«Quando a una larga fetta della popolazione mancano competenze di base, nel lungo termine l'economia del Paese potrebbe risultare compromessa»: è la conclusione a cui giunge il nuovo rapporto Pisa 'Low Performing Students', basato sull'analisi nel 2012 di circa 13 milioni di studenti sparsi nei 64 paesi membri dell'Ocse. L'Italia allora rischia grosso: uno studente italiano su quattro - contro una media Ocse di due punti inferiore, 23% - ha dato prova di scarsi risultati in matematica. Sotto il «livello due» per l'esattezza, che è quello considerato dall'organizzazione «il minimo affinché i giovani possano poi operare con efficienza nei luoghi di lavoro e nella società», si legge nello studio.
In sostanza i ragazzi intervistati non sono in grado di «fare un uso complesso di informazioni e del ragionamento» e – per esempio – si devono sforzare per calcolare «quanta benzina residua ci sia nel serbatoio osservando l'indicatore, o hanno difficoltà a comprendere le istruzioni di una confezione di aspirina».
C'è di più: le ricadute più pesanti sono quelle sul Pil. «Se entro il 2030 tutti i 15enni italiani raggiungessero almeno il grado minimo di performance Pisa» continua l'analisi «il Pil crescerebbe del 18% per il 2095». I giovani che oggi sono più scarsi a scuola – e che non di rado vengono per questo “ammirati” dal gruppo dei pari: nella maggior parte delle scuole il ripetente è considerato “figo” e i secchioni invece “sfigati”, e in questo cortocircuito sta gran parte del problema – saranno dunque persone meno integrate nel futuro.
Una prospettiva preoccupante, anche perché l'Italia ha già un altro primato negativo in Europa, quello del numero dei Neet, a quota 2 milioni e 400mila nell'ultimo trimestre del 2015 (lo dice l'Istat), un esercito che si infoltisce poi di un milione di unità se si guarda al segmento che va dai 15 ai 34 anni: perfino la Grecia ne ha di meno. Se si affianca a questi numeri il dato sulla disoccupazione giovanile (sempre secondo l'istituto di statistica appena sotto il 38% alla fine dello scorso anno, fortunatamente in leggero calo) si ottiene il quadro completo.
Gli adolescenti che arrancano a scuola non scarseggiano solo nella materia più ostica da sempre, la matematica, e nelle scienze (quasi uno su cinque è sotto la media europea), ma anche nelle stesse capacità di comprensione del testo (20%). A scanso di equivoci va precisato che l'Italia ha recuperato terreno, registrando tra il 2003 e il 2012 un miglioramento del 7% in matematica e scienze e del 4% nelle competenze letterarie. E comunque i nostri studenti non sono gli unici 'somari' internazionali: fanno peggio, almeno in matematica, gli statunitensi e gli svedesi, anche se poi i primi ci superano per capacità di lettura. Inoltre, la stragrande maggioranza degli allievi delle scuole italiane – attorno al 70%, insieme a Usa, Spagna, Portogallo e Islanda – è al di sopra delle competenze minime richieste.
Emerge poi una contraddizione tutta nostrana. Nonostante i risultati poco brillanti e il forte assenteismo tra i banchi di scuola – siamo i secondi dopo gli argentini – gli italiani sono quelli che passano più ore sui libri: anche i più lavativi studiano più o meno sei ore a settimana, contro una media Ocse di 3,5. E i primi della classe passano sui libri ben dieci ore a settimana, mentre i coetanei stranieri vanno poco oltre la metà. Ma questo dato probabilmente dipende non tanto dalla buona volontà degli studenti italiani quanto da un fattore esterno, e cioè la maggior propensione del sistema scolastico italiano ad assegnare compiti a casa, che “costringono” i giovani sui libri.
L'appello dell'Ocse non deve cadere nel vuoto. Bisogna lavorare per arginare il problema perché a lungo andare potrebbe essere davvero pericoloso non solo per l'economia italiana, ma anche per la tenuta della società, andando ad acuire le diseguaglianze già presenti e a tenere bloccato l'ascensore sociale. «La tendenza alle peggiori performance in matematica è più alta per gli studenti che sono socio-economicamente svantaggiati, per le ragazze, per chi parla una lingua differente a casa rispetto a quella della scuola, per chi abbia non più di un anno di asilo alle spalle e sia ripetente» spiega il report.
Molto dipende anche dal contesto in cui i giovani vivono. Risultano in deficit, per esempio, gli studenti di ogni ceto sociale che frequentano scuole dove «non c'è pressione da parte dei genitori affinché si mantengano elevati standard accademici». Tradotto: quelle dove se i professori sono scarsi nessuno solleva il problema, se ogni anno parte la girandola delle supplenze privando gli studenti di continuità nessun genitore se ne preoccupa, fino ad arrivare ai casi peggiori, e cioè quelle famiglie che addirittura si rivoltano contro i docenti se il figlio prende una nota o un brutto voto, prendendo sistematicamente in maniera acritica le parti del giovane.
Dunque bisogna penetrare in questi ambienti e agire per prevenire il fenomeno: uno studente che parte da condizioni socio-economiche sfavorevoli ha più del doppio delle probabilità di fallire a scuola rispetto ai più abbienti. «Tutti i Paesi possono migliorare le performance dei propri studenti» ammonisce l'Ocse, e prova ne sia che nell'ultimo decennio realtà e culture così diverse come quelle di «Brasile, Germania, Italia, Messico, Polonia, Portogallo, Russia, Tunisia e Turchia» ce l'hanno fatta.
La sfida per il governo italiano ora è fare della riduzione dell'incidenza delle basse performance scolastiche «una priorità per l'agenda politica». Tra le strategie individuate dagli esperti, «incoraggiare il coinvolgimento dei genitori, creare percorsi appositi per i gruppi a rischio, supportare le famiglie in difficoltà e ridurre la disuguaglianza nell'accesso all'educazione primaria».
Ilaria Mariotti
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