Categoria: Approfondimenti

Stop ai cocopro per baristi e facchini: tutti i divieti della circolare del ministero del Lavoro

Niente più contratti a progetto per baristi e camerieri, estetisti e parrucchieri, facchini, letturisti di contatori. È questa la novità principale contenuta nella circolare 29 dell’11 dicembre 2012 del ministero del Lavoro, che fornisce una serie di indicazioni interpretative della legge Fornero (92/2012).Il provvedimento,  firmato dal direttore generale per l’Attività ispettiva Paolo Pennesi intervistato dalla Repubblica degli Stagisti pochi giorni fa,  si focalizza sul divieto di applicare contratti cocopro nei casi di mansioni routinarie ed elementari. Se infatti già l’art. 61 del d. Lgs 276 del 2003 (che dava attuazione alla legge Biagi) prevedeva che «il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi», la circolare aggiunge un altro elemento, stabilendo che «è necessario che dal contenuto del contratto, ovvero dalle modalità di svolgimento della prestazione, non emergano i caratteri della “routinarietà” o “elementarietà”». Di conseguenza, un rapporto di lavoro potrà essere considerato una collaborazione a progetto se «al collaboratore siano lasciati margini di autonomia anche operativa nello svolgimento dei compiti allo stesso assegnati».  La definizione delle attività di natura meramente esecutiva o ripetitiva è attualmente assegnata alla contrattazione collettiva, anche se questo «non condiziona l’applicabilità della presunzione» di subordinazione. Il ministero prova quindi a tracciare una direzione, individuando un a lista di mansioni «a titolo meramente esemplicativo e non esaustivo, sulla base di orientamenti giurisprudenziali già esistenti, (...) difficilmente inquadrabili nell'ambito di un genuino rapporto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, ancorché astrattamente riconducibili ad altri rapporti di natura autonoma». L’elenco comprende una ventina di attività, tra cui figurano addetti alla distribuzione di bollette o alla consegna di giornali, riviste ed elenchi telefonici, addetti alle agenzie ippiche, letturisti di contatori, facchini, magazzinieri, ma anche manutentori, muratori e braccianti agricoli. E ancora, addetti alle pulizie, autisti e autotrasportatori, commessi e addetti alle vendite, custodi e portieri. Sono escluse dai cocopro anche quelle figure per le quali è richiesta una formazione professionale e specialistica (estetiste e parrucchieri, istruttori di autoscuola, piloti e assistenti di volo), oltre  ad addetti all'attività di segreteria e lavoratori di call center inbound (quelli cioè in cui cioè si risponde alle chiamate di utenti). E non potranno più essere assunti con contratti a progetto neanche i lavoratori del settore della ristorazione: baristi, camerieri,  addetti alla somministrazione di cibi o bevande. In tutti questi casi, garantisce il ministero, «il personale ispettivo (...) procederà a ricondurre nell'alveo della subordinazione gli eventuali rapporti posti in essere, adottando i conseguenti provvedimenti sul piano lavoristico e previdenziale».Si ribadisce poi, sulla falsariga di quanto già stabiliva la legge 92, che i cocopro «devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore», collegati «ad un determinato risultato finale» che sia «obiettivamente verificabile». Il progetto non può consistere nella «mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente» e, pur potendo rientrare nelle «attività che rappresentano il cosiddetto core business aziendale, deve essere caratterizzato da un'autonomia di contenuti e obiettivi». Per esempio, lo sviluppo di uno software preciso, e non l'attività che si limiti alla sua gestione; l'ideazione di una specifica scenografia per la rappresentazione di uno spettacolo teatrale e non il mero allestimento del palco.Per quanto riguarda il compenso, la circolare ricorda che esso «non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività», chiarendo però che il riferimento normativo, «è alle retribuzioni minime, ossia ai minimi tabellari determinati dai contratti collettivi di categoria e non a tutto il complesso delle voci retributive eventualmente previste da tali contratti».  La parte finale è dedicata alle sanzioni: la mancanza di un progetto specifico – sottolinea la circolare in linea con quanto stabiliva la legge Biagi e chiarisce la legge Fornero – consente di ricondurre il contratto a progetto a un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La stessa sanzione è prevista anche nei casi in cui scatta la presunzione di subordinazione, ossia quando «il collaboratore svolga in maniera prevalente e con carattere di continuità le proprie attività con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente». Con una clausola, introdotta dall’ultima riforma e ricordata nella circolare: non vengono equiparate a lavoro subordinato e dunque riqualificate «le prestazioni di elevata professionalità meglio declinate dalla contrattazione collettiva»: il compito di individuare quali siano le attività ad alto contenuto professionale è cioè lasciato alle parti, senza alcuna indicazione per evitare abusi.Secondo Roberto D’Andrea [a sinistra], segretario nazionale di Nidil-Cgil, la circolare «non aggiunge molto a quanto già stabilito dalla legge Fornero, perché già era noto che il barista fosse una mansione ripetitiva. Ha però il grosso difetto di ignorare un aspetto che sta già facendo danni: il cavillo dell’elevata professionalità, lasciato alla libera interpretazione delle parti. Senza una sua definizione precisa da parte del ministero, tutto l’impianto complessivo dei paletti ai cocopro rischia di essere un puro esercizio teorico». Una vaghezza che ha reso la clausola «una scappatoia usata da alcune aziende per non regolarizzare. È stato firmato poco tempo fa, per esempio, un accordo tra sindacati e una società di recupero crediti in cui si stabilisce che i telefonisti che lavorano per l’azienda svolgono una mansione di elevata professionalità». Inoltre, nella lista delle attività elementari e routinarie, fa notare D’Andrea, «mancano gli operatori dei call center outbound, quelli cioè in cui si fanno telefonate a potenziali clienti. Per queste società, infatti, il decreto Sviluppo ha stabilito una deroga alla legge 92». La circolare, aggiunge il sindacalista, «al di là delle mansioni meramente ripetitive ed esecutive, per le quali il divieto dei cocopro è assodato, non dice niente, per esempio, di insegnanti o architetti. Casi in cui c’è un abuso di contratti a progetto».A sorpresa il berlusconiano Silvano Moffa [a destra], presidente della commissione Lavoro della Camera, è d'accordo con D'Andrea: ma per ragioni diametralmente opposte. «La circolare, così come la riforma Fornero, fa aumentare il lavoro precario. Nella black list del ministero ci sono tutte le mansioni per le quali più frequentemente si attivano contratti a progetto. Se le aziende non potranno più ricorrere ai cocopro per addetti alla distribuzione di giornali o letturisti di contatori, si rivolgeranno a forme ancora più temporanee e meno garantite di lavoro, come la collaborazione occasionale». Una tendenza che, dice Moffa, «è già fotografata dai primi osservatori, che registrano un aumento nell’ultimo trimestre del 2012 di contratti occasionali, con un reddito annuo inferiore ai 5mila euro». Se infatti, è il ragionamento del deputato, «i cocopro permettono il primo contatto con il mondo del lavoro, i paletti non fanno altro che scoraggiarlo». Ma come combattere gli abusi? «Per contrastare quello di lungo periodo serve piuttosto una stretta nei controlli, applicando la presunzione di subordinazione in tutti quei casi di precariato di lunga durata». Per quanto riguarda la discussa clausola dell’elevata professionalità, per presidente della commissione Lavoro «non è servita a molto. A Milano, negli ultimi mesi, i contratti a progetto dei neolaureati sono diminuiti del 16,5%».Il rischio, in molti casi, è che «i contratti a progetto si trasformino in partite IVA, per adesso ancora poco regolamentate», conclude D’Andrea. «Finché la partita IVA sarà così conveniente, non ha senso introdurre ulteriori restrizioni sui contratti a progetto», aggiunge Laura Calderoni [a sinistra], segretaria dell’associazione di architetti e ingegneri atipici Iva sei partita, che ha provato il fenomeno sulla propria pelle: «Ho iniziato con un contratto a progetto di un anno nel 2008 e alla scadenza sono stata costretta ad aprire una partita IVA».Veronica UlivieriPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Contratti a progetto nei call center, un giro di vite solo annunciato- Cocopro, partite Iva e stipendi dei precari: le proposte dell'emendamento Castro-Treu- Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

Elezioni in Lazio, pochi i giovani in lizza per il consiglio regionale

Dare vita a una politica più «giovane» non solo in Parlamento, ma anche nelle aule dei consigli regionali. I prossimi 24 e 25 febbraio, insieme alle elezioni politiche, si vota per eleggere il governatore e i consigli regionali di Lombardia, Lazio e Molise. Nel Lazio sono ben 13 i candidati alla carica di presidente e quasi 700 gli aspiranti consiglieri per 50 posti, eletti per l’80% con il sistema proporzionale e per il restante 20% con il maggioritario. Ma quanti sono tra questi i candidati under 35? La Repubblica degli Stagisti è andata a «spulciare» le liste principali, per vedere se e in che misura i giovani hanno speranza di essere rappresentati dai propri coetanei in consiglio regionale per i prossimi cinque anni. A supportare la candidatura di Nicola Zingaretti (47 anni) sono sei liste: oltre al suo listino, quella del Partito Democratico la Lista Civica Zingaretti, Sinistra Ecologia e Libertà, Centro Democratico e Partito Socialista Italiano. Nei primi tre casi la rappresentanza under 35 è piuttosto scarsa: solo tre su 40 i candidati nati dopo il 1978. Si tratta di Gabriella Federici, classe 1982, attuale vice sindaco di Rocca di Cave, provincia di Roma; Simone Lupi, quasi trentaquattrenne (è nato il 26 febbraio del 1979), sindaco del Comune di Ciampino, e Daniele Ognibene, 32 anni a luglio, attuale assessore con deleghe alla cultura, ambiente, gestione rifiuti e politiche giovanili del Comune di Velletri, in provincia di Roma. Candidati, che, nonostante la giovane età, vantano già ruoli di spicco nelle istituzioni locali. Per la lista di Sel la proporzione è di cinque a 29. I nomi sono quelli di Giorgia Bordoni, trentenne, ricercatrice all’università La Sapienza di Roma; Chiara Bussone, classe 1986, delegata Fp Cgil e addetta della Croce Rossa; Marco Furfaro, del 1980, laureato in Economia, già portavoce regionale del Lazio di Sel e, successivamente, responsabile nazionale politiche giovanili e movimenti; Veronica Hamed, la più giovane, appena 23 anni, e Maurizia Onori, ricercatrice nel campo dei beni culturali, classe 1980. Furfaro è, tra l'altro, il primo tra i candidati laziali ad aver sottoscritto il Patto per lo stage con la Repubblica degli Stagisti. Una scelta motivata dalla necessità di «voler  dare a una generazione l’opportunità di vivere un’esperienza formativa, rimborsata e tutelata che tanti come me non hanno potuto fare». Una coalizione formata da dieci liste appoggia, invece, la candidatura di Francesco Storace, 54 anni (listino, Popolo della Libertà, La Destra, Mir, Movimento cittadini e lavoratori, Fratelli d’Italia, Cristiano Popolari, Grande Sud, Lista civica Storace, Per il Lazio). E, neppure in questo caso, sembra esserci qualche prospettiva di ricambio generazionale. Scorrendo la lista dei candidati del PdL, ad esempio, l’unico under 35 su 29 candidati in corsa per una poltrona è Luca Gramazio, classe 1980, attuale capogruppo del partito in consiglio comunale. Dando un’occhiata ai dati anagrafici degli altri candidati alla presidenza della regione, le notizie che arrivano non sono proprio confortanti. Davide Barillari, candidato del Movimento Cinque Stelle, 38 anni, è uno dei pochi a portare la media verso il basso. L’avvocato Giulia Bongiorno, ad esempio, che si candida con l’appoggio di un listino, di una lista civica e di partiti e movimenti centristi, ha 47 anni; Alessandra Baldassarri, imprenditrice, candidata per il movimento Fare per fermare il declino, che porta la firma di Oscar Giannino, è del 1960. Si tratta, tra l’altro, delle uniche due donne candidate alla Regione. Per il resto, solo uomini e nessun under 35: Luca Romagnoli, classe 1961, candidato per Fiamma Tricolore; Roberto Fiore, 44, è candidato per Forza Nuova; Giuseppe Rossodivita, 44 anni, è sostenuto da Aministia, giustizia e libertà; il giornalista Sandro Rutolo, 58 anni, si candida con il movimento Rivoluzione Civile. Chiudono la lista Simone di Stefano, 36 anni, di Casapound; Luigi Sorge, del Partito Comunista dei Lavoratori, Francesco Pasquali, di Ragione Lazio e Pino Strano, della Rete dei cittadini. Insomma, anche questa volta sembra si stia perdendo un’occasione per abbassare l’età media dei nostri rappresentanti nella vita pubblica. Serve, però, ricordare che questi candidati giovani hanno ovviamente delle chance, se si decidesse di esprimere per loro la propria preferenza, dal momento che per le elezioni del consiglio regionale è ancora possibile. La speranza è che almeno in Parlamento le cose vadano diversamente e si possa iniziare concretamente a parlare di una partecipazione attiva in politica da parte dei giovani.Chiara Del PriorePer approfondire questo argomento, leggi anche:- Patto per lo stage, l'elenco di chi lo ha sottoscritto- Politiche 2013: tre candidate PD under 35 più votate alle primarie- Politiche 2013, ecco chi sono le giovani candidate di SEL più votate alle primarie- Appello Rosina-Voltolina: più giovani e donne alle primarie del PD E anche:- Pochissimi giovani nei consigli regionali: da nord a sud, degli eletti meno uno su dieci è under 35. E in Basilicata non c'è nessuno sotto gli "anta" - Solo otto consiglieri regionali under 35 eletti in Lombardia: giovani senza rappresentanza e senza voce- Elezioni alle porte: se tutti votassero un candidato giovane, entrerebbe un po' d'aria fresca nei consigli regionali 

Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare

Sfruttano l'energia del sole per rendere potabile l'acqua. Così i sei giovani fondatori di Solwa sono riusciti ad attirare l'attenzione delle Nazioni Unite che, nel 2010, hanno inserito il loro desalinizzatore all'interno del programma Ideass, riconoscendo a questa tecnologia il valore di idea per lo sviluppo dell'umanità e garantendo così a questa start-up un canale pubblicitario privilegiato.Tutto è nato dalla tesi di laurea di Paolo Franceschetti, 31enne che ha studiato Scienze e tecnologie per l'ambiente all'università di Padova, dedicata al tema della potabilità delle risorse idriche. «L'idea è nata guardando bollire l'acqua per la pasta», racconta il fratello Davide (35), laureato in Scienze politiche e coinvolto nell'azienda come responsabile della comunicazione, «se la si lascia evaporare completamente sul fondo della pentola rimane il sale». Ed è proprio questo che fa il modulo Solwa. Visto dall'esterno si tratta di una grossa scatola nera, colore scelto per assorbire meglio il calore dei raggi solari: all'interno c'è una vasca, nella quale viene inserita l'acqua. Una volta evaporata, viene sospinta in un'altra cavità da una ventola, alimentata da un pannello fotovoltaico. In questo secondo spazio il vapore torna allo stato liquido, libero da tutti gli inquinanti. «Alla fine del processo otteniamo acqua distillata», sottolinea Franceschetti.Con questo progetto Paolo Franceschetti si è presentato nel 2008 a Veneto Innovazione, iniziativa promossa dalla regione. Una partecipazione importante perché ha permesso di costituire il primo nucleo di quella che sarebbe diventata Solwa. Alla ricerca di un ingegnere da coinvolgere nella progettazione, ha pubblicato una serie di annunci su giornali e riviste. Ed è così che ha conosciuto Matteo Pasquini (31), laureato a Pisa in Ingegneria aeronautica. Durante la cena inaugurale della manifestazione, i due hanno incontrato Alice Tuccillo (28), padovana e dottoressa in Economia e diritto, subito coinvolta nella stesura del business plan. Il lavoro di questi giovani ha ottenuto diversi riconoscimenti: nel 2011 sono arrivati il Premio nazionale dell'innovazione, che ha garantito un contributo di 30mila euro, e la vittoria nella prima tappa di StartCup Veneto, con un assegno da mille euro. Nel 2012, invece, il premio Gaetano Marzotto, che ha permesso di ricevere un finanziamento di 200mila euro.Un risultato importante per un'azienda fondata solo a gennaio dello scorso anno a Padova. Ai quattro soci storici si sono aggiunti due amici di Paolo Franceschetti, Marco Sportillo (34) ed Enzo Muoio (31), che si occupano dei rapporti con le istituzioni e le aziende. Il nome Solwa è la contrazione di Solar Water, acqua solare, a ricordare che «il nostro è l'unico potabilizzatore che utilizza solo l'energia del sole». Una soluzione che rende l'impiego di questo strumento praticamente a costo zero, visto anche che le spese di manutenzione sono molto contenute. La nascita di questa start-up si lega anche alla vittoria di VegaInCube, un concorso lanciato dal parco scientifico-tecnologico di Venezia Vega e rivolto alle imprese innovative nel settore green, che ha permesso all'azienda di essere incubata a Mestre, dove al prezzo agevolato di 354 euro mensili i sei startupper hanno a disposizione un tutor che li segue, tenendoli informati su bandi ai quali partecipare e li aiuta nella ricerca di possibili partner industriali.Anche se i fondatori di Solwa in ufficio ci rimangono davvero poco. Almeno in quello della loro azienda, visto che «tutti e sei abbiamo un altro lavoro: Paolo sta facendo un dottorato di ricerca, Alice è impiegata da un commercialista, Matteo in una società del gruppo Eni, Marco ed Enzo in un'associazione, io lavoro per una organizzazione non governativa», spiega Franceschetti, Con i propri stipendi hanno messo insieme i 10mila euro di capitale sociali versati per costituire una srl e hanno messo insieme la somma, pari sempre a 10mila euro, necessaria per la progettazione e il test del prodotto in Perù. Una meta scelta perché «nel 1860 vennero inventati dei moduli simili al nostro per purificare l'acqua nelle miniere di rame delle Ande. La cosa non ebbe però un riscontro economico e il progetto venne abbandonato».L'auspicio di questi sei startupper è che, per loro, le cose vadano diversamente. «Il punto di pareggio è ancora lontano. Tolti eventuali premi, contiamo di raggiungerlo nel giro di un paio d'anni». Anche se i primi moduli sono stati venduti: 8 in Palestina, uno in Brukina-Faso. Nel frattempo si lavora per strutturare l'azienda, con l'assunzione di una persona part-time per gestire gli aspetti amministrativi e di una a tempo pieno per lo sviluppo tecnico del modulo, che viene comunque costruito all'esterno, da alcune aziende meccaniche venete. E si lavora per far conoscere Solwa, partecipando a fiere come la Smau di Milano o Ecomondo di Rimini. Oltre a cercare nuovi finanziatori interessati ad utilizzare il sole per purificare l'acqua.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sulla ssrl? Leggi anche:- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo- Impresa a 1 euro, dopo otto mesi la promessa del governo è finalmente realtà

Consiglio regionale lombardo, la campagna elettorale dei giovani candidati tra web e lavoro

L’occupazione e la tutela delle categorie più deboli del mercato del lavoro sono al centro della campagna elettorale per le regionali in Lombardia. La Repubblica degli Stagisti ha monitorato la comunicazione politica online dei candidati under 35 appartenenti alle principali liste, selezionando quelli che propongono interventi specifici su questi argomenti. Ecco un viaggio nella rete alla scoperta di come si presentano otto giovani aspiranti consiglieri regionali di differenti schieramenti, con una premessa necessaria: al contrario di quanto si potrebbe pensare, non tutti stanno diffondendo le proprie idee con i social network e solo pochi hanno un blog. Quelli che lo fanno, però, a destra come al centro e a sinistra, vengono premiati con centinaia di "like" e commenti, soprattutto di loro coetanei.Il tema principale è senza dubbio quello della disoccupazione giovanile. Alberto Martoglio (a sinistra), 30 anni e un contratto da cocopro nell’amministrazione delle risorse umane del San Raffaele scaduto e non rinnovato, è  candidato nella lista Lombardia Civica per Albertini presidente per la provincia di Milano. Scrive sulla sua pagina Facebook – dove ha raggiunto quasi 400 “Mi piace” – che vorrebbe una Regione «a fianco dei giovani nel momento del loro ingresso nel mercato del lavoro» attraverso «programmi di effettiva e concreta “formazione professionalizzante”» e «l’apprendistato quale forma di gestione della flessibilità del lavoro in entrata». Propone «sgravi fiscali a livello regionale per le aziende che assumano con contratti stabili e riduzione dell'Irap come incentivo per le imprese a regolarizzare», mentre per i disoccupati pensa a «piani di riqualificazione professionale». Andrea Dara [a destra], imprenditore tessile trentaquattrenne candidato con la Lega Nord in provincia di Mantova, una pagina Facebook con oltre “like”, pensa addirittura a «detassare le aziende che assumono i giovani» trovando i fondi in quel «75% delle nostre tasse» che è lo slogan principale del candidato governatore leghista Roberto Maroni. E propone  l’istituzione di un «fondo di sostegno per incentivare i talenti» e il «rafforzamento dell'autonomia delle scuole nella scelta degli insegnanti e nella gestione dell'offerta formativa». Così come fa anche Christian My [a sinistra], consulente aziendale 31enne, uscito sconfitto nel 2011 dalle elezioni a sindaco di Viganò (266 voti su 1.255 votanti), di cui è consigliere comunale, adesso capolista del Pdl per le elezioni regionali in provincia di Lecco e fedelissimo alla linea del suo partito. Giulia Barbieri, web designer, 34 anni, capolista M5S in provincia di Pavia, spiega alla Repubblica degli Stagisti che tra gli interventi prioritari c’è quello di «avvicinare i giovani al mondo del lavoro attraverso un rapporto più diretto tra scuola e imprese, proponendo corsi che facilitino l'inserimento nelle aziende del territorio» e fa degli esempi: «tecnologie, enologia, lingue straniere, informatica». Matteo Zanoletti [a destra], classe 1983, ingegnere in un’azienda di software e candidato nella lista dell’Idv in provincia di Bergamo, punta invece sul rilancio economico attraverso una gestione virtuosa. Nel suo programma elettorale mette, al secondo posto, «+ LAVORO»: «Collaborazione tra chi amministra, ma anche tra chi fa politica e cittadinanza attiva, tra le imprese e i lavoratori, e tra tutti i cittadini in genere, al fine di sviluppare un piano economico moderno», scrive su Facebook, mentre tramite il suo profilo Twitter il coordinatore giovani Idv del Bergamasco segnala possibilità di stage e lavoro all’Unione europea.Accanto al sostegno a precariato e disoccupazione, sono numerose anche le proposte che riguardano l’imprenditoria giovanile e le start up. Daniele Nahum [a sinistra], il trentenne ex portavoce e ex vicepresidente della Comunità ebraica di Milano, candidato con la lista Patto civico per Ambrosoli, sul suo blog presenta un programma originale. Tra le sue proposte, comunicate anche via Twitter attraverso un profilo aperto da poco e già molto seguito (oltre 400 followers), c’è l’apertura di un bando di concorso per destinare spazi del Pirellone «a cento giovani imprenditori che abbiano dei progetti innovativi. L’affitto sarebbe gratuito e chiaramente avrebbero a disposizione tutte le infrastrutture tecnologiche». Anche Giovannangelo Salvemini (a destra), 32enne impiegato nel settore del controllo di gestione con un contratto a tempo determinato e aspirante consigliere nella lista milanese di Sel, sulla pagina Facebook pensa all’«abbattimento delle barriere in entrata per le start up», anche attraverso l’utilizzo di edifici di proprietà pubblica per incubatori e spazi di co-working destinati alle imprese create da giovani. È necessario, scrive sul suo blog, «oltre alle proprietà del demanio (ora passate alla gestione degli enti locali), individuare un piano di alienazioni che comprende svariati immobili». La grillina Barbieri [a sinistra], con foto d’ordinanza accanto al suo leader pubblicata in bella vista su Facebook, punta sulla «creazione di centri multifunzionali, nei quali far confluire sia attività formative che attività lavorative vere e proprie, sul modello offerto da realtà esistenti, ad esempio il circuito di co-working The Hub», come «soluzioni relativamente a basso costo per innescare meccanismi di aggregazione sociale, confronto e stimolo a far coltivare e crescere nuove idee di business sul territorio», che dovrebbero essere sostenute anche da «attività di formazione sull’imprenditoria e professionalità innovative». Anche nel programma di Christian My un punto è dedicato alle giovani imprese: «Fondo di sostegno per la creatività per incentivare i talenti, no Tax-Area per le imprese under 35 per 3 anni», scrive sulla sua pagina Facebook. Andrea Dara, che da candidato sindaco al Comune di Castiglione delle Stiviere la scorsa primavera si era aggiudicato il 20% dei voti (quasi 2mila), fa le stesse proposte.Nella campagna elettorale fanno la loro comparsa, forse per la prima volta, anche gli stage. Lo scorso 24 gennaio in Conferenza Stato-Regioni sono state approvate le linee guida sui tirocini extracurriculari, che le amministrazioni regionali, competenti in materia, si sono impegnate a recepire entro sei mesi. Il giorno successivo, Nahum, che dal 2007 al 2010 è stato presidente dell’Unione giovani ebrei d’Italia, ha annunciato su Facebook: «Se verrò eletto farò mie le proposte della Repubblica degli Stagisti». Il candidato della lista Ambrosoli si è impegnato, si legge sul suo blog, a presentare una legge regionale che preveda «per i giovani stagisti un compenso minimo di 500 euro», la creazione di «un database regionale che raccolga e tracci le informazioni relative agli stage», «forti incentivi fiscali» per chi assume stagisti, e riduca «il tempo di stage per i laureati da 12 mesi a 9 e per i diversamente abili da 24 mesi a 18». E sugli stage si concentra anche il programma di Reas Syed (a destra), 28 anni, praticante avvocato candidato nella lista del Pd per la provincia di Milano, che su Facebook ha raggiunto oltre 600 "like". Il giovane giurista di origini pachistane si è impegnato sul suo blog a «portare una proposta che preveda una retribuzione minima di 550 euro al mese per i stagisti lombardi». Syed è convinto che «la Regione debba farsi carico anche degli stagisti curriculari (non interessati dalle linee guida, ndr) instaurando un dialogo con i giovani professionisti e portando le loro istanze ai rispettivi ordini professionali». L'idea di base è «garantire un sostegno nella formazione di coloro che lavorano senza retribuzione». Senza dimenticare i praticanti avvocati: per loro la legge prevede che il compenso non sia obbligatorio e che debba scattare solo dopo i primi sei mesi di tirocinio.Le proposte sono molte, e non sempre così diverse: tra poco più di due settimane sapremo quanto i giovani under 35 sono rappresentati in Consiglio regionale.Per i candidati giovani, che non hanno grandi fondi da investire nella campagna elettorale e non possono tappezzare i muri della città con la propria faccia, il web è certamente una grande risorsa. Che, a costo zero o quasi, permette di farsi conoscere e di raccontare la propria idea di politica e di buona amministrazione. Riuscirà qualcuno di questi giovani a fare il salto più difficile, quello da internet alla preferenza in cabina elettorale? La Repubblica degli Stagisti, anche solo per il valore che attribuisce al ricambio generazionale, si augura di sí Veronica UlivieriPer saperne di più su questo argomento, leggi anche gli articoli:- Politiche 2013: tre candidate PD under 35 tra le più votate alle primarie- Politiche 2013: ecco chi sono le giovani candidate di SEL più votate alle primarie- Come far contare di più i giovani in politica?- Riforma del lavoro: rilanciare l'apprendistato non basta- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani

Equo compenso giornalistico, ancora due mesi per sapere a quanto ammonterà

Sono circa 20mila (dati Inpgi) i lavoratori autonomi della professione giornalistica che dichiarano meno di 5mila euro lordi all'anno. Una situazione emergenziale, a cui la legge sull'equo compenso, entrata in vigore lo scorso 18 gennaio, cerca di porre rimedio – almeno nelle intenzioni. E si tratta di un passaggio quasi rivoluzionario in Italia, dove una legge del genere non c'è mai stata. «L'equo compenso introduce una crepa nel sistema, sancendo il nuovo principio per cui l'articolo 36 della Costituzione sulla dignitosa retribuzione diventa parametro valido anche per il giornalista freelance o autonomo», non più solo per il lavoro subordinato: lo ha spiegato l'avvocato della Fnsi Bruno Del Vecchio intervenendo al seminario 'Equo compenso: una legge da applicare – Prospettive, ipotesi e percorsi' organizzato la settimana scorsa a Roma su iniziativa di Associazione stampa romana, Commissione e Coordinamento lavoro autonomo regionale. Ma gli snodi attorno a cui lavorare sono ancora molti e spinosi perché questa norma per il momento sancisce solo dei principi. In primis si dovrà stabilire a chi si applica in concreto (e non si saprà finché la commissione creata ad hoc per stilare il regolamento di applicazione della legge non delibererà, entro i due mesi di tempo concessi). «La legge trova spazio solo nel lavoro autonomo e vale solo per i freelance, quelli reali. Chi lavora come subordinato ma invece ha contratti irregolari – i casi qui si sprecano tra false partite Iva, falsi autonomi... – deve fare riferimento al principio di effettività del diritto del lavoro, non all'equo compenso» argomenta Del Vecchio. Chi però subisce uno sfruttamento in questo senso «potrebbe andare da un giudice e vedersi applicata la legge su lavoro autonomo», ottenendo magari il riconoscimento della sua condizione di subordinato mascherata sulla carta da una finta autonomia. Quindi, per esempio, un cococo con contratto "farlocco" da 800 euro al mese in una testata che usa questa tipologia contrattuale a sproposito perché il giornalista è in realtà un subordinato a tutti gli effetti, resterà comunque fuori dal cappello di tutele della legge sull'equo compenso: perché non è pagato ad articolo, bensì a forfait. Tuttavia la legge non osta a che un collaboratore cococo sia pagato invece a pezzo, e allora, in questo caso, l'equo compenso avrebbe ragione d'essere perché andrebbe a incidere su quanto l'editore decide di corrispondere al lavoratore esterno per il 'prodotto' (l'articolo) che sta vendendo. Idem per le partite Iva: quelle non monomandatarie - e quindi i reali giornalisti autonomi - potrebbero contare sui benefici dispensati dalla legge. Si pone poi il problema dei praticanti giornalisti, che la lettera della legge sembra escludere facendo riferimento solo agli iscritti agli albi (e i praticanti, almeno quelli non freelance, tecnicamente ancora non lo sono): a loro si rivolge la legge? Secondo Del Vecchio «la ratio della norma sembrerebbe riconoscerlo», e la mancata inclusione sarebbe solo un disguido linguistico: «La volontà della norma è quella di includere tutti i giornalisti esterni alle redazioni».Un'altra categoria a rischio esclusione sarebbe quella inquadrata tramite contratto con cessione di diritto d'autore. In questi casi, sottolinea Paolo Buzzonetti, fiscalista e commercialista Asr, «il rapporto di lavoro vero e proprio non si verifica, come invece accade nei cocopro, nelle collaborazioni coordinate, in quelle occasionali e nelle partite Iva». Ma perché escludere il contratto con cessione di diritto d'autore se davvero la legge vuole tutelare gli autonomi e questo inquadramento è tra i più utilizzati dagli editori (e tra i più amati dai collaboratori perché più vantaggioso fiscalmente)? Poiché il seminario non ha fatto pienamente luce sulla questione, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto delucidazioni alla giornalista Moira Di Mario, organizzatrice dell'evento, che ha spiegato che la risposta è nella legge italiana, che non ammetterebbe l'applicazione di questo contratto alla professione giornalistica. Un collaboratore, infatti, in tal modo cede letteralmente all'editore i diritti del suo articolo, trasmettendogli in pratica la sua proprietà. L'imprenditore può a quel punto farne quello che vuole, riutilizzandolo magari più volte e in più forme ma pagando il giornalista una sola volta. Cosa che invece non accadrebbe con partite Iva e cococo dove il giornalista resta proprietario dell'articolo. Anche gli stagisti, infine, sono fuori dalle tutele dell'equo compenso: «Loro non dovrebbero neppure lavorare, né firmare articoli, ma entrare nelle redazioni solo per imparare» sottolinea Del Vecchio. E i grattacapi della commissione non finiscono certo qui. Un'altra questione complicata è creare delle griglie per classificare il lavoro autonomo e poterlo dunque dignitosamente retribuire a seconda del suo valore. «Dire articolo non vuol dire niente, bisogna capire di cosa stiamo parlando» tuona Enzo Iacopino [nella foto], presidente dell'Odg, giudicando inoltre poco felice l'ipotesi di un equo compenso pari a 14 euro ventilata (e mai smentita) in ambienti Fnsi. E precisa: «Chiedere che un articolo venga pagato sempre 100 euro, sia se pubblicato sul Corriere della Sera sia se pubblicato sulla Gazzetta del Sud è un po' ardito» alludendo alla necessità di una differenziazione a seconda del prestigio della testata e della qualità del prodotto giornalistico. Quindi come stabilire il minimo? Tra i giornalisti all'incontro qualcuno propone una tariffa oraria, così come avviene in altri Paesi soprattutto del nord Europa, dove non esiste una legge analoga, ma sì esistono giornalisti pagato con tariffe temporali, al pari di altre categorie professionali. Così la contrattazione con l'editore potrebbe spostarsi su questo piano: la quantificazione oraria del lavoro. Ma chi assicura che gli editori italiani non si metterebbero in questo caso a fare pressione per pagare al minimo i collaboratori, spingendoli a non far figurare il tempo effettivamente necessario per ogni articolo? Risultato: migliaia di note debito attesterebbero articoli magicamente scritti in una sola ora di lavoro.  Comunque per ora si tratta di pura teoria. La certezza si avrà solo al termine dei lavori della commissione. Al seminario si è lanciato infine un allarme: l'introduzione di un minimo tariffario potrebbe andare a svantaggio di chi percepisce una buona retribuzione, quegli scarsissimi e fortunati freelance che possono dire di vivere bene grazie al loro lavoro. Gli editori potrebbero cioè approfittarne, e applicare anche a loro il compenso minimo che deciderà la commissione, con l'effetto di eliminare gli articoli pagati cinque euro ma dando di fatto la possibilità di ritoccare al ribasso i compensi di chi ha guadagni a due o tre zeri. Sarebbe veramente un'ingiustizia e c'è da sperare che non accada mai: però la priorità in questo momento è salvaguardare la dignità – e la sopravvivenza - di chi riempie le pagine delle testate nazionali per pochi spicci.Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- L'equo compenso è legge, ora ci vuole la Commissione: sarà 14 euro il compenso minimo per i giornalisti?- Natale, presidente Fnsi: «La legge sull'equo compenso è un pungolo per gli editori»- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità E anche:- Alle nuove norme sui praticanti manca l'equo compenso, lo dice anche la commissione giustizia del Senato

Tfa per insegnanti, un business da 50 milioni di euro (chiesti in anticipo) per le università

Migliaia di giovani e meno giovani aspiranti docenti hanno iniziato o stanno per iniziare in tutta Italia il tirocinio formativo attivo (Tfa), il nuovo master di abilitazione all’insegnamento nella scuola che sostituisce le vecchie Ssis, chiuse nel 2008.  La maggioranza di chi ha superato le prove a numero chiuso di ammissione (un test a risposta multipla, una prova scritta e una prova orale, svoltesi a livello regionale tra luglio e novembre) e che nella graduatoria finale di ciascuna università è  rientrato nel numero massimo di posti disponibili per ogni classe di concorso, ha già dovuto pagare la tassa di iscrizione, che oscilla tra i 2.500 e i 3mila euro. Gli ammessi sono 20mila su 115mila candidati: circa 4mila per le scuole medie e 16mila per le superiori. In molti casi le università hanno chiesto il pagamento della quota di iscrizione senza informare i vincitori sulle modalità di svolgimento del tirocinio, sui giorni in cui saranno previste le lezioni all’università, sugli orari, i programmi didattici, le scuole nelle quali ciascun tirocinante dovrà fare pratica di insegnamento. La prima necessità sono i soldi, poi l’organizzazione la decideremo successivamente: più o meno questo hanno detto agli studenti alcune università. La maggior parte dei vincitori ha comunque pagato, perché vede il tirocinio come una grande occasione per il futuro inserimento nella scuola; qualcuno ha rinunciato perché non se l’è sentita di sborsare cifre non indifferenti senza sapere nulla, nemmeno se potrà conciliare il lavoro precario o la maternità con il tirocinio. È quanto accaduto per esempio all’università di Roma3, all’Alma mater di Bologna, a Genova, alla Statale e alla Bicocca di Milano, a Perugia, alle università della Toscana, alla Sapienza di Roma. «Io ho superato le selezioni a Perugia. Il termine ultimo per l'iscrizione era il 5 gennaio ma ancora non si sapeva nulla di orari, calendario, tipologia dei corsi. Chiunque si sia iscritto lo ha fatto a scatola chiusa, oltretutto con la tassa d'iscrizione più alta d'italia, 3.077 euro» racconta un utente del Forum Orizzontescuola. Ma gli iscritti avrebbero almeno la possibilità di essere rimborsati qualora scoprissero, al momento della pubblicazione di date e orari, di non poter conciliare i propri impegni lavorativi col Tfa? «La prassi non lo prevede» risponde alla Repubblica degli Stagisti Giovanni Salemmi, responsabile dell'ufficio che si occupa di scuole di specializzazione all'università di Perugia. «Poi i casi specifici possono essere analizzati dal rettore e dal direttore amministrativo. Comunque ci manca poco per pubblicare tutto sul nostro sito: i ritardi sono derivati anche dai ricorsi di alcuni partecipanti alle selezioni per l'ammissione al Tfa». Questi ritardi sono ammessi, non quelli sul pagamento della quota d'iscrizione entro i termini previsti. Un’altra ragazza, che preferisce mantenere l’anonimato, racconta alla Repubblica degli Stagisti che «anche a Milano è stato richiesto il versamento della prima rata senza che fosse ancora reso noto il calendario dettagliato dell'organizzazione didattica. Questi dettagli, comprensivi di orari, modalità di svolgimento dei laboratori didattici e metodi di valutazione, sono stati presentati solo il giorno prima della scadenza del periodo aperto all'immatricolazione. Per quanto riguarda l'attività di tirocinio diretto, presso gli istituti, tuttora non si hanno dettagli consistenti». Anche alla “Federico II” e alla Seconda università degli studi di Napoli il periodo non prorogabile di iscrizione è stato fissato tra il 10 e il 21 dicembre, prima della pausa natalizia, senza però fornire alcuna informazione sui corsi. Un’altra aspirante insegnante, che ha superato il Tfa alla Seconda università di Napoli nella classe di concorso A043 (Italiano, storia e geografia alle medie), racconta alla Repubblica degli Stagisti che si è rifiutata di pagare 2.500 euro senza sapere se il Tfa sarebbe stato conciliabile coi suoi impegni: «Si tratta di una cifra pari a circa 4 stipendi del mio contratto a progetto. Gli unici sicuri di poter seguire i corsi sono quelli che hanno alle spalle la famiglia e sono senza lavoro. Inoltre dalla pubblicazione delle date utili per l’immatricolazione fino alla scadenza dei termini passavano poco più di dieci giorni e non era semplice procurarsi i soldi in tempi così ristretti». A dire il vero non è stato ovunque così: ci sono atenei che hanno avviato i corsi prima dell’apertura dei termini di pagamento e altre che hanno opportunamente informato gli studenti prima di richiedere il pagamento, come l’università di Padova o quella di Trento. «Gli atenei hanno totale autonomia» spiega alla Repubblica degli stagisti Lucrezia Stellacci, direttore generale del Miur a capo del dipartimento per l’Istruzione. «Tuttavia, per coordinare le diverse università impegnate nei percorsi di Tfa e per chiarire i punti problematici rappresentati dai corsisti in merito alla frequenza, sta per essere varata una circolare della Direzione generale Università». Un po’ tardi, visto che molti corsi sono già iniziati.E poi, che prospettive reali di occupazione hanno i giovani che frequentano il Tfa? Dipenderà molto dalle scelte politiche del futuro governo, dalla volontà di confermare quanto annunciato dal ministro Francesco Profumo, ovvero nuovi concorsi pubblici nella scuola per i prossimi due anni, per accedere ai quali viene attualmente richiesto il requisito dell’abilitazione. Dipenderà anche dalle sentenze della giustizia amministrativa relative al concorsone della scuola, che è partito a metà dicembre con la prima prova: sebbene fosse richiesta l’abilitazione o la laurea prima dell’anno accademico 2002-2003, molti non abilitati e laureati post-2003 sono stati ammessi con riserva dal Tar e ora si attende la sentenza del Consiglio di Stato sulla loro ammissibilità. «Con riferimento a quanti, pur non avendo i requisiti per accedere al concorso, vi hanno partecipato con ordinanza cautelare sospensiva del Tar, siamo in attesa di conoscere l'esito dell'udienza che si svolgerà il 21 febbraio. Ove la decisione fosse negativa per i ricorrenti, gli stessi saranno esclusi definitivamente dal concorso» continua Lucrezia Stellacci. «Sulla legittimità del Tfa, penso che per abolirlo come istituto giuridico non basti una sentenza, ma che occorra un provvedimento normativo della stessa forza del decreto ministeriale n. 249/2010 che l'ha istituito».Se il ricorso fosse definitivamente accolto, comunque, si  potrebbe determinare un precedente giuridico tale da consentire a tutti, abilitati e non, di partecipare ai futuri concorsi. In questo caso il Tfa non avrebbe più motivo di esistere. Per partecipare al concorso sarebbe sufficiente la laurea quinquennale.L’altra cosa che fa riflettere è che il tirocinio durerà pochissimo, ben che vada quattro-cinque mesi. Si pagano 2.500 euro o più per seguire corsi da febbraio a giugno, o da gennaio a giugno per chi ha già iniziato: non si dovrebbe andare oltre questo mese perché uno degli elementi caratterizzanti del Tfa è il tirocinio nelle scuole, che non può ovviamente protrarsi oltre la data di chiusura delle stesse. Per i corsi teorici di didattica e laboratorio, invece, ci sono meno limiti, ma molte università sembrano comunque intenzionate a terminare entro giugno. E che sia eccessivo il contributo economico richiesto lo conferma il fatto che in Francia dal 2013 la formazione degli insegnanti sarà addirittura remunerata dallo Stato, un po' come quella dei medici. Infine c’è un’altra considerazione da fare: non si può slegare la questione dell’abilitazione da quella del reclutamento, e su questo punto saltano agli occhi alcuni abusi del sistema. Il rischio è di fornire tante abilitazioni a pagamento a giovani in cerca di lavoro per poi non assumerli mai perché i posti sono pochi e, di conseguenza, pochi sono i posti a concorso.  Dopo cinque anni dalla chiusura delle SSIS, l’Italia è ancora molto lontana dal riuscire a immettere in ruolo i vecchi abilitati Ssis, alcuni dei quali non sono riusciti ancora a fare un solo giorno di supplenza. Il ministero ha fatto male i conti realizzando la prima prova, il test a risposta multipla, che è risultato molto ostico, tanto che in molte università è accaduto che il numero degli ammessi alla seconda prova, quella scritta, fosse inferiore al numero totale di posti disponibili in diverse classi di concorso.  Così il ministero è in parte tornato sui suoi passi, dando per buone alcune risposte in modo da consentire a molti di avere un punteggio sufficiente per l’ammissione allo scritto. Lì dove gli ammessi allo scritto e all’orale erano ancora in numero inferiore ai posti disponibili, è capitato che tutti i partecipanti abbiano superato entrambe le prove. Per fare un esempio, alla Seconda università di Napoli, nella classe di concorso A043, il test preliminare è stato superato da una quarantina di persone su 350 candidati e 70 posti totali disponibili. Tutte le 40 persone che hanno superato la prima prova sono poi riuscite ad andare fino in fondo, superando anche scritto e orale e venendo ammesse al Tfa. Tutti bravissimi o forse l’università aveva bisogno di finanziarsi con quei soldi? In Italia è sempre in agguato il rischio che si commettano abusi e che l’interesse economico (in questo caso, delle università) prevalga sulla trasparenza dei criteri di ammissione al Tfa e sull’ organizzazione di un valido percorso formativo. Le università, coi fondi pubblici drasticamente ridotti, hanno bisogno di finanziamento e 20mila ammessi per 2.500 euro (in media) di iscrizione corrisponde a circa 50 milioni di euro. In tempi di vacche magre e di tagli all'istruzione, non proprio una cifra trascurabile.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Tirocinio: una parola, tanti significati- Giovani e lavoro, il manifesto dei ministri Sacconi e Gelmini: «Non c'è bisogno di grandi riforme, basta avvicinare la scuola alle imprese»- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta

La ssrl convince gli startupper, fondate 3mila in quattro mesi

Ne sono state fondate più di 23 al giorno, 33 se si considerano anche quelle create da chi ha più di 35 anni. La ssrl, ovvero la società semplificata a responsabilità limitata, piace agli startupper italiani. Al punto che dallo scorso 29 agosto, quando è entrato in vigore il decreto 138 che le ha istituite, sono nate ben 4.162 "imprese a 1 euro". A renderlo noto è stato il Consiglio nazionale del notariato, che ha diffuso questi dati presentando a Roma 'L'arancia', piattaforma web creata con la collaborazione scientifica della Luiss per fornire agli aspiranti imprenditori strumenti e informazioni.Lanciata nel gennaio dello scorso anno come un mezzo per favorire i giovani interessati ad avviare un'azienda, la ssrl è diventata operativa solo ad agosto. Un ritardo legato alla necessità di definire un modello standard di statuto societario, un vero e proprio modulo da compilare di fronte al notaio, pensato per ridurre le spese di costituzione delle imprese. Per quanto, tra imposta di registro e bollatura dei libri contabili, gli aspiranti startupper devono comunque mettere in conto una spesa di circa 700 euro. Ma possono risparmiare sul capitale sociale, visto che basta 1 euro per costituire la società. Una scelta che hanno compiuto 2.941 imprenditori under 35, che hanno scelto la ssrl per dare vita alla propria azienda. Seguiti da 1.221 over 35 visto che, a giugno, il governo ha deciso di estendere anche a loro la possibilità di dar vita ad una società semplificata.La nascita di questa formula è stata accompagnata da molte voci scettiche, convinte che un'impresa con un capitale sociale ridotto non avrebbe potuto sopravvivere sul mercato. Secondo i critici, nessun fornitore si sarebbe fidato a vendere beni o servizi ad un cliente che, in caso di fallimento, non avrebbe avuto alcuna somma a garanzia dei creditori. «Le start-up hanno bisogno di capitali, ma non è quello sociale a fare la differenza», sottolinea però Alberto Onetti, professore associato di Economia e gestione delle imprese all'università dell'Insubria di Varese e presidente della fondazione 'Mind the bridge': «per partire bisogna ricorrere alle 'tre F', ovvero family, friends and fools, poi servono gli investitori, i fondi, i venture capitalist».In realtà, secondo Onetti, i 10mila euro di capitale sociale minimo richiesti per la srl tradizionale rappresentano un ostacolo allo sviluppo di nuove imprese. «Dalle statistiche di 'Mind the bridge' emerge come il 40 per cento delle start-up non sia costituita in impresa». Un fenomeno che si lega alla «sostanziale inadeguatezza dei precedenti strumenti societari per gestire progetti connotati da grande flessibilità e dinamismo». Sul futuro dei quali pesa una forte incognita: «Il classico strumento societario italiano è impegnativo in termini di costi, carichi fiscali e obblighi in caso di chiusura». Lo snellimento delle procedure «ci avvicina ai modelli anglosassoni. Questo è un passo nella direzione giusta».Ne è convinto anche Andrea Rangone, ordinario di Business strategy e di E-business al Politecnico di Milano, dove è anche responsabile dell'acceleratore di impresa Polihub. «Un gruppo di trentenni che ha un'idea imprenditoriale deve innanzitutto capire se può funzionare. E per farlo deve come prima cosa investire nel team. E se dopo tre mesi ci si rende conto che non ha senso continuare?». La necessità di un capitale sociale, anche di soli 10mila euro, rende non solo difficile creare una nuova impresa, ma complica anche la liquidazione in caso di insuccesso. «La verità è che molte start-up, almeno in ambito digitale, vivono sempre una situazione di limbo iniziale, durante la quale i fondatori investono personalmente per capire se il loro progetto è fattivo oppure no».I soldi, se arrivano, vengono solo in un secondo momento, «quando hanno dimostrato qualcosa». In questo periodo iniziale «invece di stare a fare scritture private, si prende e si fa, senza spendere tempo e risorse: se dopo tre mesi l'azienda non va bene si chiude, altrimenti se arrivano i soldi si va avanti». Ma non sono certo i 10mila euro di capitale sociale a cambiare il destino di una start-up.Lo sanno bene i giovani imprenditori under 35, che hanno scelto questa formula per dare vita alla propria azienda, sfruttando innanzitutto il fatto che per costituire la ssrl è necessario versare un capitale sociale che va dagli 1 ai 9.999 euro. Mentre per la più tradizionale srl la somma minima è di 10mila euro. Rispetto a quest'ultima, la società semplificata non richiede il pagamento dell'imposta di bollo (65 euro), dei diritti di segreteria (92,60 euro), né degli oneri notarili (tra i 600 e gli 800 euro) grazie all'introduzione di un modello standard di statuto societario, un modulo che deve essere semplicemente compilato con i datianagrafici dei soci. Infine, anche in risposta alle critiche, il governo ha deciso che il 25% degli utili dovrà essere utilizzato per costituire un capitale sociale almeno fino a che non venga raggiunta la somma di 10mila euro. Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi saperne di più sulla società semplificata a responsabilità limitata? Leggi anche:- Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impres

Riforma forense: un'occasione mancata per tutelare i praticanti?

Poco prima di Natale è stata approvata in via definitiva dal Senato la riforma forense. Per la prima volta negli ultimi 80 anni vengono modificate delle norme fondamentali che regolano l’accesso alla professione di avvocato e il suo esercizio. Numerose le novità in tema di praticantato: innanzitutto, la durata del tirocinio è ridotta da 24 a 18 mesi, accogliendo espressamente quanto già previsto in materia dal decreto liberalizzazioni (convertito nella legge 27 del marzo 2012). Inoltre, la legge menziona la possibilità di riconoscere un compenso ai praticanti avvocati. Già prima dell’approvazione definitiva al Senato, tuttavia, la formulazione della legge ha dato adito a numerose critiche: il compenso per i giovani tirocinanti, infatti, non è obbligatorio e scatta solo dopo i primi 6 mesi di pratica negli studi. A conti fatti sembrerebbe quasi che, per due passi avanti, la riforma ne faccia almeno uno indietro nella tutela dei giovani che cercano di accedere alla professione forense. Il passaggio più controverso sta nel comma 11 dell’articolo 41, in cui si legge: «Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato [per i quali sono previste norme specifiche illustrate di seguito, NdR], decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato». Bisogna tenere presente che, sino al decreto liberalizzazioni prima e alla riforma forense poi, nessuna legge aveva mai contenuto alcun riferimento a un compenso per i praticanti avvocati, sebbene il Codice deontologico di categoria sancisca da più di 15 anni la necessità di adottare questa buona pratica. Ma questa considerazione non è sufficiente ad esimere la nuova normativa dalle critiche; anzi, a maggior ragione la si può ben considerare come un’occasione perduta per evitare lo sfruttamento dei giovani praticanti negli studi legali.L’articolo 41, infatti, non istituisce alcun obbligo. Si limita a riconoscere che gli studi “possono” riconoscere un compenso ai tirocinanti. Eppure nel decreto liberalizzazioni si sanciva testualmente che «al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi 6 mesi di tirocinio», individuando un dovere ben preciso da parte degli studi. Possibile che la riforma forense faccia un passo indietro rispetto alla legge sulle liberalizzazioni? Per risolvere la questione bisognerà probabilmente attendere una circolare esplicativa che potrebbe arrivare presto dal Consiglio Nazionale Forense.Nel frattempo, però, la scelta dei termini fa riflettere. Lo stesso articolo 41 della riforma forense, infatti, sancisce una volta per tutte che i praticanti avvocati abbiano diritto, questo sì, a un pieno rimborso delle spese sostenute per conto dello studi. La riforma sembra quindi scorporare il rimborso spese dal compenso.La questione ricorda il dibattito ospitato dalla Repubblica degli Stagisti ai tempi dell'approvazione del decreto liberalizzazioni. Il precedente decreto legge 138/2011, la manovra di Ferragosto, aveva già introdotto il concetto di equo compenso per i tirocinanti. Il decreto liberalizzazioni lo sostituì con il termine "rimborso spese". I pareri degli esperti si divisero: ci fu chi disse che non sarebbe cambiato molto, e chi invece lamentò un passo indietro nella legge. Oggi gli sviluppi sembrano dare ragione a questi ultimi: approfittando dell'ambiguità del decreto liberalizzazioni, la riforma forense riconosce sì l'obbligo di rimborsare le spese ai praticanti. Ma al tempo stesso coglie l'occasione per eliminare quasliasi possibile dovere, da parte degli studi legali, di pagare i tirocinanti in rapporto all'attività svolta.Peggio ancora, questa possibilità scatta solo dopo il primo semestre di attività, coerentemente con quanto anticipato nel decreto liberalizzazioni. Insomma, sembra che per legge uno studio privato non possa pagare i propri praticanti, per i primi 6 mesi di tirocinio, neanche se i soci lo desiderano con tutto il cuore. Questa interpretazione è stata confermata a Marianna Madia dal ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Filippo Patroni Griffi, in risposta a un'interrogazione parlamentare che la giovane deputata Pd aveva presentato sette mesi fa proprio a partire da un articolo della Repubblica degli Stagisti sul tema del decreto liberalizzazioni e del compenso per i praticanti: «La norma rinvia la determinazione dell'importo del rimborso per l'attività svolta dal tirocinante al libero accordo delle parti, che non può comunque essere erogato nei primi sei mesi di tirocinio», dichiara nero su bianco il ministro. Andando forse persino al di là del suo perimetro di competenze.Ma resta pur sempre il parere di un componente del governo in carica e poichè la formulazione del decreto liberalizzazioni e della riforma forense sono pressochè equivalenti, è lecito pensare che un'interpretazione simile possa essere valida, per estensione, anche per il compenso dei praticanti avvocati che svolgano il tirocinio professionale presso studi privati.Per di più, nel conteggio finale si deve anche tenere conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte dei giovani. Significa forse che se un praticante fa una telefonata dallo studio bisognerà scalargli il costo della stessa dal compenso finale? E se usufruisce del riscaldamento durante l’inverno, i soci potranno trattenergli parte della bolletta del gas dallo stipendio? Gli esempi, ovviamente, sono paradossali; ma in teoria, se si interpreta estensivamente la legge, non fanno una grinza.Meno controversi i punti sulla durata del tirocinio e sulle sue modalità di svolgimento. Su un totale di 18 mesi, il primo semestre può iniziare già durante l’ultimo anno del corso di laurea. Inoltre il praticantato può essere portato avanti, per un massimo di 12 mesi, anche negli uffici legali degli enti pubblici, negli uffici giudiziari e presso l’avvocatura dello Stato. Tutte queste strutture riconoscono per legge al praticante avvocato un rimborso per l’attività svolta... ma solo ove previsto dai rispettivi ordinamenti e nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Insomma, se non ci sono i fondi o se l’ente stesso stabilisce che i praticanti non vadano pagati, i giovani aspiranti avvocati si ritroveranno ancora una volta a lavorare gratuitamente anche per un anno.Di positivo c’è che comunque la legge permette espressamente ai praticanti di sbarcare il lunario svolgendo, contestualmente al tirocinio, anche un’attività di lavoro subordinato pubblico o privato. Ovviamente in assenza di conflitti di interessi o di orari rispetto al praticantato stesso.Critico il giudizio che Dario Greco, presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), affida alla Repubblica degli Stagisti: «Il periodo di pratica negli studi è indispensabile per colmare il deficit formativo delle università. Il problema, però, è che spesso il tirocinio si trasforma in un periodo di manovalanza e non tutti gli studi offrono un compenso ai giovani, in termini economici o di competenze. La riforma rappresenta un’occasione mancata per offrire maggior tutela non solo ai praticanti, ma anche ai giovani che hanno completato il tirocinio e che non hanno un proprio studio e lavorano come collaboratori. Questa categoria vive in una vera e propria “terra di nessuno” priva di qualsiasi garanzia: non sono pochi i casi di avvocati 35enni o 40enni licenziati dalla sera alla mattina senza alcun paracadute, Tfr o ammortizzatore sociale».Secondo Greco, inoltre, «è paradossale che la norma introduca un obbligo costante di formazione continua e aggiornamento per gli avvocati, salvo poi esentare proprio gli ultrasessantacinquenni e gli iscritti all’albo da oltre 25 anni [oltre ai docenti, ai ricercatori universitari, a coloro che ricoprono cariche con funzioni legislative e ai sospesi dall’albo, NdR]. Possibile che un anziano professionista over-60 abbia minore bisogno di aggiornarsi rispetto a un giovane fresco di studi e con una buona propensione di base all’uso degli strumenti informatici?».A molte di queste domande dovrebbe presto rispondere una circolare esplicativa della legge ad opera del Cnf. Nel frattempo, però, il dubbio che la riforma rappresenti un’occasione sprecata per tutelare i giovani avvocati sembra quasi più una certezza, ed è tanto più grave se si considera che in media, in Italia, ci sono ogni anno più di 30mila praticanti avvocati che si presentano all'esame di Stato (e circa il 30% riesce a superarlo). Stando a dati Almalaurea, il 75% degli studenti che hanno conseguito una laurea specialistica in giurisprudenza e l'85% di di chi ha una laurea a ciclo unico decide, a un anno dalla fine degli studi, di effettuare il tirocinio. Attualmente gli avvocati iscritti all'albo sono circa 247mila in tutta Italia: uno ogni 246 abitanti. di Andrea Curiat  Se vuoi saperne di più su questo argomento, leggi anche:  - Praticanti, il decreto liberalizzazioni ha introdotto l'obbligo del compenso: e l'Inps si adegua- Equo compenso addio: per Confprofessioni «non cambia molto», ma per i praticanti sì- Sulla gravità della violazione del codice deontologico forense da parte degli enti pubblici- La testimonianza di Francesca Esposito: «Ho interrotto il mio praticantato presso l'Inps perchè non mi davano un euro»

Disoccupazione giovanile: alla ricerca dell'età più rappresentativa

Sul tema della disoccupazione giovanile è il caso di fare un po’ di chiarezza. Come la Repubblica degli Stagisti ha spiegato in un articolo di qualche mese fa, quando i giornali e le televisioni diffondono la notizia secondo cui un terzo dei giovani tra i 15 e i 24 anni è senza lavoro riportano un’informazione solo parziale. Innanzitutto, e giustamente, questo dato esclude l’ampia fetta di popolazione che tra i 15 e i 24 anni studia ancora: non considera cioè i giovani che effettivamente non stanno cercando lavoro perché ancora a scuola o all’università, conteggiati tra gli inattivi.Poi non è forse sufficientemente chiaro che quando si parla di un terzo dei disoccupati in quella fascia di età ci si riferisce al tasso di disoccupazione, ovvero all’incidenza di quanti sono realmente in cerca di lavoro sul totale della forza lavoro, che non include tutti i cittadini italiani, bensì solo gli occupati e coloro che sono attivamente in cerca di occupazione. Il tasso di disoccupazione è la percentuale che viene diffusa mensilmente dall’Istat e l’ultimo dato conosciuto è quello di novembre 2012, pari al 37,1%.Sul totale della popolazione nella fascia d’età 15-24, invece, i giovanissimi in cerca di lavoro a novembre 2012 sono 641mila, ovvero solo il 10,6% del totale, poco più di un decimo. Affermare dunque che un giovane su tre è “senza lavoro” è fuorviante. Nei titoli di giornale sarebbe più corretto strillare “uno su tre, tra i giovani in cerca di lavoro, non lo trova”. «I media spesso privilegiano i titoloni alla precisione e completezza dell’informazione» spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesca Della Ratta, ricercatrice dell’Istat. «Noi cerchiamo di evitare che diffondano presso l’opinione pubblica informazioni inesatte. A tal fine da qualche tempo, nel nostro comunicato stampa, indichiamo sia il tasso di disoccupazione sia la percentuale dei giovani senza lavoro sulla popolazione totale nella corrispondente classe d’età». Ci si può tuttavia chiedere perché l’Istat prenda in esame questa fascia d’età per fotografare la situazione occupazionale dei giovani. In Italia, ancor più che nel resto d’Europa, questa fetta di popolazione sembra poco indicativa dal punto di vista lavorativo sia perché ancora moltissimi sono inseriti in percorsi di istruzione, sia perché nel nostro Paese si diventa adulti (cioè indipendenti dal punto di vista economico) ben più tardi dei 24 anni. E allora l’Istat, per i suoi comunicati mensili, non potrebbe fare riferimento a una fascia d’età giovanile che più realisticamente sia alle prese con la ricerca di un inserimento lavorativo, tra i 18 e i 29 anni o tra i 18 e i 35 anni? «La fascia d’età 15-24 è uno standard europeo per il tasso di disoccupazione, per questo lo utilizziamo nei nostri comunicati mensili» continua la Della Ratta, ricordando però che «su base trimestrale esistono altri dati per i giovani tra i 25 e i 34 anni e per quelli tra i 18 e i 29 anni». Effettivamente, nella banca dati Istat, è possibile reperire tutte le statistiche relative alle diverse fasce d’età, ma solo ogni tre mesi.«Il fatto più importante da considerare è che, indipendentemente dalla fascia d’età che vogliamo considerare, tra 8 e 11 giovani, su 100 che cercano lavoro, non riescono a trovarlo» spiega Donato Speroni, giornalista economico ed ex dirigente dell’Istat. «I media danno un risalto eccessivo al dato mensile dei disoccupati tra 15 e 24 anni, ma non credo che sia difficile per l’Istat calcolare la fascia tra i 18 e i 29 anni, più indicativa, e includere i dati nel comunicato mensile». Speroni aggiunge che «in tutti i paesi sviluppati la stragrande maggioranza dei giovani fino a 24 anni non lavora, quindi può darsi che la scelta di questa età convenzionale sia anche il frutto di un’arretratezza europea». E c’è un’altra considerazione da non sottovalutare. Dando risalto solo ai dati  sulla disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni, i media rischiano di danneggiare coloro i quali hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, doppiamente esclusi: sia dal mondo del lavoro sia dalle statistiche. Considerati già vecchi dagli istituti di statistica (su cui spesso si basano le politiche di un Paese) eppure senza la possibilità di entrare stabilmente nel mondo del lavoro a causa della crisi. Stando a quanto risulta alla Repubblica degli stagisti, l'Istat, nelle sue più recenti rilevazioni, ha introdotto una domanda per risalire al numero di stagisti in Italia, ma il dato è ancora in corso di verifica, cioè i tecnici devono valutare se ha qualche consistenza numerica oppure no, anche in relazione con altre fonti. Il dato dovrebbe riferirsi solo gli stagisti non retribuiti. Francesca Della Ratta afferma di non poter rispondere su questo punto, ma dichiara che «Eurostat ha stabilito che gli stagisti con rimborso spese o buono pasto, quindi anche con corrispettivo non monetario, devono essere considerati tra gli occupati a tempo determinato». Gli altri, fino ad oggi, sono stati considerati disoccupati o inattivi a seconda che abbiano o non abbiano cercato attivamente lavoro nella settimana di riferimento. Esistono però anche casi di stagisti considerati fino ad oggi tra gli occupati qualora abbiano svolto almeno un’ora di lavoro pagato nella settimana di riferimento: anche se magari si trattava solo del lavoretto serale per pagarsi lo stage senza compenso.Se e quando sarà diffuso, il dato sugli stagisti riguarderà solo quelli sfruttati al 100%, ma non la gran massa di tirocinanti che ha la fortuna di avere almeno un rimborso spese. Ma come si fa a considerare occupati ragazzi che vivono a Milano o a Roma, dove solo l’affitto costa 500 euro, e ricevono 300-400 euro al mese di rimborso spese o, magari, solo un buono pasto al giorno? Considerare gli stagisti come una nuova entità autonoma delle statistiche è un passo importante, ma ci sarà da discutere sui criteri per entrare a far parte di questa entità. Un’ultima considerazione è di Donato Speroni, che sottolinea la  necessità di mettere in evidenza il divario percentuale tra giovani uomini e giovani donne con un lavoro: «Quelli sulle donne e sul Mezzogiorno sono dati veramente impressionanti, che meriterebbero un’accurata riflessione». Tra i 18 e i 29 anni il tasso di occupazione, ovvero la percentuale di occupati sull’intera popolazione, è del 45,8% per gli uomini e del 33,7% per le donne nel terzo trimestre del 2012. Nel Mezzogiorno il dato è del 33,7% di uomini e del 21,2% di donne occupate. Anche tra i 25 e i 34 anni è molto preoccupante il dato del 34,5% di donne meridionali occupate. Il tasso di disoccupazione tra i 18 e i 29 anni è del 22% su base nazionale e del 36,1% tra le donne del sud Italia.La corretta raccolta, diffusione e interpretazione mediatica dei dati sulla disoccupazione giovanile è importante e su di essa si giocherà buona parte della campagna elettorale in vista delle politiche di febbraio. Il problema dell’accesso dei giovani al mondo del lavoro dovrebbe essere il principale tema del dibattito politico. Sarà così? La Repubblica degli stagisti farà la sua parte e vigilerà sulla correttezza dei dati statistici diffusi e sulla credibilità delle promesse dei politici.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento leggi anche:-  In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?- Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»-  Linee guida sugli stage, 400 euro al mese di rimborso «obbligatorio»: ma solo in teoria- La Corte costituzionale annulla l'ultima legge sugli stage: «Solo le Regioni competenti in materia»   

Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag Milano

Per decenni è stata definita la capitale morale d'Italia. Oggi Milano si candida a un ruolo di guida per l'ecosistema italiano delle start-up. E questo grazie a due iniziative nate a poche settimane di distanza all'ombra della Madonnina: PoliHub, acceleratore di impresa promosso dal Politecnico di Milano e Tag Milano, la «casa dell'innovazione» promossa a questo indirizzo da Startupbusiness e Talent Garden.«Il nostro tentativo è quello di condensare nella stessa area molte imprese leader nei loro settori, creando un humus fertile che consenta di sviluppare sinergie e favorisca un apprendimento complessivo», spiega il professor Andrea Rangone [nella foto sotto], delegato dal rettore per il progetto Polihub, «il modello è quello dei distretti industriali, che vogliamo trasferire nel settore hi-tech». A questo si affianca un vero e proprio incubatore, con una corsia preferenziale per le spin-off universitarie e per le start-up. L'obiettivo è quello di arrivare ad accogliere 150 aziende entro i prossimi tre anni. Ed è per questo che il Politecnico ha stanziato 3 milioni di euro.Soldi che verranno impiegati per realizzare la struttura e per i costi di gestione, ma che non saranno erogati alle start-up, che anzi dovranno pagare per essere incubate un canone definito sulla base degli spazi richiesti. L'incubazione durerà tre anni, periodo durante il quale PoliHub metterà a disposizione oltre ad una scrivania anche spazi comuni, sale di rappresentanza, attività di mentorship, corsi e incontri con imprenditori e rappresentanti dei fondi di venture capital.Sono tre i canali di accesso: uno è quello riservato a start-up che abbiano già ricevuto un primo finanziamento, in virtù del quale possono entrare di diritto all'interno dell'incubatore per definire la struttura aziendale e sviluppare l'attività. Il secondo è quello legato ai progetti nati nell'ambito dell'attività di ricerca svolta all'interno del Politecnico che cercano uno spin-off, ovvero uno sviluppo di natura imprenditoriale.La terza via, per le imprese che non rientrino in nessuna di queste due categorie, è semplicemente quella di presentare una richiesta, che sarà valutata sulla base «dell'attrattività, del gruppo imprenditoriale e della coerenza con il resto della struttura». Nei 5mila metri quadrati ricavati nella sede di Bovisa dell'università troveranno infatti spazio start-up legate ai settori delle nuove tecnologie digitali, i nuovi media, i dispositivi medicali, le tecnologie green, l'efficienza energetica, l'aerospazio e il disegno industriale.A pochi chilometri di distanza, Startupbusiness e Talent Garden mettono invece a disposizione degli startupper una struttura da tremila metri quadrati in cui dare vita a quello che le due realtà non esitano a definire come l'«ecosistema perfetto». L'idea di fondo, infatti, è quella di non limitarsi semplicemente ad ospitare le start-up, ma potranno trovare casa anche freelance, agenzie, venture capitalist, incubatori, acceleratori d'impresa e media. Nella convinzione, si legge in una nota, che «solo con la contaminazione reciproca possiamo far nascere e accelerare l'ecosistema dell'innovazione».Aperto 24 ore su 24, con 250 postazioni di lavoro suddivise tra salette private e spazi in coworking, 25 sale riunione, Tag Milano si pone l'obiettivo di riuscire ad attirare imprenditori da tutta l'area euromediterranea. I servizi offerti vanno dall'affitto di uno spazio in coworking per una giornata a 25 euro ai 250 euro mensili per una scrivania a disposizione tutti i giorni, fino alle sale per gli eventi, disponibili ad un costo compreso tra i 25 ed i 200 euro più Iva a seconda delle dimensioni. Ad oggi l'intero primo piano, con 60 postazioni, è stato completamente affittato. Per arrivare a riempire l'intero edificio, si lavora unendo le competenze di queste due realtà, attive da tempo in settori diversi ma complementari. Startupbusiness è una piattaforma web nata nel 2008 che accoglie oggi oltre 3700 iscritti tra protagonisti a vario titolo dell'ecosistema italiano, mentre Talent Garden gestisce una rete di coworking campus dedicati all'ambiente digitale, con sedi a Brescia, Bergamo, Padova e Torino.A queste realtà si sono aggiunte Frontiers of Interaction, realtà che dal 2005 promuove conferenze dedicate all'innovazione, e Alfredo Cazzola, noto imprenditorie bolognese nonché proprietario dell'immobile che ospita Tag Milano. «Crediamo che una delle capitali europee delle startup abbia bisogno di un luogo di questo tipo per poter fare sistema ed emergere a livello internazionale», spiega Davide Dattoli, cofondatore di Talent Garden, «un campus di queste dimensioni ha tutte le potenzialità per accogliere media e venture capitalist da tutta Europa». E dare una dimensione internazionale a Milano, capitale italiana dell'ecosistema start-up.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi saperne di più sugli incubatori d'impresa? Leggi anche:- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa