L'azienda invece dello Stato: il welfare aziendale come antidoto alla crisi
Il potere d'acquisto dei lavoratori italiani è diventato una delle prime emergenze del Paese. E questo non solo a partire dalla crisi del 2008, che ha unicamente aggravato un problema già esistente - come dimostra il fatto che il dibattito sulla riduzione del cuneo fiscale (ovvero lo scarto tra ciò che l'azienda paga per il lavoratore e quello che poi effettivamente entra in busta paga, al 49,6% in Italia nel 2010 secondo dati Oecd) si sono basate intere campagne elettorali anche nelle precedenti tornate. Una possibile soluzione emersa negli ultimi tempi sta nel cosiddetto welfare secondario o aziendale: una serie di agevolazioni riconosciute ai lavoratori o dalla singola azienda o per mezzo della contrattazione collettiva, con l'intento di migliorarne il benessere e accrescere l'organizzazione del lavoro. In pratica si aiutano gli occupati mettendo servizi a loro disposizione e nel frattempo lo Stato risparmia e l'azienda guadagna in termini di produttività (i beneficiari - si spera - sono più sereni e lavorano meglio). Di esempi teorici su come applicarlo ce ne sono a non finire, dagli asili nido ai voucher, dai corsi di formazione ai buoni pasto. Il nodo principale resta - come sempre, e soprattutto in Italia - la pratica. Se ne è parlato di recente in un convegno romano a cura dell'Arel, in occasione della presentazione del volume Welfare: dalla crisi alle opportunità, dove il dibattito è ruotato attorno alla questione centrale: come far sì che se ad esempio un impiegato - perché, tanto per cambiare, dai benefit restano esclusi i tantissimi lavoratori autonomi e i precari - percepisce 100 euro di aumento in busta paga, la metà di questi non finisca all'erario per via del benedetto cuneo fiscale? Un'idea che ha poi fatto scuola è stata quella messa in pratica dalla Luxottica già nel 2009: incentivare i dipendenti invece che con un banale e poco fruttuoso aumento salariale, regalando carrelli della spesa da 100 euro con beni alimentari di prima necessità. Avvantaggiando così sia il lavoratore dal punto di vista del potere d'acquisto, sia l'azienda che poteva contare su cospicui sconti da parte dei fornitori vista l'enorme quantità di alimenti acquistati. Il welfare aziendale e il dibattito che ne è scaturito non è affatto marginale, perché «nei prossimi anni assisteremo a una scarsità delle risorse da destinare al welfare pubblico. Il Paese sarà impegnato al rientro dal debito eccessivo e sarà difficile incrementare la spesa sociale, per lo meno in maniera da soddisfare in maniera crescente i bisogni di una popolazione che sta invecchiando» spiegano l'economista Carlo Dell'Aringa [nella foto sotto] e l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu [nella foto a destra] nell'introduzione a quattro mani del libro. «L'attenzione alla persona si è fatta più forte» scrivono e su questo sono le parti sociali, i sindacati, a dover fare bene il loro lavoro di difesa dei diritti. Perché la questione del welfare non è solo legata solo allo scarso reddito di chi lavora ma anche al sopperimento delle esigenze delle fasce deboli della popolazione, a cui lo Stato potrà farà fronte sempre di meno. Ne è certo Roberto Cicciomessere di Italia Lavoro, che fa un confronto con altri Paesi più avanzati: «La quota di spesa sociale nel nostro Paese è molto bassa (2,1% di Pil), a fronte del 3% di Francia e Germania e del 7,1% del Regno Unito. Le esperienze di welfare aziendale sono molto limitate in Italia anche se il dibattito su come implementarlo ha iniziato a interessare molti attori economici». E anche i lavoratori che ne beneficiano sono pochi: solo il 17,6% dei lavoratori gode di buoni pasto, l'8,4% di mense aziendali, il 2,3% ha il rimborso per le spese sanitarie e lo 0,4% per l'asilo nido. Un esempio virtuoso che sta partendo in Italia è richiamato nel libro da Franca Maino, docente di Teoria e politiche dello stato sociale all'università di Milano: si tratta del caso della Regione Lombardia, che ha avviato progetti sperimentali come la Dote conciliazione "Servizi alla persona", che offre ai genitori rientrati al lavoro dopo i congedi rimborsi di servizi per l'infanzia pari a 200 euro al mese per otto mensilità (totale 1600 euro). O ancora la Dote conciliazione "Premialità assunzione" che stanzia per le pmi un voucher di mille euro per l'assunzione di madri escluse dal mercato del lavoro o precarie. Sono solo due dei 33 progetti avviati - di durata biennale - e che hanno coinvolto 6.300 lavoratori. Per ora si parla di provvedimenti pilota, ma potrebbero dare uno scossone alla condizione occupazionale delle donne che - nel 2011 - «erano disoccupate per il 50%» secondo dati Eurostat ripresi da Roberta Marracino di McKinsey (società di consulenza e ricerca in business, marketing e finanza) e Carlo Alberto Carnevale, docente alla Bocconi. Il risultato di un così scarso impiego della componente femminile della società si riflette anche sul Pil che in Italia «tra il 2000 e il 2010 è salito dello 0,4%, contro il 2,2% della Svezia dove il tasso di occupazione femminile è del 76%». Scettica è poi la posizione di Sandro Del fattore, del dipartimento Welfare della Cgil, che nega l'eventuale aumento di produttività che i buoni aziendali garantirebbero perché - scrive - «non è un buono che dà un servizio ma la sua esistenza. Un voucher, ancorché defiscalizzato, non sostituisce ad esempio l'asilo nido». Ovvero c'è bisogno di infrastrutture in questi casi, non si può demandare tutto al privato eliminando lo Stato. E poi - aspetto non secondario - se il welfare aziendale dipende dalla contrattazione collettiva nazionale, si taglia fuori praticamente la metà dei lavoratori «nel paese delle microimprese» che è l'Italia. La Cgil, d'altronde, non è nuova a critiche simili verso questa sorta di 'ammortizzatori sociali' a carico delle aziende, un sistema che i sindacati in generale non vedono di buon grado, ma anzi osteggiano. Caso esemplare è stato quello dell'imprenditore del cachemire Bruno Cucinelli, che a Natale 2012 ha deciso di suddividere una porzione degli utili annuali - 5 milioni - con i suoi quasi 800 dipendenti. Elargizione concretizzata in un 'regalo' da 6.385 euro ciascuno. Il precedente c'era stato con Diego Della Valle nel 2008, quando il manager premiò i lavoratori con un bonus da 1400 euro. Magnanimità ripetuta poi di anno in anno fino al 2012, anno in cui il numero uno della Tod's ha garantito ai suoi dipendenti la copertura per l'acquisto dei libri scolastici dei figli e per le spese mediche familiari. Tutti gesti questi che i sindacati hanno invece paradossalmente attaccato. Ma chi paga i servizi di welfare aziendale? La questione è stata aperta dai relatori Treu e Dell'Aringa. «L'incentivo pubblico è giustificato dagli obiettivi che il sistema è in grado di raggiungere. E non vi è dubbio che la qualità di questi obiettivi giustificano anche l'intervento del fisco». La normativa andrebbe aggiornata, non è più accettabile, a loro dire, applicare l'esenzione fiscale solo al di sotto del tetto massimo dei 5 euro (il valore standard del buono pasto), come stabilisce la legge attuale. Bisogna fare di più per rendere il sistema efficiente e appetibile. Un'ipotesi è anche quella della ripartizione del costo dei servizi «tra Stato, impresa e lavoratori: in fondo se il lavoratore paga ha comunque un vantaggio perché il costo del servizio è inferiore al valore di ciò di cui usufruisce». In questo senso «la strada più semplice è lasciare ai dipendenti un menu di possibili servizi, il cui totale dovrebbe essere equivalente in moneta per tutti». In tempi di crisi, insomma, tocca arrangiarsi. E anche il ripensamento del sistema del welfare, che - come dicono gli esperti - potrebbe trovarsi a breve senza fondi, deve passare attraverso il filtro di una riduzione delle risorse disponibili. Il che non vuol dire necessariamente stare peggio: una spesa al supermercato già fatta invece di 100 euro in più in busta paga è un'ottima idea, che semplifica la vita e ottimizza i tempi dei lavoratori, specie se donne e ancor più se madri. La prospettiva è a prima vista entusiasmante. Non sarebbe tollerabile però un potenziamento del welfare solo a favore di chi dispone di un contratto a tempo indeterminato. La crisi chiede anche di guardare a chi più ha bisogno: e in questo momento sono i precari. Marracino e Carnevale accennano al problema nella monografia all'interno del libro: «A fronte della generazione degli inpergaranatiti dal welfare, i cittadini più giovani si trovano di fronte a un saldo fiscale strutturalmente negativo, per il quale non hanno nessuna prospettiva di maturare gli stessi privilegi dei genitori ma si trovano anche a dover obbligatoriamente pagare il conto degli eccessi di debito accumulati». Oggi, scrivono, abbiamo un «welfare recessivo» che «sta scatenando un diffuso e comprensibile risentimento generazionale». Per questo è indispensabile ripensare un nuovo welfare «solidale ma sussidiario, sostenibile e orientato alla produttività e allo sviluppo». Per la società civile, «una priorità assoluta». Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Videointervista a Michel Martone: welfare dei privati, cos'è e a cosa serve- Maternità precaria: per avere un sussidio meglio essere ragazza madre- Indennità di maternità per le precarie, quanto danno le casse previdenziali dei professionisti- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30