Nelle ultime settimane si è parlato molto di reddito minimo garantito. Si tratta di un punto presente nei programmi di diverse forze politiche presenti nel Parlamento appena insediato ed è uno degli elementi programmatici fondamentali del M5S. Ma su cosa sia effettivamente c’è parecchia confusione. Prima di analizzare quale sia la proposta concreta dei singoli partiti su questo argomento, è bene fare un po’ di chiarezza e sgombrare il campo da possibili equivoci.
Il reddito minimo garantito (Rmg) è una misura presente in molti Stati europei, volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. È quindi un aiuto che lo Stato dà ai suoi cittadini affinché nessuno cada nella trappola della povertà e dell’esclusione sociale, ed è destinato principalmente a chi non ha redditi da lavoro o ha retribuzioni insufficienti. Si tratta di un programma universale e selettivo al tempo stesso, nel senso che è basato su regole uguali per tutti (non limitato ad alcune categorie di lavoratori), ma la concessione del sussidio è subordinato ad accertamenti sulla condizione economica di chi lo domanda e, generalmente, alla sua disponibilità a cercare un lavoro.
Quindi il Rmg non è – solo – un sussidio di disoccupazione: quest'ultimo ha natura previdenziale (è finanziato con i contributi dei lavoratori), va soltanto a chi ha perso il lavoro e ha maturato una certa anzianità contributiva, è limitato nel tempo. Il sussidio di disoccupazione esiste anche in Italia e con la riforma Fornero è stato diversificato in due diversi strumenti, Aspi e MiniAspi, entrambi destinati ai lavoratori dipendenti. Secondo una proiezione della Banca d’Italia, mentre oggi solo il 50% dei lavoratori è coperto dal sussidio di disoccupazione, con la riforma Fornero questa percentuale aumenterà del 16%. Resterà comunque fuori più di un terzo dei lavoratori italiani, i più deboli, visto che Aspi e MiniAspi non includono chi ha un contratto di lavoro atipico. Né la nuova indennità una tantum per i collaboratori coordinati continuativi potrà colmare questa lacuna, dato che i parametri sono talmente stringenti da interessare potenzialmente meno del 10% dei parasubordinati, peraltro con importi pro capite bassissimi - compresi tra 750 e 4.500 euro l'anno.
In molti Paesi europei il Rmg va proprio a coprire le fasce escluse dalle indennità di disoccupazione: precari, giovani alla ricerca del loro primo lavoro, persone che hanno cessato di ricevere il sussidio di disoccupazione, e anche chi, pur lavorando, non ha retribuzioni sufficienti a garantirgli una vita dignitosa. Un fenomeno che sembra tristemente in aumento in Italia, dove non esiste neppure il salario minimo, uno standard minimo di retribuzione oraria che deve essere inderogabilmente rispettato in tutti i rapporti di lavoro. In Francia per esempio è di 9,43 euro lordi all'ora, ovvero 1.430 euro mensili lordi per un impiego a tempo pieno. In Italia invece diversi livelli di salari minimi sono previsti, per ogni categoria di lavoratori, dalla contrattazione fra le parti sociali. Ma ancora una volta rimangono esclusi tutti coloro che “sfuggono” all’applicazione dei contratti nazionali (stagisti, parasubordinati o atipici ecc.).
Nel dibattito politico italiano è poi molto diffusa la confusione tra Rmg e reddito di cittadinanza. Nonostante i due termini siano spesso usati come sinonimi, non lo sono affatto. Mentre il Rmg serve a dare una capacità di sussistenza a chi non accede a forme di retribuzione sufficienti, il reddito di cittadinanza è un sussidio dato a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa e patrimoniale, finalizzato al godimento pieno e consapevole dei loro diritti.
Il reddito di cittadinanza (o di esistenza) è un sussidio universale e non condizionato: in altre parole se fosse introdotto in Italia lo riceverebbero tutti (dal disoccupato allo stagista fino a Lapo Elkann, come hanno scritto recentemente Tito Boeri e Roberto Perotti su La Voce) per un tempo indefinito e indipendentemente dalla loro ricchezza, da altri redditi e dalla loro volontà di cercare un lavoro.
Un vero e proprio reddito di cittadinanza incondizionato al momento esiste solo in Alaska. Il modello nasce nel 1982 grazie a un'idea del governatore Jay Hammond: alla ricerca di un modo per sfruttare la ricchezza del petrolio della Prudhoe Bay a vantaggio dei cittadini, Hammond decise di creare un fondo sui rendimenti, l'Alaska Permanent Fund (APF) legato a una condizione: che una parte della rendita fosse devoluta al pagamento di un dividendo annuale a tutti i cittadini, dalla nascita fino alla morte. Grazie all'APF ogni cittadino dell’Alaska ha ricevuto dal 1982 a oggi fino a 2.069 dollari l’anno - cumulabili con lo stipendio, senza alcuna condizione.
Se il reddito di cittadinanza, per ovvie ragioni di costi oltre che di opportunità politica, esiste solo in Alaska (un territorio sterminato popolato da soli 700mila abitanti), forme diversamente declinate di Rmg rappresentano invece uno schema comune a tutti i Paesi europei, eccetto Italia, Grecia e Ungheria.
Sono state proprio le istituzioni della Comunità europea a indicare in più occasioni agli Stati membri la necessità di introdurre programmi nazionali di lotta alla povertà e all’esclusione sociale che prevedessero strumenti universalistici di tutela a partire proprio dal Rmg. In particolare il 20 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha varato a vasta maggioranza una Risoluzione sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa, che afferma: «un adeguato sostegno al reddito è un elemento importante per le politiche di inclusione, dato che per coloro che sono esclusi dagli ammortizzatori sociali e dai sussidi di disoccupazione, il reddito minimo può essere l’unico modo per sfuggire alla povertà». Secondo questa risoluzione il Rmg è in primis un diritto sociale fondamentale, che ha come parametro assoluto la protezione della dignità dell'individuo e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica».
Ma chi può usufruirne nel resto d’Europa? Solitamente bisogna essere cittadino o almeno residente nel Paese da un certo lasso di tempo, bisogna avere una certa età (18 anni nella maggior parte dei casi, ma in Germania ne hanno diritto anche i minori), bisogna dimostrare di non avere risorse finanziarie o patrimoniali sopra una certa soglia e di essere alla ricerca attiva di un lavoro. Nella maggioranza dei Paesi, il Rmg è costituito in parte da un sussidio monetario, in parte da agevolazioni per la casa, i trasporti, gli asili nido, le cure mediche, i servizi culturali. In molti Paesi, è inteso anche come mezzo per consentire ai giovani di rendersi indipendenti dalla famiglia: per esempio in Danimarca un under 25 che non vive con i genitori riceve 719 euro mensili come “contributo per l’avviamento a una vita autonoma”. In Olanda il sussidio comprende anche misure specifiche per avviare i giovani al lavoro o a un percorso formativo, e integra i loro redditi qualora siano insufficienti o intermittenti. In quasi tutti i casi si tratta di un diritto soggettivo, rilasciato cioè a titolo individuale e non in base alle condizioni economiche del nucleo familiare, anche se può venire ricalcolato in base al numero di persone a carico. Per esempio in Germania un single inoccupato riceve 364 euro oltre alla copertura delle spese di alloggio e riscaldamento, mentre per un single con tre figli il sussidio monetario sale a 1.017 euro. Di norma la durata è illimitata, fino al miglioramento delle condizioni economiche del beneficiario, ma in molti Paesi il sussidio decade qualora si rifiutino proposte di lavoro giudicate congrue.
Il problema del reddito minimo è che rappresenta un costo ingente. Ma quanto, di preciso? Una relazione dettagliata del dicembre 2011 sui risultati e sui costi della Revenu de solidarité active (Rsa) francese consente di esaminare i costi sostenuti da un Paese considerato simile al nostro per popolazione, tasso di disoccupazione, struttura sociale e tradizioni giuridiche. Il Rsa è stato introdotto dal 2009 per sostituire il Revenu minimum d’insertion, una forma di reddito minimo che esisteva dal 1988, il sussidio per i genitori soli e i diversi meccanismi di incentivo alla ripresa dell’attività lavorativa. Il Rsa spetta a tutti i residenti in Francia da almeno cinque anni, il cui reddito sia inferiore a una certa soglia (per un single è il salario minimo mensile, per una coppia senza figli circa 1,4 volte tanto) e la cui età sia compresa tra i 25 anni (fatta eccezione per quegli under 25 che siano già genitori o che abbiano almeno due anni di lavoro alle spalle) e l’età pensionabile. Il sussidio è pari a 483 euro per un single senza altri redditi, a 724 per una coppia, a 868 euro per una coppia con un figlio ecc. Al crescere del reddito da lavoro, il sussidio diminuisce ma il reddito disponibile aumenta: se un single guadagna 400 euro, per esempio perché lavora part-time, gli viene riconosciuto un sussidio di 318 euro e il suo reddito disponibile sarà di 718 euro, se uno ne guadagna 800 riceverà 166 euro di Rsa, per un “totale” di 966 euro. Questo meccanismo è pensato perché il Rsa non si trasformi in un disincentivo al lavoro, un’accortezza che potrebbe essere importata anche in Italia per evitare i temutissimi effetti distorsivi di un eventuale reddito minimo nel nostro Paese. Per riassumerli con le famose parole del ministro Elsa Fornero: «C’è troppa gente che si adagia, anche sul poco; e in questo Paese quindi se tu dai una cosetta a uno ha la tendenza a non muoversi, visto che c’è il sole per nove mesi all’anno e più o meno si vive con pomodori e pasta».
Per tornare al modello francese e ai suoi costi, nel 2010 i beneficiari del Rsa sono stati 1,8 milioni (intesi come nuclei familiari, quindi circa 4 milioni di individui), di cui il 64% risultava del tutto privo di reddito, mentre il restante 36% ha richiesto il sussidio “integrativo”. La spesa complessiva per il finanziamento del Rsa nel 2010 è stata di 9,8 miliardi di euro, comprensiva delle erogazioni dei sussidi (84,4%), delle spese per i percorsi di attivazione e di inserimento (14,1%) e delle spese amministrative per la messa in opera della misura (1,5%).
È una cifra molto simile a quella che l’erario italiano spende attualmente per i suoi ammortizzatori sociali. Secondo un’analisi a cura della Uil, nel 2011 le indennità di disoccupazione, mobilità e cassa integrazione sono costate nel complesso 18 miliardi di euro, di cui ben 9 hanno pesato sulla fiscalità generale, cioè sulle casse dello Stato. Ciò significa che abbiamo speso per un sistema di welfare che tutela solo un lavoratore su due la stessa cifra che Oltralpe ha garantito a tutti i cittadini un programma di protezione universalistico e più equo.
Anna Guida
Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
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- Pietro Ichino: il reddito minimo può funzionare solo a certe condizioni
- Luca Santini: sì al reddito minimo per affrontare la precarietà
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- Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa
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