Categoria: Approfondimenti

Il camper di Renzi riaccende i motori, ora gira l'Italia alla caccia di nuove start-up

Il camper di Matteo Renzi torna a viaggiare. Questa volta però la politica non c'entra: il sindaco di Firenze ha infatti venduto il veicolo al giornalista Riccardo Luna, già direttore del mensile Wired e fondatore di StartupItalia, e Gianluca Dettori, inventore di Vitaminic e oggi presidente a tempo pieno di dPixel. I due sono pronti a lanciare lo StartupItalia Barcamper Tour, un viaggio che toccherà una quarantina di città e trenta università in tutta Italia alla ricerca della nuova generazione di aziende innovative.L'obiettivo è ambizioso. Come spiegano in una nota gli ideatori di questo progetto, si punta ad «incontrare mille start-up entro la fine del 2013». Le cento ritenute migliori avranno la possibilità di partecipare alle TechWeek, percorsi di allenamento intensivo della durata di una settimana, durante le quali gli startupper avranno modo di lavorare a stretto contatto con investitori professionali e specialisti che li aiuteranno a definire al meglio il proprio progetto imprenditoriale. È previsto un ulteriore percorso di selezione che porterà le migliori dieci start-up a prendere parte a TechGarage, evento conclusivo del tour che permetterà a questi giovani imprenditori di presentare la propria azienda di fronte ai principali protagonisti del venture capital e dell'ecosistema dell'innovazione italiana. Un'occasione unica per accedere a finanziamenti e sviluppare la propria impresa.Questo progetto nasce dall'incontro tra due esperienze, quella di StartupItalia e quella di Barcamper. La prima è una «piattaforma per l'innovazione», come la definisce il suo ideatore Luna, che dal prossimo 21 marzo si aprirà a tutto l'universo delle start-up. L'obiettivo è quello di creare un social network che favorisca l'incontro di startupper, venture capitalist, realtà di co-working. Il portale avrà due versioni, una in italiano e l'altra in inglese, perché «i migliori progetti italiani possano essere valorizzati in tutto il mondo». Barcamper è invece il programma di accelerazione per start-up lanciato nel 2012 da dPixel, società specializzata nel finanziare aziende tecnologiche. Lo scorso anno questa iniziativa ha toccato quindici città e dieci atenei, percorrendo 4.700 chilometri per incontrare 220 nuove imprese. «Abbiamo milioni di giovani ricercatori, creativi ed inventori in Italia. Si tratta della generazione probabilmente con i più alti livelli di istruzione nella storia» riflette Dettori: «milioni di persone con le idee e le competenze che ci servono per risollevarci dalle difficoltà e costruire le aziende in grado di competere sui mercati italiani».Il camper di Renzi subirà in questi giorni un restyling e verrà presentato nella sua nuova veste il 21 marzo nell'ambito di Codemotion, evento di riferimento per gli sviluppatori di software italiani in programma a Roma dal 20 al 23 marzo. Sarà attrezzato come un ufficio mobile e a bordo ricercatori e startupper potranno incontrare direttamente i rappresentanti di dPixel: avranno a disposizione venti minuti per presentare il proprio progetto e convincere il fondo guidato da Dettori ad investire nella propria idea. È possibile prenotarsi direttamente dal sito, che riporta l'elenco delle 60 tappe italiane del Barcamper, cui se ne aggiungono tre internazionali: il tour toccherà anche Berlino, Barcellona ed Amsterdam andando alla ricerca degli innovatori italiani che vivono all'estero. Per trovare anche i migliori "cervelli in fuga" e sostenerli nella loro impresa.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre iniziative dedicate alle start-up? Leggi anche:- Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up- Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-up- Gianluca Dettori: «Decreto start-up, un passo nella giusta direzione»- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag MilanoE anche le storie di start-up di successo:- Fattelo!, la start-up sostenibile nata dalle donazioni online- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Rilancio dell'apprendistato, mission (quasi) impossible

Tanti dati e un'unica certezza: l'apprendistato, invocato e pubblicizzato da almeno un decennio come soluzione a tutti i mali del precariato e della disoccupazione giovanile italiana, è applicato pochissimo – secondo l'Isfol vengono attivati meno di 300mila contratti di questo tipo all'anno – e per giunta è in calo. L'alto apprendistato, ovvero quello rivolto ai laureati, va ancora peggio ed è quasi lettera morta. Di rilanciarlo se ne fa un gran parlare, soprattutto a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legislativo 167/2011, in vigore dal primo gennaio. Tra le iniziative del momento c'è la proposta congiunta del ministero del Lavoro e Fixo (il progetto per il placement della Sapienza), che si sono uniti nell'intento di promuovere lo strumento di rilancio del mercato del lavoro per eccellenza. E che qualche giorno fa a Roma, in una conferenza affollatissima di studenti (soprattutto) e qualche azienda e professore universitario, hanno spiegato le nuove regole dell'apprendistato, impegnandosi a contribuire affinché questa tipologia contrattuale si affermi una volta per tutte. La Repubblica degli Stagisti ha però voluto scandagliare a fondo la questione con i relatori, chiedendo loro cosa si può fare in concreto perché le cose cambino davvero rispetto a un passato e a un presente in cui l'apprendistato è di fatto snobbato dalle aziende. Più che mai se si tratta della tipologia numero tre: quella che dovrebbe permettere ai giovani tra i 18 e i 29 anni di conseguire titoli universitari, post-universitari e il praticantato per le professioni associate a un ordine, che è quella sui cui puntano gli addetti di Fixo. Le risposte, dirette e senza filtri, non hanno lasciato molto spazio alla speranza. Carlo Magni [nella foto a sinistra], coordinatore scientifico del programma Soul della Sapienza, ne fa una questione pratica. «Premesso che l'apprendistato se applicato correttamente è la formula migliore in assoluto, e che se capita a un giovane un'offerta di questo tipo, ne è felicissimo, chi invece non è tanto contento sono le aziende». È chiaro infatti che «se devono ricorrere per esempio a una sostituzione maternità, o a risorse da impiegare nel breve periodo, non si mettono a cercare apprendisti, ma scelgono la via più breve: i contratti precari». Anche se in realtà l'apprendistato, pur essendo dal punto di vista giuslavoristico un contratto a tempo indeterminato, prevede comunque la possibilità di licenziamento con modalità abbastanza semplificate. Ma attivare l'apprendistato di terzo tipo per le università non è altro che un lavoro in più, e Magni lo racconta con preoccupante rassegnazione. «Abbiamo tagli ovunque, qui tutti hanno votato Grillo. Il turnover è praticamente azzerato. Chiedere a qualcuno di mettersi a fare tutta la trafila di moduli necessari ad attivare corsi o master per l'alto apprendistato significa lavoro in più» che nessuno dei dipendenti della martoriata università ha voglia di fare. Ma c'è anche un barlume di speranza: «L'università e il mondo produttivo devono smetterla di essere autoreferenziali e cominicare a parlarsi, perché questo significherebbe stare tutti un po' meglio. In questo senso è necessario un cambiamento di intenzioni, di consapevolezza». E poi, a dirla tutta, la responsabilità del sempre promesso e mai realizzato rilancio dell'apprendistato non grava solo su università e imprese. «Anche le Regioni sono coinvolte, devono legiferare per rendere applicabile il decreto, e anche le parti sociali hanno l'obbligo di fornire dei quadri di riferimento attraverso contratti collettivi. Dopodiché bisogna avere pazienza perché non è che in due mesi si risolve un problema che è lì da vent'anni». Ancora più pessimista è Pietro Lucisano [foto sotto], direttore scientifico di Soul, scettico soprattutto sull'uso dell'apprendistato per l'alta formazione: perché questa tipologia contrattuale è storicamente legata all'accesso a mestieri soprattutto manuali mentre «un dottore è uno che di ossa se n'è già fatte tante ed è un po' ridicolo che debba continuare a farsele».  E aggiunge: «Del resto se un'azienda vuole una risorsa qualificata, dopo un tirocinio trimestrale magari se la tiene senza troppi giri di parole... e di contratti». Ma il vero problema è la mancanza di domanda di lavoro: «Se non c'è è inutile inventarsi sistemi. La nostra è molto frammentata, e il comparto del pubblico, che non è una piccola fetta, si sta rivelando il più infame per i giovani». Come il collega Magni, anche Lucisano non nega la concorrenza dei contratti precari e degli stage all'applicazione dell'apprendistato, ma non vede in questo l'elemento determinante: «Con l'apprendistato puoi essere licenziato  in qualunque momento, quindi dire che non si tratti di un contratto precario bensì di un tempo indeterminato è una pura petizione di principio». Anzi, dice, «è più stabile un cocopro con cui almeno sei sicuro di lavorare un tot di mesi». Affermazione a dire il vero un po' ardita: la possibilità di lasciare a casa l'apprendista in effetti esiste, ma non proprio “in ogni momento”. Una volta sancita la conferma dopo il periodo di prova, salvo circostanze eccezionali, l'apprendista può essere “licenziato” (cioè non confermato a tempo indeterminato) solo al termine dei due, o tre, o sei anni di durata del contratto di apprendistato.Un altro grave problema è poi la comunicazione. A volte le aziende non sanno neanche che cos'è l'apprendistato. «È come se ti dicessero di sposarti senza conoscere il partner: è un contratto che, se presentato come fisso, spaventa le aziende» spiega Lucisano: «Va detto che non è così. E poi le regole cambiano di continuo, non si può pensare che il mondo delle imprese stia appresso a uno strumento così volatile e per la cui applicazione deve ricorrere magari a un commercialista specializzato. A questo punto preferisce prendere il tirocinante in nero». In pratica, dice il professore, si deve spiegare a un soggetto che ci sono sgravi retributivi e contributivi: l'apprendista può essere inquadrato fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante, statuisce la legge; poi le imprese che hanno più di dieci dipendenti godono di un'aliquota del 10%, mentre quelle con meno di dieci dipendenti hanno sgravi addirittura del 100%. E terminata la formazione il beneficio del 10% prosegue. Per l'alto apprendistato c'è persino un incentivo economico: 6mila euro per ogni assunto full time per almeno un anno e 4mila per ogni assunto part time per almeno un anno. Ma diventa tutto inutile se le regole cambiano continuamente: «è il terrore delle aziende» che allora ricorrono altrove. Allora meglio gettare la spugna? Lucisano risponde di no e suggerisce di far leva sugli aspetti di flessibilità e di sconti fiscali che sono quelli da cui è più attratta un'azienda. «Sarei contento di essere smentito» chiosa, smorzando un po' le proprie riserve. Più ottimista Luca Stefanini di Italia Lavoro: «Le aziende e le imprese non conoscevano l'apprendistato, stanno cominciando ora a capire cos'è. Fino a oggi hanno avuto notizie solo della tipologia del professionalizzante». Insomma dietro ci sarebbe solo un problema di comunicazione sbagliata. Stessa cosa per gli studenti, finora all'oscuro di tutto. E anche Stefanini, pur ammettendo la concorrenza sleale dei più facili contratti precari, sostiene che non stiano sullo stesso piano e quindi minimizza il loro ruolo. «Se nasce un  interesse reale da parte di un'azienda è perché c'è bisogno di inserire una persona qualificata e di tenerla nel medio-lungo termine». Sui numeri bassissimi dell'apprendistato però è meglio non farsi illusioni. «Probabilmente non ci sarà un'esplosione. Ma abbiamo visto l'interesse delle imprese nei progetti a lungo termine, già nel loro presenziare i seminari sull'argomento». E non solo grandi aziende, ma anche piccole e medie. «Magari comprendono che hanno bisogno di qualcuno che sappia per esempio il russo e come trattare con il mercato asiatico e così fanno  un investimento». La parte formativa del contratto di apprendistato viene strutturata a seconda delle dimensioni dell'impresa: se piccola si delega tutto all'università, altrimenti si fanno delle classi apposite. Quanto agli sgravi e al battere il chiodo su questo elemento per convincere le aziende, Stefanini ha un'idea diversa, certo che tutto dipenda dalle Regioni che devono stanziare i fondi. «Se ad esempio per l'apprendista laureato è previsto un master come percorso di formazione, e il corso viene pagato dalla Regione, l'azienda non è costretta a demandare questo onere al giovane. In questo modo si facilita il meccanismo del contratto». Tutti devono fare la loro parte: «La pratica è molto più complicata della realtà» ammette Stefanini, «le Regioni devono legiferare e le parti sociali devono stabilire contratti collettivi per evitare i buchi normativi e l'impasse». Ma è fiducioso rispetto al futuro: «Abbiamo fatto finora poche centinaia di contratti di apprendistato di alta formazione, però siamo partiti solo da un anno. Nel Lazio, dove ancora manca la regolamentazione applicativa, le università stanno aderendo quasi tutte».In conclusione, se non riparte l'economia e dunque la domanda di lavoro, c'è poco di concreto per confidare in un serio rilancio dell'apprendistato. Con buona pace delle promesse del ministro Fornero.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato E anche: - Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli 

Fattelo!, la start-up sostenibile nata dalle donazioni online

Costruire oggetti di design da materiali di scarto, ricercare finanziamenti attraverso il crowdfunding e utilizzare i social network per diffondere l’idea. C’è tutto questodentro Fattelo! una delle prime start-up italiane nata dalle donazioni volontarie degli utenti del web. Loro sono quattro designer – tre di 28 anni e uno di 29 - che hanno coniugato sostenibilità, innovazione e manualità nella 01 Lamp, una lampada realizzata con il cartone della pizza ripiegato e dotato di luce a Led. Un team formato da Mattia Compagnucci un graphic designer e direttore artistico di uno studio grafico milanese, Antonio Scribano un esperto di web laureato all’Isia di Firenze (Istituto Superiore Industrie Artistiche) e Daniele Schinaia, product designer presso un’azienda che produce cucine. Ad avere l’idea è Federico Trucchia che da Londra, dove frequenta il Royal Collage Art of  London dopo aver chiuso a Firenze uno studio di modellazione professionale aperto con un altro giovane socio, contatta i tre amici – colleghi. A Daniele, Mattia e Antonio il prodotto piace, così a Ottobre 2011 iniziano a studiare diversi modelli di lampade. Un lavoro di squadra reso possibile dalle videochiamate via Skype che abbattono i 2mila chilometri di distanza (vivono tuttora in città diverse: Londra, Milano, Firenze e Ancona). Una volta sviluppata la versione definitiva della lampada, «Dopo aver mangiato una quantità industriale di pizza», racconta Antonio Scribano da Firenze, lanciano il loro progetto su Eppela, la piattaforma di crowdfunding che offre gratuitamente la possibilità di far conoscere la propria idea in rete, con uno scopo preciso: chiedere al popolo del web 5mila euro per dare vita alla loro una start–up. «Abbiamo chiesto un aiuto concreto per la nascita di Fattelo!» chiarisce Antonio «non avevamo capitale iniziale da investire e volevamo effettivamente capire se ci fosse qualcuno interessato a sostenere un progetto del genere, cercavamo una risposta dal mercato». Grazie a 94 donatori, in 42 giorni i quattro design hanno superato di mille euro il budget previsto. Il 7 Dicembre 2012 hanno raccolto 6mila euro e, pochi giorni dopo, il 21, hanno registrato una srls, la società a responsabilità limitata semplificata. «Raggiungere la cifra è stata una conferma ma allo stesso tempo una sorpresa», perché il crowndfunding è in Italia un fenomeno poco conosciuto. La scelta che offrono i ragazzi di Fattelo! è duplice: si può acquistare la lampada online per 35 euro e ricevere a casa il cartone già fustellato in una versione compatta per risparmiare sugli ingombri di spedizione, o scaricare gratuitamente dal sito le istruzioni per montare a casa l’oggetto. La seconda opzione utilizza la modalità di pagamento «Pay-with-a-tweet», cioè dopo il download della sagoma della lampada si autorizza l’invio di un tweet (“Oggi costruirò la mia lampada…”) o un “mi piace” sulla pagina Facebook del prodotto. Anche questo un sistema poco utilizzato nel nostro paese che Mattia, l’esperto di comunicazione del team che vive a Milano, ha importato dai paesi anglosassoni per polverizzare i costi della pubblicità. Convincere la gente a costruire la lampada è una parte fondamentale del progetto perché Fattelo! fa della partecipazione e del «Do it yourself» il suo motto. Su questo binario si svilupperà il futuro dell’appena nata start-up in una logica che invita al riutilizzo creativo di materiali che normalmente buttiamo. Un’idea che ha avuto già molto successo, i fratelli Freitag hanno costruito un mito con le borse ricavate da teloni di camion, camere d’aria di biciclette, cinture di sicurezza e airbag. Tutto  rigorosamente già usato. I finanziamenti del popolo del web sono stati tutti investiti: 996 euro di capitale sociale, i costi dell’apertura del conto in banca, l’iscrizione al registro delle imprese e le spese di produzione e spedizione delle lampade. Il tutto non è stato complicato: «la digitalizzazione della burocrazia e l’esenzione dei costi notarili per questo tipo di società ci hanno aiutato molto», spiegano. Conoscono, però, i problemi che dovranno affrontare, prima di tutto la «pressione fiscale e la difficoltà di accesso al credito», per questo nel loro futuro il crowdfunding e la partecipazione degli utenti continueranno ad essere determinanti. L’intenzione dei giovani designer è quella di continuare a vendere prodotti creati da materialidiriutilizzati e di creare una piattaforma open soruce in cui designer e utenti possano contribuire allo sviluppo e al miglioramento di prodotti eco-design. Le idee più apprezzate dalla comunità virtuale saranno messe in vendita in un marketplace con una maggiorazione del prezzo che sarà il guadagno dell’ideatore. Fattelo! per ora si occupa dell’assemblaggio e spedizione della lampada prodotta da un’impresa di cartotecnica ma il team punta a diventare produttore di cartoni della pizza già fustellati «così il cliente dopo cena può costruire la lampada!». «Abbiamo tante idee e facciamo fatica a seguire tutto anche perché ognuno di noi ha il suo lavoro e in questa fase iniziale non possiamo ancora lasciare», chiarisce Antonio: «per il momento nessuno di noi ha guadagnato un euro». La sera e nel week end lavorano alla progettazione di un altro oggetto di design di cui non possono anticipare nulla se non che «sarà ricavato da un altro tipo di cartone che normalmente buttiamo via», ancora una volta finanziato dal crowdfunding. «Abbiamo raccolto le donazioni puntando sulla sfida “Aiutaci a costruire un’azienda innovativa” e anche per questo nuovo prodotto dobbiamo utilizzare un tema forte per supportare la campagna che, questa volta, pensiamo di allargare al contesto europeo». La raccolta fondi online è la loro soluzione alla difficoltà di accesso al credito per i giovani, conoscono le potenzialità ma anche le difficoltà di questo nuovo strumento. «Non basta una buona idea per avere successo con il crowdfunding ma è necessario un progetto che unisca strategia comunicativa, conoscenza del web e design». Il lancio del secondo prodotto sarà la prova del nove e il popolo del web detterà il futuro della loro avventura.Annalisa AusilioPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Mirko Pallera di Ninja Marketing: «Startupper, contagiate la rete con le vostre idee»Vuoi conoscere altre storie di star-up?- La ssrls convince gli startupper, fondate 3mila in quattro mesi- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag Milano- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game  

Università, ricerca al collasso: e il paradosso è che i dottorandi vengono considerati studenti

La ricerca è il fiore all'occhiello di un Paese: ma non in Italia. Basta leggere i dati pubblicati dal terzo rapporto Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) su dottorato e post dottorato, presentato a Roma a febbraio, per convincersene. Le borse, tanto per dirne una, hanno subito una decurtazione pari a oltre 200mila euro soltanto considerando gli ultimi cinque anni (quindi dal 2008 a oggi), e basandosi sull'analisi di ventuno università. «Il numero complessivo di borse è passato da 5.045 nel 2008 a  3.084 nel 2012, con una media per ateneo scesa da 245,4 a 185,7» denunciano Nevio Dubbino [nella foto sotto] e Chiara Orsi nell'illustrare le cifre emerse dalla loro analisi. Invece di investire, si taglia - proprio in un settore strategico per qualunque Paese scelga di guardare al futuro. Ignorando l'apporto delle scoperte scientifiche sulla vita dei cittadini. Ma c'è di peggio. Per il 2013 risultano banditi ben 3.030 posti per dottorati di ricerca senza borsa, su un totale di 12mila attivati in media ogni anno: uno su quattro in pratica è gratis. Addirittura alcune università hanno aperto un numero di posti privi di copertura finanziaria superiori a quelli accompagnati da borsa (fa eccezione solo la Puglia che, precisa lo studio, dal 2006 finanzia i dottorati senza borsa con fondi stanziati dalla Regione equivalenti a quelli ministeriali). E se prima la legge prevedeva che il numero di dottorandi senza borsa non potesse superare la metà dei posti retribuiti, dopo la legge Gelmini (240/2010) «questo limite è stato soppresso» accusano dall'Adi, «lasciando agli atenei ampia discrezionalità sul numero di borse da assegnare». Ma il povero ricercatore costretto a studiare gratis per contribuire al sapere della collettività non dovrà solo arrangiarsi per poter vivere. Dovrà anche rimediare i soldi per pagare le tasse (da cui il borsista è invece, paradossalmente, esente), in continuo aumento destinate a crescere ulteriormente. A differenza dello studente che versa le tasse universitarie, a cui il dottorando è di fatto assimilato (succede solo da noi e in Lituania ed è «un errore» tuonano i rappresentanti della categoria, «perché si tratta di lavoratori a tutti gli effetti»), il dottorando senza borsa è esonerato dalle tasse solo in base al merito e non anche al reddito. Il risultato è «una selezione per censo» tra chi ha alle spalle una famiglia con i mezzi necessari a sostenere per tre anni il dottorando e chi no. E poi «esiste estrema eterogeneità e discrezionalità nella determinazione dell’importo della tassazione, cosa che di fatto crea una duplice discriminazione legata anche alla sede in cui si vince il concorso». Vincerlo alla Sapienza di Roma comporta ad esempio un obolo fino a duemila euro, a Napoli al massimo 900, mentre a Trento l'iscrizione costa 140 euro e a Pavia 300. La proposta di Adelaide D'Auria e Valentina Maisto è «di eliminare le tasse per i dottorandi senza borsa», portando lo status di dottorando a quello di lavoratore. «Il percorso di dottorato è fatto non solo di formazione, ma di osmosi tra formazione e ricerca. Riconoscere lo status professionale è doveroso così come chiede la Carta europea dei ricercatori adottata da tutti i rettori italiani nel 2005, secondo cui l'attività professionale inizia – sempre e comunque – subito dopo la laurea». Per Adi il dottorato va trasformato in un contratto a causa mista, in cui il «dottorando è un lavoratore a tutti gli effetti coperto dal welfare». Considerare chi fa ricerca come un semplice studente ha i suoi riflessi anche sul piano della rappresentanza. In base ai calcoli di Viola Galligioni dell'Adi «solo nel 25% delle università pubbliche i dottorandi sono dignitosamente rappresentati, mentre quasi nella stessa percentuale di atenei le possibilità di partecipare alle attività degli organi di governo sono fortemente limitate. Hanno al massimo la possibilità di essere rappresentanti nei consigli di dipartimento, mentre in altri organi collegiali come il cda, il nucleo di valutazione e così via, sono perlopiù aggregati agli studenti, un corpo elettorale di gran lunga più ampio». Non è cosa da poco. «Dottorandi, assegnisti e ricercatori a tempo determinato sono una parte fondamentale della comunità universitaria. Senza questa componente la ricerca - che, insieme all'insegnamento, è uno dei compiti degli atenei - non sarebbe possibile in molti campi». L'appello della Galligioni è deciso: «La comunità accademica dovrebbe smetterla di considerarli come soggetti esclusivamente produttivi e riconoscerli come partecipanti e attivi». Le previsioni per il futuro, come si intuisce da questo quadro, non sono rosee. «Il 93% degli assegnisti non continuerà a fare ricerca nell'università, e il 78% di loro uscirà dal percorso accademico al termine dell'assegno, mentre il 15% uscirà dopo aver ricoperto una posizione da ricercatore a tempo determinato» snocciola Saverio Bolognani: «Nel 2012 nelle nostre università si è raggiunto un traguardo storico: metà di chi fa ricerca ha un contratto a termine tipo cococo con la conseguenza di una costante fuga di competenze». L'assegnista di ricerca è quindi una figura transitoria che prima o poi abbandonerà l'università. Situazione aggravata in Italia dal fatto che il titolo di dottore di ricerca è scarsamente riconosciuto e spendibile sul mercato del lavoro (all'estero il problema dello spreco di competenze riguarda solo il 16% dei post-doc). E se a Torino, Milano, al Politecnico di Bari e a Firenze va sicuramente meglio che altrove (vanno dai 50 ai 70 gli assegnisti e i ricercatori stabilizzati su 100 strutturati), all'università di Bari, a Foggia, Napoli e Macerata si incontra la catastrofe: al  massimo dieci su 100 vengono stabilizzati. Infine, un'altra criticità: è vero che sono i settori scientifici e tecnologici quelli dove si fa più ricerca, ma questi sono anche quelli in cui è più difficile inserirsi con contratti a tempo indeterminato. Il problema è «il finanziamento statale assolutamente insufficiente e un reclutamento bloccato ormai da anni, vera causa della creazione di sacche di precariato». La stabilizzazione post dottorato è una vera chimera, spiega Alessio Rotisciani dell'Adi [nella foto in alto] alla Repubblica degli Stagisti. Concluso il ciclo ci sono tre strade: «o si inizia con una serie di contrattini tipo assegni di ricerca, contratti a tempo determinato etc, o si accede al concorso per ricercatore tramite RTDb - propedeutico all'assunzione come professore associato - oppure si chiude la propria carriera. Il problema è che con la legge Gelmini e i sistematici tagli al sistema, il contratto RTDa, che prima era prerequisito per accedere all'RTDb, non lo è più». Il risultato è che, saltando questo passaggio, si può passare di nuovo a uno stato di precarietà dopo l'RTDa, che in questo modo «si va ad aggiungere alla giungla dei contratti precari di post dottorato». Questi dati sono fonte di vergogna se comparati con l'Europa: siamo al quarto posto per numero di dottorandi (ne abbiamo 38mila, contro gli 85mila della Gran Bretagna, i 70mila della Francia e della Spagna), ma – considerando il dato sulla popolosità (numero dottori su 1000 abitanti) – precipitiamo al diciassettesimo dopo Islanda e Polonia. Con l'importo della borsa (da noi innalzato a 1.035 euro mensili netti) scivoliamo poi al 15esimo posto in Europa seguiti da Portogallo, Francia (che concede solo 500 euro in caso di borsa di studio, ma 1.550 come stipendio), e Polonia. I primi sono gli svizzeri e i norvegesi che elargiscono rispettivamente 4mila e 3mila euro ai propri ricercatori. Per loro infatti i dottorandi sono veri e propri dipendenti dell'università, perché, commenta Rotisciani, «con il loro lavoro quotidiano contribuiscono al funzionamento e alla competitività del sistema accademico». Altro che studenti.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Ricerca e start-up, centinaia di opportunità di lavoro per giovani imprenditori e ricercatori- Fuga dei cervelli, il 73% dei ricercatori italiani all’estero è felice e non pensa a un rientro- «Vivendo altrove, il confronto fra l’Italia e altri paesi diventa impietoso. E illuminante». In un libro le storie degli italiani che fuggono all'esteroE anche: - Fisica che passione: la testimonianza di Marco Anni, vincitore del premio Sergio Panizza nel 2009

Nelle statistiche ufficiali stagisti tra gli «occupati». Ma come, non erano in formazione?

Nelle statistiche sull'occupazione, le persone che si trovano in una fase di formazione professionale (tirocinio o praticantato) sono considerate “occupate” se ricevono un compenso in denaro o indennità accessorie. Questo è il caso degli stagisti che usufruiscono di un rimborso spese o di buoni pasto. A qualcuno potrà sembrare incredibile, perchè è chiaro che il 99% dei giovani impegnati in un tirocinio non si sente affatto «occupato» - anzi spera di trovare lavoro grazie allo stage; e non di rado lo abbandona senza rimpianti, se gli capita la fortuna di sentirsi proporre un vero contratto di lavoro da qualche altra parte. Eppure la pratica consolidata di annoverare gli stagisti nelle file degli occupati - anzichè dei disoccupati - viene confermata alla Repubblica degli Stagisti direttamente dall’Eurostat, l'ufficio statistico dell'Ue. Ai criteri adottati a livello europeo devono uniformarsi anche gli istituti di statistica dei singoli Paesi membri. Così anche la ricercatrice dell’Istat Rita Ranaldi conferma che «a partire dai dati del 2011, nelle note esplicative di Eurostat che il nostro istituto segue, sono state aggiunte alcune precisazioni riguardo la definizione di occupato: in particolare sono da considerare occupati anche eventuali stagisti che percepiscono una retribuzione sotto forma di rimborso spese o buono pasto». Il tutto nasce dall'esigenza di armonizzare i dati a livello europeo, avendo come punto di riferimento la definizione ufficiale di occupato, per la quale Eurostat si rifà all’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro: «È occupato colui che ha lavorato almeno un'ora nella settimana di riferimento».Gli stagisti che, invece, non ricevono alcun buono pasto o rimborso spese, sono considerati inattivi se nella settimana di riferimento risultano iscritti a un corso di studi senza lavorare almeno un’ora, e disoccupati se non risultano iscritti a un corso di studi e se hanno cercato attivamente lavoro, senza trovarlo.«La scelta di Eurostat di non includere gli stagisti nelle statistiche sulla disoccupazione ha una sua giustificazione razionale» spiega Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano. «Ma quando questa metodologia si trasporta automaticamente e senza mediazioni a un mercato del lavoro come quello italiano, il dato statistico finisce per avere un effetto profondamente distorsivo della realtà rappresentata. Chi conosce la complessa realtà dei nostri  stagisti sa bene come – non sempre, ma molto spesso – un risibile rimborso spese costituisca proprio la chiave di accesso al fiorente mercato dello sfruttamento della disoccupazione, che è oggi la risorsa più abbondante del nostro mercato del lavoro. In altri termini, il giovane vende all’impresa la propria disoccupazione in cambio di un sogno, quello di un posto di lavoro, pur nella consapevolezza che la probabilità che esso si avveri è assai remota. Ora, è ben vero che nulla vieta il mercato dei sogni, ma sarebbe meglio che restasse fuori dalle statistiche ufficiali» conclude il professor Del Conte.Secondo una ricerca realizzata dalla Repubblica degli Stagisti insieme all'Isfol tre anni fa, la prima e per ora unica che ha provato a fotografare la condizione degli stagisti anche dal punto di vista economico, poco più della metà degli intervistati (52%) non riceveva alcun compenso per lo stage finendo dunque, secondo le prescrizioni dell'Eurostat, nel novero dei disoccupati/inoccupati. Ma il restante 48%? Occupato: anche a fronte di un compenso bassissimo, pressoché simbolico. Sempre secondo il sondaggio RdS-Isfol, nel 14% dei casi al tirocinante venivano offerti meno di 250 euro netti al mese e nel 17% tra 250 e 500 euro al mese. Considerando il costo della vita nelle città dove più frequentemente si fanno stage, Milano e Roma, è evidente che 200-300 euro servono a poco o niente e lo stagista rimane a carico dei genitori. L’opportunità dello stage viene così preclusa a chi non ha un’adeguata disponibilità economica. Per chi con tanti sacrifici riesce comunque a fare quest’investimento sul proprio futuro, essere considerato occupato dagli istituti di statistica suona un po’ come una beffa. Forse anche Eurostat potrebbe stabilire dei criteri al rialzo per considerare gli stagisti tra gli occupati, al di là delle definizioni dell’Ilo: per esempio avere un compenso minimo mensile di 500 euro (quello che del resto da tempo propone la Repubblica degli Stagisti). O quanto meno non considerare tra gli occupati quelli che ricevono solo un buono pasto: se infatti il valore medio è di 5 euro, per 25 giorni di presenza al mese si porta a casa l'equivalente di 125 euro. Davvero poco per considerare i tirocinanti, nelle indagini statistiche, alla stregua di lavoratori che possono mantenersi con il proprio salario. Ma lo stage non era solo ed esclusivamente formazione? «Infatti non sapevo di questa regola di classificazione statistica» ammette alla Repubblica degli Stagisti Ilaria Lani, responsabile Cgil per le Politiche giovanili: «Ritengo sia assolutamente sbagliato che uno stagista sia considerato tra gli occupati se riceve un buono pasto o un rimborso spese. Creare una distinzione nelle statistiche tra gli stagisti a costo zero e quelli che ricevono un contributo minimo è ancora più grave perché è come legittimare un’area grigia di abuso: un minimo di compenso dovrebbe essere dato a prescindere, anche per un’attività formativa come lo stage e per il contributo che il tirocinante dà all’azienda, ma considerarlo tra gli occupati è un’assurdità».Il segretario confederale Cisl e responsabile del Dipartimento Mercato del lavoro Luigi Sbarra, invece, era a conoscenza di questo dettaglio statistico: «Il riferimento allo svolgimento di almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività, senza specificare che deve trattarsi di un contratto di lavoro, fa rientrare tra gli occupati anche i tirocinanti, purchè percepiscano un corrispettivo». E lancia un allarme per il futuro, legato all'attuazione delle linee guida sui tirocini extracurriculari concordate lo scorso gennaio in sede di Conferenza Stato-Regioni: «La rilevazione Istat sarà su questo punto ancora più fuorviante, in ragione dell’obbligo appena introdotto di erogare una indennità ai tirocinanti». L'introduzione di una misura in favore degli stagisti, insomma, potrebbe avere il risultato distorto di "dopare" ancor di più il dato sulla disoccupazione, riducendo la percentuale di disoccupati con la forzatura dettata dall'Eurostat di considerare occupato qualsiasi tirocinante percepisca una indennità, anche minima, anche miserrima come il buono pasto. E infatti Giuliano Ferrucci, ricercatore dell’Ires, sottolinea il rischio di sovrastimare i dati sull’occupazione considerando occupato chiunque abbia svolto almeno un’ora di lavoro remunerato nella settimana di riferimento. «Per questo motivo sono state proposte altre modalità di classificazione. Una di queste fa riferimento alla condizione auto-percepita dell’intervistato, in risposta alla domanda “In conclusione, nella settimana di riferimento, come si considerava?” del questionario della Rilevazione continua sulla forza lavoro». Su questo tema le istituzioni dovrebbero interrogarsi, per evitare ulteriori distorsioni della realtà. Specialmente in un momento in cui il mercato del lavoro è per la maggior parte dei giovani inaccessibile, e spesso l’unica speranza è l’inserimento attraverso l’esperienza di stage.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Disoccupazione giovanile: alla ricerca dell'età più rappresentativa- In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?- Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»- Linee guida sugli stage, 400 euro al mese di rimborso «obbligatorio»: ma solo in teoriaE anche:- Inoccupati, disoccupati, stagisti: facciamo chiarezza

Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up

Prende il via la seconda edizione di Wind business factor Competition 2013, campionato per start-up promosso da Wind Business in collaborazione con TheBlogTV. Sono già ventuno i giovani imprenditori che si sfideranno in questa competizione, contendendosi l'accesso a fondi e finanziamenti, percorsi di formazione e soprattutto la possibilità di volare verso la Silicon Valley.Così come lo scorso anno, Wbfc si struttura in tre fasi distinte. O tre gironi, come vengono definiti, ognuno dei quali si articola in tre parti: Selection, Training e Performance. Il primo capitolo, aperto lo scorso 28 febbraio per concludersi il prossimo 29 aprile, chiede agli startupper di realizzare un video o una presentazione per far conoscere la propria azienda. Pubblicati sul sito della manifestazione, i contenuti potranno essere visualizzati e votati anche dagli utenti, oltre che dal team Wind business factor.Le dieci migliori aziende passerranno alla fase successiva, quella di Training, che prevede quattro settimane di business coaching e di mentorship, con l'obiettivo di aiutare gli startupper a perfezionare il loro modello aziendale e soprattutto di mettere a punto la presentazione della propria impresa. La prova finale prevede infatti un pitch round, ovvero un incontro con alcuni investitori che gli imprenditori dovranno convincere a finanziare la propria idea. Le tre aziende ritenute più interessanti dal team di Wbfc potranno così accedere alla fase di Performance, durante la quale avranno la possibilità di incontrare dal vivo venture capitalist, business angels e imprenditori di successo.A questi ultimi il compito di decretare il vincitore del primo girone, che potrà scegliere se essere premiato con un tour di formazione in Silicon Valley o con l'opportunità di essere incubato in uno degli acceleratori di impresa partner della manifestazione, ovvero Luiss/Enlabs, Tag e The Hub. Prenderà quindi il via, intorno a giugno, il secondo girone, strutturato esattamente come il primo e al quale potranno partecipare sia le aziende già iscritte che quelle che non hanno preso parte dall'inizio. Mentre, in autunno, ci sarà una terza competizione.La Wbfc 2013 è aperta alle start-up attive in quattro categorie: Hi-Tech, Digital, Green&Social e Made in Italy. È bene precisare che le idee si sfidano tutte tra di loro, senza alcuna divisione per il campo di attività. La partecipazione è completamente gratuita e di per sé offre due vantaggi. Il primo è la visibilità garantita dal sito e da una comunità Facebook seguita da oltre 13mila persone. Il secondo riguarda invece la possibilità di accedere a prezzi agevolati agli incubatori e ai coworking partner della manifestazione. Senza dimenticare che per i vincitori c'è la concreta possibilità di ottenere un finanziamento, come è avvenuto ai tre trionfatori dell'edizione 2012.Mangatar, piattaforma di social gaming, lo scorso anno si è aggiudicata il Premio nazionale dell'innovazione ed ha visto entrare nel proprio capitale sociale dPixel, il fondo di venture capital di Gianluca Dettori. Mentre BadSeed, vincitore del terzo girone, è stata selezionata dall'incubatore estone GameFounders, dove ora sta sviluppando i suoi videogiochi per mobile. Le ragioni per partecipare, insomma, non mancano. Possono candidarsi sia aspiranti imprenditori che presentino il progetto di una start-up che titolari di aziende attive da meno di quattro anni. Il termine per le iscrizioni alla fase di Selection del primo girone scade il 29 aprile.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre iniziative dedicate alle start-up? Leggi anche:- Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-up- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag MilanoVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Dolce attesa per chi? In una commedia la maternità ai tempi del precariato

Fare un figlio non sarà stato facile neanche in passato. Ma essere precari oggi in Italia – dove l'indice di natalità è tra i più bassi in Europa - rende la maternità praticamente un sogno proibito: una percorso a ostacoli che può scoraggiare tante giovani donne. Ed è proprio sui turbamenti di una futura mamma trentenne che indaga lo spettacolo teatrale Dolce Attesa per chi?, commedia brillante scritta dalla speaker radiofonica Betta Cianchini e diretta da Marco Maltauro, presentata a Roma alla Fonderia delle Arti. La rappresentazione romana del 24 febbraio, l'ultima per il momento, è stata un susseguirsi di applausi e risate. Perché, nonostante la tematica forte e a un passo dal dramma, la storia è affrontata con leggerezza e ironia. Nella messa in scena si assiste a uno sdoppiamento della personalità di una ragazza incinta, a due visioni - una cinica e l'altra più romantica - della maternità. Bianca (Giada Prandi) ha trent'anni e - neanche a dirlo - un contratto a progetto. Neppur il suo compagno può garantirle un briciolo di stabilità: lui è un cervello in fuga, costretto per fare carriera a emigrare dall'altra parte del mondo. In questo contesto zeppo di complicazioni, Bianca non fa che interrogarsi sulla scelta di diventare madre, cosciente che il suo capo potrebbe licenziarla, che non può fare affidamento sui servizi – nulli – offerti dalla sua città, che non potrà concedersi nessun acquisto extra, che lo shopping anzi sarà azzerato, che la madre ha l'Alzheimer e via dicendo con altre mille difficoltà. Di fronte a le c'èi il suo alter ego (Cristiana Vaccaro), che a seconda della scena diventa compagno, amica, anima e mente a cui trasmettere angoscia e frustrazione, e da cui ricevere risposte pungenti ma spesso esilaranti che sdrammatizzano la triste condizione di chi non può permettersi di gioire fino in fondo per l'arrivo di un bebé. Solo perché precario. Si può fare un bambino con un compagno ricercatore precario che pensa di andare all’estero? Rimanere o seguirlo? Cosa fare se non si hanno i nonni a disposizione? Come conciliare il desiderio di maternità con il lavoro? Sono solo alcuni dei dilemmi che attanagliano Bianca ogni giorno. Ha fatto bene l'amica, la bravissima Vaccaro (che indossa i panni di un soldato, perché gli abiti di scena rappresentano la guerra del quotidiano) a incastrare un uomo ricco – anche se sordo – che le concede un tenore di vita elevato? Comica la scena in cui snocciola la lista dei gadget 'di lusso' che allietano la sua gravidanza: dalle calze contenitive alla panciera, niente costa meno di 30 euro: cifra proibitiva per la povera Bianca. Per la coppia precaria neanche l'assistenza sanitaria è un diritto: ci vogliono mesi per una visita, ed è un colpo azzeccatissimo quando in scena si ascolta la registrazione di una vera telefonata al cup del servizio sanitario nazionale. L'attesa per un appuntamento diventa eterna. Difficile dire chi vincerà tra la parte sentimentale e quella razionale di Bianca, fra testa e cuore: le battute rivelano tutto il nervosismo di chi non sa se sarà all'altezza del compito di essere madre e avverte un malessere di fondo difficile da celare. Bianca passa in un attimo dalla felicità per la pancia che cresce alla preoccupazione di dover fare tutto da sola e alla paura di un futuro incerto. «Il famigerato orologio biologico si è inceppato o forse le donne italiane hanno paura di farlo suonare?», si legge nel comunicato dello spettacolo. La divertente pièce offre alcune risposte, con una interpretazione sarcastica ma briosa della vita. Il progetto di Dolce attesa per chi?, sostenuto da Future Health - banca di tessuti umani specializzata nella conservazione di cellule staminali - nasce sulla scia dello spettacolo Post Partum della stessa autrice Betta Cianchini, dedicato al tema del maternity blues: una sorta di leggera depressione post partum che colpisce tre neomamme su quattro. Proprio dai messaggi ricevuti dagli spettatori di quel primo spettacolo la Cianchini dichiara di aver tratto l'ispirazione: «La mole di testimonianze di donne (e non solo) che hanno raccontato le loro tragicomiche avventure mi hanno dato lo spunto per studiare, e nel mio caso anche ricordare, cosa avviene prima del grande giorno».  Le prossime rappresentazioni saranno a Carpi, l'8 e il 9 marzo.Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Maternità precaria: per avere un sussidio meglio essere ragazza madre- Indennità di maternità per le precarie, quanto danno le casse previdenziali dei professionisti- Inps: la dura legge dell'indennità di maternità alle lavoratrici precarieE anche:- Katia Scannavini: «Italia Lavoro non ha tutelato la mia gravidanza»

Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-up

Accogliere cento talenti da tutto il mondo, aiutarli a sviluppare il loro progetto imprenditoriale e sostenere anche economicamente fino a 30 start-up nel settore delle telecomunicazioni. Dura 18 mesi il progetto TechPeaks, lanciato dalla provincia autonoma di Trento in collaborazione con l'associazione Trento Rise e la società Trentino Sviluppo. Obiettivo finale: dare vita al più importante acceleratore d'impresa pubblico di tutto il Paese.Possono partecipare al bando - la scadenza per presentare la domanda è fissata per il 5 aprile - sia singoli sia gruppi composti da un massimo di tre persone. In questo secondo caso, è richiesto che almeno due componenti abbiano esperienza nel settore delle Tlc. E, soprattutto, che la squadra che si presenta abbia già un'idea imprenditoriale innovativa da proporre, elemento non richiesto a chi invece si candida individualmente. La selezione terrà conto in particolar modo delle esperienze nell'ambito della ricerca e dello sviluppo di software, oltre che di eventuali esperienze pregresse all'interno di start-up innovative.I candidati selezionati potranno accedere alla fase 1 del programma, che durerà dal 30 maggio al 31 dicembre. Le prime settimane saranno dedicate ad attività di coaching personale, dedicate alla creazione e all'affinamento delle idee imprenditoriali dei singoli. Quindi verranno costituiti dei gruppi di lavoro, composte da un minimo di tre ad un massimo di cinque persone, che non necessariamente dovranno rispecchiare la composizione dei team eventualmente ammessi al progetto. A questo punto i partecipanti avranno la possibilità di confrontarsi con gli oltre 500 ricercatori attivi nel settore delle Tlc presenti sul territorio trentino, con imprenditori del comparto telecomunicazioni e con potenziali investitori italiani ed internazionali.Durante questi sei mesi i techpeakers riceveranno un rimborso spese pari a 500 euro, avranno a disposizione un alloggio e potranno accedere a pasti a prezzi convenzionati. Oltre, ovviamente, ad avere una postazione di lavoro con collegamento alle Rete. In cambio, dovranno trasferirsi in Trentino e partecipare ad un programma di “Restituzione al territorio”, ovvero dedicare un periodo di tempo compreso tra le 20 e le 50 ore alla diffusione della loro esperienza, ad esempio tenendo seminari nelle scuole secondarie di secondo grado o nelle facoltà dell'Università degli Studi di Trento. Oppure offrendo agli studenti percorsi di tirocinio all'interno della start-up.Obiettivo finale di questa prima parte del progetto è che ogni gruppo di lavoro definisca un progetto imprenditoriale. Le idee saranno valutate da una commissione e quelle ammesse alla seconda parte del programma riceveranno un contributo a fondo perduto pari a 25mila euro. Per ottenerlo sarà necessario che i componenti della squadra diano vita ad una società con sede in Trentino. Queste imprese saranno le protagoniste della seconda fase di TechPeaks: un anno di tempo per la ricerca di un investitore privato che finanzi il progetto imprenditoriale. Le aziende che raggiungeranno questo obiettivo potranno avere accesso ad un matching fund: in pratica, riceveranno una cifra pari a quella dell'investimento privato, per una somma massima di 200mila euro. Il contributo potrà essere erogato in varie forme: come partecipazione al capitale sociale, come finanziamento agevolato oppure come anticipazione finanziaria. In cambio, la start-up dovrà mantenere una sede operativa in Trentino per almeno tre anni.Entro la fine del 2014 la provincia autonoma di Trento si candida così ad ospitare il più importante acceleratore d'impresa pubblico dedicato alle telecomunicazioni. Un progetto che si inserisce in un contesto che già ospita centri di ricerca come la Fondazione Bruno Kessler e una delle sei sedi europee degli EIT-ICT Labs e che entro il 2018, in anticipo rispetto alla scadenza fissata dall'Agenda digitale europea, progetta di cablare tutte le utenze Internet, sia pubbliche che private. Insomma: dopo le mele, oggi la provincia autonoma di Trento si candida a coltivare start-up.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere le storie di altri acceleratori di impresa? Leggi anche:- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag MilanoVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Università, allarme del Cun: il taglio dei fondi fa crollare le immatricolazioni

Non solo sono le meno finanziate tra quelle dei Paesi Ocse. Ma negli ultimi quattro anni hanno visto costantemente ridursi le risorse messe a disposizione dallo Stato. Il risultato è che le università italiane stanno assistendo ad un vero e proprio crollo delle immatricolazioni. Mentre cresce il rischio di fuga all'estero dei talenti più brillanti.È lungo l'elenco dei mali che affliggono l'università italiana stilata dal Consiglio universitario nazionale nel corso dell'adunanza di fine gennaio, intitolato 'Le emergenze del sistema'. Il primo tema sollevato dal Cun riguarda le risorse a disposizione del mondo accademico. L'Italia, secondo dati Ocse del 2009, investe appena l'1% del suo prodotto interno lordo nell'università. In particolare, il governo stanzia appena lo 0,8 per cento. Peggio fa solo il Regno Unito, dove però i privati mettono a disposizione una somma pari allo 0,7 per cento del Pil. Dato che riporta lo stanziamento britannico in linea con la media dei 21 Paesi UE, che al mondo accademico destinano l'1,5% del prodotto interno lordo. Una percentuale che sale all'1,6% se si considerano i Paesi Ocse. In definitiva, la spesa italiana per la formazione universitaria è pari a due terzi di quella degli altri Stati europei.Eppure lo scorso novembre proprio il Consiglio d'Europa scriveva che «anche in un periodo di scarse risorse finanziarie, investimenti efficienti ed  adeguati nei settori favorevoli alla crescita quali l'istruzione e la formazione  costituiscono una componente fondamentale dello sviluppo economico e della  competitività, i quali a loro volta sono essenziali per la creazione di nuovi posti di  lavoro». Appello che in Italia è rimasto lettera morta. Anzi, al contrario, la spesa per l'università è in costante calo dal 2009: da allora, quando ministro era la berlusconiana Maristella Gelmini, ad oggi, con il 'tecnico' Francesco Profumo che pure è stato rettore del Politecnico di Torino. Una riduzione costante il cui risultato è che, si legge nel rapporto del sodalizio guidato da Andrea Lenzi [nella foto a sinistra], «il fondo di finanziamento ordinario ha conosciuto una contrazione delle  risorse tanto da essere, per il 2013, inferiore all’ammontare delle spese fisse a carico  dei singoli atenei», chiamati quindi a recuperare risorse per chiudere i bilanci. Operazione complessa per alcune facoltà, ai limiti dell'impossibile in tempi di crisi. L'alternativa è quella di tagliare i costi.Di fronte a questo quadro «appare consolidarsi il rischio di un incremento dell’emigrazione intellettuale delle giovani generazioni». Insomma si torna alla fuga dei cervelli. Del resto come biasimare i giovani ricercatori che accettano offerte dall'estero quando gli stipendi «per le fasce iniziali di accesso ai ruoli, possono arrivare al 50-70% in più di quanto percepito in Italia»? Ma questi numeri sono solo il preludio all'allarme finale lanciato nel suo rapporto dal Cun, che parla di una tendenza «particolarmente preoccupante» legata ad una «non trascurabile flessione delle immatricolazioni». Stando infatti all'anagrafe degli studenti gestita dal ministero dell'università gli iscritti all'università sono passati dai 338mila del 2003 ai 280mila dell'anno accademico 2011/2012. Si tratta di un calo di 58mila studenti, pari al 17 per cento del totale. Per capire meglio, è come «se in un decennio fosse scomparso un ateneo grande come la Statale di Milano».Per un Paese come l'Italia, che nel 2010 era al 34simo posto per numero di laureati, che nella fascia tra i 30 ed i 34 anni sono il 19% contro una media europea del 30, non è certo un dato incoraggiante. Lo scorso anno, ricorda il rapporto, Roma si è impegnata a portare al 26-27% la percentuale di popolazione in possesso di un diploma di laurea. Per riuscirci il primo passo è ricominciare ad investire, e dare una decisa scalata alla classifica Ocse che nel 2009 vedeva l'Italia al 32simo posto per la spesa in educazione terziaria rispetto al Pil. Però per farlo il prossimo governo dovrà invertire la tendenza, rimpolpando finalmente i fondi per l'università e sopratutto per il diritto allo studio. Riccardo SaporitiHai trovato interessante questo articolo? Leggi anche:- Università, fuga col bottino: dal Veneto alla Sicilia, in scadenza oltre 40mila euro in premi di laurea- Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all'ossoE anche:- I giovani sono i più colpiti dalla crisi, il Cnel: «Sempre più difficile trovare il lavoro per cui si è studiato»- Borse di studio, un montepremi complessivo a cinque zeri finanzia formazione e idee

Aspiranti startupper a caccia di finanziamenti? Ecco bandi e concorsi da non perdere

Dall’idea all’impresa sola andata. Un viaggio non privo di ostacoli soprattutto nella fase di ricerca dei finanziamenti. La Repubblica degli Stagisti ha raccolto in una rassegna bandiche offrono attività di tutoraggio e capitale da investire per dar vita a una start-up.L’Ordine dei giornalisti del Veneto, con la collaborazione Venezi@opportunità, l’Azienda speciale della CCIAA di Venezia nata nel 2010 con lo scopo di favorire la commercializzazione delle produzioni locali e offrire formazione,  fornisce una serie di servizi per permettere a giornalisti under 40 iscritti all’albo regionale di aprire imprese giornalistiche (testate, agenzie o uffici stampa, trasmissioni radiofoniche o web tv e service in formato cartaceo o online) o progetti editoriali. Una «cassetta degli attrezzi» si legge nel bando, un percorso suddiviso in 5 tappe obbligate che va da un laboratorio di formazione all’erogazione di 20mila euro a fondo perduto. Gli aspiranti startupper dovranno inviare il loro progetto compilando un form online entro venerdì 1 marzo 2013. Una commissione composta da un membro dell’Ordine dei giornalisti del Veneto, un rappresentante di Venezi@opportunità e un giornalista esperto di impresa e nuovi media, selezionerà le 20 proposte che accederanno alla fase 2 del progetto: 32 ore di lezioni per redigere il business plan con nozioni di organizzazione aziendale, marketing e comunicazione. Dopo aver partecipato al laboratorio che si svolgerà fra marzo e aprile a Marghera (Venezia), i giornalisti potranno usufruire di consulenza per individuare ulteriori finanziamenti e analizzare la fattibilità del progetto imprenditoriale. A questo punto non resta che aprire l’impresa con sede operativa nella regione Veneto e fare domanda - entro il 31 gennaio 2014 - per accedere al finanziamento. Sulla base della validità tecnico-economica dell’attività imprenditoriale e del business plan, la commissione potrà decidere di dividere il contributo di 20mila euro fra più progetti o destinarlo ad una sola impresa editoriale. «La nostra intenzione è quella di destinare il finanziamento a progetti editoriali che riescano a trovare spazio sul mercato», spiegano dall’Ordine dei Giornalisti del Veneto. Consapevoli della crisi dell’editoria, l’ente prediligerà le domande «supportate da un valido piano imprenditoriale». Le 20 proposte che accederanno al progetto saranno quindi quelle che coniugheranno una buona idea editoriale a un concreto progetto di impresa. «Il grado di fattibilità sarà un elemento determinante perché è necessario avere non solo competenze giornalistiche o editoriali ma è cruciale una formazione imprenditoriale. Assistiamo sul nostro territorio alla chiusura di tante testate e emittenti televisive locali ma crediamo che progetti basati su un solido business plan possano nascere anche in un periodo di chiusure e licenziamenti».Per maggiori informazioni: segreteria [chiocciola] ordinegiornalisti.veneto.it o servizionuovaimpresa [chiocciola] ve.camcom.itSe invece si è un cervello con un’idea stanco di essere in fuga, la regione Umbria, con la collaborazione dell’Aur (Agenzia Umbria Ricerche) e Servizio emigrazione della regione Umbria, promuove, con il co-finanziamento del Fondo Sociale Europeo, «Brain Back» un concorso di idee imprenditoriali per favorire il ritorno di emigrati umbri nella regione d’origine. Studenti e lavoratori domiciliati o residenti all’estero da almeno 24 mesi hanno tempo fino al 30 maggio 2013 per presentare il progetto di una start-up o di attività di lavoro autonomo e beneficiare di un incentivo che può arrivare a 20mila euro. Il contributo andrà a coprire spese notarili e di registrazione, fidejussione bancaria/assicurativa, consulenza legale o amministrativa e investimenti in beni materiali, macchinari o attrezzature, o immateriali come software, licenze o brevetti. A valutare le proposte, sulla base del profilo degli aspiranti imprenditori e della fattibilità del progetto, sarà una commissione nominata dal direttore dell’Aur che dividerà i 200mila euro a disposizione fra i progetti ammessi a finanziamento. Entro tre mesi dall’erogazione del contributo gli startupper registreranno l’impresa, che dovrà avere ovviamente sede legale e operativa in Umbria, impegnandosi a mantenerla attiva per almeno 5 anni altrimenti dovranno restituire l’incentivo. Per la preparazione delle domande di accesso al finanziamento, gli aspiranti imprenditori potranno usufruire di un servizio di orientamento e tuturaggio da parte di Associazione Forma.AZIONE s.r.l., una società di servizi di formazione professionale e consulenza nell’area risorse umane e organizzative con sede a Perugia. Per saperne di più sul progetto «Brain Back»: info [chiocciola] brainbackumbria.eu.Un altro finanziamento di 200mila euro per sostenere progetti imprenditoriali a carattere innovativo sta alla base del bando promosso dalla Camera di commercio di Pavia e rivolto a imprese costituite a partire da  giugno 2012, a spin off accademici e industriali o a attività imprenditoriali da registrarsi entro 90 giorni dall’erogazione dei finanziamenti a fondo perduto. Le imprese, che devono avere sede operativa a Pavia, possono presentare entro il 30 aprile 2013 una dettagliata relazione che illustri il progetto di impresa, il preventivo delle spese, il business plan e la  domanda per accedere ai contributi. Il finanziamento andrà a coprire il 50% delle spese sostenute per la realizzazione del progetto imprenditoriale assegnando a ogni impresa fino a un massimo di 20mila euro. Il contributo totale di 200mila euro sarà quindi diviso fra le start-up ammesse al finanziamento. L’incentivo, erogato solo per le aziende che prevedono una spesa totale non inferiore a 5mila euro, potrà coprire investimenti materiali e immateriali, acquisizione di servizi, spese di costituzione e promozionali. Esclusi dal finanziamento i canoni di leasing, la retribuzione del personale e i costi relativi alle utenze e manutenzione ordinaria dei locali. Il comitato tecnico e di valutazione, nominato dal segretario generale della Camera di commercio, valuterà le proposte progettuali sulla base del potenziale di crescita e del grado di sostenibilità e innovatività del progetto. Per informazioni studi[chiocciola]pv.camcom.itAnnalisa AusilioPer saperne di più leggi anche:- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo;- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store