Categoria: Approfondimenti

Garanzia giovani, gli imprenditori: «Deve ripartire il mercato». E da Roma non arrivano i soldi

Era stata pensata, quando ancora era in carica il governo Letta, come il piano per far ripartire l’occupazione in Italia, e pubblicizzata sui vari canali televisivi e dai grandi quotidiani per attirare l’attenzione dei giovani disoccupati e farli approfittare di quest’opportunità. Eppure a tre mesi dal suo avvio mostra molte lacune, con offerte al ribasso, un numero di aziende iscritte molto circoscritto e una platea di giovani destinatari che è ben lontana da quella potenziale per cui era stato pensato il Piano. Che qualcosa stia andando storto nella Garanzia Giovani lo certificano i numeri: ad esempio quelli diffusi, a fine agosto, dal ministero del lavoro secondo cui al 29 del mese scorso sono solo 169mila i giovani che si sono registrati, di cui i convocati sono stati appena 36mila per un totale di posti di lavoro al momento disponibile poco superiore alle 13mila unità. Numeri che mostrano come solo uno su 13 dei giovani che hanno aderito è riuscito a trovare un’offerta adatta. Resta da chiedersi come mai le aziende abbiano ritenuto poco interessante questa proposta, tema evidenziato anche dall’ultimo rapporto Adapt secondo cui la gran parte degli annunci arrivano da agenzie per il lavoro e non direttamente dalle aziende, che a questo punto sembrano totalmente disinformate o disinteressate alla Garanzia. Errori di pianificazione sono stati sicuramente fatti, in primis non pensando a una pubblicità pervasiva che coinvolgesse più che la tv il web e i social network, con pagine sui social che riuscissero ad attirare quei giovanissimi che non studiano, non lavorano e non pianificano il loro futuro ma anche quelli che hanno collezioni di attestati e qualifiche e passano le ore in rete alla ricerca di annunci in linea con le loro capacità. Ancora una volta, invece, si è preferita la comunicazione “classica” e ci si è persi per strada una percentuale considerevole dei destinatari. I numeri li fotografa il Rapporto giovani curato, a fine luglio, dall’Istituto Giuseppe Toniolo in collaborazione con Ipsos, fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo: a due mesi dall’avvio della Garanzia giovani su un campione di oltre 1.700 intervistati, il 45% dichiara di non sapere nulla di questo Piano del governo e il 35% di averne sentito vagamente parlare. E proprio tra i neet, la categoria per cui il Piano era stato principalmente pensato, il numero di chi conosce abbastanza o molto bene questo progetto è solo di poco più di un giovane su cinque. Parte dei problemi del perché ci sia questo blocco nell’attivazione della Garanzia Giovani è dato anche dagli incentivi destinati alle imprese che vogliono assumere giovani e che ad oggi lo Stato non ha ancora inviato. Su questo punto sono d’accordo Confcommercio, Confartigianato e Cna. «I protocolli che abbiamo sottoscritto con il ministero del lavoro comportano impegni di divulgazione e informazione alle imprese, che è quello che stiamo facendo» spiega alla Repubblica degli Stagisti Jole Vernola, direttore area politiche del lavoro e welfare di Confcommercio, «ma sono comunque subordinati agli incentivi previsti a livello regionale». Ed è proprio questa cifra non quantificata che non permette alcuna pianificazione, come spiega Luca Costi, segretario Confartigianato Liguria: «la Garanzia Giovani prevede una parte di contributo per le imprese che non è stata ancora definita, quindi come Confartigianato non abbiamo fatto ancora nessun tipo di azione nei confronti delle imprese. Abbiamo però l’esperienza recente dei tirocini che hanno avuto uno scarso successo di richieste da parte delle imprese artigiane perché presupponevano in modo burocratico il passaggio attraverso i centri per l’impiego. Ma chi vuole attivare un tirocinio dentro la propria impresa il nominativo ce l’ha già. Ha bisogno di una risposta veloce che non è assicurata dai centri per l’impiego». Punto su cui è d’accordo anche Stefano Di Niola, responsabile del dipartimento relazioni sindacali della CNA: «Il 99% della garanzia giovani è spostato a livello regionale, ma non sembra essere capace di produrre grandi risultati perché i centri per l’impiego sono sotto dimensionati. Come CNA» spiega alla Repubblica degli Stagisti «pensiamo che vadano eliminati per lasciare spazio alle agenzie private o rivisti totalmente nella loro dotazione strumentale. Noi saremmo più per la seconda ipotesi. Oggi i cpi stanno facendo quello per cui sono stati iscritti in Garanzia giovani: contattano anche con una certa insistenza per fare i colloqui di orientamento. Ma dopo questo primo passo non sempre si riesce a trovare uno sbocco». Il nodo della suddivisione territoriale è messo in luce anche da Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato che alla RdS dichiara «Come Confartigianato abbiamo creduto in questa iniziativa tanto è vero che siamo stati una delle prime organizzazioni imprenditoriali a sostenerla e sottoscrivere un protocollo di intesa con il ministero. Il successo di Garanzia giovani, tuttavia» precisa il segretario generale «dipenderà in gran parte dalle scelte concrete che le singole Regioni, a cui è affidata la principale attuazione del programma, saranno in grado di realizzare. Parliamoci chiaro: 20 modalità diverse, 20 partenze differenziate, venti tipologie di accesso alle venti Regioni non sono un punto di forza!» Anche per questo motivo Confartigianato «ha costruito e messo on line un portale Valorizzati.it per far incontrare ragazzi, scuole e imprese dove c’è la descrizione delle attività artigiane, le scuole statali e regionali di formazione per quel mestiere, le storie di imprenditori che ce l’hanno fatta, le imprese artigiane di quel settore di attività in quel territorio», spiega Fumagalli. Il problema della differenziazione territoriale di cui parla è subito evidente: se, infatti, in alcune regioni si stanno già chiamando i giovani per i primi colloqui, ce ne sono altre che sono ancora ben lontane dal far partire la Garanzia. «In Liguria nei fatti non è ancora partita» spiega Costi, Confartigianato Liguria, alla Repubblica degli Stagisti «perché entro il 15 settembre dovranno rispondere i soggetti territoriali per dare tutto il pacchetto domanda e offerta di lavoro. E poi c’è anche una scarsa motivazione dei giovani a iscriversi a una banca dati senza avere certezza di riuscire a ottenere una risposta». Tra i motivi per cui nonostante gli incentivi le aziende mostrino scarso interesse verso questo programma Jole Vernola evidenzia anche la fase di crisi economica che «unitamente alle difficoltà che sconta qualsiasi programma in fase di avvio, non ha consentito di sviluppare pienamente le opportunità occupazionali incentivate per le quali occorre in ogni caso che vi sia un inizio di ripresa economica» spiega il direttore politiche del lavoro di Confcommercio. Tema su cui è decisamente d’accordo Stefano Di Niola «La Cna sostiene da secoli che il lavoro non si crea attraverso forme di incentivazione ma se c’è un’economia che riparte. E non c’è incentivo che possa convincere un’impresa ad assumere se non ha un mercato. Basti pensare» sottolinea il responsabile Cna «che nel provvedimento Sblocca Italia il Governo per finanziare gli ammortizzatori in deroga ha preso le risorse degli incentivi previsti dal governo Letta per le assunzioni. Perché in questa fase sono risorse inutilizzabili e inutilizzate. Bisogna prima cercare di mettere insieme gli strumenti per far ripartire l’economia». Un punto su cui sembrano essere d’accordo tutti: la garanzia giovani potrebbe anche funzionare ma prima è necessario che riparta il mercato. Senza questo è difficile che le aziende, di qualsiasi tipo e settore, possano decidere di fare un investimento assumendo giovani. La Garanzia però, nonostante le difficoltà, non deve arrestarsi. Su questo punto Di Niola è deciso: «Deve essere migliorata e potenziata. Anzi, bisogna riflettere sul fatto che alcuni decreti previsti che assegnano risorse a Italia Lavoro non sono stati ancora sbloccati. E poi penso che vadano rinforzate le possibilità di startup di impresa che pure sono presenti all’interno della garanzia giovani. Lasciare quindi» conclude «un po’ di spazio ai giovani che mettendoci passione e impegno economico personale rischiano e si mettono a disposizione del mercato per creare nuove tipologie di attività». A tre mesi dall’avvio del programma che avrebbe dovuto, almeno nei piani del Parlamento europeo e in quelli prima di Letta e poi di Renzi, riuscire a ridurre la disoccupazione tra i giovani italiani e aiutare l’incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro, ancora una volta l’Italia si trova al palo. Con numeri irrisori, piani che nonostante l’avvio non sono mai entrati pienamente a regime e una disorganizzazione tipicamente italiana tra gli enti che dovrebbero incentivare questo programma. E alla fine tutto questo lede un unico destinatario: il giovane italiano, che si demoralizza a tal punto da non registrarsi nemmeno su un portale che dovrebbe, almeno sulla carta, aiutarlo a costruire il suo futuro.  Marianna Lepore

Piano Giovani in Sicilia, un'estate di caos e delusioni per migliaia di aspiranti stagisti

Doveva essere il programma per far ripartire l’occupazione in Sicilia e, in particolare, per far rimanere nell’isola quei giovani che negli ultimi anni sono fuggiti alla ricerca di un posto di lavoro. Sulla carta aveva tutti i requisiti: un bando aperto agli under 35, l’attivazione di un tirocinio di sei mesi con un rimborso di 500 euro lordi al mese, la possibilità di essere poi assunti dalle aziende che avrebbero avuto sgravi fiscali per tre anni. Oggi i titoli dei giornali sono per il flop della giunta Crocetta, per i litigi interni all’amministrazione, per i bandi annullati o forse no, per le convenzioni rescisse ma ancora in corso, per quelli che il 5 agosto hanno affollato il sistema e denunciano – contrariamente a quanto raccontano i giovani che invece hanno concluso tutto l’iter – che il portale non funzionasse. Ad aggiungere altra carne sul fuoco sono arrivate anche la decisione di Bruxelles di mandare il prossimo 11 settembre un’ispezione del comitato di sorveglianza per verificare la programmazione del fondo sociale europeo (a cui attinge il Piano giovani) nell’isola, oltre a un’indagine della Corte dei Conti già partita per verificare possibili danni erariali e l’apertura di un’inchiesta da parte della procura di Palermo, coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia, per verificare i rapporti tra la pubblica amministrazione e le ditte incaricate di gestire tutto il progetto, scelte senza bando pubblico dall’ex dirigente Corsello - unica a fare da capro espiatorio e ad aver rassegnato le dimissioni dopo che, in pieno caos e polemiche per la gestione del clic day del 5 agosto, la Regione ha deciso il 19 di annullare gli esiti dell’ultimo clic day e di avviare una nuova selezione a settembre con la pubblicazione di un nuovo bando che nel frattempo è stato anche pubblicato in Gazzetta ufficiale. Tra i suoi ultimi atti il dirigente ha revocato il 18 agosto l’affidamento a Italia Lavoro, che si occupava della parte progettuale e della gestione dei tirocini, quindi era estranea alla gestione del sistema informatico, affidato a un’altra società, la Ett. In una nota dell'amministratore delegato di Italia Lavoro Paolo Reboani, si definisce il provvedimento «illegittimo e infondato» e annuncia che in quanto parte lesa «provvederà a tutelare per le vie legali i propri diritti in ogni sede». Interpellata dalla Repubblica degli Stagisti, la società - ente strumentale del ministero del Lavoro - dichiara che «in questa fase di grande confusione la nostra disponibilità per fare chiarezza è totale». Oggi quindi non si sa bene se quei 1600 che hanno passato la selezione, in due diverse date, potranno cominciare i loro stage. Molto dipenderà anche dalle decisioni del nuovo dirigente alla formazione appena nominato, Gianni Silvia, che dovrà cercare di mediare tra la volontà del governatore Crocetta di non bloccare tutto ed esporsi a una valanga di ricorsi, che potrebbero costare caro alle casse della Regione, e la necessità di trovare una soluzione per il nuovo bando già pubblicato in Gazzetta, quindi valido, che annulla tutto e rimette in ballo i posti con una nuova selezione. Nel mezzo ci sono i destinatari del bando. Sono innanzitutto i 1600 che al clic day sono riusciti a partecipare, riuscendo dopo varie fasi di contatto con le aziende a “cliccare” e quindi ad aggiudicarsi lo stage. In particolare in bilico sembrerebbero essere gli 800 che hanno partecipato al clic day del 5 agosto, la data in cui secondo alcuni è andato in tilt il sistema. E che alle prime voci di annullamento hanno deciso di creare una pagina facebook “Piano Giovani – Se Crocetta annulla tutto faremo ricorso!” che ad oggi conta più di 400 iscritti. A loro avviso il sistema avrebbe addirittura funzionato meglio ad agosto che a luglio. Nella prima data, quella del 14 luglio, era infatti necessario fare tutta la registrazione, con l’inserimento dei dati, del proprio curriculum, la scelta delle aziende, l’attesa dell’interesse da parte delle imprese, tutto in poche ore. E in quel caso sono stati 800 i ragazzi che ce l’hanno fatta e sono stati selezionati per un tirocinio con l'indennità pagata dalla Regione. Dal 15 luglio in poi il portale è rimasto aperto: i giovani potevano continuare a registrarsi per essere selezionati in vista del secondo clic day. «Le aziende avevano il tempo di valutare i curricula, scegliere i candidati e mandare le loro proposte» spiega alla Repubblica degli Stagisti Giuseppe Sicilia, uno dei due gestori della pagina facebook. «Una volta che il giovane dava la sua disponibilità all’azienda che l’aveva selezionato, sul portale si aprivano ulteriori informazioni del ruolo e si poteva prendere appuntamento per un colloquio. Se c’era disponibilità da entrambe le parti si apriva una finestra nella pagina del portale che il 5 agosto doveva essere cliccata, visto che c’era un limite dato dalla scarsità dei posti». Un metodo, quello del “clic”, secondo alcuni inevitabile vista l’esiguità dei posti disponibili e i tanti giovani che volevano partecipare. Un metodo che comunque era conseguente a una precedente selezione. Ci tiene a sottolinearlo Annalisa Alongi, anche lei tra i gestori della pagina facebook: «Il “clic” è un criterio che non può essere eliminato quando ci sono tante persone che concorrono per pochi stage. Ma c’era anche la selezione a monte perché io, ad esempio, ho avuto molte proposte. Capisco la situazione degli esclusi ma c’è stata molta disinformazione da parte di chi non aveva capito il funzionamento del portale» spiega alla Repubblica degli Stagisti ormai stanca di dover quasi giustificare la riuscita del suo “clic”. «Molti hanno solo ricevuto un messaggio “troviamo interessante il tuo cv”, ma significava poco perché l’azienda aveva i contatti telefonici. Io sono stata contattata per fare dei pre-colloqui. Alla base c’era dunque una selezione: il clic era solo la parte finale di quel processo».Di diverso avviso sembrano essere gli oltre 250 membri di un'altra pagina Facebook di segno completamente opposto: “Piano giovani? … un bluff!” , che si propone di rappresentare coloro che il 5 agosto non sono riusciti ad accedere al sistema e parlano del flop del programma. «Aspettiamo di vedere come andrà a finire e non escludiamo vie legali» dice alla Repubblica degli stagisti Alberto di Benedetto, tra i membri del gruppo. «Stiamo studiando manifestazioni in diverse parti della Regione per chiedere alla Scilabra e al suo presidente di fare un passo indietro» aggiunge citando l'assessore regionale al Lavoro, la giovane Nelli Scilabra, e il presidente della Regione Rosario Crocetta: «Qui c’è stato uno scaricabarile di responsabilità».  Com’è possibile che alcuni parlino di blocco del server e altri invece siano riusciti ad arrivare alla fine del processo prova spiegarlo Giuseppe Sicilia che sul sito quel giorno è riuscito a entrare, a cliccare e ad aprire altre pagine. «Più di 30mila ragazzi non erano riusciti a registrarsi e hanno iniziato a dire, senza fondamento, che il portale era lento. Ma per chi aveva fatto precedentemente a luglio tutti i vari step, il portale ha funzionato perfettamente. Alcuni utenti hanno detto di aver aperto 80 pagine di accesso al sito contemporaneamente con 80 log in diversi, quindi sono stati loro stessi a mettersi in coda e creare un crash. Se agganci un server» continua a spiegare alla Repubblica degli Stagisti «ti metti in coda e prima o poi il tuo turno arriva. Ma se aggiorni continuamente la pagina il tuo turno non arriva mai. Non si può parlare di crash, però, altrimenti non sarebbe stato possibile nemmeno generare gli 800 incroci». I dati di cui parla Sicilia sono ufficializzati in una relazione consegnata all’assessore alla formazione fatta dalla Ett, la società genovese che gestisce il portale del Piano giovani, in cui si legge che «solo nella prima ora l’applicativo ha registrato un numero di circa 46mila accessi (inserimento di login e password), numero che non è mai sceso sotto 30mila all’ora se non dalle ore 16 del pomeriggio. Nell’arco della giornata sono stati scambiati e registrati oltre 43mila messaggi tra cittadini e aziende».  Gli 800 che erano riusciti a portare a termine la selezione e che al momento sono anche in possesso di un pdf di “adesione al Piano Giovani” con un codice di rapporto univoco e la data e l’ora in cui si dichiara la disponibilità di entrambe le parti – tirocinante e azienda – di iniziare il tirocinio, seguono con fibrillazione gli sviluppi delle ultime ore. E sono pronti a fare ricorso contro la Regione. Al momento si sono affidati allo studio legale Grillo Cortese di Ribera e sono pronti a chiedere i danni. «Dalla documentazione che abbiamo esaminato» conferma alla Repubblica degli Stagisti l’avvocato Giacomo Cortese «pensiamo che sia stato leso un diritto soggettivo dei partecipanti e citeremo la Regione Sicilia per chiedere il risarcimento del danno per lucro cessante e per la mancata chance». Certo i tempi della giustizia sono quelli che sono, ma per la Regione si profila l’ipotesi di un risarcimento non indifferente: solo calcolando i 500 euro per sei mesi per i ricorrenti al momento iscritti alla pagina facebook si arriverebbe a oltre 1 milione di euro. A cui andrebbe aggiunta la mancata chance dell’assunzione per tre anni ed eventualmente i danni morali. Decisamente troppo per una Regione che ha già problemi di bilancio. E che, comunque andrà a finire questa storia, oltre a perdere la faccia rischierà di esporsi a richieste di risarcimento di ogni tipo e a esacerbare sempre più gli animi. I giovani siciliani sono sempre più scoraggiati: «Questo Piano giovani rappresentava molto per me» spiega Annalisa «ed ero fiduciosa dopo anni di gavetta a Milano con stage importanti di poter tornare in Sicilia. Qui sfuma tutto per incompetenza. Non capisco perché si voglia annullare tutto. In quel caso sarò costretta a tornare a Milano e cercarmi un altro stage». Tanti giovani siciliani si sentono presi in giro dalla politica, troppo occupata a gestire delicati equilibri interni per avere il tempo di elaborare strategie efficaci per offrire opportunità alle giovani generazioni in fuga dall'isola. Il prossimo appuntamento della telenovela del "Piano Giovani" è per mercoledì 3 settembre davanti Palazzo dei Normanni, a Palermo, per un sit-in.Marianna Lepore

L'ascensore sociale è inceppato: i giovani vivono peggio dei genitori

L’ascensore sociale? È rotto ormai da tempo, e il sistema educativo non offre più a chi studia la garanzia di poter migliorare la propria condizione. Una ricerca del Censis conferma questa preoccupante tendenza: al primo impiego solo il 16,4% dei giovani nati tra il 1980 e il 1984 è salito nella scala sociale rispetto alla famiglia di origine, mentre quasi un terzo (il 29,5%) ha sperimentato la cosiddetta “mobilità discendente”, trovandosi in una condizione meno agiata di quella della famiglia di provenienza. «Accade sempre più spesso che i genitori senza laurea lavorino, mentre i figli, pur laureati, non trovano un’occupazione», spiega a La Repubblica degli Stagisti Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’università La Sapienza di Roma. «L’ascensore funziona sempre più al contrario: una frazione crescente della classe media si sta proletarizzando. In Italia ci sono 8 milioni di poveri, e prima della crisi erano 5 milioni: il loro ascensore è sceso, così come è sceso quello dei disoccupati», aggiunge il sociologo.La scuola sembra aver ormai abdicato alla sua funzione di riequilibratore sociale, che consentiva ai capaci e meritevoli, sia pur provenienti da famiglie disagiate, di farsi avanti e raggiungere una condizione migliore: l’abbandono scolastico è marginale tra i figli dei laureati (2,9%), sale al 7,8% tra i figli dei diplomati e arriva addirittura al 27,7% tra i figli di genitori che si sono fermati alla scuola dell’obbligo. Un ragazzo su tre tra quelli che concludono anzitempo il percorso di studi viene da una famiglia in cui i genitori svolgono professioni non qualificate, contro il 3,9% dei figli di genitori che sono impiegati in professioni qualificate.Una buona istruzione non basta a salvare i ragazzi dalla disoccupazione: anzi, la crisi ha portato a un rafforzamento del fenomeno dell'«overeducation», cioè del possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto. Tra il 2008 e il 2013 la domanda di lavoro in Italia ha continuato a concentrarsi soprattutto sui livelli di studio bassi, gli unici a registrare un andamento positivo (+16,8%), a scapito sia dei titoli medi (-3,9%), sia di quelli più elevati (-9,9%). Aumentano i diplomati (+32,7%) e ancora di più i laureati (+36,6%) impiegati in mestieri che richiedono una bassa qualifica: e non sembra valere più nemmeno la distinzione tra lauree “forti”, come quelle in materie economiche, statistiche o in ingegneria, e “deboli”, come quelle in scienze sociali e umanistiche: oltre un laureato su due in materie economiche e un ingegnere su tre sono costretti a ripiegare su lavori meno qualificati, contro il 43,7% dei laureati in materie umanistiche o sociologiche.In questo quadro, la sfiducia regna sovrana: se in Europa due terzi dei giovani tra 18 e 29 anni si dichiarano ottimisti verso il futuro, in Italia la percentuale non arriva alla metà. Questo atteggiamento influisce anche sulla crescita degli abbandoni scolastici: secondo i dati del Censis, nel giro di 15 anni la scuola statale ha “perso” circa 2,8 milioni di giovani, di cui solo 700mila hanno continuato a studiare in istituti non statali o hanno trovato un lavoro. I giovani italiani diplomati tra i 20 e i 24 anni sono il 77,9%, contro una media europea dell'81,1%. La sfiducia nell’istituzione scolastica è legata anche al rapporto sempre più difficile tra i genitori e gli educatori: solo un genitore su dieci partecipa alle elezioni degli organi collegiali, e il 24,6% dei presidi evidenzia che le famiglie assumono un atteggiamento sempre meno collaborativo. «Il problema della scuola in Italia è vastissimo e ha diverse cause», commenta De Masi. «Prima di tutto, è dovuto alla serie di ministri che si sono succeduti negli ultimi anni e non hanno saputo gestire la situazione. Poi c’è la questione della scarsa corrispondenza tra scuola e lavoro: in Italia si sceglie l’indirizzo scolastico a 15 anni, e al termine del percorso, quando lo studente ne ha 25, il mondo è cambiato e le esigenze sono diverse. Infine, la scuola italiana è stata massacrata dai tagli, ed è in fondo alle classifiche dei Paesi Ocse».Il clima di disincanto e demotivazione si riflette anche sull’università, che continua a perdere iscritti: nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni solo un italiano su cinque è laureato, contro una media europea del 34,6%. E le immatricolazioni continuano a calare: nell’anno accademico 2011-2012 sono state circa 9.400 in meno rispetto all’anno precedente, per un tasso di passaggio dall’istruzione superiore a quella universitaria calato dal 50,8% al 47,3% in due anni. Ma anche chi decide di iscriversi non sempre tiene fede all’impegno: solo uno studente italiano su quattro si laurea in corso, nei tre anni canonici, e solo il 55% degli iscritti arriva a conseguire il titolo, contro una media del 70% nei Paesi Ocse. Sempre più studenti scelgono di puntare su un corso di studi all’estero, alla ricerca di una migliore offerta formativa e di maggiori prospettive occupazionali. Il numero di studenti italiani iscritti in università straniere è aumentato del 51,2% tra il 2007 e il 2011, passando da 41.394 a 62.580. A muoverli è la speranza di trovare migliori opportunità di realizzazione sociale fuori dai confini nazionali. «Anche l’università italiana risente dei suoi mali storici, come la cattiva selezione dei docenti e dei programmi e la cattiva distribuzione delle risorse», commenta De Masi. «Non è un caso che nelle graduatorie mondiali nessun ateneo italiano si classifica prima del centesimo posto». Andare all’estero è la soluzione? «Purtroppo studiare fuori dall’Italia non è un’opzione per tutti, ma solo per chi se lo può permettere», risponde il sociologo. «Dovrebbero esserci buone scuole qui, ma per averle occorrerebbero soluzioni drastiche, che al momento nessuno sembra in grado di adottare».Chiara Merico

Made in Italy, i giovani di tutto il mondo vengono in Italia a studiare moda. Ma poi?

Arrivano dai cinque continenti gli studenti che scelgono l’Italia per compiere i loro studi nel campo della moda. Attratti dalla grande tradizione delle firme e del made in Italy, cercano nelle nostre scuole una formazione di qualità. In totale sono più di 100 i Paesi da cui provengono gli aspiranti stilisti: oltre agli studenti europei, sono numerosi quelli in arrivo da Brasile, Russia, Giappone, Cina, Africa. Secondo la banca dati del Miur sono circa 11.700 giovani, oltre ai quali si devono considerare le migliaia di iscritti a master e corsi, e cio' rende il numero difficile da definire con esattezza.«Dall’estero arrivano moltissimi studenti» conferma a Repubblica degli stagisti Roberto Portinari, segretario generale della Piattaforma sistema formativo moda: «La nostra associazione riunisce 13 scuole di eccellenza nel settore moda con 10mila studenti, di questi oltre il 50% arriva dall’estero. Ci sono scuole in cui la presenza di studenti stranieri sfiora addirittura il 90% del totale». Nella maggior parte dei casi arrivano già con le idee chiare sul loro futuro. «Certo il sogno di molti è fare il fashion designer» continua Portinari «entrare a far parte dello staff di un grande brand oppure aprire una propria attività. Ma sono molti gli studenti stranieri che conoscono la realtà del mondo della moda e sanno che le figure tecniche preparate sono quelle che hanno le maggiori opportunità di lavoro e sono ben retribuite. Così, in tanti scelgono, per esempio, la professione del modellista di cui c’è una grandissima richiesta da parte delle aziende, anche all’estero per esempio in Asia». Una decisione che può rivelarsi carica di soddisfazioni, non solo dal punto di vista economico. «I giovani che arrivano con l’intento di diventare grandi stilisti» aggiunge Portinari «possono anche rimanere delusi, perché spesso devono ripiegare su altri lavori nel campo della moda, dal momento che non tutti hanno il talento sufficiente per sfondare». A voler diventare fashion designer sono soprattutto gli statunitensi, gli europei, i brasiliani e i ragazzi in arrivo dalla Russia, Paese in cui è fortissima l’ammirazione per le grandi firme italiane. Asiatici e africani, invece, spesso scelgono la professione di modellista o figurinista.A competere con le scuole di moda italiane sono soprattutto città come Parigi e Londra con i loro istituti (nella capitale britannica la prestigiosa Saint Martin attira studenti da tutto il mondo). Ma il primato spetta comunque all’Italia: «La location ha un grande peso nella scelta della scuola» sottolinea Portinari «il nostro Paese rimane il preferito dagli stranieri, in particolare Milano. Parigi e Londra offrono sicuramente grandi stimoli, ma nella scelta degli studenti conta anche la vicinanza alle industrie di moda e quindi la possibilità di stage e lavoro».Secondo Antonio Franceschini, responsabile nazionale di Cna Federmoda gli studenti stranieri «sono attirati dall’alto valore della offerta formativa italiana. Molti studiano in Italia per poi far ritorno nei loro Paesi d’origine e coniugare le competenze tecniche e organizzative acquisite con le proprie tradizioni. C’è un grande movimento, in questo senso, della moda africana. Giovani che creano i loro prodotti utilizzando il sapere trasmesso dalle nostre scuole con i tessuti e i colori dei loro Paesi. Altro è esempio è costituito dagli studenti provenienti dalla Mongolia che realizzano poi capi in cachemire». È il caso di Belgutei Badral, giovane stilista mongola che sta completando il suo percorso di studi all’Accademia di Belle Arti di Roma e che Cna ha portato a Riccione Moda Italia, il XXIV concorso nazionale professione moda giovani stilisti. Non preoccupa gli addetti ai lavori, però, il ritorno in patria degli studenti stranieri, dal momento che il legame con l’Italia si è ampiamente consolidato negli anni di studio. «I cinesi, i coreani e in generale gli studenti provenienti dai Paesi emergenti» afferma Portinari della Piattaforma sistema formativo moda «arrivano con l’obiettivo preciso di acquisire quelle competenze che non trovano nei loro luoghi d’origine. Poi ritornano nei loro Paesi con un bagaglio di conoscenze del tessuto economico italiano molto importante. Ed è comunque positivo per il nostro Made in Italy che questi studenti siano passati dal nostro Paese, abbiano conosciuto le nostre aziende e tutta la filiera. Sicuramente ci sarà un ritorno economico per l’Italia».  Una cosa, però, è certa: per gli allievi più dotati, le possibilità di lavoro anche ad altissimi livelli ci sono, perché le maison di moda scelgono il talento indipendentemente dalla provenienza. La vita non è semplice, però, per gli studenti stranieri in arrivo in Italia: «Le procedure per ottenere i permessi di soggiorno per studio e per gli stage sono estremamente complesse e farraginose» spiega Portinari «capita a volte che il ragazzo debba rientrare nel proprio Paese per un periodo di tempo prima di poter tornare in Italia. Non è così in altre parti del mondo: negli Stati Uniti, per esempio, cercano di tenersi stretti gli stranieri che hanno talento. In Italia manca un rapporto stretto tra scuole e industria. Il settore moda e design attrae tantissimi stranieri che arrivano da noi per fare un percorso formativo, spesso sono ragazzi molto dotati che dovremmo cercare di trattenere. La legge, invece, non distingue queste persone dai lavoratori degli altri settori».  Chiara Ferrero

Moda: troppi stilisti o aspiranti tali e pochi sarti, modellisti e figurinisti

Troppi stilisti o aspiranti tali e pochi sarti, modellisti e figurinisti. Diventare fashion designer ed entrare nel mondo della moda dalla porta principale è il sogno di molti, ma quando si spengono i riflettori delle passerelle si scopre che le maggiori opportunità di lavoro si trovano dietro le quinte. Le possibilità non mancano per i più giovani, soprattutto adesso che il settore, dopo sei anni di sofferenza, sta piano piano uscendo dalla crisi. Le previsioni per il 2014 sono favorevoli: Sistema Moda Italia, la Federazione Tessile e Moda che associa circa 1200 aziende, conferma per l’industria un ritorno in area positiva. L’anno in corso dovrebbe chiudere con una crescita del fatturato totale del 3,6% (il volume d’affari complessivo nazionale nel 2013 è stato di quasi 51 miliardi di euro). E a dimostrare come il comparto rimanga comunque la seconda manifattura del Paese sono i numeri: sono quasi 50mila le aziende del settore, comprese quelle artigiane, che impiegano circa 450mila persone. La cifra degli occupati sale a due milioni di persone se si calcola anche l’indotto della moda (distribuzione, vendita all’ingrosso, attività commerciali, pubblicità e comunicazione di settore). I segnali positivi della ripresa sull’occupazione si vedranno per ultimi, ben dopo quelli che riguardano il fatturato, ma gli spazi per inserirsi nel mondo della moda ci sono. «Il settore  offre molte opportunità per i giovani»  spiega a Repubblica degli stagisti Gianfranco Di Natale, direttore generale di Sistema Moda Italia: «Il problema è indirizzare questi ragazzi verso le mansioni più appropriate. Uno studente che approccia il nostro mondo di solito sogna di diventare stilista. È un problema culturale, si guarda al fashion solo con la logica della passerella. Quando invece abbiamo uno dei sistemi produttivi con la qualità più elevata al mondo che necessita di diversi tipi di professionalità». Le figure di cui le aziende hanno maggiormente bisogno, e che spesso faticano a trovare, sono quelle del modellista (di abbigliamento, calzature o pelletteria) e del figurinista, ma anche del responsabile del processo produttivo. Forte anche la richiesta di sarti: si calcola che in Italia ne servirebbero alcune centinaia da impiegare nell’alta sartoria o nei reparti di prototipia e lavorazioni. Per essere ricercati dalle aziende, però, non basta la creatività: bisogna avere una seria formazione alle spalle e un po’ di esperienza. Con tali requisiti, lo stipendio medio per questi professionisti può andare da un minimo di 3mila a 5mila euro al mese. «Il segreto è acquisire le competenze tecniche necessarie»  afferma Antonio Franceschini, responsabile nazionale di Cna Federmoda «perché le aziende ricercano figure con capacità adeguate. Nonostante la crisi economica c’è di nuovo attenzione per il Made in Italy, alcune imprese che avevano scelto l’estero stanno ritornando nel nostro Paese. Per questo noi stimoliamo i giovani a specializzarsi nelle professioni legate alla produzione. Con una metafora calcistica si può dire che tutti vogliono fare gli attaccanti e nessuno il mediano, invece il mediano è indispensabile». Eppure voler diventare fashion designer è molto di moda, tanto che anche in Italia, dopo il successo della versione americana, è sbarcato lo scorso mese di febbraio Project Runway Italia, il talent show sulla moda di FoxlLife. Il vincitore è stato Marco Taranto, un venticinquenne di origini calabresi, che si è aggiudicato un contratto della durata di un anno nell’ufficio creativo di Trussardi. Diventare un astro nascente del made in Italy grazie ad un talent, però, è un’occasione per pochi. Il mondo della moda infatti è accessibile solo a chi ha una buona formazione. Orientarsi nella scelta della scuola più adatta non è sempre facile perché l’offerta è davvero ampia e le competenze da acquisire sconfinano in campi diversi. «La creatività è un grandissimo dono» spiega Gianfranco Di Natale «ma non basta, perché fare moda vuol dire pensare anche alla produzione, alla commercializzazione, alla comunicazione, al marketing e all’internazionalizzazione». Occorre saper unire, cioè, gli aspetti creativi con quelli manageriali. Sono numerose le università italiane che propongono corsi di laurea triennali o master. Tra le altre, la Sapienza di Roma dove si può frequentare il corso di Scienze della moda e l’ateneo di Bologna dove è attivo il corso di laurea in Culture e tecniche della moda che offre una preparazione umanistica combinata a specifiche conoscenze dei principali temi del fashion. All’Università Iuav di Venezia il corso di Design della moda forma un professionista in grado di ideare, progettare e realizzare una collezione di abiti e accessori, mentre il Politecnico di Milano, con i suoi corsi di laurea triennali e magistrale in Design della moda ha l’obiettivo non di preparare stilisti, ma ‘progettisti’ della moda. Sono aperte le iscrizioni anche ai master 2015 del Milano Fashion Institute, consorzio interuniversitario fondato da Bocconi, Politecnico e Cattolica. E ancora lo Ied, Istituto europeo di design, che con i suoi corsi mira a formare le figure fondamentali della filiera moda, dal campo creativo a quello strategico, dagli aspetti organizzativi a quelli commerciali. Molte anche le scuole di formazione che propongono corsi di specializzazione a vari livelli. È il caso di Polimoda di Firenze che vanta un’ampia offerta: dai corsi preparatori per un primo orientamento nel mondo della moda ai corsi post diploma fino ai master in italiano e in inglese. Uno dei contesti studenteschi più internazionali è l’Istituto Marangoni: oltre alla sede storica di Milano, conta altri tre campus nelle città chiave della moda, a Parigi, Londra e Shanghai e offre numerosi percorsi didattici. E ancora l’Accademia Italiana con i suoi corsi di vari livelli di fashion design a Firenze e a Roma e l’Istituto Secoli di Milano che, forte della sua lunga storia e tradizione, ha preparato negli anni oltre 80mila professionisti del settore. Quali allora i consigli per scegliere la scuola giusta? «Agli aspiranti studenti di moda» spiega Roberto Portinari, segretario generale della Piattaforma sistema formativo moda «suggerisco di partecipare alle attività di orientamento proposte dalle varie scuole, andare a vedere di persona istituti e università, comparare attraverso i siti Internet i vari corsi, approfondire bene la natura della scuola. Fondamentale per lo studente è capire se la scuola che intende scegliere ha rapporti con le aziende, qual è il tasso di placement e se propone stage extracurriculari. Aver fatto uno stage, infatti, è indispensabile per trovare lavoro». Chiara Ferrero

Lavoro manuale, nei mestieri del passato c'è il futuro dei giovani italiani?

Secondo le ultime rilevazioni del "Rapporto Giovani" curato dall'Istituto Toniolo, oltre l’80% dei giovani italiani sarebbe oggi pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, e tre su quattro aspirerebbero a una attività in cui potere esprimere la propria creatività, anche indipendentemente dai percorsi formativi effettuati in precedenza. Sembra dunque che i giovani siano pronti a mettere la propria laurea nel cassetto e a riscoprire mestieri dimenticati: come quelli raccontati da Paola Caravà nel recente saggio Il lavoro manuale, sottotitolo «Orgoglio e pregiudizi», (Guerini e GiGroup), che racconta storie di successo di professionisti che per farcela hanno utilizzato soprattutto le mani. Quelle che hanno fatto grande il Made in Italy e a cui l'autrice, formatrice e coach da trent'anni, dedica il primo capitolo, a ricordarne l'importanza: «Siamo due sorelle imprenditrici e ci compensiamo perfettamente. Una più logica, razionale e orientata all’azione; l’altra più sensibile, fantasiosa e dotata di senso estetico» scrive descrivendo la destra e la sinistra. La mente, ironizza, «è il direttore generale della nostra azienda». L'autrice non istituisce una gerarchia tra tipologie di lavoro per cui è necessario l'utilizzo della manualità: che sia il cameriere di sala, o lo stilista di grido, o il macchinista del teatro («Come se le mani non si usassero anche per tenere una penna o per battere su una tastiera del computer!», si legge in un passaggio) la dignitosità non cambia. E così, in tono leggero e a tratti scherzoso, si riporta un'intervista a Rosita Missoni, moglie del leggendario Ottavio, scomparso di recente, e tuttora alla guida di un'azienda quasi di culto per il Made in Italy. Il loro fu soprattutto un grande amore: lei ancora studentessa lo conobbe a Londra alla fine degli anni Quaranta, dove lui si trovava per gareggiare alle Olimpiadi. Dopo il colpo di fulmine, il resto fu storia: «Ottavio lavorava la materia, i filati, il colore, le righe... orizzontali, verticali, diagonali, a zig zag. Così nascevano i tessuti, che poi Rosita traduceva nelle linee e nelle forme della moda» sintetizza Caravà. Ma non è solo di icone dell'industria italiana, soprattutto manufatturiera, che si parla nel libro. Il manuale raccoglie anche esperienze meno gloriose, ma esemplari perché di fatica, dedizione e successo. C'è per esempio il percorso di Ruben, un 28enne fiorentino che dal 2008 lavora al Teatro alla Scala di Milano come macchinista-costruttore. Il pratica oggi fa il falegname: ma era il suo sogno. «Mi cimentai nella costruzione di una pedana da danza, cioè una struttura composta da murali di legno, tavole edili gialle 50 per 2 metri, un tappeto di linoleum e le classiche aste da sala di danza con gli specchi. Fu un’esperienza bellissima» racconta dei suoi esordi, «una settimana immerso in Garfagnana a fare un lavoro che mi piaceva e ad ascoltare i racconti di maestri, come Saverio Cona, che avevano vissuto gli anni gloriosi del teatro (Settanta, Ottanta e Novanta)». Poi la selezione e l'accesso al teatro più prestigioso d'Italia, dove ogni giorno – dice – segue «il primo consiglio che mi hanno dato i colleghi più esperti di me: ruba il mestiere con gli occhi». Il rischio è che altrimenti la tradizione si perda di generazione in generazione. Affascinante è anche l'avventura di tre giovani designer fiorentini, trasformatisi per gioco in cappellai di lusso. Sono ancora all'università quando Ilaria e Veronica Cornacchini (32 e 29 anni) e Matteo Gioli (27) decidono per hobby di provare a creare cappelli che poi, sempre per gioco, presentano alla fiera Pitti. I loro modelli piacciono, il passatempo diventa un'azienda (la Super Duper), arrivano i compratori esteri (soprattutto giapponesi), oggi il 90% del loro fatturato. «Nessuno di noi ha intrapreso questa avventura per 'fare soldi', ma solo per passione» spiega Ilaria, ed è così che «a ogni stagione riusciamo ad ampliare il nostro parco clienti». Un ottimismo quasi stridente rispetto alla valle di lacrime in cui si ritrova oggi il lavoro intellettuale, sempre più svilito e sottopagato. «Io non faccio distinzione tra mestieri più o meno umili, ma sono convinta che qualsiasi mestiere se fatto bene abbia la stessa dignità: dal cameriere alla modista» chiarisce alla Repubblica degli Stagisti. Quello che «mi interessa è spostare l'attenzione sul fatto che il lavoro tecnico non deve essere percepito come seconda scelta, come alternativa per i 'falliti della conoscenza'», e il rimprovero va a una madre che vide anni piangere dopo un colloquio con un professore che le aveva sconsigliato studi liceali per il figlio. Anche Missoni, prima e anche dopo le luci della ribalta, «si è seduto al tavolo di lavoro e con le mani ha progettato tessuti». Il messaggio è insomma chiaro: reinserire il lavoro manuale nella mappa mentale dei ragazzi, con la stessa dignità di quello intellettuale. Non considerarlo un ripiego in attesa dell'occasione della vita. Restituirgli valore perché è lo stesso che ci ha consegnato il Made in Italy, quel marchio che oggi gli investitorio esteri si contendono: «Nessuno vuole venire a investire da noi, o aprire uno stabilimento qui, però se si tratta di accapparrarsi pezzi del Made in Italy fanno a gara» riflette Caravà. Forse ci voleva la crisi a metterci in guardia sull'assurdità di certi «pregiudizi». La colpa della scarsa fama di cui gode questo settore - nel libro viene riportato un sondaggio, che rileva come la manualità sia giudicata «non importante» dal 60% preso da un campione di figli 15-19enni e genitori 40-64enni - non è certo dei giovani, ma della cultura che è stata loro tramandata: «A monte c'è una scuola materna che punta tantissimo sulla manualità, ma poi progressivamente dalle elementari questo allenamento scompare» riflette la formatrice. E poi, «siamo stati noi, quelli della mia generazione, a dire 'studia e trovati un lavoro sicuro, magari in banca'» ammette. È giunto invece il momento guardare con occhi nuovi agli insegnamenti del passato, quelli del Novecento, pensando a cosa hanno significato per lo sviluppo del Paese. Sarà per questo che la Caravà dedica il libro al padre Pietro, tenente dell'esercito fatto prigioniero dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e poi morto a causa degli stenti della prigionia. Il pensiero di quella storia è d'ispirazione a «guardarsi indietro e lasciarci alle spalle certi pregiudizi». Ilaria Mariotti 

Servizio civile tra le offerte di Garanzia giovani, non tutti sono d'accordo: «Non è lavoro»

Non si sa ancora con esattezza in che misura il Servizio civile entrerà a far parte della Garanzia giovani: per le associazioni che gravitano attorno a questo settore c'è infatti tempo fino a fine luglio per presentare progetti da inserire nel provvedimento governativo anti-disoccupazione e anti-Neet. Un coinvolgimento che è stato intensificato attraverso «una campagna di sensibilizzazione» spiega alla Repubblica degli Stagisti Enrico Borrelli [nella foto sotto], presidente del Forum nazionale per il servizio civile, chiarendo che è grazie alle richieste delle associazioni che il Servizio civile è stato ammesso nel programma. Quel che è certo è che il suo ruolo non sarà marginale. E questo non fosse altro perché finora di aziende interessate a offrire posti di lavoro ai giovani italiani se ne sono viste ben poche (le ultime rilevazioni parlano di 5mila offerte contro 100mila iscritti). Anche se in realtà sarebbe proprio un'offerta di impiego ciò che si aspetta chi si registra al programma attivato a maggio dal governo, più ancora che un percorso formativo - come il Servizio civile potrebbe essere interpretato, al pari del tirocinio (il Servizio civile prevede peraltro una indennità mensile di circa 430 euro, a fronte di un impegno indicativo di 30 ore settimanali). Si apre a questo punto un interrogativo, già emerso nei tanti dibattiti di approfondimento sulla Garanzia giovani: può il Servizio civile adempiere alle finalità di un provvedimento adottato, su input di Bruxelles, per arginare il fenomeno dei Neet? Bisogna dire che il servizio civile, così come strutturato, è una prerogativa tutta italiana e perlopiù sconosciuta agli altri Paesi «eccetto che Germania e Francia, che da noi qualcosa hanno importato in questo senso», come aggiunge Borrelli. Una tipologia di percorso estranea dunque, di conseguenza, alle varie Youth Guarantee attivate negli altri Paesi. Ma ha veramente senso, in Italia, includerla nella Garanzia Giovani, oppure si tratta di un "diversivo" in attesa che le aziende si facciano avanti? Anche tra gli addetti ai lavori qualche perplessità deve esserci stata dato che – sul sito dedicato al progetto – si specifica che «l'applicazione del Servizio civile nazionale al programma Garanzia giovani presenta delle specificità rispetto alla progettazione standard del Servizio civile nazionale» e che i progetti dovranno essere corredati da «un numero limitato di volontari (4-6)». Inoltre viene chiesto esplicitamente di «tenere presente che i progetti di Servizio civile nazionale si rivolgono principalmente a un target di giovani con bassa scolarizzazione fuori sia dai processi educativi di apprendimento che a quelli del mercato del lavoro». Quasi un monito alle associazioni ad avanzare proposte che assicurino un percorso di qualità. Il rischio è che sentirsi proporre un percorso di servizio civile, quando l'aspettativa era invece quella di una modalità più diretta di avvicinamento al mondo del lavoro, possa creare nei beneficiari della Garanzia Giovani delusione e scontento. Più in generale, il pericolo che l'intera Garanzia giovani - di cui il Servizio civile è solo un tassello - non raggiunga gli obiettivi sperati non è infatti così remoto. «Non si può spacciare per lavoro quella che è un'occasione di socializzazione» dichiara alla Repubblica degli Stagisti Claudio Treves, segretario di Nidil, il ramo della Cgil dedicato ai lavoratori atipici. «È importante come contatto dei giovani con ambienti che non sono scolastici ma non può diventare l'unica via» prosegue Treves, secondo cui è «probabile» il flop dell'iniziativa. Ma c'è di più: per il segretario «l'enfasi sul Servizio civile potrebbe servire proprio a mascherare» l'eventuale insuccesso del programma. «ll lavoro si crea solo agendo sulle condizioni economico-normative» aggiunge «e quindi allargando la base produttiva». Senza questi passaggi l'occupazione resta una chimera. Più sfumata la posizione di Monica Gregori, membro della commissione Lavoro alla Camera in quota Pd. «Garanzia Giovani non assicura un posto di lavoro, ma aiuta a avvicinarsi al mondo occupazionale» precisa: «Il Servizio civile dentro Garanzia giovani nasce come cinghia di trasmissione delle politiche attive del lavoro, e può essere anche un metodo per sbloccare lo stallo in cui versano i colloqui organizzati all'interno dei cpi». Meglio di niente, insomma. Gregori riconosce però che sarebbe necessario un «maggiore investimento su altre misure» come per esempio quelle a favore delle imprese, e aggiunge che «lo stesso Servizio civile avrebbe bisogno di essere riformato per intercettare altre politiche europee». Quanto al «rischio flop» avverte: «Si può evitare solo con un costante monitoraggio delle iscrizioni e delle imprese partecipanti, con l'attenzione tutta rivolta ai territori: l'importante per raggiungere buoni risultati è fare rete». Va detto comunque che Garanzia Giovani prevede anche offerte formative, non solo occupazionali, nell'arco dei famosi quattro mesi. E il Servizio civile è certamente una esperienza formativa. Proprio da questo aspetto parte Borrelli a difesa della presenza di questo sistema nel circuito: «È un'occasione di apprendimento non formale, garantisce acquisizione di competenze» ribadisce. La Garanzia Giovani deve in fin dei conti «rendere i giovani più occupabili, non va fraintesa come veicolo istantaneo di inserimento lavorativo». In tal senso il Servizio civile si sposa perfettamente con il programma, anche perché al suo interno la formazione non deve essere considerata come secondaria: «Se cominciamo con il dire che poiché non c'è lavoro allora è tutto inutile, a quel punto dovremmo sopprimere master, tirocini e quant'altro». Secondo Borrelli «il recupero dell'economia passa invece anche attraverso misure che implementano le competenze» dei giovani. Ergo, il Servizio civile si «qualifica come candidato ideale, preservando la sua diversità di strumento ispirato a una serie di valori come la solidarietà, la pace e la difesa della patria»: senza intenderlo come «politica per il lavoro», ma riconoscendo che potrà occupare per alcuni mesi alcune migliaia di giovani.L'inserimento del Servizio civile nel paniere di Garanzia giovani finisce anche per sanare una situazione drammatica: i posti per il servizio civile sono infatti crollati, negli ultimi anni, dai 45mila posti del 2005 e 2006 ai 15mila scarsi del 2013. Nel 2012 il bando per il servizio civile addirittura venne fatto saltare - e la Repubblica degli Stagisti fu la prima e praticamente l'unica a denunciarlo. Zitti zitti, gli ultimi governi hanno insomma "sabotato" il servizio civile: a parole riconoscendone l'importanza, ma dimenticando poi di reperire fondi per finanziarlo. Quando dunque è arrivata la Garanzia Giovani, con la sua dotazione di oltre 1 miliardo e mezzo di euro da utilizzare nel biennio 2014-2015, è stato quasi naturale pensare di utilizzarla per finanziare anche quelle migliaia di progetti di servizio civile rimasti "orfani" nel corso degli anni per mancanza di fondi, offrendo così una opportunità alle decine di migliaia di giovani a cui piacerebbe fare un percorso di questo tipo, ma che negli ultimi anni hanno visto il numero di possibilità di vedere accettata la propria candidatura assottigliarsi.Fermo restando, però, che il Servizio civile non è considerabile come una "occupazione": e non è forse quello che cerca chi si iscrive a Garanzia Giovani.Ilaria Mariotti 

Sconti e offerte, così le università telematiche provano ad attrarre nuovi iscritti

Un numero degli iscritti in diminuzione, come anche quello dei laureati, una classe docente troppo precaria e poca ricerca: questi i punti critici delle università telematiche individuati da una commissione di studio nominata dal Miur che qualche tempo fa aveva dato il via a un confronto molto acceso tra l’allora ministro dell’istruzione Carrozza e i rettori degli atenei. La Repubblica degli Stagisti se ne era occupata intervistando i diretti interessati e portando alla luce un dato molto discordante tra ministero e università: quello sul numero degli iscritti, secondo viale Trastevere molto più basso rispetto a quanto dichiarato dagli atenei. Se in giro per il mondo le università online stanno esplodendo, tanto ad esempio da far aumentare gli investimenti in questo settore in Nord America, l’Italia sembrerebbe andare invece contro corrente, almeno stando ai dati del ministero che mostrano in un grafico una caduta dei nuovi immatricolati presso le università telematiche: dagli oltre 6mila studenti del 2010 a poco più di 2mila nel 2012. Questi numeri potrebbero in parte spiegare le iniziative che negli ultimi mesi gli atenei online hanno messo in atto per attrarre il maggior numero di iscritti. Avere più studenti significa maggiori introiti e maggiore forza in caso di futuri controlli da parte del ministero. Così ecco che prima in fase di esami di maturità e dopo di ultime scelte per le iscrizioni molti atenei fanno la corsa a regalare iscrizioni, con veri e propri pacchetti omnicomprensivi. La prima è stata l’università Cusano, con sede a Roma, che ha addirittura istituito un click day il 15 maggio. In pratica in quella data a partire dalle ore 16 era possibile inviare le domande per l’accesso alla «borsa di studio per l’iscrizione a un corso di laurea con percorso plus». Così 600 maturandi di Roma o comuni limitrofi hanno potuto vincere altrettante borse di studio che coprono totalmente i costi per cinque anni. Inclusi nel pacchetto c’erano pure i corsi di lingua inglese e cinese, sempre per cinque anni. Le 600 borse erano suddivise in 175 per la facoltà di economia, altrettante per giurisprudenza, 150 per scienze politiche, 50 per ingegneria industriale e lo stesso numero per ingegneria civile. Per usufruire di una borsa di studio non contava la preparazione o il reddito familiare: l’importante era essere veloci nel cliccare. Considerato che l’iscrizione normalmente costa 2.400 euro l’anno, più la tassa regionale a cui si aggiungono anche le quote per i singoli corsi di lingua, l’università rinuncia quindi a minimo 12mila euro moltiplicati per 600 persone. Leggendo le faq sul click day si scopre che chi si iscrive deve rispettare alcune regole – come laurearsi in tempo e avere una media non inferiore a 24/30 - e osservare alcune attività specifiche: pena il mancato rinnovo della borsa. Tra queste c’è anche la collaborazione con l’ufficio stampa di Ateneo presso la redazione di Radio Manà Manà e quella di Tag24 per la scrittura «di testi e articoli finalizzati all’ottenimento del patentino da pubblicista». Tralasciando il fatto che ormai il mondo del lavoro già straborda di giornalisti in cerca di occupazione, non è chiarissimo perché ad esempio l’università offra questo servizio anche ai cinquanta destinatari del corso in Ingegneria industriale: un po' difficile rintracciare la correlazione con il mondo del giornalismo. L'UniCusano è in buona compagnia: anche molte altre università telematiche cercano attraverso bandi simili e convenzioni particolari di attrarre nuovi iscritti. La Mercatorum, università telematica delle Camere di commercio, ha all’attivo ancora un bando dal nome “Talenti Laureati” per offrire 150 borse di studio, di cui le prime 100 ai diplomati che si iscrivono al primo anno universitario e le altre 50 a chi si iscrive a una specialistica. Le borse di studio non sono una novità, anche le università "tradizionali" ne offrono agli studenti meritevoli, ma di solito vanno rinnovate di anno in anno, con bandi che si modificano e introducono nuove clausole. In questo caso, invece, l’offerta è totale: il bando, che scade a fine luglio specifica, infatti, che «La borsa prevede l’immatricolazione gratuita ai corsi di laurea dell’Ateneo per l’intera durata regolare del percorso di studio». Anche qui però ci sono delle clausole da rispettare: una media di 27/30 e almeno quattro esami superati il primo anno e quattro il secondo. In questo modo sarà possibile conservare la borsa di studio per tutta la durata del corso di laurea. Finite qui le agevolazioni? Non proprio. L’ateneo ha infatti pensato di venire incontro a 100 neo imprenditori che abbiano costituito un’impresa innovativa nel corso degli ultimi due anni. Proprio a loro è data la possibilità di non pagare i 6mila euro totali per i tre anni del corso di laurea ma di usufruire di una particolare agevolazione denominata “100 opportunità per 100 neo imprenditori” grazie alla quale pagheranno solo 2mila euro più la tassa regionale. Anche in questa università sono presenti poi numerose convenzioni: sconti che vanno dal 25 al 35% con enti pubblici, associazioni di categorie, enti camerali, imprese. E che permettono, quindi, un risparmio notevole: non solo a giovani diplomati, ma anche a chi un lavoro già ce l’ha e attraverso percorsi accademici "facilitati" desidera prendere una laurea e poter accedere a scatti di carriera altrimenti impossibili da raggiungere.Un esempio di questa particolare agevolazione arriva anche dall’università telematica internazionale Uninettuno, che offre agli appartenenti all’Arma dei carabinieri o congedati, e ai loro familiari diretti e conviventi, uno sconto del 20% sulla tassa annuale di 2mila euro per laurea triennale e 2.200 per quella magistrale, con la possibilità di sostenere gli esami finali anche all’estero. Stesso sconto anche per una nutrita categoria di associazioni e enti con l’estensione in alcuni casi, come per gli appartenenti alla Guardia di Finanza, anche ai familiari fino al 2° grado. Destinatari privilegiati dell’Unitelma Sapienza sono, invece, i dipendenti di Formez e Sapienza soci al 51%  dell’università telematica, che nell’anno 2013/2014 hanno pagato solo 800 euro per l’iscrizione a un corso di laurea (contro i 2mila standard). L’università ha pensato anche ai giovani con un progetto dedicato agli under 25 per l’anno accademico 2013/14 grazie al quale alcuni giovani hanno pagato la cifra scontata di 800 euro. Previste anche 200 iscrizioni gratuite per giovani tra i 19 e i 23 anni con genitori disoccupati o in cassa integrazione. L’università Giustino Fortunato ha, invece, stipulato un accordo con l’Agenzia delle Entrate della Regione Campania garantendo ai dipendenti uno sconto del 20% sulle tasse annuali (che al momento ammontano a 2.500 euro l’anno). Stesso sconto di cui possono usufruire anche i dipendenti della Banca di credito cooperativo irpina. L’università telematica Pegaso, che ha una retta annuale di 3mila euro, nell’anno 2013/2014 ha istituito 500 borse di studio a favore di disabili e residenti nelle isole minori o in zone disagiate del Paese, e ha a sua volta quasi 300 convenzioni all’attivo con enti di vario tipo, da associazioni a sindacati, comuni e ordini professionali, per i cui dipendenti o iscritti la retta scende a 1.700 euro. Convenzioni che vanno dal 10 fino al 20% di sconto previste anche dall’università E-Campus, che con costi che arrivano a superare i 26mila euro (questa è l’opzione più costosa, con tutor in presenza e due semestri con residenzialità) offre riduzioni dal 10 al 20% a ben 120 tra enti, associazioni e sindacati vari. Molto più contenuta, invece, la lista delle convenzioni dell’Università telematica Leonardo da Vinci, Unidav, che ha attivato solo nove accordi con soggetti cui applicare uno sconto sulla retta di 2mila euro l’anno. Le cifre mostrano come le università telematiche negli ultimi anni abbiano cercato, attraverso particolari sconti e molte borse di studio, di attirare nuovi iscritti, permettendo quindi anche a chi normalmente non avrebbe pensato di iscriversi all’università di riuscire a laurearsi. E andando contro corrente rispetto a molte università statali che - causa tagli ai fondi per il diritto allo studio - hanno invece dovuto ridurre proprio le borse di studio. Resta aperto il dibattito sulla qualità della preparazione offerta agli studenti delle università telematiche rispetto a quelli delle università convenzionali: la relazione dell’Anvur sollevava alcuni dubbi in proposito. Tanto che alcuni considerano questi atenei online dei "creditifici". Ma le università telematiche rispediscono al mittente le critiche e snocciolano dati per dimostrare il valore dei loro moduli formativi. Bisogna a questo punto attendere settembre: solo allora si potrà fare la conta degli immatricolati per l'anno accademico 2014/2015, e capire se le iniziative di attrazione e gli sconti sulla retta hanno avuto l'impatto auspicato, facendo incrementare il numero di iscritti rispetto all'anno scorso.Marianna Lepore

Stage senza compenso, la protesta monta anche negli Stati Uniti

Estate nel mondo del lavoro è anche sinonimo di stage: quelli che tanti giovani alle prese con università, master e corsi vari sono obbligati a frequentare e quelli che aziende, negozi, studi professionali offrono, talvolta per coprire i vuoti di organico causati dalle ferie. In Italia negli ultimi anni si è cercato in parte di regolamentare questa giungla, prevedendo discipline ad hoc per i tirocini extracurriculari: ma lasciando curiosamente fuori, nell'elenco di eccezioni, anche i tirocini estivi che dunque sono un "capitolo a parte", e non godono di quei piccoli ma importanti diritti - primo tra tutti, quello a ricevere un minimo di indennità - introdotti  a favore degli stage extracurriculari. Di strada dunque, come la Repubblica degli Stagisti documenta da anni, ce n’è ancora tanta da fare, ma il nostro Paese non è l’unico alle prese con gli stage gratuiti che rimpiazzano le nuove assunzioni o le sostituzioni estive. Succede anche negli Stati Uniti, dove questa pratica ha preso sempre più piede iniziando anche ad attirare l'attenzione dei media - specie dopo alcune sentenze storiche arrivate dai tribunali.Bisogna partire da un dato: secondo un’indagine condotta dalla National Association of Colleges and Employers nel 2012, solo il 37% degli stagisti non "ricompensati" ha ricevuto, alla fine dello stage, un’offerta di lavoro. Tale statistica conferma come accettare mesi di lavoro (anche se sarebbe più corretto dire "formazione on the job") non pagato possa in pochi casi portare a trovarne, in seguito, uno retribuito. Certo il dato del 37% può sembrare altissimo a un italiano, visto che nel nostro Paese solo il 9% di tutti gli stage attivati nelle imprese private - quindi non solo quelli senza compenso presi in considerazione in questa statistica americana - si trasforma poi in un'assunzione. Eppure, secondo InternMatch la prospettiva del 37% non basta a giustificare la marea di stage non pagati che sta dilagando: questa piattaforma online interamente dedicata agli stage denuncia che al maggio del 2013 oltre il 36% delle aziende continuava a offrire tirocini non retribuiti o pagati meno del salario minimo stabilito dalla legge. Arrivando alla conclusione che in tutti gli Stati Uniti ogni anno si attivano fino a un milione di stage non pagati. Dalla loro parte gli stagisti americani hanno anche una serie di sentenze – che in Italia invece su questo settore non sono mai arrivate – che hanno sanzionato grandi nomi come Donna Karan, Fox Searchlight, o Condé Nast. I giudici hanno stabilito che ai tirocinanti non pagati andasse invece corrisposto il salario minimo (poco al di sopra dei sette dollari l’ora) stabilito dal Fair labor standards act. Ma come, lo stage non è un lavoro eppure gli stagisti negli Usa hanno diritto al salario minimo che spetta ai lavoratori? Sì, è proprio così. In quella legge - risalente al 1938 - già si decideva che un tirocinio poteva non essere pagato soltanto se fatto in un “ambiente educativo”, quindi solo se strutturato non come un vero e proprio lavoro – oggi si direbbe una “learning on the job experience”. Insomma, un percorso formativo più assimilabile all’apprendimento e quindi al guardare quello che si fa nell’ufficio, o nel negozio, o nella fabbrica, ma senza mettere in pratica. La distinzione con il tempo si è fatta via via troppo poco specifica, tanto che in tempi recenti molti giovani che negli uffici, negli studi televisivi, nelle redazioni giornalistiche, partecipavano attivamente al lavoro di squadra, ma inquadrati come tirocinanti, hanno cominciato a fare causa contro i datori di lavoro per veder riconosciuto un compenso. Per affrontare questa situazione nel 2010, sotto l’amministrazione Obama, il Dipartimento del lavoro ha stabilito dei criteri per determinare nello specifico quando per un tirocinio può non essere previsto un compenso – sottintendendo ovviamente che in caso non si verifichino queste condizioni, invece, il soggetto ospitante non può esimersi dall'offrire allo stagista una indennità pari almeno al salario minimo.  Leggendo queste sei regole ci si accorge che non sono molto lontane dalle richieste avanzate negli anni anche dagli stagisti italiani. Secondo questo testo, il tirocinio “lecitamente gratuito” è simile alla formazione, deve essere cioè a totale beneficio dello stagista, il tirocinante non sostituisce i dipendenti e anzi lavora sotto la supervisione del personale, e il datore di lavoro non deve trarre alcun vantaggio immediato dal lavoro del tirocinante. A queste quattro regole ne seguono altre due che specificano la necessità di massima trasparenza a monte, che si concreta nel fatto che datore di lavoro e tirocinante sappiano entrambi fin dall'inizio che non ci sarà alcun compenso per il periodo dello stage e che lo stagista sia consapevole che non avrà automaticamente diritto a un posto di lavoro finito il tirocinio. Se quindi lo stage rispetta tutti e sei questi criteri contemporaneamente, e dunque in pratica non è lavoro né tanto meno sfruttamento ma è realmente solo formazione, allora lo stagista non ha più i requisiti per il minimo salariale.La forza della battaglia per i diritti degli stagisti a stelle e strisce viene anche in questo caso dall’aggregazione tra giovani alle prese con internship e traineeship. Sui blog studenteschi, infatti, vengono messi in risalto continuamente i motivi per cui è necessario rifiutare i tirocini non pagati: non essendo dei veri dipendenti non si può fare ricorso in caso di molestie sessuali o discriminazione razziale, i debiti degli studenti - che in America per pagare le tasse universitarie sono costretti spesso a fare dei mutui su stessi che ripagheranno una volta trovato un impiego - salgono senza alcuna certezza di un’occupazione e, circostanza a cui pochissime volte si pensa, se un’azienda non ha i mezzi per pagare uno stagista è molto difficile che possa permettersi di assumerlo alla fine. Se, infatti, poco meno di quattro stagisti su dieci senza rimborso riescono alla fine ad essere assunti (quasi al pari, 35%, di chi un tirocinio non l'ha proprio fatto), secondo dati del National Association of Colleges and Employers la cifra cambia sensibilmente quando si parla di tirocini che prevedono una congrua indennità in cui la percentuale sale al 60%. Svantaggiati da un sistema che in qualche modo pur cambiando non sembra voler modificarsi realmente, alcuni giovani americani hanno iniziato a combattere la pratica degli stage gratuiti nel settembre 2013 dando vita alla Fair Pay Campaign, una campagna per un’equa retribuzione, con lo slogan «Lottiamo per eliminare i tirocini non pagati», facendo leva sul fatto che «le opportunità dovrebbero essere date dal talento non dalla ricchezza. I tirocini fanno indebitare milioni di persone e moltissimi altri devono rinunciare ai propri sogni perché non possono permettersi di lavorare gratis». L'appello dei giovani militanti anti-stage gratuiti è semplice: «Seguiteci e combattiamo insieme per offrire un lavoro retribuito a tutti». Tra i fondatori c’era anche Christina Isnardi, studentessa alla New York University, che al terzo anno si è trovata a fare un tirocinio in una società cinematografica in cui faceva le stesse cose degli altri dipendenti, ma gratis. Così ha deciso di reagire e ha lanciato una petizione online in cui cita il Fair labor act e richiama la New York University a «cancellare gli annunci illegali di tirocini non retribuiti». In pochi giorni ha già raccolto centinaia di adesioni e l’università ha deciso di aumentare i controlli su questo tipo di annunci. A dimostrare come il problema sia entrato nel dibattito americano c’è, poi, il discorso che Hillary Clinton ha tenuto pochi mesi fa alla Ucla: parlando della disoccupazione giovanile, la Clinton ha puntato il dito contro le aziende che approfittano della giovane forza lavoro attraverso tirocini non retribuiti. Il fatto che a dirlo sia una possibile candidata alla Presidenza degli Stati Uniti – che peraltro alla Casa Bianca ha già vissuto otto anni in qualità di First Lady – potrebbe in parte consolare tutti gli stagisti che lì ci lavorano, e lo fanno gratis visto che il Fact sheet 71 che specifica quali stagisti devono ricevere il salario minimo come previsto dal Fair labor act, prevede un'eccezione per gli stagisti nel settore non profit e di governo che possono anche non essere pagati. In pratica non obbliga a non pagare i tirocinanti, ma rende lecito non farlo prevedendo che «alcuni individui possano donare il loro tempo liberamente e senza aspettarsi un pagamento». Una possibilità che viene sfruttata in pieno: per questo motivo i tirocinanti alla Casa Bianca hanno lanciato una petizione online con cui hanno raccolto più di 8mila adesioni e contano di arrivare a 10mila, per chiedere di pagare tutti i tirocinanti di quel palazzo. Qualcosa inizia a cambiare anche in un altro settore, come quello del giornalismo, dove il lavoro gratis è spesso un’abitudine. La Scuola di giornalismo della Medill Northwestern University per rispettare le regole del Dipartimento del lavoro ha scritto nel corso del 2013 alle varie testate in cui abitualmente mandava i suoi studenti per tre mesi l’anno a svolgere tirocini - ovviamente non pagati - per chiedere se sarebbero state disponibili a pagare i loro studenti. Così quindici testate hanno iniziato a pagare gli stagisti e altre diciotto hanno detto che lo avrebbero preso in considerazione. Un risultato che in altri tempi sarebbe stato improbabile, e che in Italia risulta addirittura – purtroppo – impensabile. Certo di strada ce n’è ancora tantissima da fare. Per questo ci sono gruppi come l’Intern labor rights, che si batte contro la pratica dei tirocini non pagati e grazie alla rete cerca di pubblicizzare i problemi e gli incontri periodicamente organizzati per discutere di questo problema. Con lo stesso obiettivo c’è anche il sito del Dipartimento del lavoro che mette a disposizione un numero a cui chiamare in caso si stia frequentando un tirocinio gratis se si ha il sospetto che invece andrebbe pagato. La strategia è, infatti, quella di affidarsi alle denunce degli stessi stagisti, ma come spesso capita in questi casi sono in pochi ad avere il coraggio di mettersi contro i propri superiori. Nei primi tre anni dall’approvazione delle linee guida infatti il Dipartimento è riuscito a citare solo undici aziende che non pagavano i propri tirocinanti. Salvo poi scoprire, con un’analisi più approfondita, almeno una cinquantina di stagisti non pagati, pur in assenza delle 6 regole, in tutto il territorio, dal Vermont al Texas. Chiaramente una goccia nel mare: verosimilmente bisognerebbe aggiungere a quel 50 qualche zero per arrivare al numero vero di stagisti ingiustamente privati del compenso minimo. Qualcuno suggerisce di aprire una qualsiasi pagina del sito Craigslist per riuscire a bloccare a priori gli annunci di stage gratuiti, invece di aspettare le denunce spontanee – postume – degli stagisti. Ma c’è da riconoscere che a piccoli passi qualcosa, in questo settore, sta iniziando a cambiare anche negli Stati Uniti.Marianna Lepore

Nubi sulla Garanzia giovani, mancano le aziende e le offerte di lavoro

A distanza di quasi due mesi dall'avvio del progetto Youth Guarantee italiano - simbolicamente partito il primo maggio, giorno della festa dei lavoratori - i risultati sono molto modesti e le speranze sulla riuscita iniziano ad assottigliarsi. Pochi gli iscritti totali finora (un po' meno di 90mila giovani a sette settimane dall'avvio), ma ancor più esiguo il numero di imprese, solo 90, che si sono rese disponibili a collaborare, assumendo giovani oppure ospitandoli in tirocinio. Fatti i conti, ciò significa che al momento esiste una possibilità di risposta solo per un misero uno per cento tra chi, tra i 15 e i 29 anni, si è registrato come inattivo. «Siamo a rischio boomerang» dice senza mezzi termini Gianfranco Simoncini, assessore al Lavoro della giunta della Toscana. L'occasione per fare il punto della situazione è un dibattito organizzato dall'associazione Civita nei giorni scorsi a Roma: «Aprire a grandi speranze e poi dare una risposta occupazionale a un uno o due per cento della platea degli iscritti sarebbe una grande sconfitta» incalza: «È un bene che si cerchi di recuperare il rapporto di fiducia tra i ragazzi e le istituzioni attraverso un sistema di servizi per il lavoro diversi e rinnovati rispetto al passato, ma c'è bisogno di un salto di qualità». Simoncini snocciola i numeri della sua regione, assicurando che da loro il percorso è partito: sono numerosi i giovani toscani che hanno sbrigato le prime formalità e altrettanti i «patti di attivazioni già stipulati». Che tradotto vuol dire però solo essere stati ricollocati in un limbo, in attesa che spuntino «contratti di tirocinio o servizio civile, gli unici pronti a partire entro breve». Ed è lo stesso assessore ad ammettere che, «per quanto positivo possa essere come arricchimento personale, il servizio civile, uno dei percorsi più gettonati della Garanzia Giovani, non è tuttavia vera occupazione». Gli fa eco un'operatrice di un centro per l'impiego che interviene dal pubblico: «Da noi si presentano ragazzi che magari arrivano da un'altra regione, che hanno sostenuto dei costi, anche comprando un biglietto aereo. E noi cosa possiamo offrire loro? Un corso di formazione? Un tirocinio a 400 euro nella migliore delle ipotesi?». Nel Lazio, ad esempio, sono stati fatti «accordi per inserimenti in apprendistato solo con Enel e Finmeccanica», ricorda Monica Gregori, deputata del Pd eletta nel Lazio. Al netto dei problemi organizzativi elencati dai relatori - Regioni che stentano a partire, sistemi informatici che non dialogano tra loro, incertezza sugli incentivi destinati alle aziende che contrattano - la vera questione è infatti che senza posti di lavoro concreti, e quindi aziende disposte a offrirli, la Garanzia Giovani si limiterebbe a una grande beffa. Perché è il lavoro che i ragazzi si aspettano, ed è quello che andrebbe creato attraverso una politica industriale. Invece, ammette Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera a cui sono affidate le conclusioni dell'incontro, «non possiamo dire ai giovani coinvolti che nell'arco di qualche mese avranno accesso a un lavoro di qualità [la Garanzia Giovani 'garantisce' appunto un'offerta formativa o occupazionale entro quattro mesi dall'attivazione, ndr], perché non è così». In un momento in cui, peraltro, «le politiche per il lavoro non hanno più un baricentro, con le larghe intese c'è un po' di destra e un po' di sinistra, e si procede per tentativi». Damiano fa riferimento ai tre pilastri delle azioni per l'occupazione messe in campo dal governo Renzi: decreto Poletti, legge delega e Garanzia Giovani: «un triangolo» lo chiama il parlamentare, già ministro del Lavoro ai tempi del secondo governo Prodi, su cui pende un interrogativo: «Siamo sicuri che gli obiettivi dei tre non facciano a pugni tra loro?». «Con il decreto diventa più conveniente il lavoro a termine» spiega Damiano, prendendo le distanze: «Per me è il lavoro a tempo indeterminato quello da rendere più conveniente, con un violento sconto fiscale». E con la legge delega «dovremmo stabilire qual è il centro della nostra azione». E per il terzo pilastro, la Garanzia Giovani, si apre un altro punto critico del provvedimento che l'Europa ci ha commissionato: «Non ci sono paletti, criteri, che dicano quale siano gli standard di qualità da offrire: per esempio affermando che non si possano firmare contratti a tempo di meno di sei mesi, e con una retribuzione minima stabilita». E naturalmente i tre pilastri sono strettamente interconnessi: la legge delega, spiega ancora Damiano, sarà per esempio il punto di svolta anche sul piano dei centri per l'impiego, snodo fondamentale per tutti i disoccupati e per i potenziali fruitori della Youth Guarantee italiana. Che la riforma dei cpi sia essenziale lo dicono pure i numeri: in Italia c'è un operatore ogni 250 disoccupati, quando in Germania ce n'è uno ogni 22. Qualcosa, evidentemente, non funziona. Allora ci sono Regioni che scelgono di puntare su circuito degli enti accreditati, delegando al privato ciò che il pubblico non riesce a fare, anche in tema di Garanzia Giovani. Un sistema che però è ancora a macchia di leopardo, e che rischia di non soddisfare pienamente le aspettative dei giovani. «Se non ci sarà una rivalsa sociale» chiude Damiano, «è solo perché tra i beneficiari esiste frammentazione: non possono fare massa tra di loro». Fino a quando?Ilaria Mariotti