – non è solo buona, ma fa tirare un sospiro di sollievo a tutti quelli che pensano che si vada scuola non solo per accrescere le conoscenze ma anche per acquisire competenze e opportunità spendibili nel mondo del lavoro. Secondo Gianfelice Rocca, presidente di Techint e di Assolombarda, è addirittura «uno dei doveri morali dell’istruzione superiore», come ha dichiarato al Corriere della Sera. Tuttavia, come in Italia succede spesso, la legge pone più problemi di quanti ne risolva: se tutti possono convenire sull’opportunità di una maggiore e migliore connessione fra istruzione e occupazione, di dare un valore formativo a quelli che altrimenti sarebbero solo pseudo lavori non pagati, che spesso nella pratica finiscono per favorire l’abbandono scolastico piuttosto che il raggiungimento del diploma, nella pratica l’alternanza scuola-lavoro  rischia di diventare l’ennesima occasione mancata, indipendentemente dai protocolli d’intesa – si veda, per esempio, quello firmato dal Miur e da Confindustria a job&orienta lo scorso 27 novembre – e dalle proroghe, prima al 30 ottobre poi al 16 novembre, concesse alle scuole secondarie per presentare i progetti di alternanza previsti dalla guida operativa inviata dal Ministro Giannini l’8 ottobre ai dirigenti scolastici.In più mancano il regolamento previsto dalla Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza, la definizione delle modalità di applicazione delle norme di sicurezza sul lavoro per gli studenti impegnati in attività di stage, tirocinio o didattica di laboratorio. C’è poi l’incognita del registro nazionale per l'alternanza scuola-lavoro, della cui utilità si può dubitare visto che non sembra obbligatorio per le scuole utilizzare le imprese che si sono registrate per i progetti formativi, che la legge 107/2015 ha istituito presso le Camere di Commercio a decorrere dall’anno scolastico corrente e che non è ancora stato attivato. Il registro impone oneri burocratici ed economici – la compilazione di un articolato modello di autocertificazione e il pagamento di una imposta di bollo e diritti di segreteria per un totale di 155 euro – non indifferenti anzi forse scoraggianti per le imprese che intendono iscriversi, ed è diviso in due parti: la prima è un’area aperta e consultabile gratuitamente, in cui sono visibili le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili a svolgere i percorsi di alternanza, la seconda è una nuova sezione speciale del Registro delle Imprese di cui all’articolo 2188 c.c. a cui possono iscriversi le imprese per l’alternanza scuola-lavoro.Ma la principale difficoltà, come ha sottolineato il Criet, Centro di Ricerca Interuniversitario in Economia del Territorio dell’Università di Milano-Bicocca – di cui chi scrive è referente accademico per l’area di attività “Welfare & Politiche del Lavoro” –  sta nell’enorme numero di ore di alternanza che, in forza della legge, le scuole secondarie dovrebbero garantire ogni anno ai loro alunni: a regime, 150 milioni di ore. Di cui il 41% – oltre 60 milioni di ore – nelle regioni del Sud, oltre il 30% del totale nazionale nelle sole Puglia, Campania e Sicilia, più di 45 milioni di ore all’anno. Non basta, infatti, dire “si aprano le aziende al lavoro degli studenti”, ma serve la presenza di un tessuto industriale in grado di assorbire quest’offerta di alternanza scuola lavoro e, allo stato delle cose, semplicemente non c’è, soprattutto al Sud.Un secondo problema, che riguarda anche il Nord, è quello delle dimensioni d’impresa. L’87% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti: la “polverizzazione” del tessuto produttivo rende comunque molto problematico l’inserimento temporaneo di forza lavoro non formata; inserimento praticamente impossibile in imprese di produzione “nucleari”, nelle quali lo svolgimento di un’attività formativa su soggetti che poi non restano all’interno dell’azienda ha davvero ben poca ragion d’essere, giacché, per le sue dimensioni, queste imprese hanno esigenze di inserimento di personale molto limitate e diluite nel tempo e spesso temono  che il proprio esclusivo know-how, che sovente ne consente la sopravvivenza, venga trasmesso all’esterno favorendo la potenziale creazione di concorrenti qualificati.Criticità insuperabili? Non necessariamente: il Criet sta provando a suggerire soluzioni operative come la creazione della “Casa del lavoro”, in fase sperimentale presso il comparto aerospaziale campano. Si tratta di una struttura indipendente, esterna alle imprese, in grado di rappresentare la complessità dei processi aziendali. È un luogo dove gli studenti possono sperimentare il modello lavorativo e gestionale di un’azienda reale, con la possibilità di apprendere competenze tecnico professionali, sviluppare spirito d’iniziativa, creatività e la possibilità di assumersi responsabilità imprenditoriali. In altre parole un “simulatore d’impresa” che possa funzionare come stanza di compensazione fra mondo della scuola e mondo del lavoro, mettendo insieme reti di scuole e piccole imprese del territorio, coinvolgendo nel processo di formazione anche le istituzioni locali – particolarmente interessate anche al recupero ed alla riqualificazione di aree industriali dismesse o in difficoltà – e le associazioni imprenditoriali, che senza dubbio sono uno dei principali soggetti con i quali collaborare per creare percorsi formativi che stimolino ed incentivino la disponibilità delle imprese a partecipare utilmente alternanza scuola lavoro. Le “Case del lavoro”, modello replicabile sul territorio, potrebbero, inoltre, diventare centri di sperimentazione per l’applicazione e lo sviluppo di nuove tecnologie ai mestieri tradizionali delle microimprese italiane, spesso troppo focalizzate sul raggiungimento di obiettivi pratici di breve periodo anche per pianificare lo sviluppo futuro del loro business.Per ora gli stanziamenti governativi previsti – 100 milioni all’anno a partire dal 2016 per sostenere l’alternanza scuola-lavoro più 18,9 milioni previsti dal decreto 435/2015 – non permettono di pensare in grande: stiamo parlando di meno di 70 centesimi per ogni ora di formazione che dovrebbe essere erogata. Tuttavia l’importanza attribuita dal Governo e dal ministro dell’Istruzione sul progetto dell’alternanza, definito «una risposta concreta alla dispersione scolastica e alla disoccupazione giovanile», fanno pensare che su questa base sia possibile cominciare a costruire progetti di aggregazione di tutti i soggetti interessati alla creazione di una forza lavoro più preparata e motivata. Probabilmente una strada obbligata per consolidare e sostenere la ripresa proprio nell’economia dei territori. Francesco Bacchinidocente di Diritto del Lavoro presso l'università Milano Bicocca e Partner dello studio legale Lexellent

Startup, il problema in Italia è la mancanza di investitori

Un'Italia a compartimenti stagni, dove il benessere economico si tramanda di padre in figlio e l'ascensore sociale resta pressoché bloccato. E dove la strada verso l'imprenditorialità per i giovani è tutta in salita perché i capitali tendono a circolare solo in alcune fasce della popolazione. A delineare un quadro della società italiana così sconfortante – e ormai conosciuto ai più – sono i dati recentemente diffusi dal think tank IMille (ne fanno parte esponenti del Pd come Irene Tinagli e Ivan Scalfarotto, tra i membri del comitato di indirizzo), in occasione di un seminario dal titolo 'Imprenditoria giovanile, motore di sviluppoe mobilità sociale'. Vedere per credere: incrociando numeri provenienti da diverse fonti che calcolano «l'elasticità dei redditi tra generazioni» si legge nelle slide, emerge una «fortissima persistenza intergenerazionale delle disuguaglianze, maggiore che negli Usa», dietro all'Italia di due posizioni. Il nostro Paese è secondo in classifica dopo il Brasile, primeggiando anche su Regno Unito e Francia. Al lato opposto le solite virtuose Norvegia, Danimarca e Finlandia. Quanto «all'importanza della famiglia di provenienza», la conclusione è che «va oltre la carriera scolastica», è scritto. Tanto che lo svolgimento della pratica professionale di architetti e ingegneri, tanto per fare un esempio, nella metà dei casi è all'interno di studi o aziende di genitori, parenti o amici di famiglia. Secondo il report anche il controllo societario «passa spesso (e sempre di più) di padre in figlio», specie se le imprese sono «ben avviate e prospere» e non hanno più di quarant'anni di attività alle spalle. Ed è qui che spunta un altro elemento interessante. La media dei trasferimenti di capitali per aziende di questo tipo è proprio intorno ai 42 anni, che – guarda caso – è anche l'età media dell'avvio di start up italiane («start up motore di crescita per quali 'giovani' italiani?» ironizza infatti lo studio). La maggior parte degli startupper ha tra i 40 e i 49 anni (34%), contro i 30-39enni che occupano il 32% del totale. A dare avvio a nuove attività sono spesso laureati di secondo livello o con master: insieme formano il 65% del totale. Niente giovanissimi insomma, come accade invece in Silicon Valley. E uno dei motivi è il nodo dei finanziamenti. «Gli Stati Uniti pullulano di business angels» fa notare il moderatore del dibattito Raoul Minetti, della Michigan State University [nella foto poco sopra], «in Italia dove vai? Di certo non in banca, dove se parli di start up si mettono a ridere». Il bisogno di finanziamenti scatta «nel momento in cui si va oltre e si assumono dipendenti» prosegue. Senza «un fondo equity si resta a terra e rimane tutto in ambito familiare» fa notare. Certo, la start up può nascere anche su «una base molto leggera, senza sprecare soldi in asset, ma investendo sulle risorse» spiega però uno dei giovani imprenditori intervenuti al dibattito, titolare di un centro di consulenza. Ma il problema fondamentale «sono gli investitori» ribadisce Minetti: «se si inizia con i 20mila euro di mamma e papà senza aggiungere altro dopo, l'iniziativa resta un fatto di bottega. Non si diventa azienda con un finanziamento one shot».Eppure l'Italia, che così male si colloca nella mobilità sociale, è ancora tra i top country per brevetti presentati negli Usa. Lo sottolinea  Lisa Cook [nella foto a sinistra], del Department of Economics, Michigan State University e consulente alla Casa Bianca. L'Italia nel 2014 è stata infatti undicesima per brevetti concessi negli States (era all'ottavo posto nel 2008 e al settimo nel 1982). Ai primi posti Giappone, Germania e Corea del Sud. Una volta tanto non siamo in fondo alla lista, anche se stiamo perdendo qualche posizione. Quali sono dunque le sfide che economie avanzate come l'Italia dovrebbero prospettarsi a detta dell'economista? Per esempio «maggiori transfer of technology, ovvero aprire un dialogo tra università e imprese affinché le prime acquisiscano competenze e metodologie dalle seconde». E ancora, suggerisce la Cook, «più innovazione, innescando uno spillover che possa raggiungere nuove imprese, e crei oppportunità per il venture capital, business angels e banche». Difficile però passare dalla teoria alla pratica, purtroppo. Ilaria Mariotti 

Giovani consulenti del lavoro: «Alle nuove generazioni mancano le informazioni sul mercato occupazionale»

«Fare rete, mettere insieme competenze e informazioni provenienti da diversi soggetti e creare sinergie»: è questa secondo Giacomo D'Arrigo, presidente dell'Agenzia nazionale giovani, «la chiave per avvicinare i giovani al mercato del lavoro e favorire il dialogo tra nuove generazioni e istituzioni». D'Arrigo ha parlato all'incontro «I giovani di oggi e il lavoro di domani» organizzato dall'ente che raccoglie le nuove leve dei giuslavoristi italiani, l'Associazione nazionale giovani consulenti del lavoro. L'assemblea di fine anno è stata l'occasione per fare il punto sullo stato del mercato lavorativo italiano, da cui è emerso un dato: c'è un distacco tra ragazzi e occupazione causato non solo dalla mancanza di posti di lavoro. A essere lacunose sono soprattutto le informazioni sui diritti, le tipologie di contratti, le tutele. In questo senso l'Ang («ente attuatore in Italia di «Erasmus+, il cui obiettivo è impegnare tutti i fondi che l’Europa mette a disposizione») ha come obiettivo quello di «portare avanti alcune attività con i consulenti del lavoro per fornire ai giovani strumenti per renderli più consapevoli» di fronte alle possibilità di impiego.Va in questa direzione un piccolo libro edito dalla Fondazione consulenti del lavoro: Ci vediamo al lavoro, dieci risposte per dieci domande, presentato da Giorgia D'Errico, assistente di Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera. Gli autori (oltre alla D'Errico anche la direttrice della Repubblica degli Stagisti, Eleonora Voltolina) affrontano in un centinaio di pagine alcune tra le questioni più spinose del mercato del lavoro attuale che possano fare da bussola per un giovane alla ricerca della propria strada. Nel primo capitolo si parla ad esempio della fortuna come ingrediente basilare per essere reclutato in qualche azienda: ma che «questa nasce dall'incontro tra preparazione e occasione, e non dipende invece dalla mano invisibile del destino». E ancora, «flessibilità non fa (sempre) rima con precarietà», si legge, «perché se il mito del posto fisso è destinato via via a tramontare nel Terzo Millennio, non è detto che un'alternativa occupazionale più elastica sia del tutto negativa». Si passa poi al concreto nei capitoli dedicati alla scelta di emigrare, dove si illustrano le diverse chance a disposizione - da Erasmus a Eures al programma Leonardo -, alla scrittura del curriculum vitae (sottolineando qui l'importanza dei social network), per finire con una panoramica sul funzionamento in Italia dell'apprendistato e dei tirocini, e sui siti da consultare quando si è a caccia di un ingaggio.Cesare Damiano, già ministro del Lavoro e oggi presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha raccontato le ultime novità in fatto di politiche per il lavoro destinate ai giovani al momento dell'elaborazione della legge di Stabilità. Nel dibattito, ha riferito, presente anche il nodo Dis-coll (l'indennità di disoccupazione per i collaboratori), di cui è stata chiesta - e poi approvata con il passaggio della legge - l'estensione anche per il 2016. Restano esclusi però – e su questo sono scoppiate le polemiche appena prima di Natale - i dottori di ricerca. «Si scatenano appetiti attorno a questa legge» ha spiegato Damiano, «perché tutto finisce in commissione Bilancio», dove sulle richieste avanzate viene messa la parola definitiva. E questa volta a soccombere è stato chi fa ricerca.Sulle pensioni invece a detta di Damiano «si fa terrorismo». Il tema è salito alle cronache nelle scorse settimane per le dichiarazioni del presidente Inps Tito Boeri sulle incertezze a cui vanno incontro i giovani riguardo il loro futuro pensionistico. «Ma se il sistema produttivo è tale per cui si inizia a avere contributi regolari intorno ai 35-40 anni, è chiaro che sarai un nuovo povero». L'obiettivo è dunque «avere carriere continue con una contribuzione relativamente stabile». Di qui l'elogio da parte del deputato al Jobs act e alle tutele crescenti che «possono avere questa caratteristica, a differenza del lavoro autonomo». Gli incentivi fiscali alle assunzioni con questo inquadramento «devono però durare nel tempo». Bisognerà dunque stare a vedere cosa sceglierà di fare il Governo nel 2016 su questo tema.Ilaria Mariotti 

WorkHer: una piattaforma che aiuta le donne a essere protagoniste nel mercato del lavoro

Aiutare le donne a entrare, rientrare e rimanere nel mondo del lavoro. È l’obiettivo di WorkHer, una piattaforma dedicata a tutte le donne, di tutti gli ambiti lavorativi. Lanciata sei mesi fa e già molto seguita nel nord Italia, in particolare a Milano, e nella città di Roma, è nata dall’impegno di Silvia Brena, amministratore delegato di Network Comunicazione, e di Riccarda Zezza, presidente di Piano C: ad oggi conta già 3mila iscritte e ha ottimi volumi di traffico anche in grandi capoluoghi del sud come Napoli e Palermo.L’idea è nata «dalla consapevolezza che troppe poche donne lavorano. Partiamo da un dato: all’appello del mercato del lavoro in Italia mancano dieci milioni di donne» spiega alla Repubblica degli Stagisti Silvia Brena, giornalista, oggi ceo di Network Comunicazione e in passato direttore di Cosmopolitan e vicedirettore di IoDonna. «Questo significa che stiamo perdendo ricchezza per il sistema Paese: sia da un punto di vista economico che di risorse sociali, perché le donne sono portatrici di una capacità di pensiero laterale, la capacità multitasking, che in questo modo si perde».   Un gap che «va assolutamente colmato» e a cui WorkHer, in cui al momento lavorano una project manager, un consulente per la programmazione e i vari membri di Piano C e NC sia per i contenuti che per la parte grafica, trova una soluzione innanzitutto con la capacità di fare rete. «Se le donne sono fuori dal mercato del lavoro hanno un problema di connessione» osserva Brena. «E noi sappiamo quanto il capitale delle conoscenze e di chi riesce a supportarti nella ricerca e interiorizzazione del tuo lavoro sia importante. L’altro problema di queste donne è la mancanza di informazione, ad esempio sui bandi di concorso. E poi c’è l’ultimo elemento: la formazione, quindi la capacità di essere consci del proprio valore e della strada che si vuole fare». WorkHer nasce per colmare questi gap. Sul portale, infatti, si può accedere a informazioni molto selezionate su bandi particolari, si possono creare nuove connessioni e non manca la parte formativa. «Sul sito c’è un test che si chiama Est, ed è l’acronimo di esplora scopri e trasforma: è un self assessment tool formulato e ideato da un pool di psicologhe del lavoro e sociologhe dell’università Cattolica di Milano fatto solo per WorkHer» spiega alla Repubblica degli Stagisti Silvia Brena. «Il test identifica attraverso quattro item che sono fare rete, capacità esecutiva, capacità relazionale e problem solving, quali sono le proprie potenzialità e la distanza tra gli obiettivi e lo stato attuale della propria formazione e conoscenza». Poi in base ai risultati si può decidere come migliorare le competenze individuali. L’elemento della piattaforma oggi più apprezzato dalle iscritte è la rete, ovvero la possibilità di creare una community. WorkHer offre, infatti, una rete di mentor cioè di donne che hanno raggiunto condizioni professionali di un certo livello e che hanno voglia di restituire la conoscenza assimilata fino ad oggi. «Il tema della restituzione è molto importante ed è rappresentato da queste donne che mettono a disposizione gratuitamente il loro tempo per fare un lavoro di mentorship per chi cerca un lavoro o ha voglia di cambiarlo». Accanto alle mentor ci sono anche delle professioniste, che dopo un primo contatto propongono consulenze e servizi a pagamento, senza l'intermediazione del sito. WorkHer è una piattaforma di contenuti che non ha profitti visto che è un progetto sociale. «Abbiamo dei partner commerciali, quindi aziende che credono in questo programma, prima fra tutte Intesa Sanpaolo», che ha dato il contributo iniziale. Poi c’è stato Monster che ha creduto nel progetto a ridosso del lancio. Ma non ci sono entrate dirette, «non solo perché far pagare i contenuti in rete è difficile se non impossibile. Ma soprattutto perché la nostra piattaforma ha uno scopo sociale alto: portare le donne in un percorso di reintegro o integrazione nel mondo del lavoro».   Scopo che riesce a raggiungere ogni giorno grazie proprio alla collaborazione tra le donne, contro tutti gli stereotipi che le vorrebbero in lotta tra loro sul lavoro. Perché invece «le reti al femminile funzionano, perché c’è una sorta di solidarietà». Capita spesso, infatti, che le utenti workher si conoscano e diano vita a nuovi progetti. «È capitato per esempio quando abbiamo fatto alcuni eventi sul territorio dove le iscritte si sono trovate, piaciute e hanno utilizzato la competenza una dell’altra». E poi ci sono i casi in cui si lavora fianco a fianco con la propria mentor per avere una guida per esempio su come costruire una start up o un piano di comunicazione e magari si sfruttano le sue conoscenze per realizzare il proprio progetto. «C’era una giovane architetta che mi ha chiesto la mentorship perché dopo anni di lavoro in una onlus era arrivata a Capoverde dove ha deciso che voleva fare la stilista. Aveva creato la sua prima linea, ma voleva fare il salto per diventare una griffe. Così l’ho messa in contatto con una professionista che era nella mia rete di conoscenze e si era trasferita in Giappone per aprire un sito di ecommerce. Grazie a questa connessione la giovane architetta sta producendo una linea per questo portale giapponese».Una buona notizia, e di certo non l’unica. Sul portale è presente una sezione “Good News” dove mettere da parte il pessimismo e raccontare una volta a settimana tre buone notizie sul mondo del lavoro femminile. «Abbiamo bisogno di far veicolare energia positiva. Perché partiamo da un presupposto molto negativo: siamo a meno 10 milioni». Ovvero dieci milioni di donne in Italia che mancano dal mercato del lavoro. «Perciò vale la pena segnalare tutte le notizie che ci regalano una visione diversa e mostrano l’apertura alle donne nel mercato del lavoro». In questa lettura positiva si cala anche la sezione dedicata ai bandi in scadenza: cinque nuovi selezionati ogni mese un po’ per tutti i gusti. Perché la maggior parte delle donne vuole costruire una propria impresa. «Sono i sondaggi e gli indicatori del Censis a raccontare come la capacità propulsiva e imprenditoriale delle donne sia altissima. Ma il problema maggiore è il reperimento dei fondi che ti consentano di supportare il lancio e di far fronte al day by day». Così ci pensa WorkHer a fare da tramite.      Un progetto che va incontro alle donne e cerca di aiutarle per cambiare il dato, agghiacciante, che vede sotto il 50% la percentuale di donne che lavorano. Di strada ce n’è ancora tanta da fare. Il progetto di Piano C e Network Comunicazione cerca di invertire la rotta, ma «non è la panacea di tutti i mali» perché c’è un tema di cultura di fondo che è ancora difficile da smontare.Il bilancio, però, oggi è positivo. «Conosco il mercato femminile, avendoci lavorato per vent’anni come direttore di giornali del settore: e la mia sorpresa è stata grandissima quando ho visto l’enorme potenzialità e la risposta immediata e forte della community», dice Brena. Perché in sei mesi dal lancio, di cui tre di piena estate, si è avuta un’ottima risposta: 3mila iscritte, con il 78% che sta facendo il test. Ora l’obiettivo è arricchire la piattaforma, aumentando le mentor, le professioniste e i tool di formazione a disposizione. Con una novità su cui si sta ragionando: fare una serie di contest per imprese al femminile o singole professioniste con premi per le idee più meritevoli. Perché alle donne fuori dal mercato del lavoro bisogna infondere ottimismo, tanto che alle giovani Brena non ha dubbi nel dire che il consiglio più importante da dare è «Crederci, crederci, crederci». Resistenza e resilienza sono le parole chiave che le workher di oggi devono impiegare.Marianna Lepore

Brain, la start-up che ti fa andare più veloce in moto e ti aiuta se cadi

Un apparecchio che permette di andare più veloce con la moto quando sei in pista. E che aiuta se, in strada, si viene coinvolti in un incidente. Tutto questo è Brain, uno strumento sviluppato dall'omonima start-up fondata da due giovani ingegneri, Simone Grillo (29 anni) e Timoteo Ziccardi (34). «L'idea mi è venuta un giorno mentre ero in vacanza in Austria» racconta Grillo: «sono entrato in un megastore e ho visto una Ducati Panigale con diverse telecamere montate sopra. Da lì è scattato il resto». Dove il “resto” è «un apparecchio che permette di quantificare l'emozione». Detto altrimenti: «è come un piccolo computer con dei sensori che viene montato a bordo della motocicletta. Il software è basato su Android e questo permette anche a degli sviluppatori esterni di programmare in un ambiente familiare e creare nuove applicazioni». Ovvero applicare la tecnologia di Brain anche ad altre discipline sportive più o meno estreme, dall'arrampicata al paracadutismo. Montato su una moto - «ma bisogna usarlo soltanto in pista, non in strada» precisa Grillo - registra dati come il tempo sul giro e la velocità. «Unito ad una telecamera Go pro i dati possono essere montati in overlay sul filmato». E permettere così di rivedere la propria prestazione come se si fosse un pilota della MotoGp. «Rivedendosi è possibile capire dove e come si può “spingere” di più».Brain è utile anche una volta usciti dalla pista. «In strada la guida è completamente diversa. E qui si innesca un discorso di sicurezza». L'apparecchio è infatti in grado di capire se c'è stato un incidente, ad esempio registrando le brusche accelerate che sono tipiche quando avviene uno scontro. O “capendo” che la moto si trova rovesciata sull'asfalto. In situazioni come questa non solo lancia l'allarme ad altri dispositivi Android sincronizzati: «L'idea è anche quella di rendere disponibili a chiunque si connetta la cartella clinica, il gruppo sanguigno e le allergie della persona coinvolta». Tutte informazioni preziose per i soccorritori.I due ingegneri si sono conosciuti mentre entrambi lavoravano per un'azienda del gruppo M31, e a un certo punto hanno deciso di sviluppare insieme questo progetto. L'idea è piaciuta, tanto che hanno ricevuto subito un finanziamento da 150mila euro da parte di Ban Trentino, un network di business angels, e da Industrio, incubatore di start-up di Rovereto. Risorse che sono state utilizzate anche per versare il capitale sociale - 10mila euro - necessario per fondare la loro srl. «Ho contattato l'incubatore e ho fatto una prima presentazione via Skype. Quindi ci siamo incontrati di persona ed abbiamo partecipato ad una presentazione di fronte ad un gruppo di investitori». L'incontro ha avuto esito positivo, i due startupper hanno ricevuto i primi fondi e si sono trasferiti da Padova a Rovereto.L'azienda è nata ufficialmente a giugno di quest'anno e a metà ottobre ha partecipato alla Maker Faire di Roma; a gennaio Grillo e Ziccardi saranno al Ces di Los Angeles. In questo momento è già possibile preordinare il prodotto, e a febbraio partirà una campagna di crowdfunding reward based per raccogliere la somma necessaria, circa 90mila euro, per arrivare alla fase di go to market. «Questa campagna per noi avrà anche una funzione importante in termini di marketing», precisa Grillo. Il punto infatti è quello di costruire attorno a Brain una comunità e lasciare che sia quest'ultima ad "hackerare" il dispositivo, sviluppandone nuove funzionalità. Ad esempio, elaborando software che permettano di utilizzare Brain anche in altre discipline, sempre con la sua doppia funzionalità: da un lato aiutare a migliorare le proprie prestazioni, dall'altra favorire i soccorsi in caso di incidente.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Quando è l'azienda a sbagliare l'annuncio di lavoro

«Cerchiamo giovani lavoratori, ma agli annunci non risponde nessuno». Ciclicamente alcune aziende italiane si rivolgono ai giornali per lamentare una scarsa risposta alle loro inserzioni di lavoro, ingenerando il solito e trito dibattito a suon di editoriali sui giovani italiani che non hanno voglia di “sporcarsi le mani”. L'ultimo, in ordine cronologico, riguarda la Laser Group di Strambino, in provincia di Torino, che cerca senza successo da circa sei mesi cinque programmatori e analisti. Ma in questo caso non c'è, a ben vedere, nessuna “notizia”: i programmatori sono molto ambiti sul mercato del lavoro, e difficili da reperire; inoltre, ve ne sono pochi disposti a vivere e lavorare in una cittadina di provincia, che di solito risulta attrattiva solo per chi già ci vive. Ma il problema degli annunci a vuoto riguarda in realtà anche categorie meno gettonate: tornando indietro allo scorso giugno, il titolare di un ristorante di Oderzo in provincia di Treviso si lamentava, sui giornali locali, di non riuscire a trovare camerieri. Circa un anno fa la J Colors, una società nel settore delle vernici, offriva quattro posti come sales account: nonostante uno stipendio da più di 50mila euro, le selezioni andarono quasi deserte e il caso finì anche sull'Espresso. Che in Italia sia difficile far combaciare offerta e domanda di lavoro è innegabile. Ma è sempre colpa di chi cerca lavoro, oppure talvolta sono le aziende che formulano male, o sui canali sbagliati, le loro richieste?«Ci sono almeno tre motivi per i quali la domanda e l'offerta di lavoro non si incontrano», spiega alla Repubblica degli Stagisti Osvaldo Danzi, executive recruiter per Carriere Italia e fondatore del gruppo LinkedIn “Fior di Risorse”. Due riguardano non le aziende, bensì i candidati: «Il primo è legato sicuramente al sistema scolastico. Sono spariti gli istituti tecnici e, allo stesso tempo, scuola e mondo del lavoro oggi parlano due lingue troppo diverse». Il secondo motivo riguarda in parte ancora la formazione: «Il mercato del lavoro richiede delle vere e proprie strategie di accesso. Bisogna non solo sapersi presentare ma anche saper indirizzare le proprie candidature nel modo e nel posto giusto». E a scuola questo non lo insegnano: insomma, «senza competenze e un buon cv, niente lavoro».La terza, ma non ultima, causa del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro riguarda, invece, la qualità degli annunci. «Non è raro vedere pubblicate offerte di lavoro scritte male o sovradimensionate rispetto alla propria struttura aziendale e spesso anche al proprio portafoglio», prosegue Danzi. «Si cercano profili molto strutturati offrendo solo di contratti di stage e di apprendistato, oppure figure strategiche... a partita Iva! Questo in qualche modo ha falsato il mondo della ricerca di lavoro, creando molta insofferenza nei candidati e in certi casi anche molta rassegnazione». Anche agli uffici stage delle università talvolta giungono richieste quasi impossibili. «Nella nostra esperienza non troviamo particolari difficoltà a comprendere quali profili le aziende stanno cercando ma riscontriamo, alcune volte, richieste contraddittorie», spiega Raffaella Mecangeli, responsabile dell'Ufficio Stage dell'università Lumsa di Roma. «Può accadere che ci giungano offerte di stage extracurricolari per i quali l'azienda richiede almeno un anno di esperienza: questa è una contraddizione in termini! Infatti uno stage extracurricolare di formazione e orientamento può essere attivato solo nei 12 mesi successivi al conseguimento del titolo che sia di laurea, di master o di scuola di specializzazione. In questi casi le imprese non dovrebbero rivolgersi agli atenei, bensì richiedere questi profili alle agenzie di lavoro». Di fronte ad un'offerta di stage di questo tipo, «cerco nel nostro bacino di ex studenti laureati alla Lumsa da almeno 12 mesi e fornisco all'azienda il curriculum del candidato, specificando che l'ex studente non può svolgere più stage attraverso di noi e che quindi, se interessati, devono formulare un'offerta di lavoro». Ma al di là di offerte di lavoro confuse con stage o sovradimensionate, «chi si occupa di ricerca del personale, spesso, non ha le competenze tecniche sulla figura professionale che sta cercando», aggiunge Maria Grazia Balduino, cacciatrice di teste per Arpa Consulting a Torino. Come dire: senza conoscenze tecniche non si va da nessuna parte. «I profili sono spesso complessi, come è complesso ciò che le aziende vogliono. E queste esigenze particolari non sono sempre correttamente percepite da chi si occupa di reclutamento. È necessario, quindi, che il reclutatore apra un canale di dialogo con il responsabile tecnico per capire alcuni aspetti che il direttore del personale raramente conosce».Negli ultimi anni Osvaldo Danzi ha registrato una grande debolezza nella dirigenza delle risorse umane, sia dal punto di vista decisionale che di qualità della selezione. «Intravedo una grossa difficoltà da parte dei direttori del personale “vecchio stile” a relazionarsi con gli strumenti più innovativi e una forte resistenza ad aggiornarsi e a partecipare. Il recruiting è finito in mano a giovani e inesperti oppure viene affidato, insieme al marketing, ai figli dei titolari, perché percepita come attività non collegata direttamente al business».E poi: l'annuncio è sempre la strada più corretta? Secondo una ricerca del 2013 condotta da Spinlight, società di outplacement (cioé ricollocamento lavorativo di dipendenti licenziati) che opera in Italia, tra le soluzioni ritenute più valide dai direttori delle risorse umane ci sono ancora gli annunci online (84%) soprattutto per figure meno specializzate. Ma non sempre si tratta della strada più efficace. «Talvolta, l'azienda sbaglia la scelta del canale di reclutamento. In certi casi, più che l'annuncio, le aziende dovrebbero utilizzare l'università o rivolgersi al proprio network di contatti aziendali e creare un veloce passaparola», spiega la Balduino. Anche se questo perpetuerebbe ciò che in realtà rappresenta uno dei mali più gravi del mercato del lavoro italiano, e cioè l'assenza di meritocrazia e di “disputabilità” dei posti di lavoro, allocati fin troppo spesso tramite conoscenze anziché aprendo la competizione e valutando i cv più interessanti indipendentemente dai legami personali dei recruiter.C'è poi il capitolo social network. Secondo la più recente indagine Adecco Work Trends Study, condotta su quasi 150 recruiter interni alle aziende, le attività di ricerca dei profili professionali si svolgono in due terzi dei casi sui social network, con un incremento del 19% rispetto allo scorso anno. Se l'interesse verso il digitale sta crescendo nelle aziende, tra i cacciatori di teste, invece, i social network sono già praticamente indispensabili: li utilizzano oltre nove intervistati su dieci. È quanto emerge da un'altra recente indagine, stavolta di Jobvite, condotta su 1.400 professionisti del settore. Il più utilizzato è ovviamente LinkedIn (87%), seguito da Facebook (47%) e Twitter (47%). E tornando allo studio di Adecco, coloro che trovano lavoro attraverso i social network sono l'8,4% dei candidati.«LinkedIn è importante per i cacciatori di teste e fondamentale per i candidati che vogliono farsi trovare. Chi non è su LinkedIn, non esiste», conferma Osvaldo Danzi. «Questo social network ha un aggiornamento costante e continuo da parte dei candidati che lo rende uno strumento strategico, superando completamente i vecchi portali del lavoro dove ormai si trovano solo cv obsoleti e mai aggiornati. Per le aziende significa non solo trovare candidati ma anche posizionarsi in un'ottica di employer branding: le pagina corporate di LinkedIn hanno un grande impatto in termini di visualizzazione, spesso più visitate degli stessi siti aziendali e dove è possibile pubblicare e far conoscere le offerte a migliaia di candidati in tempo reale». Ma anche con questo mezzo non sempre le aziende agiscono nel modo migliore. «Alcune non usano lo strumento corporate: si muovono su LinkedIn attraverso gli account personali dei propri reclutatori», conclude Danzi. «Se, invece, viene utilizzato correttamente, permette di raggiungere l'80% delle figure normalmente richieste».Paolo Ribichini

Contratti e occupazione, come evitare di «dare i numeri»

«Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti. Anche le cifre, sarebbe doveroso aggiungere. A quanto pare però questa precisazione è sfuggita a qualcuno. In molti ricorderanno i dati diffusi a fine estate dal ministero del Lavoro, che aveva parlato di oltre 630mila nuovi assunti a tempo indeterminato tra gennaio e luglio 2015, salvo poi correggere il tiro e arrivare a 327mila. Non si tratta dell’unico «errore» ammesso da Palazzo Chigi sui risultati del Jobs Act: molta confusione si è creata anche su collaborazioni e apprendistato. E non è certo un problema nato col governo Renzi: più o meno ciclicamente scoppia qualche bufera sui numeri, soprattutto relativi al tema dell'occupazione. E leggendo giornali e documenti non è raro imbattersi in una vera e propria «selva» di numeri: valori assoluti, percentuali, confronti tra semestri e anni, che non sempre «tornano».La Repubblica degli Stagisti ha provato a capire quali possono essere le cause di queste discrepanze e quali dovrebbero essere i criteri giusti per raccogliere, spiegare e interpretare i dati sul lavoro. Giuseppe Roma, 66 anni, direttore generale della Fondazione Censis, suggerisce di partire dalle diversità tra le fonti: «Innanzitutto per valutare l’andamento dell’occupazione bisogna capire le differenze fra le due principali fonti di dati: ministero del Lavoro e Inps da una parte, Istat dall'altra. I dati del ministero registrano le comunicazioni obbligatorie che il datore di lavoro deve effettuare quando assume o quando si conclude un rapporto di lavoro. Si riferiscono al flusso e non contabilizzano le teste, cioè i lavoratori. Inoltre riguardano il solo lavoro dipendente. Userei con molta cautela questi dati. La rilevazione Istat, invece, è quella più attendibile, soprattutto il dato trimestrale. In questo caso si tratta di un’indagine su un campione di 65mila famiglie (legali o di fatto), residenti in circa 1.300 comuni. Questo campione viene articolato, da più di dieci anni, su base mensile rendendo anche possibile così la disponibilità di dati mese per mese. La rilevazione viene effettuata con la stessa metodologia in tutti i  paesi dell’Unione Europea. Considero i dai trimestrali Istat quelli più attendibili». Una prima discriminante deve quindi essere fatta guardando la fonte dei dati e tenendo ben fermi nella mente i differenti criteri alla base dei rispettivi conteggi: ministero/Inps registrano i dati sui contratti dei dipendenti, l’Istat sulle persone. Nel calcolo dei nuovi contratti attivati è bene però non perdere di vista un altro aspetto: la differenza tra contratti attivati e contratti cessati, che restituisce il valore «autentico» sull’effettivo aumento di occupazione.  Un altro elemento importante è la forma con cui il dato numerico è presentato, cioè valore assoluto o percentuale: «Le regole per non creare confusione sono precise, anche se presentano qualche complessità.  Consiglierei a tal fine di usare i valori assoluti in modo da valutare più correttamente le variazioni. I dati in percentuale spesso vengono interpretati in modo non corretto. Il tasso di disoccupazione è quello che crea maggiore confusione. Non si tratta della percentuale dei disoccupati sulla popolazione. Quel 44% di disoccupazione giovanile, ad esempio, non vuol dire che ci sono 44 disoccupati ogni 100 giovani fra 15 e 24 anni, ma ogni 100 giovani di quell’età presenti nel mercato del lavoro come occupati o come persone alla ricerca di un lavoro. Se usiamo di più i valori assoluti controlleremo meglio le variazioni nel tempo», spiega Roma alla Repubblica degli Stagisti.Altro errore frequente l’utilizzo di dati non «destagionalizzati»: vengono messi a confronto dati  di periodi differenti (ad esempio dicembre 2014 con un altro mese di anni precedenti). È importante invece mettere a confronto dati gli stessi mesi o comunque periodi privi dell’effetto «stagionalità».Calando queste indicazioni nella realtà si ottengono delle evidenze ben concrete: «Se analizziamo i dati degli ultimi quattro anni, ad esempio, notiamo che quasi tutta la riduzione degli occupati si registra nel lavoro autonomo e non in quello dipendente» rileva Roma: «Inoltre, l’industria à stabile, i servizi aumentano mentre il crollo occupazionale si è registrato nelle costruzioni. Infine, il lavoro diminuisce nel Mezzogiorno, mentre è aumentato nel Centro Nord, anche se di poco».Di chi è la responsabilità della corretta diffusione di queste informazioni? I giornalisti non sono esenti da colpe: secondo il direttore del Censis «da cronisti si trasformano in opinionisti e persino in analisti, rinunciando alla fondamentale funzione di utilizzare gli esperti». Ma anche la politica fa spessissimo un uso strumentale dei dati: «Mi rendo conto che nel gioco mediatico e politico si abbia l’ansia di usare i dati per dimostrare che le cose vanno bene o al contrario che tutto va sempre male. Ma i dati ci devono aiutare a capire, bisogna interpretarli con correttezza. E soprattutto non bisogna dare giudizi affrettati. Ci si guadagna in affidabilità», conclude.Le cifre insomma non vanno solo raccolte e scritte, ma anche e soprattutto interpretate e contestualizzate seguendo criteri ben precisi per evitare di fare errori. E di veicolare al grande pubblico informazioni imprecise, o addirittura fuorvianti. Chiara Del Priore

Precari della giustizia, ennesima proroga per i tirocini nei Tribunali: ma il nuovo bando lascerà a casa mille persone

La loro sorte era rimasta nel limbo dall’aprile di quest’anno; ora per i tirocinanti degli uffici giudiziari si apre la possibilità di un nuovo stage lungo ben 12 mesi con un rimborso spese di 400 euro mensili. Il 4 novembre il ministero della giustizia ha, infatti, pubblicato le modalità e i termini per la partecipazione alla selezione di 1502 tirocinanti per un «ulteriore periodo di perfezionamento nella struttura organizzativa “Ufficio per il processo”». L’ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, che i tirocinanti utilizzati dal 2010 ad oggi negli uffici giudiziari di tutta Italia sono necessari per il funzionamento del settore giustizia. A tal punto da consentire un susseguirsi di periodi di “tirocini formativi”, “completamento di tirocini” e “perfezionamento” che in nessuna normativa sono mai stati contemplati. La Repubblica degli Stagisti da tempo segue con attenzione il caso: abbiamo ricostruito la vicenda, quando l’ultima parte del periodo di stage era stata interrotta senza spiegazioni; abbiamo raccolto la testimonianza diretta di una stagista cinquantenne ex cassintegrata, poi ad aprile abbiamo riportato la "buona notizia" dell’attivazione di un’altra tranche di ore già previste e approvate nel piano del tirocinio ma mai svolte. Senza dimenticare la protesta del 28 aprile indetta dalla Cgil per sensibilizzare la politica ai problemi di questi lavoratori lasciati in mezzo a una strada. L’assurdità di questo nuovo provvedimento è già nel testo dell’avviso, in cui si parla di «un ulteriore periodo di perfezionamento della durata di dodici mesi». Come se dopo cinque anni di tirocini, con nomi diversi ma svolti nello stesso luogo e con gli stessi compiti - il primo bando è partito nel giugno 2010 e aveva una durata annuale - ci fosse davvero bisogno di altro "perfezionamento". Senza contare che tutto questo è palesemente contro legge, visto che la normativa vigente sugli stage è molto chiara sulla durata: non superiore a 12 mesi per i tirocini di inserimento e reinserimento, proroghe comprese. Nonostante il ministero della giustizia debba vigilare sul rispetto delle norme, infatti, è lo stesso ministero a creare contra legem l’ultimo tassello di questa storia, con il decreto interministeriale del 20 ottobre che ha indetto la procedura di selezione. Le modalità e termini sono state stabiliti due settimane dopo, mettendo come limite temporale massimo per la presentazione delle domande la mezzanotte del 19 novembre. La Repubblica degli Stagisti ha provato a contattare il ministero della Giustizia per parlare con il direttore generale che ha firmato il provvedimento e capire come sia stato possibile proseguire per cinque anni con stage, che avevano nomi diversi ma stessi compiti e coinvolgevano sempre le stesse persone, come se fossero stati un unico grande tirocinio. Purtroppo, però, non è riuscita ad avere ancora una risposta dall'ufficio stampa. Il bando contiene per i suoi destinatari alcuni lati apparentemente positivi, tanto da essere definito da Gianna Fracassi, segretario confederale Cgil, «un primo passo importante». Eppure anche questa volta ci sono numerosi problemi: primo fra tutti il numero dei tirocinanti. Sui 2.600 stagisti degli uffici giudiziari, che da qualche tempo si sono autodefiniti "precari della giustizia", ben 1100 resteranno fuori. Ma su questo punto Fracassi dice alla Repubblica degli Stagisti che «per gli altri mille abbiamo l’assicurazione da parte del ministro che si dovrebbe aprire un tavolo con le Regioni per trovare una soluzione». Perché il punto centrale per il sindacato è che «ci deve essere una soluzione che riguarda tutti. È evidente che abbiamo una certa disomogeneità rispetto ai numeri tra i territori, quindi bisogna far fronte anche con risorse regionali alla copertura totale per tutti i precari della giustizia».  C’è un altro problema che ha sollevato molte critiche tra gli stagisti e i sindacati ed è quello che riguarda la distribuzione dei posti. In regioni in cui il numero dei tirocinanti è sempre stato basso, sono stati messi a bando diverse posizioni per gli stagisti. Mentre in altri casi in cui il numero di stagisti è sempre stato molto elevato, garantendo il funzionamento degli uffici giudiziari, le posizioni a disposizione questa volta sono pochissime. Certo, all’articolo 4 comma 5 del bando c’è scritto che si può fare richiesta fino a «quattro uffici giudiziari, anche collocati in diversi distretti», facendo quindi intendere che un "tirocinante" (noi lo mettiamo tra virgolette: dopo 5 anni non li consideriamo davvero più tirocinanti) della Calabria potrebbe mettere tra le sue preferenze anche una regione del Nord dove sa che ci sono pochi stagisti. In questo modo potrebbe avere la quasi certezza di essere chiamato, ma per un anno dovrebbe lavorare a 400 euro al mese lontano da casa, senza nessuna aggiunta. «Non so chi abbia pensato e scritto quella parte del bando, evidentemente qualcuno che pensa si possa sopravvivere lontani da casa con soli 400 euro. La considero quasi una presa in giro» dice Fracassi alla Repubblica degli Stagisti. «Certo, la distribuzione dei posti è legata alla legge, e quindi all’istituzione dell’ufficio del processo che è presente in tutte le giurisdizioni, anche quelle senza precari. Ma poiché bando e legge sono finalizzati all’assorbimento di una parte dei precari, è evidente che c’è una contraddizione».Perché «la metà dei 2600 precari della giustizia provengono da percorsi di mobilità e non sono giovani neolaureati che hanno attivato un percorso di formazione». Quindi over 40-50enni, con famiglie a carico, che difficilmente potrebbero spostarsi per un anno in un’altra città solo per fare un tirocinio che non gli garantisce un futuro. «Abbiamo detto sin dalle prime indiscrezioni sul bando che la soluzione di spostarsi non era possibile. Perciò abbiamo avanzato la nostra richiesta: una volta soddisfatte le domande dei residenti nella regione, i posti non coperti vengano distribuiti nelle regioni dove hanno attribuito poco o niente».La proposta della Cgil potrebbe essere una soluzione, ma resterebbero dei nodi. Come quello della Calabria, dove pur redistribuendo i posti non si riuscirebbe a soddisfare la richiesta. Lì sono stati messi a concorso «23 posti a fronte di 700 precari. Non si comprende se la finalizzazione della norma è anche il precariato oltre all’ufficio del processo» osserva sarcastica Gianna Fracassi. Che ci tiene a ricordare come l’attivazione di questi percorsi non sia stata voluta dai tirocinanti che pensavano di accedere a un percorso che avrebbe dovuto ricollocarli, ma da Regioni e ministero della Giustizia.Le richieste, quindi, sono l’attribuzione dei posti rimasti vuoti nelle regioni dove sono già presenti precari e l’apertura del tavolo con le regioni per dare una soluzioni ai mille esclusi dal bando. «Questo va fatto» spiega la segretaria confederale Cgil. «Il ministro su questo punto si era impegnato e se non mantiene la sua parola riattiveremo il percorso di mobilitazione come abbiamo fatto da 12 mesi a questa parte. Le soluzioni non possono essere parziali».Su questo punto Fracassi rilancia la proposta Cgil di utilizzare le risorse del Fondo unico giustizia, che sono ingenti e disponibili, e su cui c’è una legge che ne consente l’impiego per aumentare la funzionalità dei ministeri della giustizia e degli interni. «Non possono dire che non ci sono le risorse perché abbiamo individuato anche una possibile fonte», ricorda, aggiungendo anche che va studiata la modalità per proseguire nella stabilizzazione di questo personale. Magari non solo all’interno del ministero della giustizia dove i vuoti di organico sono pure molto alti, ma «anche in altri ministeri, visto che le sedi periferiche sono molto spesso sguarnite nonostante la riattribuzione di posti al personale in esubero dalle province».Prima di qualsiasi eventuale mobilitazione, la Cgil vuole quindi aspettare la chiusura e definizione del bando. Poi, numeri alla mano su esclusi e posti non coperti si spera che ci sarà l’apertura del tavolo con Regioni e ministero «per fare un ragionamento che tenga insieme più risorse». Ai tirocinanti che da maggio aspettavano questo momento, conviene invece affrettarsi nel compilare la domanda di partecipazione e sperare di rientrare tra i fortunati che per un anno torneranno, in barba alla legge e all’età, a fare gli stagisti.Marianna LeporeFoto quadrata in alto a destra: di Morganforuall da Pixabay in modalità Creative Commons

Legge di Stabilità e lavoratori autonomi, cosa cambia per i freelance

Le novità dedicate al lavoro autonomo e contenute nel ddl Stabilità, pare abbiano finalmente catturato l'attenzione di molti professionisti senza busta paga che, forse, proprio per la natura "indipendente" delle loro professioni, non sono abituati a stare al centro del dibattito politico. Così, in attesa che il governo vari il testo definitivo, le associazioni che rappresentano gli interessi della categoria organizzano eventi e incontri per discutere gli imminenti cambiamenti. Oggi a Roma appuntamento con l'evento #RipartelItalia del Colap, il Coordinamento libere associazioni professionali, con la sua "Road Map", un documento ricco di proposte, alcune delle quali sono state accolte nella legge di Stabilità. Si parlerà di previdenza, formazione, fisco e altri argomenti che interessano da vicino chi lavora con partita Iva, senza datore di lavoro. Quelli che Sergio Bologna, docente, storico e membro di Acta, l’Associazione dei consulenti del terziario avanzato, ha descritto di recente al Freelanceday di Torino "Lavoratori che affrontano il mercato senza paracadute”. Una definizione inquietante, ma che rende benissimo l’idea. Perché oggi il freelance assomiglia davvero a un pilota spericolato, che si getta a capofitto in un mestiere senza neppure avere la certezza di atterrare. Un lavoratore che i più anziani, ma non solo, faticano a comprendere e continuano a considerare alla stregua dei precari. Eppure oggi gli autonomi, secondo l'Istat, rappresentano un quarto degli occupati (24,7%), anche se di questi solo il 5,7% sono professionisti, cioè lavoratori specializzati che prestano opera intellettuale. In Italia si trovano dappertutto, con una leggera prevalenza nel nord-est. E mentre gli autonomi diminuiscono, loro continuano a crescere, soprattutto la componente femminile. «Nonostante dopo la crisi del 2008 il mercato sia più difficile» spiega Bologna «tra i freelance c’è una maggiore consapevolezza: sono nati nuovi strumenti di business come il coworking, che ha aiutato molte persone ad avviare la loro attività. Si sta cominciando a diffondere, seppur lentamente, una mentalità della cooperazione, solidarietà e condivisione». Un contesto in continuo movimento, dove un ruolo fondamentale è giocato dai governi nazionali e dalle norme che riusciranno ad approvare. Una di queste è la Legge di Stabilità, che al suo interno contiene alcune importanti novità per i lavoratori indipendenti. Qualcuno l’ha già definita il “Jobs Act degli autonomi”, anche se ancora non è del tutto chiaro comprendere la bontà dei provvedimenti contenuti al suo interno. La prima, grande novità è senz'altro lo Statuto dei lavoratori autonomi, che finalmente dovrebbe definire regole e tutele per i professionisti. «Ha tre peculiarità che lo distinguono dalle vecchie versioni e allo stesso tempo segnano una discontinuità rispetto alla situazione attuale» dicono con soddisfazione da Acta. «Si rivolge esclusivamente al lavoro autonomo professionale e non a tutto il lavoro autonomo e lo definisce escludendo il lavoro autonomo svolto in forma di impresa. Abbandona ogni difficile distinzione tra “vero” e “finto” lavoro autonomo, tra “economicamente dipendente” e non e, accogliendo una nostra richiesta, pone alcune norme a tutela di tutto il lavoro autonomo professionale. Infine, alle controversie si applicherà il diritto del lavoro, un primo passo per riconoscerci come lavoratori e non venditori di servizi». Accolto con soddisfazione il punto che riguarda i ritardi nei pagamenti, che tanto fanno penare i freelance: scaduto il tempo massimo di 60 giorni, dovrebbe scattare automaticamente un risarcimento fin dal primo giorno di ritardo. Bene anche la deducibilità totale delle spese per la formazione, fino a un massimo di 10 mila euro «che finalmente permette di riconosce quello che rappresenta il principale investimento per un professionista autonomo. Senza dimenticare l’eliminazione del vincolo che impediva ai professionisti di accedere ai bandi pubblici». Se lo Statuto convince, sono gli interventi in ambito fiscale a lasciare qualche perplessità. «Nelle situazioni di malattia grave, che impediscono lo svolgimento dell’attività per oltre 60 giorni, sarà sospeso il versamento degli oneri previdenziali» aggiungono dall’Associazione «e il pagamento sarà successivamente rateizzato. Questo va bene. anche se sarebbe stato opportuno interrompere anche i pagamenti fiscali. Inoltre, siamo un po’ delusi dalla sospensione dell’aumento dei contributi Inps degli iscritti alla gestione separata, perché ci aspettavamo il blocco definitivo dell’aliquota». A far discutere, però, è soprattutto il nuovo regime forfettario del numeroso popolo dei Partita Iva, che raddoppia la soglia di fatturato rispetto al regime attualmente in vigore, passando da 15mila a 30mila euro. Una modifica positiva che però, sempre secondo Acta «diventerà facilmente una trappola.  E ciò non è un bene né per i professionisti, che non sono stimolati a crescere, né per il Paese. Le tariffe proposte da chi fruisce di queste agevolazioni hanno effetti depressivi sull’intero mercato dei servizi professionali, già in forte ribasso nell’ultimo decennio». Ad Acta non piace neppure la forfettizzazione dei costi che, seppur semplifichi le procedure «elimina un importante strumento di contrasto all’evasione fiscale, perché non sarà necessario portare prova degli acquisti; disincentiva gli investimenti, inclusi quelli in formazione, perché non comporteranno alcun vantaggio fiscale». Bocciata anche la cumulabilità del forfettario con un reddito da dipendente o da pensione di altri 30.000 euro. «Perché in sostanza un dipendente o un pensionato con un reddito di 30.000 euro, potrà beneficiare di un'aliquota sostitutiva del 15% (5% se nuova attività) per il reddito aggiuntivo da lavoro autonomo: un’agevolazione notevole e decisamente spropositata rispetto a quella goduta da chi è solo autonomo».Marco Panzarella