«Cerchiamo giovani lavoratori, ma agli annunci non risponde nessuno». Ciclicamente alcune aziende italiane si rivolgono ai giornali per lamentare una scarsa risposta alle loro inserzioni di lavoro, ingenerando il solito e trito dibattito a suon di editoriali sui giovani italiani che non hanno voglia di “sporcarsi le mani”. L'ultimo, in ordine cronologico, riguarda la Laser Group di Strambino, in provincia di Torino, che cerca senza successo da circa sei mesi cinque programmatori e analisti. Ma in questo caso non c'è, a ben vedere, nessuna “notizia”: i programmatori sono molto ambiti sul mercato del lavoro, e difficili da reperire; inoltre, ve ne sono pochi disposti a vivere e lavorare in una cittadina di provincia, che di solito risulta attrattiva solo per chi già ci vive.
Ma il problema degli annunci a vuoto riguarda in realtà anche categorie meno gettonate: tornando indietro allo scorso giugno, il titolare di un ristorante di Oderzo in provincia di Treviso si lamentava, sui giornali locali, di non riuscire a trovare camerieri. Circa un anno fa la J Colors, una società nel settore delle vernici, offriva quattro posti come sales account: nonostante uno stipendio da più di 50mila euro, le selezioni andarono quasi deserte e il caso finì anche sull'Espresso. Che in Italia sia difficile far combaciare offerta e domanda di lavoro è innegabile. Ma è sempre colpa di chi cerca lavoro, oppure talvolta sono le aziende che formulano male, o sui canali sbagliati, le loro richieste?
«Ci sono almeno tre motivi per i quali la domanda e l'offerta di lavoro non si incontrano», spiega alla Repubblica degli Stagisti Osvaldo Danzi, executive recruiter per Carriere Italia e fondatore del gruppo LinkedIn “Fior di Risorse”. Due riguardano non le aziende, bensì i candidati: «Il primo è legato sicuramente al sistema scolastico. Sono spariti gli istituti tecnici e, allo stesso tempo, scuola e mondo del lavoro oggi parlano due lingue troppo diverse». Il secondo motivo riguarda in parte ancora la formazione: «Il mercato del lavoro richiede delle vere e proprie strategie di accesso. Bisogna non solo sapersi presentare ma anche saper indirizzare le proprie candidature nel modo e nel posto giusto». E a scuola questo non lo insegnano: insomma, «senza competenze e un buon cv, niente lavoro».
La terza, ma non ultima, causa del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro riguarda, invece, la qualità degli annunci. «Non è raro vedere pubblicate offerte di lavoro scritte male o sovradimensionate rispetto alla propria struttura aziendale e spesso anche al proprio portafoglio», prosegue Danzi. «Si cercano profili molto strutturati offrendo solo di contratti di stage e di apprendistato, oppure figure strategiche... a partita Iva! Questo in qualche modo ha falsato il mondo della ricerca di lavoro, creando molta insofferenza nei candidati e in certi casi anche molta rassegnazione».
Anche agli uffici stage delle università talvolta giungono richieste quasi impossibili. «Nella nostra esperienza non troviamo particolari difficoltà a comprendere quali profili le aziende stanno cercando ma riscontriamo, alcune volte, richieste contraddittorie», spiega Raffaella Mecangeli, responsabile dell'Ufficio Stage dell'università Lumsa di Roma. «Può accadere che ci giungano offerte di stage extracurricolari per i quali l'azienda richiede almeno un anno di esperienza: questa è una contraddizione in termini! Infatti uno stage extracurricolare di formazione e orientamento può essere attivato solo nei 12 mesi successivi al conseguimento del titolo che sia di laurea, di master o di scuola di specializzazione. In questi casi le imprese non dovrebbero rivolgersi agli atenei, bensì richiedere questi profili alle agenzie di lavoro». Di fronte ad un'offerta di stage di questo tipo, «cerco nel nostro bacino di ex studenti laureati alla Lumsa da almeno 12 mesi e fornisco all'azienda il curriculum del candidato, specificando che l'ex studente non può svolgere più stage attraverso di noi e che quindi, se interessati, devono formulare un'offerta di lavoro».
Ma al di là di offerte di lavoro confuse con stage o sovradimensionate, «chi si occupa di ricerca del personale, spesso, non ha le competenze tecniche sulla figura professionale che sta cercando», aggiunge Maria Grazia Balduino, cacciatrice di teste per Arpa Consulting a Torino. Come dire: senza conoscenze tecniche non si va da nessuna parte. «I profili sono spesso complessi, come è complesso ciò che le aziende vogliono. E queste esigenze particolari non sono sempre correttamente percepite da chi si occupa di reclutamento. È necessario, quindi, che il reclutatore apra un canale di dialogo con il responsabile tecnico per capire alcuni aspetti che il direttore del personale raramente conosce».
Negli ultimi anni Osvaldo Danzi ha registrato una grande debolezza nella dirigenza delle risorse umane, sia dal punto di vista decisionale che di qualità della selezione. «Intravedo una grossa difficoltà da parte dei direttori del personale “vecchio stile” a relazionarsi con gli strumenti più innovativi e una forte resistenza ad aggiornarsi e a partecipare. Il recruiting è finito in mano a giovani e inesperti oppure viene affidato, insieme al marketing, ai figli dei titolari, perché percepita come attività non collegata direttamente al business».
E poi: l'annuncio è sempre la strada più corretta? Secondo una ricerca del 2013 condotta da Spinlight, società di outplacement (cioé ricollocamento lavorativo di dipendenti licenziati) che opera in Italia, tra le soluzioni ritenute più valide dai direttori delle risorse umane ci sono ancora gli annunci online (84%) soprattutto per figure meno specializzate. Ma non sempre si tratta della strada più efficace. «Talvolta, l'azienda sbaglia la scelta del canale di reclutamento. In certi casi, più che l'annuncio, le aziende dovrebbero utilizzare l'università o rivolgersi al proprio network di contatti aziendali e creare un veloce passaparola», spiega la Balduino. Anche se questo perpetuerebbe ciò che in realtà rappresenta uno dei mali più gravi del mercato del lavoro italiano, e cioè l'assenza di meritocrazia e di “disputabilità” dei posti di lavoro, allocati fin troppo spesso tramite conoscenze anziché aprendo la competizione e valutando i cv più interessanti indipendentemente dai legami personali dei recruiter.
C'è poi il capitolo social network. Secondo la più recente indagine Adecco Work Trends Study, condotta su quasi 150 recruiter interni alle aziende, le attività di ricerca dei profili professionali si svolgono in due terzi dei casi sui social network, con un incremento del 19% rispetto allo scorso anno. Se l'interesse verso il digitale sta crescendo nelle aziende, tra i cacciatori di teste, invece, i social network sono già praticamente indispensabili: li utilizzano oltre nove intervistati su dieci. È quanto emerge da un'altra recente indagine, stavolta di Jobvite, condotta su 1.400 professionisti del settore. Il più utilizzato è ovviamente LinkedIn (87%), seguito da Facebook (47%) e Twitter (47%). E tornando allo studio di Adecco, coloro che trovano lavoro attraverso i social network sono l'8,4% dei candidati.
«LinkedIn è importante per i cacciatori di teste e fondamentale per i candidati che vogliono farsi trovare. Chi non è su LinkedIn, non esiste», conferma Osvaldo Danzi. «Questo social network ha un aggiornamento costante e continuo da parte dei candidati che lo rende uno strumento strategico, superando completamente i vecchi portali del lavoro dove ormai si trovano solo cv obsoleti e mai aggiornati. Per le aziende significa non solo trovare candidati ma anche posizionarsi in un'ottica di employer branding: le pagina corporate di LinkedIn hanno un grande impatto in termini di visualizzazione, spesso più visitate degli stessi siti aziendali e dove è possibile pubblicare e far conoscere le offerte a migliaia di candidati in tempo reale». Ma anche con questo mezzo non sempre le aziende agiscono nel modo migliore. «Alcune non usano lo strumento corporate: si muovono su LinkedIn attraverso gli account personali dei propri reclutatori», conclude Danzi. «Se, invece, viene utilizzato correttamente, permette di raggiungere l'80% delle figure normalmente richieste».
Paolo Ribichini
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