Categoria: Approfondimenti

“Le risorse umane”, appunti per una filosofia critica dello stage

Coaching, counseling, fattore umano, valorizzazione, innovazione. Sono alcuni dei termini chiave nel campo delle risorse umane, ma oggi fanno parte anche del linguaggio quotidiano della generazione flessibile, alle prese continue con cv, selezioni e colloqui. Insomma, se nell’800 la lettura del giornale era definita la preghiera dell’uomo moderno, oggi la versione 2.0 della confessione non sarebbe altro che il colloquio di lavoro, momento clou della vita, non solo professionale. A sostenerlo è Massimiliano Nicoli nella sua dissertazione filosofica intitolata Le risorse umane (Ediesse editore,  collana I fondamenti, 240 pagine, euro 12). Nel ricostruire la storia e i fondamenti concettuali dello Hrm (human resource management) l’autore, ricercatore all'università di Parigi X-Nanterre  e fra i curatori del Laboratorio di filosofia contemporanea, fornisce un’interessante chiave di lettura per riti e abitudini che per la generazione degli stagisti e dei precari sono diventati pane quotidiano: la revisione continua del  curriculum vitae, compilare i fogli per la valutazione e l’autovalutazione, imprimere il proprio feedback, integrarsi e costruire relazioni all’interno del potenziale ambiente lavorativo.Sulla metafora della confessione dice l'autore alla Repubblica degli Stagisti: «Non so se si possa spendere propriamente questa parola per i rituali del colloquio e della valutazione nelle aziende, ma credo che il management delle risorse umane rappresenti una scena in cui gli individui sono invitati a entrare in un certo rapporto con se stessi, come soggetti di performance e di competenze continuamente da migliorare e aggiornare, magari attraverso una serie infinita di stage... È ciò che nel libro definisco “il divenire impresa della soggettività”, cioè l'adeguamento della propria forma di vita alla forma stessa dell'impresa».Tutto, come nella quotidiana e banale ricerca dell’impiego, parte dal curriculum, che nel libro viene definito «pratica che nasce nel 1894 negli Stati Uniti e diviene il formato par excellence della narrazione scritta della propria vita, si passa attraverso colloqui e interviste, test psico-attitudinali e di personalità, per arrivare a una varietà di prove, simulazioni, giochi, individuali o di gruppo di tipo situazionale. L’ obiettivo è scoprire i tratti della persona che non si leggono nel curriculum».Secondo l’autore, valutare costituirebbe una delle azioni chiave della società attuale, costruita sull’ imperativo della flessibilità: lo sa bene chi, senza deciderlo, cambia lavoro o stage con grande frequenza e si sottopone di continuo a colloqui e ogni forma d’intervista, partecipa a bandi e concorsi, con la speranza di possedere tutte le caratteristiche richieste, non solo a livello professionale, ma emotivo e psicologico. Oggi tutti ripetono quanto la componente psicologica dell’individuo  assuma un’importanza fondamentale nel mondo del lavoro. «Questa nuova forma di organizzazione rende obsoleti i modelli di gestione del personale ereditati dal passato» spiega Nicoli «per cui la risorsa umana è soggetto passivo e impone un modello in cui le persone entrino in maniera costitutiva e non solo strumentale nella definizione del vantaggio competitivo».Come sanno bene le partite Iva, oggi ogni individuo è “s.p.a. di se stesso” per cui il valutatore professionale non solo richiede che il candidato svolga perfettamente la mansione richiesta, ma cerca di scoprire se gli obiettivi di vita, relazionali, i valori e le aspettative del valutato coincidano con quelle dell’azienda o del sistema lavorativo che il valutatore rappresenta. In questo modo può ottenere la massima fedeltà, dedizione e diminuire il rischio di conflitto o di abbandono dell’azienda. Ci si chiede, anche nei forum di questa testata, perché molti stagisti accettino di lavorare gratis o pagare uno stage perché “fa curriculum”. Ecco la risposta fornita nel libro: «La mediazione fra obiettivi strategici aziendali e fini personali degli attori della produzione passa attraverso il primato degli “incentivi non materiali” in termini di gratificazione morale, agio riconoscimento». Dunque, a fronte di un coinvolgimento psicologico sempre maggiore degli individui, nella società flessibile in cui diventa sempre più difficile stabilire gli spazi e il tempi da dedicare al lavoro (piuttosto che al resto), verrebbero meno le garanzie giuridiche, che hanno toccato il massimo avanzamento all’epoca del welfare state, in cui la parola chiave era  “stabilità”. Il nuovo ambiente lavorativo, definito metaforicamente greenfield, è fuori dai contesti “stabili” delle grandi lotte sindacali: è un terreno vergine su cui di deve costruire una nuova cultura d’impresa, con l’assenso del territorio, della popolazione e delle istituzioni. Ed è su questa logica che nel greenfield si preferisce insediare «generalmente popolazione giovanile, scolarizzata e priva di esperienze lavorative» sostiene Nicoli: «il profilo sul quale meglio si innestano i processi di trasferimento dei valori e della cultura aziendale attivati dalle tecniche di gestione delle risorse umane».Leggendo Le risorse umane sembrerebbe che i destinatari ideali del nuovo sistema d’organizzazione aziendale siano proprio gli stagisti, alle prese con una lunga giovinezza fatta di studi, relazioni, viaggi ed altri tipi di esperienze, tutti utili alla costruzione del curriculum vitae. In questa condizione, professionale e psicologica, ci si dedica, con grande passione e dedizione, ad accumulare esperienze, conoscenze e qualifiche, ma sempre restando soltanto alla porta d’ingresso del mondo del lavoro.Su questa riflessione conferma l'autore: «Lo stage è per definizione un'esperienza formativa, o per lo meno lo dovrebbe essere. L'idea e la pratica dello stage “permanente” comportano il fatto che si è sempre in formazione, non si è mai formati - come i bambini. In questo senso, lo strumento dello stage, attraverso il suo abuso, diventa il dispositivo giuridico che mantiene il - giovane - lavoratore in uno stato di "minorità" professionale. L'effetto del suo uso eccessivo è la produzione di un sentimento di un “debito” incolmabile - di formazione e di esperienza - che rende lo stagista un soggetto particolarmente vulnerabile sul piano della consapevolezza di propri diritti». Silvia Colangeli

La fuga dei cervelli fotografata dall’Istat: i giovani più qualificati partono in cerca di lavori più pagati

Si è parlato spesso, negli ultimi anni, della fuga dei cervelli: la corsa di giovani laureati con master e dottorati verso paesi stranieri alla ricerca di un lavoro dignitoso e di maggiori possibilità nel futuro. Adesso è l’Istat a fotografare questa particolare categoria e a includerla nella 23esima edizione del Rapporto annuale, presentata la scorsa settimana a Roma.  In realtà i risultati non sono ancora definitivi: i ricercatori infatti non sono l'unica categoria a scappare all'estero per lavorare e l’Istat anticipa alla Repubblica degli Stagisti che sta lavorando sui dati riguardanti anche i laureati, dunque su una fetta molto più grande di giovani. I numeri al momento disponibili sui dottori di ricerca possono quindi essere considerati come un “assaggio” rispetto al monitoraggio completo che sarà pubblicato prossimamente.Dal rapporto esce un quadro complesso del nostro paese: studiare, specializzarsi, approfondire può aiutare a trovare un lavoro. A meno che non si sia donne, perché in quel caso le difficoltà sono maggiori e i compensi diminuiscono. O non si appartenga, appunto, alla categoria dei ricercatori. Perché allora non c’è genere che tenga e la scelta è quasi obbligata: «fuggire» con il carico di conoscenza appresa in Italia per realizzarsi all’estero.«Mobilità intellettuale»: questo il nome che l’istituto statistico dà al fenomeno. Rispetto alla precedente indagine, relativa ai dottori di ricerca del 2004 e del 2006, il dato è cresciuto di quasi sei punti arrivando al 12,9% di quanti oggi vivono all’estero. La scelta di partire viene fatta principalmente dagli uomini; analizzando i dati si vede come i più a rischio emigrazione siano i dottori di ricerca nelle scienze fisiche, visto che quasi un terzo abbandona l’Italia per continuare il suo lavoro. Poi i dottori di ricerca in scienze matematiche e informatiche e quelli in scienze chimiche o economiche e statistiche. Tra i più lontani a fare questa scelta sono i dottori di ricerca in scienze giuridiche: solo il 7,5% è emigrato per continuare il proprio lavoro. Forse perché gli ordinamenti giuridici sono diversi, e cambiando Paese si perderebbe anche gran parte delle proprie competenze.«Uno dei maggiori freni alla crescita del sistema paese è la difficoltà a valorizzare il capitale umano specifico delle nuove generazioni» commenta Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale all’università Cattolica di Milano, direttore del Center for applied statistics in business and economics e responsabile del Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo: «La propensione a lasciare il Paese, sia per fare esperienze che per carenza di opportunità, cresce all’aumentare del livello di istruzione. Non solo quindi in Italia abbiamo meno giovani rispetto al resto d’Europa e tra questi abbiamo meno laureati, ma una volta laureati e dottorati c’è il rischio maggiore di vederli partire per altri paesi. Quello che preoccupa di questi numeri» spiega Rosina alla Repubblica degli Stagisti «è che al flusso di uscita di giovani talenti non ne corrisponde uno equivalente in entrata. Anzi, il divario sta diventando sempre più ampio. Siamo un paese produttore di talenti da esportazione: dopo averli formati li regaliamo a paesi che anche grazie a loro diventano più competitivi del nostro». Il paese che nel campo della ricerca attrae più italiani è il Regno Unito, scelto da quasi due ricercatori italiani su dieci e tallonato da Stati Uniti e Francia. Le destinazioni comunque variano a seconda dell’area disciplinare. Se l’Inghilterra è la prima meta per l’area delle scienze chimiche, statistiche, politiche e per l’ingegneria civile e le scienze della terra, il territorio americano è invece preferito dai ricercatori in scienze mediche e biologiche, mentre il Belgio risulta primo obiettivo per agraria e veterinaria.Non ci vuole molto a capire perché i giovani ricercatori abbandonino l’Italia, ma anche in questo caso l’Istat toglie qualsiasi dubbio facendo parlare i numeri: c’è, infatti, praticamente unanimità nel far riferimento a un lavoro meglio retribuito e più qualificato. Senza contare che se chi vive in Italia trova un lavoro ad elevata specializzazione nell’85% dei casi, il dato sale di ben sei punti per quanti, invece, emigrano. Come probabilmente i prossimi dati Istat confermeranno, non sono comunque solo i ricercatori ad andarsene, ma anche molti laureati. «In continua crescita c’è anche il numero di giovani con basse qualifiche che cerca qualsiasi tipo di lavoro all’estero» conferma il professor Rosina. Perché lo facciano, lo spiegano ancora una volta i numeri del rapporto Istat che fotografa anche la situazione del lavoro giovanile, sempre preoccupante. Tra il 2008 e il 2014 c’è stata una perdita di occupati nella fascia di età fino ai 35 anni di quasi due milioni. Nello stesso periodo si sono persi quasi cinque punti percentuali anche nella fascia di età tra i 35 e i 49 anni, mentre gli unici ad aver visto addirittura un aumento dell’occupazione sono stati gli ultra cinquantenni: un riflesso della riforma Fornero, e dell’inasprimento dei requisiti per accedere alla pensione.I pochi giovani che riescono a trovare un’occupazione, devono poi accontentarsi di contratti a termine o collaborazioni. In particolare le donne, specie se madri. Così non stupisce che il part time sia l’unica forma di lavoro che non subisce frenate e nell’anno passato ha riguardato, secondo l’Istat, quattro milioni di occupati: la maggioranza ha dovuto accettare questa tipologia di contratto, non sceglierlo, trasformando dunque una opportunità di work-life balance in un "part-time involontario".Il quadro generale europeo, però, sembra positivo sul fronte occupazionale: secondo l’Istat nel 2014 si è registrata una ripresa pari allo 0,8%, - crescita che in Italia si è fermata solo allo 0,2%. Per recuperare la distanza dovremmo avere un incremento di tre milioni e mezzo di occupati, numeri che al momento sembrano difficili da realizzare. Se però la riduzione del tasso di occupazione ha interessato nel nostro Paese trasversalmente tutti i titoli di studio, bisogna aggiungere che il calo è stato più contenuto per i laureati, dove gli occupati dal 2008 al 2014 scendono di tre punti. Mentre tra i diplomati il dato è praticamente raddoppiato. Quello che i numeri dell’istituto statistico sembrano suggerire è che un titolo di studio avanzato potrebbe fare la differenza. «Soprattutto se ottenuto in una buona università, nei tempi giusti e con una media alta, produce sempre un vantaggio rilevante nel mercato del lavoro anche in un periodo difficile come questo» commenta Rosina. «Il vantaggio, inoltre, soprattutto in Italia, cresce nel tempo. Se quindi è vero che i tassi di occupazione dei laureati prima dei trent'anni non sono molto più alti rispetto ai diplomati, tendono poi a migliorare successivamente. È la combinazione giovane e laureato che noi non riusciamo a valorizzare adeguatamente e questo è ancora più vero al Sud e per le donne. Questo paese continua a presentare squilibri generazionali, di genere, geografici che non solo frenano la crescita ma alimentano persistenti diseguaglianze».In effetti i numeri Istat mostrano come il titolo di studio avanzato non incida particolarmente se si appartiene al genere femminile. Le donne con una laurea sono pagate in media fino al 29% in più di quelle solo con il diploma, nel centro Italia, ma ben staccate dagli uomini dove lo stesso titolo di studio fa quasi raddoppiare la retribuzione. Una differenza di genere che a parità di qualifica è più contenuta al Sud, ma che mette in evidenza come nel 2015 il soffitto di cristallo che impedisce alle donne di raggiungere posizioni di vertice, con relativi stipendi, sia ancora lì.«C’è una maggiore attenzione oggi verso le politiche di genere e l’occupazione giovanile, ma non sono ancora considerate una priorità» osserva Rosina «Vengono fatte ai margini, senza quindi essere in grado di mettere davvero donne e nuove generazioni al centro dei processi decisionali, di crescita e cambiamento profondo del paese». Che non può certo dirsi fermo, come in passato, ma che, secondo il professore «è ancora sotto la velocità di decollo».I dati Istat da soli non possono certo certificare che l’Italia con il suo +0,2% sul fronte occupazionale stia uscendo dalla crisi. «Servono altre conferme. Ci sono però condizioni positive sia internazionali che interne e anche il clima sembra virare verso l’uscita dalla cattiva stagione», conclude Rosina. «In particolare è in crescita la fiducia di famiglie e imprese. E il dato più rilevante, per ora, è la forte voglia generale di uscire dallo stato di depressione sociale ed economica. Questi segnali positivi incoraggiano a muoversi per rendere la crescita ancora più solida e reale». Marianna Lepore

Settimana europea della gioventù, delusione per l'evento a Bruxelles ma i giovani non demordono: «Avanti con nostri progetti sui territori»

Un grande evento a Bruxelles ha celebrato, il 6 maggio scorso, la Settimana europea della gioventù. Ma le aspettative dei ragazzi che vi hanno preso parte - a quanto risulta dalle testimonianze raccolte dalla Repubblica degli Stagisti - sono state in sostanza deluse. A marzo erano stati circa 600 i giovani che nei singoli Paesi dell’Unione, più gli altri Stati non Ue che partecipano al programma Erasmus+, si erano incontrati per gli Ideas Lab. Un gran movimento di persone (e di denarodella UE per rimborsare i costi di aerei, treni e bus) per permettere ai giovani europei di elaborare idee su quattro argomenti chiave che li riguardano: promozione delle opportunità lavorative, dell’imprenditorialità, della partecipazione alla vita civica e ai temi dello sviluppo durante l’Anno europeo per lo sviluppo 2015.Una quarantina di delegati dei 600 giovani avrebbero poi dovuto riesaminare insieme a Bruxelles, il 5 maggio, le proposte provenienti dagli Ideas Lab delle singole nazioni, e infine discuterne il giorno seguente con importanti rappresentanti della politica europea. Questo non è accaduto. Giovedì 30 aprile, sei giorni prima dell’evento principale della Settimana europea della gioventù, ai delegati è arrivata dalla Commissione europea il programma delle due giornate, nel quale c'era una sorpresa. A Bruxelles i rappresentanti dei giovani non avrebbero rielaborato gli Ideas Lab nazionali sui quattro argomenti chiave con lo scopo di  presentarne ai politici un riassunto, ma avrebbero piuttosto partecipato a un nuovo Ideas Lab dal tema «Accrescere la partecipazione dei giovani per prevenire l'intolleranza e il comportamento antidemocratico»: è stato poi questo l’argomento discusso nel panel debate tra politici, rappresentanti di organizzazioni internazionali e giovani. Alla presentazione del nuovo Ideas Lab internazionale - tenuta poi da due ragazzi [a sinistra nella foto] scelti tra la quarantina dei presenti a Bruxelles - sono stati dedicati esattamente sette minuti (guarda il video dal minuto 1.37.30 a 1.44.40). E sette minuti per ascoltare le voci dei giovani in una intera giornata, perdipiù dedicata espressamente alla gioventù, alla Repubblica degli Stagisti sembrano decisamente troppo pochi.«C’è stata incoerenza fra le proposte fatte a livello nazionale, tramite i giovani coinvolti nell’associazionismo sui territori, e quello che dopo è successo a Bruxelles» si sfoga Martina Panzolato, 24 anni, consulente freelance di europrogettazione e rappresentante dell’Ideas Lab italiano «3L - Living Lab to Learn». «Mi sono chiesta, e come me credo molti altri rappresentanti, quale senso abbia avuto muovere tutte queste persone se poi non c’è stata corrispondenza tra il lavoro svolto nei singoli Paesi e la discussione a Bruxelles. La mia sensazione è che si sia voluto dare più importanza all’apparenza; invece io penso che di dibattiti autoreferenziali non ci sia proprio bisogno, perché a livello locale le associazioni giovanili realizzano un sacco di progetti ed è questo ciò che deve essere valorizzato».Delusione trapela anche dalla testimonianza della rappresentante dell’altro Ideas Lab italiano, «JOY: Job Opportunities 4 #Youth». Racconta Giulia Colavecchio, 27enne dottoranda in diritti umani all’università La Sapienza di Roma e impegnata nelle attività dell’associazione Bios di Messina: «Siccome pochi giorni prima dell’evento ci era arrivata la mail con il programma, non sono rimasta poi così sorpresa di come siano andate le cose. Ma certo mi sono chiesta che fine avrebbero fatto le nostre proposte, corredate da prodotti audiovisivi ai quali non è stato dato nessun tipo di spazio nella discussione. A Bruxelles ho cercato chiarimenti, ma nessuno del personale con cui eravamo in contatto mi ha saputo rispondere».La Colavecchio spiega inoltre che qualcosa è andato storto anche nell’organizzazione del gruppo internazionale di delegati: «C’era un forte sbilanciamento nella rappresentanza. Eravamo una quarantina, ma circa dieci erano portoghesi. Inoltre molti ragazzi, soprattutto del nord Europa, avevano anche meno di vent’anni. Quindi, oltre al fatto che ciò ha abbassato il livello della discussione, non poteva esserci corrispondenza tra le loro aspettative e quelle dei ragazzi più grandi, proiettati al mondo del lavoro». Certo la dottoranda non mette in dubbio la nuova tematica da discutere, cioè come combattere l’intolleranza e la discriminazione, fosse «comunque molto importante, ma non era possibile parlarne seriamente in così poco tempo. Infatti il risultato non è stato grandioso».Altra nota negativa, le proposte dei giovani europei scaturite dagli Ideas Lab - che possono essere votate online fino al 30 giugno - non sembrano finora essere state promosse con molto impegno. Per accorgersene bastascorrere i voti ottenuti dalle singole proposte: in totale poche centinaia, a fronte di un bacino di decine di milioni (secondo gli ultimi dati Eurostat, nell’Unione europea i giovani tra i 15 e i 29 anni sono circa 90 milioni).La Repubblica degli Stagisti ha chiesto un parere sull’evento di Bruxelles a Johanna Nyman, presidente dell’European Youth Forum, organizzazione che ha indicato gran parte dei facilitatori che hanno condotto gli Ideas Lab a livello nazionale e poi europeo. «Non so perché il programma sia stato cambiato, il lavoro sugli Ideas Lab non era di mia competenza. Spero comunque che le proposte dei ragazzi saranno considerate».  La Nyman sembra preferire la strada della diplomazia, ammorbidendo le critiche all'Ue sull'organizzazione dell'evento: «In ogni caso è importante che rappresentanti della Commissione europea abbiano ascoltato i giovani su temi fondamentali come la lotta alla discriminazione e all’intolleranza, per la quale servono anche più opportunità di educazione e lavoro. Spero anche che la politica europea si apra ancora di più al confronto con i giovani, non solo in eventi come quello di Bruxelles ma in modo continuativo, e credo che l’Unione debba lasciare ai giovani più tempo per presentare le proprie idee».Una probabile spiegazione sul motivo per cui il programma finale sugli Ideas Lab sia stato cambiato la offre invece Paola Trifoni, coordinatrice della Settimana europea della gioventù per l'Agenzia nazionale giovani: «Secondo me non c’è stato un dibattito sulle tematiche iniziali proposte per una questione di carattere politico. La Commissione avrà ritenuto di dare un altro taglio al dibattito». Trifoni sottolinea comunque un aspetto positivo di tutta la vicenda: «Mi sembra importante che a gruppi di giovani sia stata data la possibilità di incontrarsi, scambiarsi idee ed elaborare progetti. Almeno in Italia ho notato nel gruppo la volontà di proseguire». Su questo concorda Martina Panzolato: «Nei territori porteremo avanti i nostri progetti, facendo rete tra di noi, dal basso. Almeno #finchécisicrede, si potrebbe dire con un hashtag».Daniele Ferro @danieleferro 

Jobs Act, in arrivo il salario minimo: ma qualcuno sostiene che aumenterebbe la disoccupazione

Il salario minimo potrebbe arrivare presto anche in Italia. Per ora è solo un'ipotesi, stando alle parole del ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Fa parte della legge delega», ma non è ancora in nessun decreto, ha chiarito in una conferenza della Banca d'Italia che ha cercato di fare luce sul tema. Perché l'introduzione del salario minimo – da non confondere con reddito minimo, ovvero un sussidio statale per chiunque sia sotto la soglia della povertà e non abbia un reddito sufficiente a mantenersi – sarebbe una rivoluzione in un paese dove la regolamentazione delle retribuzioni per molta parte dei lavoratori è compito della contrattazione collettiva. Infatti il salario minimo del Jobs Act punterebbe a introdurne uno per chi resta scoperto dai riferimenti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, ovvero soprattutto i lavoratori parasubordinati. Una misura mancante in Italia, sostituita in parte dai contratti collettivi, ma che è presente quasi in tutti i paesi del mondo, come spiega Steve Machin [nella foto] della University College London e membro della Low Pay Commission, agenzia governativa britannica per i temi delle retribuzioni. C'è infatti in Australia, Canada, Usa, Francia, Belgio, Grecia, Irlanda, Giappone, Spagna, Olanda, Nuova Zelanda, Portogallo, ed è appena entrato in vigore anche in Germania. In Francia il salario minimo si chiama Smic ed è molto alto: circa 1400 euro lordi per 35 ore di lavoro a settimana, più o meno 10 euro all'ora. Nel Regno Unito fu fissato nel 1999 a 3,6 sterline orarie per i maggiori di 21 anni, e a 3 sterline per i 18-21enni. Oggi, dopo l'ultima modifica dell'ottobre 2014, si attesta a 6,50 sterline orarie per gli adulti (corrispondenti a circa 9,10 euro), a 5,13 sterline per i 18-20enni (7 euro circa). Ma ci sono tariffe anche per i 16-17enni, con 3,69 sterline l'ora (5,16 euro), e per gli apprendisti, che non possono guadagnare meno di 2,73 sterline orarie (3,80 euro). Il salario minimo «è stato percepito come un successo» assicura Machin «ed è considerato una delle politiche più riuscite degli ultimi 30 anni». Tanto dovrebbe bastare a convincere i più scettici tra gli esperti italiani. La principale obiezione che si muove è quella del rischio che l'istituzione di un salario minimo possa incoraggiare la disoccupazione «se fissato a un livello troppo alto», come sottolinea Marco Leonardi, professore associato di Studi del Lavoro alla Statale di Milano, «pur sostenendo il potere d'acquisto dei lavoratori con retribuzioni basse». «Gli economisti hanno sempre guardato con scetticismo al minimum wage perché rischia di mettere fuori mercato chi vorrebbe proteggere, ovvero i lavoratori con bassi redditi e basse skills», gli fa eco Paolo Sestito del Servizio struttura economica della Banca d'Italia. Il rischio per gli aspiranti candidati a un posto di lavoro sarebbe quello di vederselo sfumare, costando troppo. Eppure l'esperienza britannica dimostrerebbe il contrario. E poi c'è un effetto positivo da non sottovalutare secondo gli esperti, una volta introdotto il salario minimo: i controlli sarebbero più efficaci. «In Uk lo fa la Agenzia delle Entrate, da noi andrebbe istituita una agenzia ispettiva unica» suggerisce Leonardi, escludendo quindi il ricorso al giudice del lavoro che più spesso si verifica per il mancato rispetto dei contratti collettivi nazionali. E c'è anche il discorso della disuguaglianza, a cui il salario minimo potrebbe porre un argine. Secondo i calcoli di Leonardi, «La disuguaglianza sarebbe stata minore se fosse stato introdotto in passato, perché sarebbero migliorate le condizioni di vita dei molti lavoratori pagati al di sotto di quanto stabilito dai contratti di lavoro». Anche perché i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva sono tanti: «più di un terzo nelle costruzioni, il 30% nella ristorazione, il 27% nel sociale, il 23% nell'istruzione, tanto per citarne alcuni dati di Eurostat del 2010». Un salario minimo oggi in Italia, considerando che nei paesi in cui esiste è fissato tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano, potrebbe – a detta di Leonardi – aggirarsi tra i cinque e i sette euro l'ora. Il dibattito è destinato a continuare perché quella del salario minimo è diventata una priorità, oggi che «c'è consenso sull'idea che, se fissato a un giusto livello con un approccio pragmatico» sottolinea Machin «non danneggi l'occupazione». Senza contare la spirale di crescente povertà in cui il nostro paese sta finendo: secondo i calcoli della Fondazione Rodolfo De Benedetti, dal 2005 al 2013 il tasso per gli under 35 è salito di quasi 5 punti, dal 3 all'8%, per chi ha tra i 35 e i 44 anni di 6 punti, dal 3 al 9%. Lo stesso, anche se con uno scarto inferiore, è accaduto per chi ha tra i 45 e i 54 anni. E il picco è stato raggiunto proprio tra chi ha un lavoro dipendente. Evitare che i guadagni dei lavoratori scendano al di sotto di una certa soglia minima potrebbe quindi attenuare il problema.Eppure i sindacati non esultano. In Italia sono stati loro a definire di fatto i salari minimi, attraverso la contrattazione dei contratti nazionali di lavoro. Con due talloni d'achille: il primo, una parcellizzazione dei "minimi sindacali", diversi a seconda della categoria (commercio, metalmeccanica, editoria...). Il secondo tallone d'Achille, un raggio d'azione limitato esclusivamente ai dipendenti subordinati, lasciando fuori tutti i parasubordinati che negli ultimi anni sono cresciuti a dismisura. Di fatto, una misura di questo tipo ridurrebbe il loro peso. La principale critica che i sindacalisti muovono è che il salario minimo comprimerebbe verso il basso le retribuzioni, consentendo ai datori di lavoro di applicare le tariffe più basse stabilite senza fuoriuscire dai parametri della legalità. Le posizioni non sono però unanimi. Maurizio Landini, segretario della Fiom, non è contrario al salario minimo ma chiede di tararlo sulle soglie già fissate dai contratti nazionali, onde evitare eccessivi ribassi. Perplessa invece Susanna Camusso, segretario Cgil, per cui non servirebbe l'introduzione di un salario minimo, ma basterebbe estendere ai lavoratori esclusi la copertura della contrattazione collettiva. Ma la sua proposta sembra destinata a cadere nel vuoto. In attesa dei decreti attuativi del Jobs Act.  Ilaria Mariotti  

Lauree più ambite, dimmi che Ingegneria fai e ti dirò che stipendio avrai

«Sono il signor Wolf, risolvo problemi». Il paragone è forse azzardato, ma a pensare agli ingegneri viene in mente Pulp Fiction e in particolare Harvey Keitel, sangue freddo e praticità, nel cult di Quentin Tarantino. Perché gli ingegneri continuano ad essere richiestissimi. Per le competenze scientifiche unite alla capacità di "risolvere problemi". A fare la differenza, la forma mentis: studiare ingegneria assicura basi scientifiche solide ma anche quell'elasticità mentale che rende progettisti e manager capaci di visione globale, abili nel fondere competenze fisico-matematiche, economiche e gestionali. Gente che "risolve problemi", insomma. L'ultimo rapporto Almalaurea vede i laureati in ingegneria al secondo posto sul podio della classifica di chi si assicura un posto di lavoro grazie al percorso di studi: a distanza di cinque anni dalla laurea magistrale, sono ben 95 su 100 gli ingegneri occupati, con un contratto a tempo indeterminato nel 68,5% dei casi - si sale a oltre l'80% considerando anche il lavoro autonomo - e una retribuzione netta che sfiora i 1700 euro mensili. Qualche distinguo però è necessario, quando è il momento di immatricolarsi. Quali sono, all'interno delle facoltà di Ingegneria, i percorsi di studi che garantiscono più chance di assunzione? Qui entrano in gioco molte variabili, da quelle socio-economiche come gli effetti della crisi e della recessione, a queulle geografiche, con il Nord Italia a fare la differenza nella capacità di assorbire laureati.  Secondo le ultime statistiche sull'occupazione del Centro studi del Consiglio nazionale dell'Ordine degli ingegneri, nel 2014 le imprese hanno richiesto 17.840 ingegneri, il 9% in più rispetto all'anno scorso, segnando «timidi segnali di ripresa in una congiuntura ancora debole». La parte del leone la fanno gli indirizzi legati al terzo settore, quello dei servizi (ingegneria dell'informazione e ingegneria elettronica, con 8240 assunzioni), e  quello industriale (4980 assunzioni). Insieme raggruppano i due terzi delle opportunità lavorative offerte dalle imprese. Non a caso, anche per quest'anno i profili più richiesti si confermano quelli di progettista meccanico, sviluppatore di software e programmatore informatico. Faticano invece, confermando il trend degli anni scorsi, i percorsi legati all'ingegneria civile ed ambientale, sulla scia della recessione nel settore delle costruzioni: "solo" 1440 le assunzioni registrate. Marcate anche le disparità geografiche, con il sud Italia capace di assorbire appena 2mila ingegneri (con un calo «allarmante» di oltre il 21% rispetto al 2013) mentre quattro regioni  da sole assorbono i due terzi degli ingegneri italiani Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Piemonte. Non è un caso che appartengano a queste ultime due regioni il Politecnico di Torino e l'università di Modena e Reggio Emilia: gli atenei migliori, secondo l'ultima classifica del Censis, dove studiare Ingegneria. Indipendentemente da quale ateneo si scelga, comunque, vince la forma mentis che dà il corso di ingegneria: «Dà fondamenta solide e una visione trasversale e multidisciplinare», rimarca Marco Gilli, rettore del Politecnico di Torino (nella foto, a sinistra). Che vede negli indirizzi di ingegneria industriale, dell'informazione, gestionale, nonché nella matematica e fisica applicata quelli più spendibili in assoluto sul mercato del lavoro: «Già ad un anno dalla laurea quasi tutti i nostri laureati trovano lavoro. Nelle primissime posizioni, gli indirizzi legati all'elettronica e ai sistemi produttivi. Pesa in questo senso la vocazione manifatturiera della regione», osserva Gilli. «Ma vanno molto bene anche gli indirizzi di ingegneria aerospaziale, informatica, meccanica e dell'autoveicolo». Meccanica e informatica la fanno da padrone anche secondo Alessandro Capra, direttore del Dipartimento di ingegneria dell'università di Modena e Reggio Emilia [nella foto a destra]: «La maggior parte dei nostri laureati trova lavoro sul territorio. È il settore privato, le pmi soprattutto, ad assorbirli. Già a 2-3 anni dalla laurea, non a 5 come registrato da Almalaurea, sappiamo che quasi la totalità dei nostri laureati lavora. La maggior parte di loro ha un impiego da ingegnere, con stipendi intorno ai 1400-1500 euro. Ci sono momenti in cui registriamo una domanda superiore all'offerta e questo non può essere che positivo». I conti sono fatti sui laureati magistrali. D'altra parte, secondo l'indagine Almalaurea, l'82% degli studenti sceglie di continuare oltre il diploma triennale, con il biennio specialistico. Ma tra quelli che si fermano al titolo di ingegnere junior non mancano comunque le possibilità di assunzione, soprattutto nel privato. «Da noi sono soprattutto ingegneri informatici e delle telecomunicazioni. Sono richiestissimi. Trovano lavoro nelle imprese presenti in regione», spiega Capra. Entrambi gli atenei top per Ingegneria, Politecnico di Torino e università di Modena e Reggio Emilia, hanno fatto dell'internazionalizzazione e della collaborazione sul campo con le imprese le loro carte vincenti. Al Polito, su 30mila studenti, «il 18% di loro è straniero e quasi tutti quelli iscritti al biennio magistrale fanno un'esperienza formativa all'estero. Sono più di cento, inoltre, gli accordi con università straniere, quasi tutte quelle europee e le più importanti negli Stati Uniti», spiega il rettore Gilli, per consentire agli studenti di raggiungere il doppio titolo. Una strategia condivisa dall'università di Modena (2900 studenti di ingegneria e 630 nuove matricole nell'ultimo anno, in aumento del 12% negli ultimi cinque anni), che in più ha in piedi accordi internazionali per accogliere da Cina, Brasile e Vietnam studenti che possano formarsi a Modena e Reggio Emilia. «Favoriamo così la mobilità di studenti e docenti, oltre a sviluppare la ricerca e le opportunità per le imprese stesse», dice alla Repubblica degli Stagisti il direttore Alessandro Capra. L'altro punto di forza è, infatti, il lavoro con le aziende. Torino ad esempio ha un centro di ricerca interno al campus, con "ospiti" del calibro di General Motors, dove nascono laboratori e corsi congiunti «che consentono agli studenti di fare esperienze aziendali serie prima dell'ingresso nel mercato del lavoro» rimarca Gilli. In Emilia il ritmo lo detta il rombo dei motori. Il dipartimento di ingegneria è intitolato a Enzo Ferrari - e non poteva che essere così: «Fiat Chrysler sta riportando qui la produzione di Alfa Romeo e Maserati. Con quest'ultima e con Ferrari, oltre che con Lamborghini, abbiamo diversi accordi quadro per ricerche sull'aerodinamica e sul motore, ma anche sullo stato di benessere del guidatore o sulle caratteristiche dei materiali, soprattutto nella componentistica e negli impianti». A vestire il ruolo di "Cenerentola" delle facoltà di Ingegneria, invece, le specializzazioni in ingegneria civile e ambientale, ancora vittime della recessione di questi anni e dei suoi effetti sul settore delle costruzioni: i dati sul 2014 non sono ancora elaborati nel dettaglio, ma già nello studio 2013 il Centro studi del Consiglio nazionale dell'Ordine stimava una perdita del 60% delle assunzioni per questo percorso di studi, come spiegava un precedente approfondimento della Repubblica degli Stagisti. Il dato complessivo del Centro studi registra 27.300 ingegneri disoccupati nel 2014, cifra record negli ultimi 15 anni e raddoppiata rispetto al 2008, anno di inizio della crisi. Sarà «difficile recuperare in breve tempo quanto si è perduto durante la lunghissima recessione economica, soprattutto in quei settori dell'ingegneria la cui produzione non è destinata all'esportazione» ammette Luigi Ronsivalle, presidente del Centro Studi CNI, riferendosi in particolare al settore delle costruzioni «la cui ripresa è legata, più che a fattori contingenti, a interventi strutturali che per ora stentano a vedere la luce». Anche qui, però, bisogna fare qualche distinguo: «Se la cavano ancora gli ingegneri specializzati in impiantistica. A soffrire di più sono gli edili e gli strutturisti», dice Giulio Lavagnoli, delegato della sezione di Verona del Network Giovani Ingegneri, la rete che in seno al Consiglio nazionale collega le commissioni "Giovani ingegneri" dei vari Ordini provinciali e che funge da laboratorio di proposte per la categoria. «Ma il problema più grande che registriamo è quello delle false partite Iva: un fenomeno sempre più dilagante», avverte Lavagnoli. Sulla carta sono giovani ingegneri, liberi professionisti che collaborano con studi di progettazione. «Nei fatti, svolgono un lavoro da dipendenti, con retribuzioni spesso da 1200 euro lordi, lontane dalla media di categoria, e regole contrattuali poco chiare. Per questo, ora come ora, questa scelta rende molto meno che non avere un posto da dipendente». Anche per questo il Network Giovani Ingegneri sta spingendo la proposta per la creazione di un "disciplinare d'incarico", ovvero di un quadro di regole per mettere nero su bianco le clausole lavorative tra professionisti. «Nonostante i problemi della categoria, però, condividiamo il quadro sulle chance di occupazione riservate agli ingegneri» aggiunge Lavagnoli. Insomma, la "spendibilità" del titolo resta alta. E del resto l'impegno richiesto alle matricole lo è altrettanto, se non di più. Servono basi solide in matematica, fisica e nelle materie scientifiche in generale: «Abbiamo un accesso programmato fissato a 5mila studenti all'anno e la selezione, al Politecnico, è fortissima: meno della metà passa al secondo anno», spiega Gilli. «Anche questo spiega, sul lungo periodo, perché i dati sull'occupazione degli ingegneri siano così buoni». Un consiglio: «Studiare le lingue e studiarle bene», conclude Capra. Per poter guardare anche oltre confine: gli ingegneri italiani all'estero sono «tra i più richiesti», rileva il Centro studi, secondo cui al momento il 7% dei laureati in ingegneria lavora fuori dall'Italia. «Le nuove frontiere sono i Paesi dell'Oceania, Australia e Nuova Zelanda in testa», osserva Capra. «La geografia lavorativa è cambiata e bisogna essere disposti a viaggiare». Maura Bertanzon @maura07

Università , tirocini e concorsi: l'insegnamento ai tempi della "buona scuola"

Poco pagati, abituati a classi numerose e scuole fatiscenti. Per gli insegnanti italiani, che oggi scioperano contro il disegno di legge "la buona Scuola", si prospettano tempi e condizioni sempre più incerti. Eppure, nonostante, tutto il 2014 si è distinto per il boom di iscrizioni alla III fascia - da cui si formano le graduatorie d’istituto per i supplenti a tempo determinato - e all’ultima selezione per il Tirocinio Formativo Attivo, che abilita all’insegnamento, si sono iscritte quasi 137mila persone. Ma quali soluzioni prospetta l'ultimo contestato disegno di legge in tema di precarietà? E c'è ancora spazio per chi sogna di fare questa professione?Alla Repubblica degli Stagisti risponde fiducioso Davide Faraone, sottosegretario all'Istruzione, tra i promotori del nuovo pacchetto di riforme: «Nelle graduatorie ci sono 550mila persone, il risultato della cattiva politica del passato. Qualsiasi scelta avessimo fatto, ne avremmo avuti 400mila contro. Lo sapevamo, ma noi abbiamo deciso di chiudere con il precariato e con la didattica delle supplenze brevi, degli insegnanti meteore. I posti che nel 2015 mancheranno alle scuole andranno ancora ai docenti delle graduatorie di istituto e poi verranno messi a concorso, che sarà per soli abilitati e consentirà l'assunzione di un docente su tre. In Parlamento il Pd sta introducendo misure che valorizzino tramite concorso i giovani insegnanti, per esempio gli idonei del 2012 e  gli abilitati Tfa e Pas, di cui  finora nessuno si era occupato».Meno entusiasta è il segretario della Flc Cgil Maurizio Lembo, che spiega perchè oggi sarà in piazza: «Si sono create molte situazioni lavorative diverse nel mondo dell'istruzione, che in comune hanno la precarietà. A parte  i singoli provvedimenti contenuti nella riforma, la figura del preside manager e l'albo provinciale per dirne alcuni, contestiamo anche la scelta di accorpare il discorso delle assunzioni con quello dei contenuti. Il ministero è conscio del malessere vissuto dai lavoratori del mondo della conoscenza tanto che, in coincidenza dello sciopero, ha rimandato lo svolgimento della prima prova Invalsi. Ma non è da considerare una vittoria».Indipendentemente dal disegno di legge "La buona scuola", i futuri docenti dovranno avere le idee chiare già dall'università. La normativa in vigore, che il nuovo pacchetto di riforme messo in cantiere dal governo confermerà, divide il percorso dell’insegnamento fra scuola primaria e scuola secondaria. Per insegnare ai bambini delle ex scuole materne ed elementari  è necessario avere una laurea in Scienze della formazione, oggi a numero chiuso e con test d’ ingresso, che prevede già dal secondo anno tirocini nelle classi, a contatto con i bambini. Per insegnare nella scuola secondaria, ex scuole medie e superiori, è necessaria la laurea magistrale, diversa a seconda della materia.«Per esempio per insegnare Lettere sono necessari 80 crediti in materie letterarie e 12 crediti in linguistica. Se ci si vuole abilitare all’insegnamento della storia sono necessari 80 cfu in discipline affini e un minimo di crediti in geografia e in materie filosofiche. E per laurearsi non è necessario sostenere questi esami», spiegano dalla segreteria del dipartimento di Lettere di Perugia. Il preside del dipartimento, Giorgio Bonamente, rivolge un appello ai potenziali giovani docenti: «Consigliamo agli studenti di qualsiasi facoltà di predisporre prima il loro piano per l’insegnamento, perché è sempre più frequente che una volta laureati tornino per integrare i crediti mancanti». Sostenere anche un solo esame dopo la laurea costa almeno 100 euro, nell’ateneo perugino addirittura 320.Una volta laureati, è obbligatorio abilitarsi all’insegnamento attraverso il Tirocinio formativo attivo. Si legge sul sito del Miur: «Per ottenere l’abilitazione all’insegnamento il decreto prevede l’attivazione presso le università di uno specifico corso universitario, il Tfa - Tirocinio Formativo Attivo (1500 ore, 60 CFU). I corsi sono a numero chiuso e ogni anno vengono stabiliti a livello regionale i posti disponibili per ciascun tipo di insegnamento». Il primo Tirocinio formativo attivo si è svolto nel 2012-2013 e ha abilitato 10500 persone, che hanno pagato tra i 2500 e i 3mila euro ciascuno, a seconda dell’ateneo. Finora l’unico vantaggio ottenuto dai vincitori del primo bando Tfa è quello di avere diritto a partecipare (insieme agli abilitati Ssiss degli anni dal 2002 al 2009 che non saranno assunti) al prossimo concorso, che dovrebbe tenersi nel 2016.Potranno prendere parte al concorso anche i 18mila che in questi mesi stanno svolgendo il secondo ciclo di Tirocinio attivo. Le selezioni sono iniziate a luglio 2014 e le prove preselettive (60 domande a risposta multipla su logica, cultura generale e settore specifico d’insegnamento) hanno escluso il 60 per cento degli iscritti. A sorpresa, hanno superato lo scritto e l’orale meno candidati dei 22.450 posti in palio: dunque, dopo i risultati finali, il Miur ha autorizzato anche gli idonei dello scorso bando a iscriversi insieme agli oltre 17mila vincitori di quest’anno. «Quest'anno è cambiata la procedura delle prove di accesso e poi la riapertura delle immatricolazioni, con decreto ministeriale, a pochi giorni dall'inizio dei corsi, ha creato non poche difficoltà nell’organizzazione, come se non bastassero quelle che già c’erano» scuote la testa Fulvio Romagnoli dell'ufficio Offerta didattica dell'università di Macerata: «Tra ricorsi e slittamento delle selezioni, siamo in ritardo di mesi».Per esempio, a vincere il II bando Tfa per l’abilitazione in spagnolo a Firenze sono stati in 12. Ma, tra idonei degli anni passati e vincitori, frequentano il corso in 29. A raccontare con disappunto della situazione a Napoli alla Repubblica degli Stagisti è Giuseppe Palmadessa, 28 anni, laureato in Storia e Filosofia col massimo dei voti, senza esperienza di docenza: «Per la classe di concorso di storia e filosofia c’erano 58 posti e hanno superato le prove in 42. Poi si sono aggiunti anche un idoneo del Tfa precedente e una vincitrice di Ssis che si sta abilitando per la seconda volta. Abbiamo iniziato con un ritardo clamoroso, più o meno a marzo. Ma per rispettare il calendario, la mattina facciamo esperienza pratica nelle aule scolastiche, mentre il pomeriggio lo dedichiamo alle lezioni frontali incentrate sulla didattica delle materie: dovrebbero avere una loro specificità, ma in molti casi sono difficili da distinguere da quelle universitarie, visto che sono più o meno gli stessi professori a tenerle.Sono molto più utili le poche ore passate coi docenti di scuola secondaria. Nel frattempo cerchiamo di studiare per i tre esami previsti e il lavoro finale. Per quello che paghiamo, l'organizzazione è disastrosa, ma allungare il percorso come ha suggerito l'Anfis ci potrebbe pregiudicare l'unico vantaggio concreto, cioè il prossimo concorso».«Oggi scenderò in piazza a Palermo e sul nostro striscione ci sarà scritto Tfa». A dirlo è Alessandra Mangano, 38 anni, laureata in Lettere. Nonostante un master, un dottorato di ricerca, diverse pubblicazioni e un'esperienza da supplente si è decisa a iscriversi al II Tfa, che definisce «l'ultimo treno su cui salire, anche se non so dove  mi porterà». Poi racconta la sua storia: «Accantonata la carriera universitaria,nel 2006 mi sono inserita nelle graduatorie di terza fascia. Nel maggio 2012 sono stata convocata per una supplenza di un mese presso la scuola Media Statale G. Marconi di Palermo, per un totale di 18 ore settimanali. Molto in breve, dopo un ricorso, sto ancora aspettando tutti i pagamenti per quel mese di lavoro. Sono stata chiamata altre volte per periodi brevi e nel frattempo lavoro anche come docente in un centro di ricerca privata. Ho deciso di non usufruire del Pas, il percorso abilitante speciale, che permette a chi ha conseguito un dottorato di ricerca di accedere al Tfa senza fare prove preselettive, perchè dà meno punteggio e perchè è ancora una situazione semillegale. A Palermo abbiamo iniziato il tirocinio il 30 novembre e poco prima di Pasqua le lezioni frontali: il risultato è un percorso davvero poco formativo, coi tempi strettissimi e ripetizioni inutili. In più, per pagarmi il corso, continuo anche a lavorare nel privato.Il paradosso è che per fare il Tfa molti di noi hanno dovuto rinunciare alle supplenze. Oppure, se la singola scuola lo permette, capita che per qualche ora si sia tirocinanti e per altre ore supplenti».Nonostante le difficoltà organizzative, anche il secondo Tfa si concluderà a luglio. «Occorre rivedere le procedure di reclutamento: il Tfa, e prima le Ssis, hanno creato aspettative nei giovani che hanno speso migliaia di euro» commenta ancora il sindacalista Lembo: «Purtroppo, se le cifre rimarranno confermate, le assunzioni  previste per questo autunno e il prossimo concorso non saranno nemmeno in grado di stabilizzare tutti i precari che già insegnano». Il sottosegretario Faraone risponde con alcune cifre: «In due anni assumeremo 160mila precari, i docenti di cui la scuola ha bisogno. Oltre 100mila insegnanti precari entreranno in ruolo con il ddl “La Buona Scuola" e gli altri tramite concorso. Aboliremo le supplenze brevi e, grazie all'8% di insegnanti in più in ogni istituto, garantiremo una scuola più aperta e a misura di studente. In quale altro settore della pubblica amministrazione oggi ci sono tutte queste assunzioni?»L'unica certezza però, per ora, è che il ddl "La Buona scuola" è fermo in Parlamento e finché non sarà discusso continuerà una sterile battaglia a suon di proclami, poco utile a quei migliaia di insegnanti che, sfilando in piazza, rimanendo in classe o svolgendo il tirocinio, aspettano di capire se nel mondo della scuola ci sarà spazio anche per  loro.Silvia Colangeli

Erasmus Plus, primo anno con promozione a pieni voti

Sarà la difficile situazione occupazionale del nostro Paese, sarà la voglia di fare un’esperienza lontano da casa. Fatto sta che andare all’estero piace e nei prossimi anni potrebbe essere un’opportunità sempre più accessibile. Il programma Erasmus Plus, che raccoglie sotto un unico cappello tutti i progetti di mobilità internazionale relativi a istruzione, formazione, gioventù e sport, prima separati, ha da poco spento la prima candelina. E il bilancio di questo primo anno porta il segno positivo.In occasione della Settimana euroea della gioventù, la Repubblica degli Stagisti ha analizzato i dati relativi ai singoli ambiti legati a Erasmus Plus. Sono complessivamente cinque i settori che rientrano nel programma: scuola, università, formazione degli adulti, istruzione e formazione professionale e giovani.Per quanto riguarda la scuola, sono stati 1600 i docenti partiti all’inizio dell’anno scolastico o in partenza in questi mesi per corsi di formazione o periodi di codocenza in scuole europee, una cifra in aumento del 60% rispetto al 2013. Le opportunità legate al settore scuola comprendono fondamentalmente progetti di mobilità per l’apprendimento, finalizzati alla crescita professionale, e partenariati strategici tra istituzioni europee per lo sviluppo di pratiche innovative e la condivisione di attività educative.Lato università, il programma di riferimento è l’Erasmus. Nell’ambito del famoso progetto di mobilità internazionale, gli studenti italiani sono stati una presenza importante: il Belpaese è ai primi quattro posti per numero di studenti in partenza per mete europee. Nell’anno accademico 2012-2013 gli italiani sono stati infatti oltre 25mila su un totale relativo all’Europa di oltre 268mila. Mentre sono 19mila gli studenti stranieri ospitati presso atenei italiani nel corso dello stesso anno, collocando l’Italia al quinto posto per ospitalità dopo Spagna, Germania, Francia e Regno Unito. Le cifre sono sostanzialmente invariate rispetto all'anno scorso, ma nel prossimo futuro le possibilità per gli studenti italiani che desiderano partire per l’Erasmus sembrano essere destinate ad aumentare. Di recente infatti il ministero dell’Istruzione ha annunciato l’incremento dei fondi destinati al progetto: si passerà dagli 11 milioni di euro stanziati per il triennio 2011-2013 a un finanziamento di 51 milioni di euro per i tre anni successivi. Ciò consentirà alle università di aumentare le borse di studio disponibili per il famoso programma di mobilità internazionale per gli studenti, con una previsione di un +10% di studenti in partenza all’anno. La distribuzione delle borse nei vari atenei sarà legata a criteri quali l’incentivazione alla mobilità, la capacità di gestione dei progetti legati ai singoli studenti, anche dopo la conclusione dell’esperienza formativa. L’annuncio dell’incremento dei fondi è stato accolto con favore anche da Indire, uno degli istituti nazionali di riferimento per i programmi europei, che la considera «una scelta in grado avvicinare l'Italia agli standard degli altri Paesi partecipanti» commenta Elena Maddalena dell’ufficio stampa «e di dare ai giovani che desiderano partire in Erasmus per un periodo di studio o tirocinio un sostegno concreto per superare gli ostacoli di tipo economico che troppo spesso non consentono le mobilità».Rientrano invece nell’educazione degli adulti tutte quelle attività legate alla formazione permanente degli adulti anche al di fuori dei circuiti professionali, per finalità essenzialmente di inclusione sociale. Anche questo ambito si chiude con un bilancio positivo per il 2014: sono 330 le persone impegnate in mobilità nell’educazione degli adulti, il doppio rispetto all’anno precedente. Rispetto all’istruzione e formazione professionale (VET – Vocational Educational and Training), ad esempio, i tirocini formativi per i giovani apprendisti, studenti di scuole professionali o neodiplomati (mobilità VET Learners), e in generale tutte le opportunità legate all’istruzione e formazione anche a livelli di carriera più avanzati. Il budget stanziato nel 2014 per questi progetti è stato di oltre 33 milioni di euro - con un incremento rispetto al 2013 in cui questo valore si era attestato sui 31 milioni - e ha permesso di coinvolgere 8mila soggetti e 200 organismi. «Guardando lo storico dal 2007 a oggi, si osserva un maggiore stanziamento di risorse finanziarie rispetto ai primi anni di programmazione» spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesca Trani dell’Isfol, agenzia responsabile di questi progetti. Rispetto al 2007, infatti, il contributo fissato per questi progetti è salito di oltre 10 milioni di euro (nel 2007 era di poco meno di 22 milioni di euro).Il settore gioventù infine guarda a tutti i giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni, a prescindere dal livello di scolarizzazione. Un esempio è il cosiddetto SVE (Servizio Volontario Europeo).In questo caso sono stati circa 500 i progetti approvati nel 2014, per un budget di 12 milioni di euro, sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente. Quanto infine allo sport, non è possibile avere un metro di paragone con il 2013 in quanto si tratta di una novità assoluta, non presente in precedenza in nessun altro programma europeo.A sostegno del successo dei programmi di mobilità all’estero anche recenti ricerche che dimostrano maggiori chance di trovare occupazione per chi ha studiato o fatto un tirocinio fuori dal nostro Paese. Uno studio della Commissione Europea ha infatti mostrato come il tasso di disoccupazione di chi ha svolto un’esperienza all’estero sia più basso rispetto a chi non si è mai spostato dal proprio Paese. E i nuovi fondi stanziati sembrano voler essere un ulteriore segnale del rafforzamento della tendenza a fare le valigie alla scoperta dei contesti formativi e lavorativi europei.Ma quella dell’incremento delle risorse finanziarie non è l’unica novità per i prossimi anni. Da Indire annunciano «l'apertura del programma nel settore università verso paesi terzi e il sistema della garanzia dei prestiti per studenti che intendono realizzare un intero ciclo di studi di secondo livello all'estero». In quest’ultimo caso si parla di cifre che vanno dai 12mila euro per master di un anno a 18mila per programmi di due anni in uno dei 33 paesi aderenti al programma Erasmus Plus. Insomma, i giovani europei potranno contare su aiuti sempre più incisivi per potersi spostare da un Paese all'altro per arricchire la propria formazione e il bagaglio culturale.Chiara Del Priore

Settimana europea della gioventù: le idee dei giovani arrivano all'Europa

La settima edizione della Settimana europea della gioventù, iniziata il 27 aprile, sta per entrare nel vivo con una serie di importanti manifestazioni che si terranno sia a livello centrale, a Bruxelles, sia a livello locale, in diverse città di tutta l’Unione europea e non solo, perché tra i partecipanti ci sono anche i paesi non Ue che rientrano nel programma Erasmus+. Conferenze e concerti, dibattiti e laboratori, corsi e incontri sulle opportunità di formazione e lavoro: fino al 10 maggio è come se l’Europa celebrasse i giovani, in 33 nazioni. L’Italia, con più di cento iniziative in quasi tutte le regioni (escluse solo Valle d’Aosta e Molise), partecipa da protagonista all’avvenimento.Ma che cos’è esattamente la Settimana europea della gioventù (che si sviluppa, in realtà, su due settimane), e quali sono gli obiettivi? Lo spiega Giacomo D’Arrigo, direttore dell’Agenzia nazionale giovani: «È un evento che si tiene ogni due anni, su iniziativa della Commissione europea, con lo scopo di focalizzare l’attenzione sul protagonismo giovanile. Ogni volta la Settimana è caratterizzata da un tema particolare» sottolinea D’Arrigo «e quest’anno ha come focus la partecipazione dei ragazzi alla vita pubblica, dando voce alle loro proposte. Inoltre l’obiettivo è comprendere come i giovani possano valorizzare le proprie potenzialità per trovare un lavoro». Tutte le iniziative in programma seguono infatti i temi "Liberare il potenziale dei giovani" e "La partecipazione dei giovani alla vita lavorativa e alla società".A Bruxelles la giornata di confronto più importante si terrà il 6 maggio, quando una trentina di ragazzi, provenienti da tutti i paesi che partecipano all’Erasmus+, incontrerà rappresentanti politici e di organizzazioni giovanili, tra cui Tibor Navracsics, Commissario europeo per l'istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù, Silvia Costa, presidente della Commissione Cultura e Istruzione, e Johanna Nyman, presidente dell'European Youth Forum. Durante la conferenza, che sarà possibile seguire in streaming, i giovani che nei rispettivi paesi hanno partecipato ai laboratori Ideas Lab presenteranno le proprie proposte, suddivise in quattro tematiche: "Occupazione:  modi originali di incrementare le opportunità di lavoro dei giovani", "Grandi idee imprenditoriali per migliorare la vita dei giovani", "Come avvicinare i giovani alla vita pubblica” e "Coinvolgere i giovani sui temi dello sviluppo durante l'Anno europeo per lo Sviluppo 2015". L’Italia parteciperà al confronto politico con due diverse proposte: "JOY: Job Opportunities 4 #Youth", e "3L - Living Lab to Learn". I progetti nati dagli Ideas Lab, che gareggiano tra loro anche con una votazione online aperta, «rappresentano spunti che i giovani offrono ai politici europei», spiega alla Repubblica degli Stagisti Paola Trifoni, coordinatrice della Settimana europea della gioventù per l'Agenzia nazionale giovani: «I parlamentari non hanno l’obbligo di prendere in considerazione le proposte, ma è un dato molto importante che i giovani abbiano la possibilità di presentare le proprie idee sulla partecipazione alla vita pubblica e sulla creazione di opportunità lavorative, spiegando con quali strumenti farlo, perché in questo modo i parlamentari possono sapere cosa pensano i giovani rispetto a queste tematiche e tenerne conto durante l’attività legislativa». Si tratta, specifica la Trifoni, di una novità: «Questa possibilità nelle scorse edizioni non c’era: gli Ideas Lab sono un’innovazione e rappresentano una modalità di partecipazione diretta dei giovani».Il 6 maggio si terranno inoltre gli Youth Awards 2015: il commissario Navracsics premierà tre progetti realizzati nell’ambito del programma Gioventù in Azione (oggi sostituito dall’Erasmus +) tra gli oltre 150 che hanno partecipato alle selezioni. A Bruxelles i finalisti saranno 35, uno per ogni Agenzia nazionale. Il progetto italiano si chiama "C.R.E.ativE"  ed è un programma di dialogo strutturato organizzato dalla Provincia di Piacenza due anni fa, al quale hanno partecipato quaranta giovani provenienti da Italia, Spagna Polonia, Svezia, Regno Unito e Turchia, con l’obiettivo di  promuovere la creatività e lo spirito imprenditoriale giovanile in Europa.Con questa premiazione, l’Unione europea intende valorizzare non solo il lavoro delle organizzazioni impegnate nel continente per lo sviluppo dei giovani, ma anche il proprio sforzo istituzionale ed economico. Per i sette anni del programma Erasmus+ (2014-2020) gli euro stanziati in bilancio sono infatti pari a un miliardo e mezzo di euro, mentre nei venticinque anni precedenti il 2013, con il coinvolgimento di oltre due milioni e mezzo di ragazzi, la cifra complessiva era più alta di solo mezzo miliardo.In Italia un appuntamento importante, aperto al pubblico, sarà la giornata di informazione e promozione del Servizio volontario europeo che l'Agenzia nazionale per i giovani ha organizzato a Roma per il 7 maggio, con la partecipazione di varie associazioni che lavorano nell'ambito e che presenteranno i propri progetti, e la testimonianza diretta di volontari europei. Obiettivo della giornata, «incentivare i giovani a prendere parte a questa straordinaria esperienza di mobilità, che non è semplicemente un viaggio all’estero, ma è un percorso formativo, un’immersione interculturale alla scoperta di se stessi e delle competenze che si possono apprendere attraverso il volontariato».  Daniele Ferro@danieleferro  

Riscatto della laurea verso l'estinzione: crollo delle pratiche, troppo alti i costi

Con la prospettiva di pensioni sempre più basse e lontane nel tempo, riscattare il periodo degli studi può diventare un'opzione interessante. Il vantaggio è chiaro: se si versano i contributi corrispondenti al periodo universitario - o di altri percorsi post scuola secondaria, come per esempio un master, o un periodo di servizio civile - il montante cioè il gruzzolo di propria competenza presso la propria cassa previdenziale aumenta, così come gli anni di copertura pensionistica. E infatti la possibilità ha fatto gola a tanti, negli anni. La Repubblica degli Stagisti ha richiesto questi preziosi dati all'Inps, e finalmente può presentarli ai suoi lettori: secondo le tabelle, le domande si sono attestate annualmente intorno alle 12mila tra il 2004 e il 2007 (nel solo 2005, 16mila richieste). Un numero poi raddoppiato nel 2008 con 25mila domande, grazie alla riforma del sistema che da quell'anno aveva introdotto il pagamento rateale e l'apertura del riscatto anche agli inoccupati. Il picco è stato raggiunto nel 2009 con 28mila domande, mentre negli anni a seguire è iniziato un calo irreversibile, complice anche con molta probabilità l'avvio della crisi economica internazionale. Così nel 2011 le pratiche avviate sono scese a 21mila, e poi il numero è crollato a 8mila nel 2012.La ragione del tracollo è che a cavallo di queste date si è consumata in Italia una rivoluzione del sistema pensionistico, attraverso la riforma Fornero, che ha tra le altre cose innalzato l'età pensionabile. Un cambiamento che potrebbe aver convinto molti a tirarsi indietro, vedendo l'età della cessazione dell'attività da lavoro come un traguardo comunque lontanissimo. Tant'è che nel 2013 le pratiche accolte sono state solo 5mila, e nel 2014 appena 2.700. Una riduzione drastica rispetto a dieci anni fa, -78% in termini statistici, che però non sorprende. Oltre al sistema pensionistico, a variare sono state anche le disponibilità economiche degli italiani, e riscattare una laurea può significare farsi carico di una spesa piuttosto elevata. Sul sito dell'Inps si fanno alcune simulazioni. Per una 27enne con un anno di anzianità contributiva e una retribuzione delle ultime 52 settimane di 21580 euro, l'onere ammonta a 28.500 euro. Se il reddito superasse i 22mila euro, il costo aumenterebbe fino a 29mila euro. Diverso il caso dei soggetti la cui anzianità contributiva parta da prima del primo gennaio del 1996. Per loro «l'onere di riscatto è determinato con le norme che disciplinano la liquidazione della pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo» si spiega sulla sezione del sito che l'Inps dedica al tema, «tenuto conto della collocazione temporale dei periodi oggetto di riscatto, anche ai fini del computo delle anzianità previste dall'articolo 1, commi 12 e 13 della legge 335 del 1995».Per i più anziani il meccanismo è un po' diverso: «la determinazione dell’onere di riscatto dipende da molteplici fattori: età, periodo, anzianità assicurativa totale, retribuzione percepite negli ultimi anni» si legge ancora. Dunque un 40enne con 11 anni di anzianità contributiva e una retribuzione media di 35mila euro dovrà versare all'Inps una somma di circa 65mila euro per riscattare quattro anni di laurea anteriori al 1996: «il calcolo sarà misto, cioè retributivo per il solo periodo di riscatto di laurea» chiarisce il sito. Cifre che non tutti possono permettersi o che magari non molti ritengono convenienti versare, vista l'incertezza sul proprio futuro pensionistico, specie per i più giovani (e che tuttavia possono cambiare da cassa a cassa: su questo la Repubblica degli Stagisti pubblicherà prossimamente un approfondimento). Nonostante, dal 2008, sia consentito estinguere il debito pagando in 120 rate mensili senza l'applicazione di interessi per la rateizzazione: per un 27enne con un reddito di 21mila euro, la rata mensile sarebbe ad esempio di 230 euro. E per chi un lavoro non ce l'ha? Il riscatto della laurea diventa in questo caso, e comprensibilmente, ancor meno attraente. Questa «facoltà è esercitabile da coloro che, al momento della domanda, non risultino essere stati mai iscritti ad alcuna forma obbligatoria di previdenza, inclusa la Gestione Separata, e che non abbiano iniziato l'attività lavorativa» fa sapere l'Inps. Per loro il pagamento è minimo: «L'onere dei periodi da riscatto è costituito dal versamento di un contributo, per ogni anno da riscattare, pari al livello minimo imponibile annuo degli artigiani e commercianti moltiplicato per l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche dell'assicurazione generale obbligatoria (vigente nell'anno di presentazione della domanda)». Ad esempio chi volesse riscattare la laurea come inoccupato presentando domanda nel 2012 dovrebbe pagare, per ogni anno di corso, un importo di quasi 5mila euro. Facile quindi che ci si scoraggi. Non a molto sono valse in questo senso le aperture dei periodi riscattabili a altre esperienze come il servizio civile (finora le domande pervenute sono pressoché nulle: meno di dieci pratiche accolte tra il 2012 e il 2014). Così come non ha stimolato le richieste neppure l'allargamento del novero dei corsi riscattabili: praticamente tutti percorsi di studio post laurea, inclusi master e dottorati - restano fuori solo i periodo fuori corso, quelli coperti da contribuzione figurativa e inspiegabilmente anche percorsi come lo Sve, il servizio volontario europeo. Il riscatto della laurea, insomma, si sta praticamente estinguendo, e la ragione sembra essere una sola e inequivocabile: costa troppo per le tasche degli italiani.Ilaria Mariotti

Troppa burocrazia e pochi aiuti dalle banche: per le startup è un cammino in salita

Sono il fenomeno degli ultimi tempi: hanno permesso a tanti giovani di crearsi un’attività in periodo di crisi e a molti altri di riposizionarsi sul mercato grazie alle nuove competenze acquisite. Eppure le start up non sono in piena salute in Italia. Secondo una ricerca condotta dalla Claai (Confederazione delle libere associazioni artigiane italiane) su dati forniti dalla Camera di commercio di Monza e Brianza, un’impresa su tre di quelle che chiude ha meno di quattro anni e una delle regioni più segnate dal fenomeno è la Lombardia. Significa, quindi, che non c’è spazio per le start up nel nostro paese? La Repubblica degli Stagisti ha provato a capirlo parlando con Marco Accornero, 54 anni, segretario generale Claai e dell’unione artigiani della provincia di Milano. «Certamente la partenza di una start up è particolarmente un percorso a ostacoli in Italia: per le difficoltà burocratiche, che frenano sul nascere le imprese, e per la difficoltà di accesso al credito. Le banche hanno perso la loro vocazione di scommettere su progetti imprenditoriali» spiega Accornero «e quindi le start up, all’inizio, non avendo accesso al credito devono farcela con le loro forze, con i risparmi familiari». C’è poi un altro problema, non di poco conto, che mette in difficoltà le start up ed è, secondo il segretario generale, il fenomeno dell’autoimprenditorialità, quando cioè a causa del mercato saturo si decide di inventarsi un’attività magari sulla base di competenze precedentemente acquisite. Fare tutto questo, però, senza aver prima costruito un adeguato progetto imprenditoriale, causa la vita breve delle imprese.«Per questo come associazione di categoria, come Claai e unione artigiani, abbiamo promosso un servizio di tutoraggio degli aspiranti imprenditori, per aiutarli a costruire i loro progetti, il loro business plan in maniera professionale, in modo da ridurre i rischi» dice alla Repubblica degli Stagisti il segretario generale Claai, che aggiunge «perché chiudere una start up è un fallimento umano ed economico oltre a una perdita di tempo e risorse. Per questo motivo il consiglio è di non gettarsi subito nell’avvio della nuova attività, ma di costruirla avendo chiare tutte le misure da adottare».Anche perché a mettere il bastone tra le ruote ci pensano già le tante “carte” richieste alle nuove imprese. «Appena apre, l’azienda già comincia a generare costi. Ad esempio ci sono licenze da pagare di vario tipo, sia commerciale sia produttivo. E poi c’è il negozio o l’ufficio da pagare, le spese di consulenza. Se la burocrazia non è quindi veloce nel rilasciare le licenze e autorizzazioni, allora l’attività comincerà a produrre costi senza ottenere ricavi. Quindi più è lenta la burocrazia, più la start up parte con un fardello di spese alle spalle che sono assimilabili a un debito».Motivo per cui Accornero, senza giri di parole è deciso nel dire che «una delle cause della morte delle start up è proprio la burocrazia». Che non coinvolge solo la nascita dell’azienda, ma finisce per compromettere anche i bandi per giovani imprenditori o start up che dovrebbero teoricamente aiutare lo sviluppo di queste attività.«A causa della crisi della finanza pubblica questi bandi sono sempre di meno. E poi soffrono di un eccesso di burocrazia che nasce, certo, sotto le buone intenzioni di non sprecare soldi pubblici, ma questo eccesso di zelo spesso produce il risultato opposto: chi ha una buona idea imprenditoriale non riesce a mettere insieme questi documenti complicatissimi. O è obbligato a rivolgersi a un professionista che curerà la documentazione con il rischio di pagarlo senza sapere se riceverà il contributo». A questo punto l’unica soluzione sarebbe quella di chiedere aiuto a una banca per poter far fronte ai pagamenti, ma in questo caso l’azienda «Viene vista malissimo» dice Accornero. «Le banche hanno perso lo spirito di valutare il progetto e rischiare insieme all’imprenditore. Certo la crisi finanziaria che abbiamo vissuto e le stringenti regole di Basilea 2 e Basilea 3 impongono di valutare i parametri, non è sufficiente la sola idea imprenditoriale per avere i finanziamenti. Serve anche sapere cosa metti sul piatto, se hai delle garanzie familiari, qualcuno che possa garantire per te, o se hai una casa di proprietà su cui mettere un’ipoteca».E qui arriva il confronto desolante con gli Stati Uniti: «Lì si ragiona in maniera diversa. Si dà per scontato che un po’ di start up falliranno, ma quella che avrà successo, senza necessariamente fare il caso di Apple o Google, poi ripagherà tutte le altre imprese che sono nel frattempo fallite. Hanno più voglia di scommettere sulle belle idee che possono avere successo. Da noi si fa solo un calcolo matematico: quante risorse ci metti tu, quante la tua famiglia, che garanzie porti».Negli ultimi anni qualche piccolo aiuto nei confronti delle start up è arrivato, basti pensare alla forma giuridica delle srl semplificate introdotta nel 2012, ma di strada secondo il segretario generale Claai ce n’è ancora molta da fare. «Occorrerebbe innanzitutto un’esenzione da più normative burocratiche possibile nei primi anni di vita. Ma uno snellimento effettivo, non di facciata come spesso è avvenuto. E poi occorre creare, come è stato fatto nei paesi anglosassoni, dei fondi di private equity, che investano nel facilitare la nascita delle start up e creare una normativa perché si possa investire anche in piccole realtà. Cosa che non avviene» spiega Accornero, «perché i fondi di private equity che noi conosciamo fanno investimenti sui milioni di euro. Mentre noi parliamo di micro attività che necessitano di micro investimenti: 50, 100, 200mila euro. Quindi serve uno strumento finanziario di queste dimensioni».Perché alla fine è proprio questo accesso al credito ad essere una delle difficoltà più grandi per le start up, come certifica anche una recente indagine Unioncamere che mostra come già all’avvio il 35% di queste imprese deve scontrarsi contro la mancanza di capitale necessario, percentuale simile anche per quante hanno difficoltà di ottenere credito dalle banche. «Un’impresa quando comincia ha spese di consulenza, di avvio, per l’ufficio, mentre i ricavi si cominciano a generare sei mesi, un anno dopo. Quindi all’inizio l’azienda genera solo costi» spiega Accornero «e serve un’attività finanziaria propria o data dalle banche per sostenerli».Ma poiché è difficile convincere gli istituti di credito ad aiutare le start up ecco che arriva la proposta del segretario Claai: «Si potrebbero stanziare dei fondi per fare in modo che lo Stato garantisca il 100% del finanziamento che la banca concede all’impresa con determinate caratteristiche: ad esempio un bussiness plan ben fatto o il patronage di qualche ente. La banca in questo modo non rischia quasi nulla se non le spese di istruttoria e della pratica e visto che rischia lo Stato, per lei sarebbe più semplice concedere il finanziamento. Certo sono soldi pubblici» osserva giustamente Accornero «ma se partiamo dalla logica di favorire i progetti ben fatti e le buone idee alla fine tutto questo torna alla collettività, anche in termini di tasse e contributi versati».Perché se a qualcuno può sembrare strano che nasca una società come Google anche da noi, il ragionamento che dovrebbe spingere le banche a investire di più nei progetti ben fatti è che basta un’impresa importante che si realizza e «che nel giro di qualche anno arriva a 100 dipendenti per ripagare dieci imprese a cui il finanziamento è andato male». Un ragionamento che si spera venga quanto prima abbracciato da chi di dovere, insieme a una rapidità d’azione, per nulla italiana, in modo da convincere chi fa start up nel nostro Paese a non rinunciarci, a non farla all’estero e soprattutto a portare a termine, con successo, i propri progetti.Marianna Lepore