La convinzione di fondo è che il futuro del giornalismo passi da qui. Anche per questo Clara Attene, 30 anni, ha dato vita a Spazi Inclusi, service giornalistico con sede a Torino fondato a novembre dello scorso anno insieme a due colleghe: Mariachiara Voci (37) e Silvia Alparone (39).
«Mi sono laureata in Scienze della comunicazione a Trieste nel 2006 e poi ho passato le selezioni per l'istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, che ho completato nel 2008». E che le ha permesso di svolgere stage (purtroppo completamente gratuiti) in alcune importanti realtà giornalistiche: innanzitutto il Sole24Ore e il Venerdì di Repubblica, testate per le quali tuttora scrive, quindi Radio Popolare e la sede dell'agenzia Ansa di Bruxelles. Terminati gli studi ha iniziato con una serie di contratti di collaborazione pagati al pezzo, «che purtroppo sono la regola per gran parte della categoria». Una categoria che ha recentemente cominciato a farsi sentire chiedendo a gran voce l'approvazione del disegno di legge sull'equo compenso giornalistico: «Vista la situazione attuale, credo che sarebbe una norma di civiltà» conferma la Attene «anche perché in questo momento c'è bisogno di educare il mercato. C'è l'idea che il lavoro intellettuale non abbia valore, invece ce l'ha eccome: se chiedo una consulenza ad un avvocato senza che si arrivi ad una causa in tribunale, devo comunque pagarlo, no?».
Lei ha scelto di non aspettare i tempi lunghi del parlamento e di mettersi in proprio. «Nel 2010 sono tornata a Torino e tramite il mio caporedattore ho saputo che c'era una giornalista, Mariachiara, che cercava un collega con cui condividere un ufficio». I giornalisti freelance infatti lavorano normalmente da casa propria, oppure affittano uno spazio e condividono le spese. «Abbiamo un ufficio in coworking in via Verdi a Torino. Nello stesso stabile ci sono un'agenzia di comunicazione e un ufficio di grafica». È stato quest'ultimo, una volta che a Clara e Mariachiara si è aggiunta Silvia Alparone e tutte e tre hanno deciso di creare un service giornalistico, a realizzare il logo di Spazi Inclusi.
«Il nome nasce dal gergo giornalistico [si tratta della formula che indica la lunghezza in battute degli articoli, ndr], ma c'è anche l'idea dell'inclusione che è nata dalla nostra esperienza: questo è un luogo in cui ci si ritrova e ci si confronta. Abbiamo messo insieme le nostre rubriche di contatti, le idee, gli strumenti di lavoro». Ma di cosa si occupa questa start-up? «Creiamo per committenti diversi dei prodotti editoriali multimediali che abbiano un contenuto di taglio giornalistico». Articoli, servizi radiofonici, video per la televisione o per Internet: sono questi i prodotti di Spazi Inclusi. Le tre fondatrici hanno invece deciso di escludere di lavorare come ufficio stampa, perché «per quanto sia un lavoro complementare a quello del giornalista, si tratta di ruoli che non possono coincidere».
L'idea di lanciare una realtà del genere nasce dalla convinzione che «vista la situazione economica delle redazioni ci sarà sempre di più la tendenza ad esternalizzare», affidandosi ai freelance pagati "a pezzo". Questi ultimi «possono considerarsi come dei cani sciolti se sono inviati di un grande quotidiano, altrimenti rischiano di innescare una guerra tra poveri. La nostra idea è quella di provare a sistematizzare la collaborazione, per confrontarci in maniera diversa con le redazioni». L'offerta è quella di un gruppo «con competenze diverse ed approfondite su diversi settori, con conoscenze di tutte le tipologie di media». Una realtà che ha una forza contrattuale maggiore di quella del singolo giornalista, così da riuscire a spuntare dei prezzi migliori. E i pagamenti? «Alcuni lavori vengono pagati come se fossimo collaboratori, per altri c'è una contrattazione relativa al tempo necessario per produrre i contenuti richiesti». Dal canto loro «le redazioni sembrano interessate, anche se sappiamo che il mercato non si cambia in un giorno. Con il tempo, però, penso che inizieranno a confrontarsi con realtà come la nostra e a capire che la contrattazione sul singolo pezzo non è più la forma adatta. Anche perché discutiamo sempre di libertà di stampa, ma non c'è libertà senza un compenso equo».
Per la loro start-up Clara Attene e le sue socie hanno scelto la forma dello studio professionale associato, «la formula più leggera per partire». Nessun capitale sociale versato, costi mensili intorno ai 500 euro tra affitto dell'ufficio e altre spese. Per il resto «ognuna usa il proprio computer, abbiamo solo dovuto realizzare i biglietti da visita e investire 500 euro per creare il sito Internet». Quindi hanno iniziato a farsi conoscere. «In alcuni casi ci siamo presentate direttamente, come è successo per Il Fatto Quotidiano. Questa primavera invece siamo state al Festival del giornalismo di Perugia per presentarci alle redazioni. Mentre a settembre siamo stati tra i protagonisti della Social media week di Torino».
Del loro lavoro si è accorta l'associazione della stampa subalpina che, riconoscendo il taglio innovativo di Spazi Inclusi, ha erogato un contributo di 2mila euro a fondo perduto. Per il resto «stiamo studiando i bandi europei alla ricerca di finanziamenti». Nonostante le difficoltà, le tre compagne d'avventura riescono a mettere insieme uno stipendio tra le attività della start-up e le varie testate per le quali scrivono. Così come garantiscono il pagamento, anche in questo caso in base al lavoro svolto, per i diversi collaboratori che ruotano intorno all'agenzia. Il pareggio di bilancio è ancora lontano, ma aver dato vita ad un service giornalistico è meglio che lavorare in solitudine e per pochi euro al pezzo.
Riccardo Saporiti
startupper@repubblicadeglistagisti.it
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