Rilancio dell'apprendistato, mission (quasi) impossible
Tanti dati e un'unica certezza: l'apprendistato, invocato e pubblicizzato da almeno un decennio come soluzione a tutti i mali del precariato e della disoccupazione giovanile italiana, è applicato pochissimo – secondo l'Isfol vengono attivati meno di 300mila contratti di questo tipo all'anno – e per giunta è in calo. L'alto apprendistato, ovvero quello rivolto ai laureati, va ancora peggio ed è quasi lettera morta. Di rilanciarlo se ne fa un gran parlare, soprattutto a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legislativo 167/2011, in vigore dal primo gennaio. Tra le iniziative del momento c'è la proposta congiunta del ministero del Lavoro e Fixo (il progetto per il placement della Sapienza), che si sono uniti nell'intento di promuovere lo strumento di rilancio del mercato del lavoro per eccellenza. E che qualche giorno fa a Roma, in una conferenza affollatissima di studenti (soprattutto) e qualche azienda e professore universitario, hanno spiegato le nuove regole dell'apprendistato, impegnandosi a contribuire affinché questa tipologia contrattuale si affermi una volta per tutte. La Repubblica degli Stagisti ha però voluto scandagliare a fondo la questione con i relatori, chiedendo loro cosa si può fare in concreto perché le cose cambino davvero rispetto a un passato e a un presente in cui l'apprendistato è di fatto snobbato dalle aziende. Più che mai se si tratta della tipologia numero tre: quella che dovrebbe permettere ai giovani tra i 18 e i 29 anni di conseguire titoli universitari, post-universitari e il praticantato per le professioni associate a un ordine, che è quella sui cui puntano gli addetti di Fixo. Le risposte, dirette e senza filtri, non hanno lasciato molto spazio alla speranza. Carlo Magni [nella foto a sinistra], coordinatore scientifico del programma Soul della Sapienza, ne fa una questione pratica. «Premesso che l'apprendistato se applicato correttamente è la formula migliore in assoluto, e che se capita a un giovane un'offerta di questo tipo, ne è felicissimo, chi invece non è tanto contento sono le aziende». È chiaro infatti che «se devono ricorrere per esempio a una sostituzione maternità, o a risorse da impiegare nel breve periodo, non si mettono a cercare apprendisti, ma scelgono la via più breve: i contratti precari». Anche se in realtà l'apprendistato, pur essendo dal punto di vista giuslavoristico un contratto a tempo indeterminato, prevede comunque la possibilità di licenziamento con modalità abbastanza semplificate. Ma attivare l'apprendistato di terzo tipo per le università non è altro che un lavoro in più, e Magni lo racconta con preoccupante rassegnazione. «Abbiamo tagli ovunque, qui tutti hanno votato Grillo. Il turnover è praticamente azzerato. Chiedere a qualcuno di mettersi a fare tutta la trafila di moduli necessari ad attivare corsi o master per l'alto apprendistato significa lavoro in più» che nessuno dei dipendenti della martoriata università ha voglia di fare. Ma c'è anche un barlume di speranza: «L'università e il mondo produttivo devono smetterla di essere autoreferenziali e cominicare a parlarsi, perché questo significherebbe stare tutti un po' meglio. In questo senso è necessario un cambiamento di intenzioni, di consapevolezza». E poi, a dirla tutta, la responsabilità del sempre promesso e mai realizzato rilancio dell'apprendistato non grava solo su università e imprese. «Anche le Regioni sono coinvolte, devono legiferare per rendere applicabile il decreto, e anche le parti sociali hanno l'obbligo di fornire dei quadri di riferimento attraverso contratti collettivi. Dopodiché bisogna avere pazienza perché non è che in due mesi si risolve un problema che è lì da vent'anni». Ancora più pessimista è Pietro Lucisano [foto sotto], direttore scientifico di Soul, scettico soprattutto sull'uso dell'apprendistato per l'alta formazione: perché questa tipologia contrattuale è storicamente legata all'accesso a mestieri soprattutto manuali mentre «un dottore è uno che di ossa se n'è già fatte tante ed è un po' ridicolo che debba continuare a farsele». E aggiunge: «Del resto se un'azienda vuole una risorsa qualificata, dopo un tirocinio trimestrale magari se la tiene senza troppi giri di parole... e di contratti». Ma il vero problema è la mancanza di domanda di lavoro: «Se non c'è è inutile inventarsi sistemi. La nostra è molto frammentata, e il comparto del pubblico, che non è una piccola fetta, si sta rivelando il più infame per i giovani». Come il collega Magni, anche Lucisano non nega la concorrenza dei contratti precari e degli stage all'applicazione dell'apprendistato, ma non vede in questo l'elemento determinante: «Con l'apprendistato puoi essere licenziato in qualunque momento, quindi dire che non si tratti di un contratto precario bensì di un tempo indeterminato è una pura petizione di principio». Anzi, dice, «è più stabile un cocopro con cui almeno sei sicuro di lavorare un tot di mesi». Affermazione a dire il vero un po' ardita: la possibilità di lasciare a casa l'apprendista in effetti esiste, ma non proprio “in ogni momento”. Una volta sancita la conferma dopo il periodo di prova, salvo circostanze eccezionali, l'apprendista può essere “licenziato” (cioè non confermato a tempo indeterminato) solo al termine dei due, o tre, o sei anni di durata del contratto di apprendistato.Un altro grave problema è poi la comunicazione. A volte le aziende non sanno neanche che cos'è l'apprendistato. «È come se ti dicessero di sposarti senza conoscere il partner: è un contratto che, se presentato come fisso, spaventa le aziende» spiega Lucisano: «Va detto che non è così. E poi le regole cambiano di continuo, non si può pensare che il mondo delle imprese stia appresso a uno strumento così volatile e per la cui applicazione deve ricorrere magari a un commercialista specializzato. A questo punto preferisce prendere il tirocinante in nero». In pratica, dice il professore, si deve spiegare a un soggetto che ci sono sgravi retributivi e contributivi: l'apprendista può essere inquadrato fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante, statuisce la legge; poi le imprese che hanno più di dieci dipendenti godono di un'aliquota del 10%, mentre quelle con meno di dieci dipendenti hanno sgravi addirittura del 100%. E terminata la formazione il beneficio del 10% prosegue. Per l'alto apprendistato c'è persino un incentivo economico: 6mila euro per ogni assunto full time per almeno un anno e 4mila per ogni assunto part time per almeno un anno. Ma diventa tutto inutile se le regole cambiano continuamente: «è il terrore delle aziende» che allora ricorrono altrove. Allora meglio gettare la spugna? Lucisano risponde di no e suggerisce di far leva sugli aspetti di flessibilità e di sconti fiscali che sono quelli da cui è più attratta un'azienda. «Sarei contento di essere smentito» chiosa, smorzando un po' le proprie riserve. Più ottimista Luca Stefanini di Italia Lavoro: «Le aziende e le imprese non conoscevano l'apprendistato, stanno cominciando ora a capire cos'è. Fino a oggi hanno avuto notizie solo della tipologia del professionalizzante». Insomma dietro ci sarebbe solo un problema di comunicazione sbagliata. Stessa cosa per gli studenti, finora all'oscuro di tutto. E anche Stefanini, pur ammettendo la concorrenza sleale dei più facili contratti precari, sostiene che non stiano sullo stesso piano e quindi minimizza il loro ruolo. «Se nasce un interesse reale da parte di un'azienda è perché c'è bisogno di inserire una persona qualificata e di tenerla nel medio-lungo termine». Sui numeri bassissimi dell'apprendistato però è meglio non farsi illusioni. «Probabilmente non ci sarà un'esplosione. Ma abbiamo visto l'interesse delle imprese nei progetti a lungo termine, già nel loro presenziare i seminari sull'argomento». E non solo grandi aziende, ma anche piccole e medie. «Magari comprendono che hanno bisogno di qualcuno che sappia per esempio il russo e come trattare con il mercato asiatico e così fanno un investimento». La parte formativa del contratto di apprendistato viene strutturata a seconda delle dimensioni dell'impresa: se piccola si delega tutto all'università, altrimenti si fanno delle classi apposite. Quanto agli sgravi e al battere il chiodo su questo elemento per convincere le aziende, Stefanini ha un'idea diversa, certo che tutto dipenda dalle Regioni che devono stanziare i fondi. «Se ad esempio per l'apprendista laureato è previsto un master come percorso di formazione, e il corso viene pagato dalla Regione, l'azienda non è costretta a demandare questo onere al giovane. In questo modo si facilita il meccanismo del contratto». Tutti devono fare la loro parte: «La pratica è molto più complicata della realtà» ammette Stefanini, «le Regioni devono legiferare e le parti sociali devono stabilire contratti collettivi per evitare i buchi normativi e l'impasse». Ma è fiducioso rispetto al futuro: «Abbiamo fatto finora poche centinaia di contratti di apprendistato di alta formazione, però siamo partiti solo da un anno. Nel Lazio, dove ancora manca la regolamentazione applicativa, le università stanno aderendo quasi tutte».In conclusione, se non riparte l'economia e dunque la domanda di lavoro, c'è poco di concreto per confidare in un serio rilancio dell'apprendistato. Con buona pace delle promesse del ministro Fornero.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato E anche: - Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli