Categoria: Approfondimenti

Nuovo apprendistato a scuola, le opposte fazioni di sostenitori e detrattori

È arrivato subito dopo gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione giovanile di inizio giugno, un 46% che pesa come un macigno, il decreto interministeriale per l'avvio di un programma sperimentale di apprendistato rivolto alle scuole superiori. Un periodo «on the job» come lo chiamano i fautori del provvedimento, che però non sembra piacere a tutti. Sostenitore del provvedimento è Enzo De Fusco [nella foto sotto], coordinatore scientifico della Fondazione consulenti del lavoro, talmente favorevole all'apprendistato nelle scuole da lanciare la proposta che il provvedimento si applichi non solo agli istituti tecnici ma anche ai licei: «Gli studenti del classico potrebbero essere impiegati in qualche giornale o azienda che faccia cultura» ipotizza. «E dirò di più: la misura renziana, invece che sperimentale, dovrebbe diventare sistematica e obbligatoria come avviene per gli infermieri e le scuole alberghiere, con esiti eccellenti». In realtà, sostiene lui, non è stato inventato nulla di nuovo: «Questo modello era già stato inserito nella legge Biagi del 2003, ma si era incagliato sul coinvolgimento delle regioni, organismi incaricati di redigere il piano formativo e le convenzioni». Insomma la norma c'era, ma come spesso accade a mancare erano i decreti attuativi. L'esecutivo attuale ha dunque solo riesumato un sistema di «alternanza scuola lavoro preesistente, aggiungendo un elemento sostanziale: il paletto delle ore che possono essere dedicate alle due attività, cosa mai avvenuta prima». Ed è proprio sul 35% di ore sottratte allo studio per dedicarle al lavoro che si è scatenata la polemica. «Per l'interazione tra apprendimento in aula ed esperienza di lavoro si potranno utilizzare fino al 35% dell'orario annuale delle lezioni» è scritto sul comunicato diramato all'indomani del decreto. «Per gli istituti tecnici e professionali si tratta, ad esempio, di un massimo di 369 ore su 1.056, ovvero di margini di autonomia nettamente superiori rispetto a quelli di cui le istituzioni scolastiche dispongono solitamente per organizzare la propria offerta formativa», puntualizzano dal ministero. Secondo De Fusco tutto dipende dalla scarsa propensione degli insegnanti a un sistema così strutturato: «La verità è che togliere ore di aula significa ridurre cattedre ai professori. Se esento uno studente per il 35% delle ore mettendolo nelle aziende, c'è qualcuno che nel frattempo nelle scuole si gira i pollici». Eppure un apprendistato di questo tipo «è uno strumento che consente all'azienda di allevarsi i suoi dipendenti già dal mondo scolastico e universitario», ricetta sicura contro la disoccupazione. «Come si fanno tre ore di inglese, così andrebbero trascorse delle ore in azienda» ragiona De Fusco. E il diritto allo studio non ne viene intaccato? «Il punto non è questo. Tutto sta nel realizzare un sistema coerente di alternanza scuola-lavoro in modo che ogni azienda vada a prendersi i soggetti di cui ha bisogno. Le aziende devono diventare lo sfogo naturale della scuola». Opposta la visione degli studenti. Danilo Lampis [nella foto in basso], coordinatore nazionale del principale sindacato studentesco italiano, l'Unione degli studenti, si scaglia contro quasi tutti gli aspetti del decreto: «È un'operazione populistica, fatta ad appena due giorni dalle ultime, allarmanti rilevazioni Istat sulla disoccupazione giovanile, e su cui noi – che facciamo parte dei tavoli ministeriali su questi temi – non siamo stati minimamente interpellati». Lampis si dice contrario anche alla filosofia dietro questo tipo di riforma, frutto delle ultime linee di indirizzo dettate dall'Europa per avvicinare il mercato del lavoro e quello delle scuole, a cui l'esecutivo si starebbe semplicemente adeguando: «L'idea è che per risolvere la disoccupazione ci si debba conformare alle esigenze delle imprese, appiattendo la didattica ai loro dettami». E inoltre «questo intervento sull'apprendistato punta a coprire un vuoto legislativo perché di fatto alcune aziende già si comportano così: è il caso di Enel, che sta sottoscrivendo accordi sul territorio per inserire apprendisti al suo interno, con un progetto sperimentale di alternanza scuola-lavoro». E che c'è di male? «Noi non siamo contrari dal punto di vista ideologico a questa visione alla tedesca (il riferimento è al modello duale, ndr)». Il problema, dice Lampis alla Repubblica degli Stagisti, è che ci sarebbe bisogno di altro: «di investimenti per un miglioramento della didattica e della formazione per esempio, quando il decreto non specifica neppure criteri esatti per la selezione delle aziende e sulla qualifica del tutor che interverrà nel percorso» denuncia. Poche garanzie in sostanza, e in effetti al punto 3 del decreto, dedicato alla tipologia dell'azienda, si parla solo di una generica «affidabilità economica e finanziaria» e di «capacità di accogliere gli apprendisti». Lo stesso per i tutor, al punto 8, per i quali è prevista solamente la modalità di selezione e nulla di più. «È un attacco alla società della conoscenza» prosegue il coordinatore dell'Uds: «Così si lede il diritto allo studio per cui un soggetto non dovrebbe mai essere immesso nel mercato del lavoro al di sotto dei 17 anni e si risponde alle esigenze di un mercato che chiede competenze sempre più basse». Con buona pace degli obiettivi della strategia di Lisbona, «che auspica più laureati per un Paese, come l'Italia, ancora ben al di sotto della media europea». La soluzione, rilancia Lampis, «potrebbe essere quella di incrementare le ore di scuola: con questa riforma si sopprimono fino a 60 giorni di aula, che potrebbero invece essere reintegrati riformulando l'orario scolastico». Ilaria Mariotti

Apprendistato sui banchi di scuola, promosso con qualche riserva

All'inizio di giugno il ministero dell’Istruzione, insieme a quello del Lavoro e dell’Economia, ha emanato un decreto che ha come oggetto «l’avvio di un programma sperimentale per lo svolgimento di un periodo di formazione in azienda, per il triennio 2014-2016, rivolto agli studenti del quarto e quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado». Obiettivo la «realizzazione di percorsi di istruzione e formazione che consentano allo studente di conseguire un diploma di istruzione secondaria superiore e contestualmente, attraverso l’apprendistato, di inserirsi in un contesto aziendale di lavoro». Soggetti coinvolti studenti e scuole e imprese pubbliche e private in possesso di una serie di requisiti descritti dal documento. Tra questi affidabilità economica e finanziaria, esperienza nella formazione di apprendisti e certificazione di qualità dei processi aziendali.  Il percorso formativo prevede l’alternanza di periodi in aula e apprendimento sul posto di lavoro, fino a un massimo del 35% dell’orario annuale delle lezioni. Le ore impiegate lavorando concorreranno alla determinazione del credito formativo necessario ai fini dell’ammissione all’esame di maturità. Ogni studente avrà un piano formativo personalizzato e sarà affiancato da un tutor scolastico, individuato tra i docenti del consiglio di istituto, e un tutor aziendale, designato dall’azienda. Saranno le stesse aziende a farsi carico, secondo il decreto, degli oneri legati al programma di apprendistato. Obiettivo principale del provvedimento mettere i giovani in condizioni di affrontare il mondo del lavoro già nel corso delle scuole superiori attraverso un’esperienza «sul campo». Quella di affiancare scuola e formazione pratica per il mondo del lavoro è un’abitudine già radicata in altri paesi europei. In Francia e Germania, ad esempio, l’apprendistato è indirizzato soprattutto a giovani a partire dai 15-16 anni (età in cui generalmente si conclude la scuola considerata dell’obbligo) ed è considerato parte integrante del percorso di istruzione e formazione professionale successivi. In Gran Bretagna nel 2004 sono stati lanciati l’Apprendistato Giovani (Young Apprenticeship), che consente a ragazzi tra i 14 e i 16 anni di affiancare al percorso scolastico un’esperienza di lavoro finalizzata al conseguimento di una qualifica professionale, e il Pre-Apprendistato, che prepara i giovani di età compresa tra i 16 e i 18 anni all’ingresso nel mondo del lavoro. Oltremanica la scuola è obbligatoria fino ai 16 anni, mentre dai 16 anni in poi si può scegliere di iscriversi alla Tertiary Education, necessaria per l’iscrizione all’università. In Italia invece si tratta di una vera e propria  novità: se l’apprendistato per la qualifica professionale si rivolge ai giovani dai 15 anni in poi, le altre due tipologie, professionalizzante e di alta formazione, sono indirizzate a ragazzi di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Nel primo caso però si parla unicamente di attività di formazione professionale sul campo e non di affiancamento scuola-lavoro. Per comprendere meglio la portata del nuovo progetto, La Repubblica degli Stagisti ha parlato con Michele Tiraboschi, giuslavorista e docente dell’università di Modena. Tiraboschi ha evidenziato i meriti ma anche i limiti del decreto: «ogni apertura che consente la collaborazione tra mondo della scuola e del lavoro non può che essere giudicata favorevolmente, visti i pregiudizi sulla formazione e l’apprendimento in ambiente di lavoro che ancora circolano in abbondanza nel nostro Paese. Certo, non si esce dalla logica della sperimentazione, mentre i dati occupazionali dei giovani potevano spingere a scelte più organiche in linea con quanto fanno da tempo altri paesi come Germania, Austria e Olanda che non a caso segnano risultati eccezionali sul tema dell’occupazione giovanile». Insomma se da un lato si tratta di una mossa senza dubbio innovativa, anche se per ora solo sperimentale, dall’altro l’Italia sta cercando semplicemente di mettersi alla pari di altri paesi esteri, che da tempo adottano con successo formule simili. Un altro punto critico riguarda il tema delle eventuali garanzie di occupabilità per i giovani che effettuano l’apprendistato: «La sperimentazione, prevedendo l’utilizzo del contratto di apprendistato, consente ai ragazzi di essere contemporaneamente studenti e lavoratori. Secondo quanto previsto dal Testo Unico del 2011 l’azienda e l’apprendista potranno decidere se proseguire il rapporto di lavoro o meno. È difficile stabilire a priori cosa accadrà anche perché la congiuntura economica attuale non permette di fare previsioni a lungo termine. Tuttavia la formazione on the job e il contatto con il mondo del lavoro accresceranno di certo l’occupabilità del giovane, offrendogli maggiori possibilità di collocarsi al suo interno».E la retribuzione? Nel decreto non è presente alcun accenno, ma Tiraboschi chiarisce che «trattandosi di un normale contratto di apprendistato la meteria è gia regolata dalla legge e della contrattazione collettiva. Il trattamento retributivo dell'apprendista corrisponde di regola a una percentuale che aumenta nel corso del tempo, ovvero un sottoinquadramento fino a due livelli rispetto alla retribuzione di destinazione. Parliamo in ogni caso di cifre tre-quattro volte superiori a quelle di uno stage, con una parte di contributi previdenziali».Il provvedimento dà però in ogni caso l’impressione che si potesse fare di più: «Si poteva avere più coraggio intervenendo direttamente sul Testo Unico e consentendo all’apprendistato scolastico di decollare in tutti gli istituti superiori. Inoltre, perché possibilità di questo genere siano davvero utilizzate è necessario comporre delle vere e proprie task force di esperti del sindacato e delle imprese che assistano giovani, datori di lavoro e scuole nella costruzione dei percorsi» chiude Tiraboschi. Così come accade per tutte le sperimentazioni, bisognerà attendere prima di verificarne l’effettiva portata e soprattutto l’effettivo ritorno in termini di maggiore occupazione giovanile. Al momento il nostro Paese ha solo fatto un passo in più verso l’Europa: se questo apprendistato a scuola "all'italiana" funzionerà o no, lo si potrà dire solo tra qualche anno.Chiara Del PrioreLa foto è di Northen Ireland Executive in modalità Creative Commons

Garanzia Giovani, il mistero del tariffario che nessuno può vedere

Il governo Renzi ha fatto della trasparenza uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma, almeno per quanto riguarda il piano Garanzia Giovani, la promessa non sembra completamente mantenuta. Sono due gli aspetti – entrambi essenziali – su cui le informazioni, se non del tutto assenti, sono frammentarie e confuse. Prima di tutto, il tariffario della Youth Guarantee italiana. Un documento importantissimo, perché è in base a questa griglia che viene stabilita l'indennità che i soggetti presi in carico percepiranno (per esempio in caso di stage). E sempre in questo tariffario sono indicati i corrispettivi che verranno erogati agli enti che svolgono la funzione di intermediari nel processo di inserimento – occupazionale o formativo – del giovane, i bonus per le aziende, gli emolumenti per chi fornirà servizi di orientamento o formazione, o lezioni di autoimprenditorialità, insomma tutte le opzioni previste dal programma. Il primo accenno all'esistenza di un tariffario era stato fatto proprio dal ministero del Lavoro Giuliano Poletti, che in un'intervista al Corriere della Sera dello scorso 27 aprile aveva dichiarato alla giornalista Rita Querzè che «un tariffario è stato appena definito dal ministero del Lavoro e sarà uguale in tutte le Regioni» con un «listino prezzi molto articolato perché varia a seconda della 'piazzabilità'». Tanto che il Corriere aveva corredato l'intervista con un boxino che conteneva alcune cifre, ciascuna abbinata a una prestazione. Uno scooppone, insomma.Vale la pena ricordare che in ballo ci sono fondi molto cospicui, quasi tutti di provenienza europea, per un totale di oltre 1,5 miliardi di euro. Un bel tesoretto. La Repubblica degli Stagisti decide dunque di rivolgersi al ministero chiedendo di poter ricevere e visionare il documento ufficiale alla base del cosiddetto tariffario. Quantomeno per verificare le informazioni riportate sul Corsera, che parlano ad esempio di rimborsi di 500 euro al mese per gli stagisti inseriti nel programma Garanzia Giovani, di importi tra i 600 e i 1200 euro per le agenzie che riusciranno a ottenere per i loro "assistiti" contratti a tempo determinato, e dai 1500 ai 3mila euro per quelle meritevoli di aver fatto sottoscrivere un indeterminato.  A fine aprile dunque partono i tentativi, con mail e telefonate al ministero. Il primo a rispondere è Salvatore Pirrone, direttore generale alle politiche attive per il lavoro, che conferma l'esistenza del tariffario: «In effetti abbiamo concordato con le regioni lo schema di azione, sulla base di nove misure, ciascuna accompagnata da una descrizione e da vincoli di rendicontazione» riferisce alla Repubblica degli Stagisti. «La documentazione però è corposa e complessa, onde stiamo predisponendo una 'vulgata' per la comunicazione degli elementi essenziali. La manderò appena pronta», promette. Siamo al 10 maggio. Seguono altre mail e telefonate, ma dopo oltre un mese nessun file è mai arrivato. Stessa sorte con la segreteria tecnica del dicastero, diretta da Bruno Busacca, che alla Repubblica degli Stagisti sempre intorno alla metà di maggio ribadisce: «Il tariffario esiste, per questo Poletti ne ha parlato nell'intervista al Corsera: ma si tratta di documentazione al momento 'riservata'». Assicurando ancora una volta che il tariffario verrà messo a disposizione non appena possibile, e in tempo brevi. Ma per ora di quel tariffario non c'è nessuna traccia: non solo non è stato inviato alla redazione della Repubblica degli Stagisti, malgrado le assicurazioni degli alti dirigenti, ma non è nemmeno stato pubblicato sul sito. Tutto questo nonostante le interviste e le recenti pubbliche dichiarazioni di Poletti, spesso incentrate proprio sulla necessità di rendere trasparenti tutti i meccanismi di funzionamento della Garanzia Giovani. E nonostante nello spot del programma si dica che la «Garanzia Giovani offre alle aziende bonus economici per le nuove assunzioni e incentivi per tirocinio e apprendistato». Sì, ma a quanto ammontano? Mistero. Si sa solo (grazie all'opuscolo che il ministero ha veicolato allegandolo a un numero del quotidiano Il Sole 24 Ore) che «i datori di lavoro che, con l'intermediazione dei servizi per il lavoro, occuperanno giovani fino a 29 anni, avranno diritto a un bonus non cumulabile. Il riconoscimento spetta per la stipula di contratti a tempo determinato o somministrazione (tra 6 e 12 mesi o superiori ai 12 mesi), e a tempo indeterminato, ed è diversificato per tipologia contrattuale, profilo del giovane e differenze territoriali. Non spetta in caso di apprendistato, per il quale è già previsto un incentivo specifico». Nella pagina seguente dell'opuscolo una tabellina spiega che il "profiling del giovane" prevede che a ciascun fruitore di Garanzia Giovani venga attribuito un indice di svantaggio. Quattro le categorie: basso, medio, alto e molto alto. Per il contratto a tempo indeterminato l'incentivo all'assunzione che percepiranno le aziende sarà di 1.500 euro per un profilo basso, 3mila per un profilo medio, 4.500 per un profilo alto e 6mila per un profilo molto alto. Per i contratti temporanei invece le aziende non percepiranno nulla in caso di assunzione di persone con indice di svantaggio basso o medio; in caso di contratto a tempo determinato o di somministrazione di durata compresa tra 6 e 11 mesi percepiranno 1.500 euro per i profili con indice di svantaggio alto e 2mila euro per quelli con indice molto alto; mentre in caso di contratti a tempo determinato o di somministrazione dai 12 mesi in su, prenderanno 3mila euro per ogni contratto a un profilo alto e 4mila euro per profilo molto alto. Nessuna informazione, in questo opuscolo, sui bonus previsti per chi svolgerà l'attività di intermediazione. Le criticità sulla trasparenza della gestione del piano Garanzia Giovani riguardano anche le informazioni disponibili sul sito del ministero. Incredibilmente, manca ancora il nuovo Piano di attuazione italiano della Garanzia per i Giovani, che il governo Renzi ha inviato a Bruxelles poche settimane dopo il suo insediamento al fine di comunicare e far approvare le modifiche apportate rispetto al piano (già vidimato dalla Commissione Ue) del governo Letta. Perché questo documento non è ancora pubblico?Inoltre, da qualche tempo c'è una pagina dedicata al monitoraggio settimanale del progetto: il primo report risale all'8 maggio. Settimana dopo settimana viene fornito un aggiornamento relativamente a quanti giovani hanno aderito (erano quasi 83mila al 12 giugno), con dati sull'età, la provenienza geografica e il genere, e specificando se la richiesta di accesso al sistema Garanzia Giovani è avvenuta tramite il portale nazionale o quello regionale. Un sistema apparentemente impeccabile, che però forse soffre di qualche deficit di programmazione dato che appena qualche giorno fa è andato in panne: non si riuscivano più a scaricare i report settimanali. Fortunatamente il problema adesso sembrerebbe risolto. Ma il monitoraggio ha una pecca ben più importante: dice poco sugli esiti del piano. Sarebbe fondamentale capire infatti cosa si sta facendo di questi 83mila ragazzi già iscritti al programma: qualcuno di loro è già stato preso in carico, a più di un mese e mezzo dall'avvio della fase di iscrizioni? Ci sono Regioni già operative, qualcuna ha già cominciato la fase di contatto con gli aspiranti fruitori del servizio? La Garanzia Giovani – per sua stessa definizione – deve garantire un'offerta di lavoro o formativa entro quattro mesi dalla richiesta dei potenziali beneficiari. Si dia tempo al tempo dunque, dirà qualcuno: in fin dei conti è passato solamente un mese e mezzo. Ma visti i numeri sulla disoccupazione giovanile, bisognerebbe mettere il turbo sia sulla trasparenza sia sulle prestazioni. Ilaria Mariotti 

Dalla valigia di cartone al trolley, l’emigrazione italiana è cambiata: ora deve cambiare l’Aire

C’era una volta in cui gli italiani partivano per terre lontane, alla ricerca di qualsiasi tipo di lavoro per «campare». Oggi gran parte dei nostri connazionali lascia l’Italia con una o più lauree in tasca per fare formazione all’estero o trovare un’occupazione all’altezza dei propri titoli di studio.Un ritratto a quanto pare confermato dai numeri. Qualche settimana fa l’Aire, l'Anagrafe italiani residenti all’estero, ha diffuso i dati relativi ai trasferimenti dei nostri connazionali oltreconfine, individuando per il 2013 circa 94mila espatri, con un +19% rispetto all’anno precedente. Protagonisti soprattutto giovani e adulti fino ai 40 anni. Solo per la fascia d’età 20-40 la percentuale sfiora infatti il 30% in più in rapporto al 2012. Sono 45mila i connazionali di questa fascia che si sono spostati all’estero lo scorso anno, circa il 48% del totale, equamente suddivisi tra quelli di età compresa tra i 30 e i 40 anni e quelli tra i 20 e i 30.Questa «nuova» emigrazione sembra però paradossalmente sfuggire proprio all’Aire, che da più di un ventennio rappresenta l’anagrafe ufficiale dei connazionali all’estero. Istituita con la legge 470 del 27 ottobre 1988, l’Anagrafe fa capo al ministero dell’Interno; censisce e raccoglie i dati relativi ai cittadini italiani che spostano la propria residenza fuori dai confini nazionali. Sono obbligati a iscriversi all’Aire i cittadini italiani che modificano la propria residenza per un periodo superiore ai 12 mesi; i cittadini italiani nati all’estero e da sempre residenti fuori dall’Italia e infine tutti coloro che acquisiscono la cittadinanza italiana all’estero. È lo stesso cittadino a richiedere gratuitamente l’iscrizione all’ufficio consolare di competenza entro 90 giorni dallo spostamento della residenza e a comunicare eventuali successive modifiche dei dati rilasciati al momento dell’iscrizione (ad esempio trasferimento di residenza, modifica dello stato civile, rientro definitivo in Italia). Essere iscritto all’Aire comporta la possibilità di usufruire di una serie di servizi: ottenere il rilascio o rinnovo di documenti di identità e certificazioni, ad esempio. E, non ultimo, consente di godere di una serie di diritti, come quello di voto, esercitato per corrispondenza. Il problema però è che l’Aire esclude dall’obbligo di iscrizione una serie di soggetti. Nello specifico: i lavoratori stagionali; i dipendenti di ruolo dello Stato in servizio all’estero e i militari italiani in servizio presso uffici e strutture Nato dislocati all’estero e soprattutto le persone che si recano all’estero per un periodo di tempo inferiore a un anno. Ad esempio uno studente italiano che va a fare un Erasmus non è tenuto a iscriversi, in quanto le esperienze all’estero durano non più di 12 mesi, così come un giovane che va a fare una esperienza all'estero ma che nella maggior parte dei casi non sa per quanto tempo resterà fuori. Sono numerosi poi i giovani che partono per esperienze di stage, ad esempio presso istituzioni UE, della durata media di cinque-sei mesi.Ovviamente non è facile stabilire quanti connazionali prolungano la permanenza e si iscrivono all'Aire. Fatto sta che oggi esso è un ente non rappresentativo della totalità degli italiani presenti oltreconfine. La prova è abbastanza lampante: secondo i dati 2012 di circa 4milioni e 200mila iscritti totali all’Aire, più di un milione e 600mila ha più di 50 anni e oltre il 37% del totale è iscritto da più di 15 anni e quindi si è spostato ormai da tempo. Maria Chiara Prodi, bolognese a Parigi, tra le fondatrici di ExBo, rete virtuale dei bolognesi nel mondo, analizza da tempo le dinamiche della «nuova» emigrazione: «I disagi per un cittadino in mobilità non iscritto all'Aire non sono pochi. Oltre alla precarietà e all'incertezza della permanenza, mi soffermerei anche sul tema sanitario. Una delle ragioni principali per cui i nuovi emigranti italiani non si iscrivono all'Aire è per non perdere il medico di base in Italia. Non sapendo quanto durerà un contratto, oppure lavorando stabilmente su due paesi, preferiscono restare in una situazione irregolare dal punto di vista burocratico, ma più funzionale nella vita di tutti i giorni». Aprire un dibattito sull’attuale ruolo dell’Aire attualmente sembra quasi doveroso.  Un’esigenza condivisa anche da alcuni membri delle istituzioni: «Dinamiche e meccanismi dell’emigrazione sono cambiati: chi va all’estero per lavoro o studio parte col trolley, non con la valigia di cartone. In un contesto simile le norme che regolano l’iscrizione all’Aire sembrano poco al passo con i tempi e credo che vadano aggiornate. Se decidiamo che gli italians sono una risorsa non solo a livello elettorale, dobbiamo rendere utile questo strumento non solo a chi risiede all’estero per un anno. Non dobbiamo concepire l’Aire solo come un albo generatore di diritti», spiega Pierpaolo Vargiu, presidente della commissione Affari Sociali alla Camera. Come fare allora? Secondo il deputato di Scelta Civica «una soluzione potrebbe essere la creazione di un elenco speciale per chi si trova temporaneamente in un altro Paese, così da equiparare tali soggetti ai residenti all’estero». Una proposta avanzata lo scorso marzo dallo stesso Vargiu e sfociata in un emendamento che chiedeva il diritto di voto per corrispondenza ai cittadini in mobilità. L’emendamento bocciato alla Camera è solo l’apice di un dibattito sul voto ai cittadini in mobilità non inclusi nelle liste Aire aperto da tempo. Per le imminenti elezioni europee è stato intanto permesso ai cittadini temporaneamente all'estero per motivi di studio o di lavoro per un periodo di tempo inferiore ai 12 mesi di votare presso le sedi elettorali istituite dall'ambasciata o dal consolato di riferimento dopo la presentazione di un'apposita domanda al consolato, che però andava inoltrata entro il 6 marzo scorso.Si tratta di una soluzione solo provvisoria, che non risolve in via definitiva un problema ormai aperto. All’inizio del 2013 erano stati gli studenti Erasmus a riportare l’attenzione sul tema attraverso una protesta partita dal web e approdata a Palazzo Chigi, ma che si è poi conclusa con un nulla di fatto. Attualmente un decreto (decreto legge 223 del 18 dicembre 2012) consente l’esercizio del voto per corrispondenza anche a un’altra serie di soggetti, tra cui professori e ricercatori universitari all’estero da un minimo di sei mesi e non superiore a 12 o appartenenti alle forze armate o alla pubblica amministrazione, temporaneamente all’estero per motivi di servizio, per una durata superiore a tre mesi e inferiore a un anno. Lasciando però fuori tanti altri. Al momento, spiega Vargiu, «il governo ha preso tempo per studiare una misura migliore» rispetto alla proposta di due mesi fa. Sarebbe anche opportuno che iniziasse a prendere seriamente in esame anche una revisione della legge che renda l’Aire uno strumento in grado di essere uno specchio della realtà effettiva, tutelando maggiormente i diritti di tutti i nuovi «emigranti».Chiara Del Priore

Garanzia Giovani, il ministro Poletti promette: massima trasparenza

Un incontro che ha dimostrato la grande aspettativa che c'è verso l'iniziativa Garanzia Giovani, sia da parte della politica sia sopratutto da parte dei diretti interessati, i giovani: l'evento di lancio dello schema Garanzia Giovani, promosso dal Forum Nazionale dei Giovani e dall'Intergruppo parlamentare under 35 la settimana scorsa nell'innovativo centro per l'impiego Porta Futuro a Roma, è stato molto partecipato. La mattinata ha visto la partecipazione del presidente della Camera Laura Boldrini e del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti; il protagonista è stato certamente il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, chiamato a dare conto dei primi passi della Garanzia Giovani e a rispondere alle istanze delle tante associazioni di giovani intervenute all'evento.Dal dibattito è emersa la consapevolezza che questa iniziativa è una scommessa che bisogna per forza vincere. L'hanno confermato tutti, da Laura Boldrini a Nicola Zingaretti, dalla parlamentare Anna Ascani al portavoce del Forum Giuseppe Failla: i giovani devono essere messi al centro dell'azione politica. Non è più tollerabile che restino ai margini del mercato del lavoro. E attraverso questa Garanzia Giovani, una iniziativa di matrice europea, si deve tracciare una strategia italiana ed europea per il rilancio dell'occupazione giovanile.Due le cose più importanti dette dal ministro Poletti. La prima, che ci sarà massima trasparenza sullo stato di avanzamento della Garanzia: il ministero si è impegnato a pubblicare ogni settimana un report con gli aggiornamenti in tempo reale delle azioni realizzate, ammettendo che solo così si permette all'opinione pubblica di giudicare l'operato del ministero, ma sopratutto di aggiustare il tiro in itinere.E infatti venerdì scorso l'ufficio stampa del Ministero ha diramato il secondo report settimanale, dando notizia che a due settimane dall’avvio del programma (per ora siamo nella fase delle autocandidature, che devono essere effettuate attraverso il sito Garanziagiovani.gov.it o i portali regionali) sono quasi 46mila i giovani che hanno fatto richiesta di essere inseriti nel programma Garanzia Giovani, per un 54% uomini e 46% donne. Il dato più interessante è quello anagrafico, perché ben la metà delle candidature (il 49%) arriva da persone di età compresa tra i 25 e 29 anni. Una fascia di età che per ora è esclusa dal perimetro di azione della Garanzia (che si occupa solo dei 15-24enni senza lavoro), ma che potrebbe essere oggetto nei prossimi mesi di azioni ad hoc, come sottolineato in più occasioni da Poletti. Un altro aspetto rilevante è quello della mobilità interregionale: «Il 26% ha scelto una regione diversa da quella di residenza. La regione con la differenza maggiore tra residenti che hanno aderito e coloro che hanno scelto una regione diversa risulta la Sicilia con 3.100 giovani (pari al 33% degli aderenti residenti in Sicilia) che ha scelto i servizi di altre regioni» si legge nel report.L'altra cosa cruciale emersa la settimana scorsa all'evento di Porta Futuro è poi il chiarimento del ministro sulla natura della Garanzia Giovani: alla domanda secca «La Garanzia è un ammortizzatore sociale?» Poletti ha infatti risposto in maniera chiarissima: «No. È un'iniziativa di politica attiva del lavoro».Tutto bene allora? Non proprio. Perché, report a parte, il nuovo piano della Garanzia Giovani - inviato a Bruxelles dopo il cambio di governo con i ritocchi di Poletti - non è ancora stato reso pubblico. Sul sito del ministero c'è quello vecchio, che il governo Letta aveva presentato alla Commissione europea e che era stato approvato. Ma quello nuovo ancora no: dunque la speranza è che nell'ottica della trasparenza il ministero lo pubblichi al più presto.Un altro documento che dev'essere ancora reso pubblico è poi il famoso “Tariffario” con i fondi previsti per ciascuna prestazione, a cominciare dalla indennità di 500 euro al mese che le Regioni dovrebbero garantire per ciascuno stage attivato nell'ambito della Garanzia giovani. Ma non solo: nel tariffario dovrebbero essere esplicitati anche molte altre voci di spesa interessanti, come gli incentivi alle assunzioni, le commissioni per l'intermediazione, il compenso orario per i formatori. Tutte informazioni che devono essere il prima possibile rese pubbliche, proprio perché la Garanzia Giovani sia una iniziativa di vetro e tutti i giovani possano sapere come verrà speso il miliardo e mezzo di euro che deve servire per rilanciare l'occupazione e l'occupabilità giovanile.Eleonora Voltolina

Per chi è diplomato o laureato da più di 12 mesi lo stage è un sogno proibito?

Nel mare magnum degli stage, diventati spesso per carenza di altre opportunità un obiettivo ambìto dai giovani italiani, vi è una tipologia che a molti sembra un traguardo ancora più difficile: quella dei tirocini «di inserimento o reinserimento lavorativo», che possono essere attivati dai servizi per l’impiego (e strutture affini) a favore di chi è laureato o diplomato da più di 12 mesi. Parliamo quindi della grande famiglia dei tirocini «extracurriculari», svolti quando si è finito il percorso di studi, che sono di competenza regionale e hanno visto nell’ultimo anno, una regolamentazione differente in ognuna delle Regioni italiane - con la conseguenza che è difficile fare un discorso unico per tutte e spesso, a pagarne gli effetti, sono gli aspiranti tirocinanti. All'interno della grande famiglia dei tirocini extracurriculari, qui ci focalizziamo in particolare non su quelli «formativi e di orientamento», cioè quelli attivati entro i 12 mesi dalla fine degli studi, bensì su quelli «di inserimento o reinserimento lavorativo».Teoricamente tutte le Regioni oggi hanno una legge che consente l’attivazione di questo tipo di stage, destinati espressamente (non senza detrattori) a chi non è riuscito nel primo anno dopo il diploma o la laurea a trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Eppure tanti lettori della Repubblica degli Stagisti continuano a denunciare di avere difficoltà nell’attivazione di questi stage, lamentandosi che «le aziende cercano stagisti solo entro i 12 mesi dalla laurea» e che si blocchino di fronte a una dicitura che in effetti richiama esplicitamente uno sbocco occupazionale che non tutte vogliono o possono offrire al termine dell'esperienza formativa. Fermo restando che sono le aziende ad avere l’ultima parola e quindi a decidere chi inserire, la Repubblica degli Stagisti ha deciso di vederci chiaro contattando i centri per l’impiego dei capoluoghi di regione per capire quale fosse la realtà dei fatti. Ed è qui che, parlando con i vari responsabili, si ha il primo impatto con una realtà diversa da quella raccontata dai giovani, che viene poi confermata dai numeri. I tirocini su persone che hanno completato gli studi da oltre 12 mesi, e che da un paio d'anni vengono definiti «di inserimento», nella stragrande maggioranza dei casi continuano a essere attivati. Cifre alla mano, quelli avviati nei primi tre mesi del 2014 non si discostano particolarmente da quelli del primo trimestre del 2013. A Milano, dove i centri per l’impiego sono confluiti insieme ad altri consorzi nell’Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro, non ci sono state grandi differenze tra il 2013 e il 2014 nell’attivazione dei tirocini di inserimento. Clara Nordio, collaboratore amministrativo che si occupa di tirocini per l’Afol Nord Milano, dice che in tutto il 2013 ne sono stati attivati 201. Nel primo trimestre del 2014, 68: un numero quasi identico a quello dell’anno precedente. Le aziende «non hanno difficoltà nell’attivare tirocini per chi ha superato i 12 mesi dalla laurea o diploma né per la dicitura “inserimento”». In questo caso la nuova normativa regionale non ha quindi prodotto alcuna difficoltà e anzi l’80% dei tirocini attivati, secondo i dati dell'agenzia, si trasformano poi in assunzione: apprendistato, tempo determinato o collaborazioni varie. Il dato positivo continua anche nel resto della provincia milanese tanto che Annalisa Gatti, dell’Afol ovest Milano, si dice convinta che «la legge regionale lombarda ha favorito questi tirocini e non ci sono aziende contrarie ad attivarli a chi non è più neodiplomato o neolaureato». Ancora una volta sono i numeri a confermarlo: se in tutto il 2013 sono stati attivati 317 tirocini di cui 79 nei primi tre mesi, nel primo trimestre del 2014 si è già a 99. Numeri incoraggianti anche per i centri per l’impiego di Venezia e Mestre che nel 2013 hanno promosso in totale 314 stage di inserimento di cui 51 nei primi tre mesi, mentre nel primo trimestre 2014 ne hanno già avviati 94. Anche in questo caso Giuseppe Poletto, del cpi, conferma che la nuova legge regionale veneta «ha sicuramente favorito questi tirocini rispetto alla norma introdotta dall’allora ministro Sacconi che li aveva ristretti entro 12 mesi dal titolo di studio a cui dovevano essere coerenti», ma ammette che le aziende «preferirebbero fare tirocini formativi perché hanno uno scopo sostanzialmente diverso dall’inserimento e quindi si sentono meno vincolate». Poletto aggiunge che i tirocini stanno diventando il principale strumento di ingresso nel mondo del lavoro, soprattutto per i laureati, a scapito dell’apprendistato che viene sempre criticato. La provincia con il calo più forte è quella di Genova, dove nel 2013 i centri per l’impiego avevano attivato 1493 tirocini di inserimento - mentre nel primo trimestre del 2014 si è fermi a 376 di cui ben 71 sono proroghe. «Il trend del numero di attivazioni è in decrescita dal 2010» spiega Giovanni Daniele, dirigente dei servizi per l’impiego, «legato anche al fatto che dal 2012 la Provincia non ha più finanziato l’indennità di partecipazione di 309 euro mensili». Le imprese insomma non vogliono o non possono pagare di tasca propria il compenso degli stagisti: da qui il forte blocco che si riscontra in Liguria nell’attivazione di tutti i tirocini extracurriculari, dunque non solo quelli «di inserimento» ma anche quelli «formativi e di orientamento». Una situazione simile anche a Cagliari dove Maria Pina Casula, del Centro servizi per il lavoro, conferma che a partire dal 2011 a oggi i tirocini di inserimento si sono ridotti notevolmente. In tutto il 2013 quelli attivati sono stati solo 11 e nel primo trimestre del 2014 si è fermi a un solo tirocinio. «La causa principale che blocca le aziende non è il termine “inserimento”» specifica Casula «bensì l’erogazione dell’indennità di partecipazione stabilita secondo la legge regionale per un importo non inferiore a 300 euro». Le aziende sarde hanno infatti avuto molti problemi di sostenibilità nell’ultimo anno tanto che «molte sono in cassa integrazione e hanno avuto diversi licenziamenti negli ultimi dodici mesi». Diversa invece la situazione a Roma. Nel centro per l’impiego di Cinecittà, il più grande della Capitale, nel 2013 sono stati attivati 2.186 tirocini di inserimento: un numero che rappresenta più della metà del totale degli stage attivati nell’intera provincia. E se nel primo trimestre del 2013 quelli attivati erano 530, nel 2014 si è a 606. L’incremento è quindi evidente: le aziende non scartano i laureati e diplomati da più di un anno perché quando scoprono che un tirocinio extracurriculare di orientamento - il "classico" per il neolaureato - può durare al massimo sei mesi, mentre un tirocinio extracurriculare di inserimento può durare fino a 12 mesi, spesso preferiscono la seconda opzione. La nuova legge regionale ha quindi favorito anche in questo caso i tirocini di inserimento - che sono sì propedeutici all’assunzione, ma senza che ciò sia formalizzato attraverso un obbligo di legge.Anche a Potenza i tirocini di inserimento vengono attivati senza problemi e sono «in costante crescita», pur con numeri esigui: «Nessuno ostacolo o pregiudizio è stato frapposto dalle aziende» spiega Maria Vulpio, responsabile del cpi del capoluogo lucano,  ma c’è stato un blocco totale dell’attivazione di questi stage dal 23 agosto 2013 fino a tutto il 15 febbraio 2014, perché mancava una legge regionale che li disciplinasse. La situazione è cambiata con l’approvazione della nuova legge il 16 febbraio di quest’anno. Da allora questi tirocini vengono attivati e «non risulta che le aziende operanti nell’ambito territoriale di questo centro scartino a priori chi si è laureato da più di 12 mesi, né che il termine “inserimento” abbia bloccato o infastidito le aziende». Anzi, Vulpio ritiene che la recente normativa regionale li stia agevolando anche se su un totale di 22 tirocini attivati nel 2013 di cui 6 nel primo trimestre, nel 2014 quelli attivati nei primi tre mesi sono 4, ma la loro attivazione è partita solo dalla fine di febbraio.Numeri leggermente migliori in Calabria: al cpi di Catanzaro su un totale di 39 tirocini di inserimento attivati in tutto il 2013 - di cui una decina nei primi tre mesi - nel primo trimestre del 2014 si è già a 15 stage. Dal centro per l’impiego escludono che le aziende scartino i laureati da più di un anno e che siano bloccate dal termine “inserimento”, né si notano particolari cambiamenti con l’introduzione della nuova legge regionale.Un caso a parte è invece rappresentato dal Trentino Alto Adige, dove i tirocini di inserimento non esistono proprio. Come precisa alla Repubblica degli Stagisti Mauro Ghirotti, direttore dei servizi per l’impiego, nella nuova legge - che qui è provinciale - si parla solo di «tirocini formativi e di orientamento o di tirocini estivi». Per i quali c’è stato peraltro un notevole incremento tra il 2013 e il 2014: nei primi tre mesi dell’anno passato erano stati promossi solo 59 tirocini, contro i 139 attivati fino ad ora.La Repubblica degli Stagisti ha provato a contattare anche la sede milanese di Sportello Stage, che sul suo sito si autodefinisce come «servizio pubblico gratuito gestito da Actl per la promozione di stage» (anche se poi in realtà il servizio è gratuito solo per i giovani, mentre le aziende pagano una fee per l'attivazione di stage) e che è amministrato da Actl, associazione senza fini di lucro esistente dal 1986. Ma i dati sull’attivazione dei tirocini di inserimento saranno al centro di un dossier di prossima pubblicazione realizzato dal loro Osservatorio e non è stato possibile avere nessuna anticipazione né paragonare i loro risultati con quelli dei centri per l’impiego. Dall’inchiesta fin qui condotta si può comunque trarre la conclusione che nonostante il tirocinio di inserimento venga percepito come raro dai tantissimi giovani ormai non più neolaureati o neodiplomati, in realtà le imprese si dimostrano abbastanza favorevoli a questo tipo di stage. Pur dovendo, infatti, sostenere una spesa per il rimborso dovuto ai tirocinanti, questa modalità permette loro di avere il giovane in azienda per un periodo più lungo, fino a dodici mesi, avendo dunque più tempo a disposizione per testarne le abilità. E l'impegno all’eventuale assunzione alla fin fine si riduce alla parola che definisce questa tipologia di tirocini, senza che vi sia effettivamente un obbligo all'«inserimento». Concetto che alcuni centri per l’impiego illustrano alle imprese al fine di eliminare il “panico da assunzione obbligatoria”. E i numeri mostrano che quello di inserimento rivolto a persone diplomate o laureate da oltre 12 mesi è una tipologia di stage in cui le aziende sembrano credere. Marianna Lepore CONDIVIDI SU FACEBOOK

Volontariato: sempre più numerosi i giovani, soprattutto nella cooperazione internazionale

Sempre più volontariato e sempre più i giovani coinvolti. Vanno in questa direzione i dati raccolti nell'ultimo sui rapporto dal CSVnet, organo che dal 2003 rappresenta la quasi totalità dei 78 centri di servizio per il volontariato presenti in Italia - figure istituite con la legge 266/91, che prevede una gestione a carico di enti locali e finanziamenti da parte di fondazioni bancarie. Nonostante le difficoltà nel censire una realtà estremamente frammentaria e composita, è appurato che il fenomeno sia in crescita. E non è solo un'idea frutto del sentito dire, bensì «l'esito di studi condotti in tempi recenti» come confermano dall'ufficio stampa del CSVnet. Tra questi il più importante è quello dell'Istat che ha di recente fotografato la situazione del no profit in Italia, analizzando nello specifico il ruolo che il volontariato svolge al suo interno. Ne è emerso che i volontari in questo comparto sono oggi quasi cinque milioni, per la precisione 4 milioni e 758mila persone, in crescita del 43,5% nel decennio 2001-2011. L'identikit del volontario? Maschio (68%), di età compresa tra i 30 e i 54 anni (43%, mentre i 19-29enni sono il 16%), per lo più diplomato (nella metà dei casi). I laureati sono solo un quinto, mentre quelli con la sola licenza media uno su tre. Ma a fornire il polso della situazione è anche quanto rilevato dal CsvNet a livello delle scuole. Nel 2011 i Csv hanno svolto attività di promozione del volontariato in oltre 2mila istituti scolastici: «1.415 sono gli istituti superiori, 343 le scuole medie e 293 le elementari», si legge nell'ultimo report dell'ente sulla propria attività. Gli studenti interessati sono stati oltre 225mila, con un incremento del 38% rispetto al 2010, e quasi 6mila i docenti coinvolti (anche qui con un notevole aumento: un quinto in più). In un solo anno i ragazzi che hanno deciso di intraprendere il percorso sono lievitati di più di un terzo. Ne sanno qualcosa i Cesv regionali, come quello del Lazio. Alla Spes, uno dei centri romani che si occupa di smistare le richieste, la domanda degli under 30 è lievitata. «Non abbiamo degli studi veri e propri ma la percezione è questa», conferma alla Repubblica degli Stagisti Irene Troìa, responsabile comunicazione. «Soprattutto da quando abbiamo aperto il portale Trovavolontariato, attraverso cui mettiamo i ragazzi in contatto con le diverse associazioni. Si rivolgono direttamente a noi per essere indirizzati in un percorso». Il settore che va per la maggiore in questi casi «è l'infanzia» prosegue Troìa, «forse ingenuamente si crede che avere a che fare con  bambini sia più semplice, anche se in verità non lo è». A livello nazionale i dati statistici rilevano che nella fascia 19-29 la maggiore concentrazione di volontari presta servizio nei settori cultura e sport, sanità, ambiente e cooperazione internazionale. E proprio in quest'ultimo ambito è attiva la Youth Action for Peace Italia (Yap Italy), associazione internazionale non governativa che gestisce campi di volontariato internazionale e progetti di Servizio volontario europeo (questi ultimi finanziati però dalla Commissione Ue e rivolti ai ragazzi tra i 18 e i 30 anni: un programma quindi più strutturato, «molto simile al servizio civile nazionale» come si legge sul sito). «La tendenza dei giovani italiani è di avvicinarsi di più al mondo internazionale anche attraverso esperienze di volontariato» spiega alla Repubblica degli Stagisti Liza Zaytseva di Yap Italia, che ogni anno spedisce verso mete straniere circa trecento volontari soprattutto tra i 18 e i 35 anni (nel mondo sono invece circa 20mila), e che di recente è stata ospite di un seminario del Comune di Roma sulle opportunità nei campi di volontariato. Il motivo è che «non bastano più i titoli accademici, ma sono necessarie capacità di lavorare in gruppi internazionali, anche per aprirsi al lavoro nel mercato unico europeo. Nei gruppi che formiamo, tutti eterogenei dal punto di vista delle nazionalità, si parla ad esempio solo inglese». Le motivazioni dietro la scelta possono però dipendere da fattori diversi: «È un fatto personale, ma passarci vale molto di più di un'esperienza accademica» prosegue, «per alcuni potrà significare una vacanza normale, per altri la volontà di fare qualcosa di socialmente utile attraverso uno strumento di promozione della pace». Un po' di fascino i campi di volontariato lo hanno forse ereditato dalle loro radici lontane: «I primi sono comparsi nel 1923 dopo la Prima guerra mondiale in un paesino francese dove venivano raccolti ragazzi francesi per riparare oggetti». In Italia invece fu l'alluvione di Firenze del 1966 a far nascere il primo movimento cristiano per la pace, prodromo dell'attuale Yap, operativo nella strutturazione attuale dal 1997. «I campi non vanno considerati come lavoro gratuito, ma come strumenti di pace e solidarietà» puntualizza la Zaytseva, aggiungendo che le destinazioni prescelte nel caso dello Yap non riguardano «popolazioni a rischio o paesi che vivono emergenze umanitarie».I campi sono aperti non solo a chi studia cooperazione internazionale o scienze politiche, ma tutti gli interessati, a prescindere dalle età (ci sono esperienze specifiche per minorenni o per senior over 35). Le zone in cui si viene inviati abbracciano una sessantina di paesi: «Soprattutto in Europa e Africa: tra queste le più quotate sono Germania, Kenya, Marocco, Zambia. Ma c'è anche l'America Latina con Messico, Argentina, Ecuador. E poi il Giappone». La sicurezza è un elemento essenziale, quindi sono eliminate dalla rosa dei luoghi papabili le zone di guerra. «Se la missione è in Palestina, i ragazzi vengono mandati lontano dalla Striscia di Gaza ». La durata è di due o tre settimane, in estate, da maggio a ottobre: un periodo prestabilito che ben si concilia con le esigenze scolastiche, «per cui non si può stare di più, a meno che non si opti per il volontariato di lungo termine con il servizio volontario estero di un anno». Lo Yap cura anche l'aspetto finanziario: «Vitto e alloggio sono gratuiti, non ci sono hotel a 5 stelle ma comunque sistemazioni equiparate agli standard internazionali. Se ci sono otto persone ci saranno ad esempio un bagno con varie docce». L'assicurazione medica è coperta dai campi stessi nel caso dell'Europa; per le zone extraeuropee invece sono i volontari stessi a pagarsi le polizze di viaggio, che per poche settimane costano intorno ai 70 euro, come specificano dallo Yap. Per periodi più lunghi esistono di solito pacchetti appositi, più vantaggiosi, predisposti dalle assicurazioni. Anche il viaggio è a carico del volontario (a differenza del Servizio volontario europeo, che lo rimborsa al 90%). Ci sono poi gli 80 euro da versare come quota di adesione allo Yap: «Attraverso questi soldi sosteniamo il nostro ufficio» spiega la Zaytseva, «mentre l'altro canale di finanziamento è quello dei fondi europei, stanziati per progetti come come Gioventù in azione o Erasmus+». In un video che ritrae un workcamp in Kalaba, Kenya, un volontario kenyota definisce l'esperienza «unica: non avevo mai visto persone come quello che ho incontrato». «Per  gli italiani che vengono qui è come una seconda casa» dice una delle volontarie italiane del campo 'Volontariado con Subir al Sur' in Argentina in uno degli altri video che parlano di «condivisione, cambiamento di vita, voglia di aiutare il prossimo». Per i giovani italiani che volessero rispondere a questa chiamata, tocca però mettersi in fila: «Ogni anno dobbiamo lasciare fuori almeno una decina di persone che non riescono a trovare posto» si rammarica Liza. Anche qui quindi come nel mondo del lavoro, insomma, la concorrenza è agguerrita.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Stage, volontariato, diritti umani: il no profit che non paga- Servizio volontario europeo: centinaia di opportunità tra volontariato e formazione- Farsi le ossa nella cooperazione internazionale, la World Bank apre le porte a 200 stagistiE anche:- Tirocini UNV e programma Fellowship, due opportunità formative ben pagate nel mondo della cooperazione internazionale- Servizio civile, tempo di selezioni: al sud si sgomita, al nord posti vuoti. E anche il volontariato diventa un ammortizzatore sociale  

Garanzia giovani in partenza il 1° maggio: ma il piano anti-disoccupazione ha ancora troppe criticità

Doveva essere un pezzo importante degli interventi sul mercato del lavoro, la Garanzia giovani: l'iniziativa strategica che poteva ribaltare i numeri sulla disoccupazione giovanile e sui Neet. Invece nelle ultime settimane si registrano parecchie avvisaglie di perdita di terreno. L'incontro con le associazioni giovanili – il terzo da quando il programma è stato lanciato nel 2013 – organizzato nei giorni scorsi dal ministero del Lavoro per fare il punto sullo stato del programma, non ha infatti aperto grandi speranze sulla buona riuscita della Garanzia Giovani. E tantomeno sulla sua portata rivoluzionaria. Emblematico ad esempio il caso del "tariffario fantasma" sugli stage attivati tramite il programma: in un'intervista sul Corriere della Sera di qualche giorno fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti faceva riferimento a un «tariffario nazionale» per il rimborso dei tirocini inseriti nel percorso della Youth Guarantee, che fisserebbe in 500 euro il compenso da erogare mensilmente agli stagisti. Un'affermazione che ha fatto saltare sulla sedia la Repubblica degli Stagisti e molti altri che da mesi seguono con attenzione l'iter di questo progetto: perché è noto che le indennità per i tirocini extracurriculari sono ormai demandate alle diverse normative regionali, oscillando attualmente dai 300 ai 600 euro; e anche perchè un obbligo delle Regioni in tal senso non si era mai sentito. Alla domanda della Repubblica degli Stagisti sulla reale esistenza di tale griglia la segreteria tecnica del ministero ha in effetti confessato di non saperne nulla: forse quella del ministro è stata solo un'inesattezza, hanno ventilato. Certo non di poco conto, considerato che è stata messa nero su bianco sulle pagine dal più importante quotidiano nazionale. Al tavolo con le associazioni Poletti per giunta non era nemmeno presente, forse impegnato su altri fronti (in serata era su La7 a Piazza Pulita per parlare di Jobs Act). Al suo posto c'era il direttore della segreteria tecnica Bruno Busacca. Che almeno su un punto ha rassicurato: la partenza del progetto sarà come previsto il primo maggio, data da cui «ci si potrà collegare al sito www.garanziagiovani.gov.it e iscriversi». Sarà possibile farlo sul sito nazionale o su quelli regionali, laddove siano già stati predisposti: «Sono tutti interconessi» specifica Busacca, da poco subentrato a Daniele Fano dopo il cambio di governo. Almeno sul piano tecnico dunque la situazione sembrerebbe sotto controllo. Se non fosse però che per l'occasione non è stato istituito un portale ad hoc: il sito per raccogliere le candidature dei giovani senza un'occupazione sarà infatti semplicemente un'estensione di Clicklavoro. «È lì che ci si collega» specifica Busacca, ed è lì che confluirà l'enorme mole di dati da filtrare per far convergere l'offerta e la domanda di lavoro a livello nazionale (l'incrocio avverrà in modo reticolare Stato/Regioni). Legittimo chiedersi se il sistema – a livello informatico - sarà in grado non solo di funzionare ma anche di reggere, visti i precedenti episodi di collasso dello stesso sito web causati proprio dai troppi accessi. L'altro aspetto su cui al tavolo si è fatta parziale chiarezza è quello dell'età: come emerso anche nell'intervista a Poletti, la fascia dei destinatari sarà effettivamente più ampia. Dai 15-24enni inizialmente previsti si passa ai 15-29enni, pur «mantenendo i primi la priorità rispetto agli altri» spiega Busacca, con un'affermazione però un po' fumosa. Il funzionamento sembrebbe questo: intanto tutti gli under 30 interessati dal provvedimento vengono invitati a immatricolarsi al programma; ma poi cosa succederà, come le proposte saranno assegnate e con quale ordine non è dato sapere. Chi vivrà vedrà, in sostanza: non proprio la dimostrazione di un piano d'azione che possa far stare tranquilli rispetto alla efficacia della misura.Si possono infine concentrare in due punti gli altri elementi che, per dirla con un eufemismo, poco convincono nell'organizzazione dello Youth Guarantee alla vigilia del suo debutto. Sono tra i più citati alla riunione. Il primo riguarda le modalità di promozione dell'iniziativa, ovvero come far sapere ai ragazzi che esiste e che è a loro disposizione. Su questo la segreteria tecnica fa spallucce: «Siamo in campagna elettorale, c'è la par condicio, non possiamo far altro che un lancio istituzionale. Per la comunicazione c'è da aspettare». E poi il nodo – anch'esso chiave – della rendicontazione dei fondi, quasi tutti a beneficio delle regioni (allo Stato, dice il ministero, va solo una minima parte - circa 100mila euro - per la gestione del coordinamento nazionale). Memori di rimborsopoli, difficile non farsi venire qualche dubbio. Su questo Salvatore Pirrone, dirigente per le politiche attive del lavoro, assicura serietà: «ci saranno obiettivi da raggiungere, non solo controllo dell'andamento delle spese e dell'erogazione dei servizi». E poi un vero e proprio macigno pende sulle possibilità di successo del programma: i centri per l'impiego, il cui meccanismo – è ormai appurato – è del tutto fallimentare. Eppure sarà proprio attraverso il loro tramite che avverrà la presa in carico dei ragazzi. Dice Busacca che «i giovani, registrandosi, scelgono la regione di riferimento. Una volta smaltite le richieste secondo criteri nazionali che evitino concentrazioni eccessive e tenendo conto della distanza tra i luoghi di residenza, verranno contattati da cpi e agenzie private accreditate». Ci saranno dunque operatori formati, specializzati a guidare i candidati? È la domanda che diversi esponenti delle associazioni intervenute all'incontro rivolgono ai relatori. A quanto pare no: solo il personale già esistente che di solito coordina le borse lavoro e che d'ora in poi dovrà gestire l'ulteriore flusso di lavoro in arrivo.Per capire se il programma dispone di qualche chance per arginare l'esercito dei Neet italiani non resta quindi che aspettare. Ponendosi nel frattempo la domanda decisiva: dove verranno indirizzati i partecipanti? Come si creeranno per loro occasioni di impiego e di formazione? Nella famosa intervista Poletti ha parlato di primi accordi con Finmeccanica e la Confederazione italiana agricoltori, cui auspicabilmente ne seguiranno altri, per offrire ai giovani «qualche stage, qualche opportunità». Con un miliardo e mezzo di euro forse si poteva pensare a qualcosa di più; ma staremo a vedere. Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Garanzia giovani, che diavolo ha detto il ministro Poletti nell'intervista al Corriere?- Garanzia giovani già a marzo, ma come funzionerà? Lo spiega chi ha scritto il piano italiano- Una «dote» per trovare lavoro e 400 euro al mese di reddito di inserimento: la proposta di Youth Guarantee- Contro la disoccupazione non servono più stage, ma stage più efficaci e centri per l'impiego efficienti

Vita dura per gli studenti che lavorano e i lavoratori che studiano: alle università mancano fondi e organizzazione

Quanto costa essere uno studente universitario? Le voci di spesa non sono poche: tasse, materiale didattico, eventuali trasferte o alloggi fuori sede, vitto. La risposta dunque è una: parecchio. Tra le modalità per affrontare questi costi, oltre a quella usuale di chiedere aiuto ai genitori, vi è anche la possibilità di trovarsi un lavoro con l’obiettivo di rendersi autonomi: diventando lavoratori studenti. I lavoratori studenti, secondo l’articolo 10 dello Statuto dei lavoratori, «hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali». Inoltre possono «fruire di permessi giornalieri retribuiti. Il datore di lavoro potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie». Tuttavia c’è, al contempo, l’altro lato della medaglia: è naturale che l’impegno in un’attività parallela allo studio possa rosicchiare un po’ di tempo alle prestazioni accademiche e spostare in avanti l’agognato conseguimento del titolo. Per analizzare questi e altri aspetti la Repubblica degli Stagisti, dopo aver interpellato per due volte il Miur - che sorprendentemente dice di non avere dati in proposito - ha analizzato le elaborazioni fornite da AlmaLaurea, in base all’indagine 2013 sui profili dei laureati 2012. Però, è bene sottolinearlo, tale indagine riguarda i 63 atenei italiani aderenti al consorzio Almalaurea e non l’intero campionario nazionale. A compilare il questionario sono stati comunque più di 208mila laureati nel 2012, di cui quasi 18mila lavoratori studenti, vale a dire, stando alla definizione della stessa AlmaLaurea, «i laureati che hanno dichiarato di aver svolto attività lavorative continuative a tempo pieno per almeno la metà della durata degli studi, sia nel periodo delle lezioni universitarie sia al di fuori delle lezioni». Il primo dato da mettere in evidenza è appunto il “rovescio della medaglia” sottolineato all’inizio: che prezzo bisogna pagare, in termini di tempo, per essere lavoratore studente? Il 29,7% si laurea in corso e circa il 24% oltre il quinto anno fuori corso, con una durata media degli studi che supera di poco i sei anni e un’età media alla laurea intorno ai 34 anni compiuti. L’indice di ritardo (cioè il rapporto tra il ritardo alla laurea e la durata legale del corso di laurea) è piuttosto eloquente: per gli studenti senza alcuna esperienza di lavoro raggiunge lo 0,24%, mentre si attesta intorno allo 0,44% per gli studenti lavoratori che - diversamente dai lavoratori studenti - hanno compiuto esperienze di lavoro nel corso degli studi universitari (ad esempio la sera, la domenica o d’estate) ma che frequentano regolarmente le lezioni. Invece il lavoratore studente ci impiega molto di più rispetto agli altri, con un indice di ritardo dello 0,94%; un bilancio questo che comunque deve tener presente che molte persone si immatricolano dopo i 19 anni, in misura sensibilmente maggiore rispetto a qualche tempo fa. E occorre considerare anche che la situazione non è, ovviamente, omogenea a livello nazionale. Gli studenti che lavorano in modo continuativo sono prevalenti al nord (38,1%), rispetto al centro (33,1%) e al sud (28,8%), in confronto al quale si riscontra un differenziale di quasi dieci punti percentuali. «I ragazzi che vengono dal sud provengono dalle famiglie probabilmente più favorite, quelle nelle quali non c’è bisogno di lavorare per mantenersi agli studi» spiega alla Repubblica degli Stagisti Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea: «Tuttavia potrebbe anche essere dovuto al fatto che è difficile per i lavoratori studenti del sud trovare una qualche occupazione».Molteplici sono le chiavi di lettura da adottare per interpretare la diminuzione progressiva del numero di studenti con esperienze di lavoro, in modo particolare dei lavoratori studenti a partire dal 2009 (18.065), fino alle cifre attuali menzionate in apertura (17.773). Come evidenzia il professor Cammelli «l’esplosione della crisi economica ha selezionato in modo rilevante l’iscrizione all’università dei giovani»; per cui, in sostanza, il calo del numero dei lavoratori studenti è un sottoinsieme della crisi delle immatricolazioni che, dopo il boom nel periodo immediatamente successivo alla riforma del 2000, tra il 2003 e il 2011 ha raggiunto il 17%.La crisi ha inciso anche sulla natura dei lavori svolti dagli universitari. Così mentre quelli a tempo pieno e a tempo parziale sono andati scemando dal 2010 al 2012, circa il 38% degli studenti ha svolto lavori di natura occasionale o saltuaria. «Qui entrano in gioco le difficoltà del mercato del lavoro» spiega Silvia Ghiselli, responsabile dell’Indagine sulla condizione occupazionale di AlmaLaurea: «Meno opportunità di lavoro e quindi meno di possibilità di fare lavoretti che sostengono gli studi universitari».Tuttavia in un contesto del genere - a cui si somma il calo demografico e il ridotto interesse dei giovani per la laurea a causa della sua presunta inutilità - le condizioni della famiglia d’origine svolgono un ruolo determinante, come dimostra il fatto che il questionario registra la presenza crescente, a partire dal 2004, di studenti che non lavorano, con la conseguenza che «c’è una selezione sociale molto forte, la popolazione sta cambiando i propri punti di partenza e si iscrivono all’università persone che vengono da classi sociali sempre più favorite» riassume Cammelli. Inoltre «tanti ragazzi che vengono dalle famiglie meno favorite, se manca il terreno del diritto allo studio che serva a selezionare i ragazzi migliori, devono abbandonare gli studi oppure rinunciare a iscriversi» aggiunge Silvia Ghiselli. Secondo i dati di AlmaLaurea nel 2012 hanno usufruito del servizio di borse di studio il 12,8 % dei lavoratori studenti e il 23,3% degli studenti lavoratori. Nel sistema del diritto allo studio non ci sono differenze tra lavoratori e non lavoratori: possono ricevere borse di studio gli studenti idonei, sulla base di parametri economici e di merito, stabiliti dal dpcm del 9 aprile 2001 (articoli 5 e 6), spiega alla Repubblica degli stagisti Mario Nobile, responsabile nazionale del diritto allo studio di Link-Coordinamento universitario. In Italia il diritto allo studio conta sui fondi che vengono erogati dallo Stato, sulle risorse proprie delle Regioni e sulla parte, ormai maggioritaria, derivante dalla contribuzione studentesca tanto che «paradossalmente ormai il diritto allo studio è finanziato dagli studenti stessi» conclude Nobile. Il suo sindacato universitario, per quanto riguarda gli studenti con esperienza di lavoro, piuttosto che con quella dei lavoratori studenti (persone in molti casi più grandi e che non vivono a tempo pieno l’attività universitaria) entra in contatto con quella degli studenti lavoratori. «Per l’assenza di fondi al diritto allo studio e di borse di studio gli studenti sono costretti a reinventarsi studenti lavoratori, precari nella maggior parte dei casi, in nero per un’altra buona fetta e in una minima parte regolarmente contrattualizzati» puntualizza il responsabile al diritto allo studio «La borsa di studio la riceve ormai chi sta a livelli imponibili Isee molto bassi, tra i 4 e i 7mila euro. Noi abbiamo calcolato che servirebbero intorno ai 400-450 milioni di euro per avere una copertura totale delle borse di studio. L’Italia è l’unico paese che contempla la figura dell’ “idoneo non beneficiario”, lo studente che non riceve la borsa non per demerito suo ma perché non ci sono i soldi». Ma i problemi sono presenti anche su un altro versante: «La categoria dello studente lavoratore ha difficoltà a seguire i corsi, in particolar modo i corsi a frequenza obbligatoria. Inoltre le biblioteche o le aule studio, al contrario di quanto avviene negli altri paesi esteri in cui sono aperte fino a tarda serata, hanno orari non compatibili con i classici orari di lavoro». Quindi oltre ai disagi economici - legati alla fragile politica al diritto allo studio - ci sono anche quelli pratici, relativi soprattutto ai servizi che l’ateneo offre, come la segreteria didattica o i tutorati. E la conseguenza è che a perderci sono gli studenti, siano essi lavoratori studenti o studenti lavoratori, che spesso devono abbandonare ciò che non possono permettersi. Anche se la vera sconfitta è quella dell’università e dell'istruzione. E quindi del Paese.Marta LatiniLa prima foto è di lifeisfoo (Flickr Modalità Creative Commons)La seconda foto è di Ivan Crivellaro (Flickr Modalità Creative Commons)Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all’osso- Laureati italiani, dati pessimi. Il ministro Giannini: «Lo studio torni strumento di riscatto»- Campania, spariti i soldi destinati alle borse di studio: l’Unione degli universitari fa ricorso alla Corte dei contiE anche:- Prestiti d’onore, bassissimi anche nel 2013 i finanziamenti agli studenti- Le 150 ore per il diritto allo studio: una lotta sindacale degli anni Settanta che oggi andrebbe rispolverata

Arrivederci (o addio) Italia, quando si trasferisce il dipendente all’estero

Lasciare casa per andare a lavorare all’estero? Il lavoratore italiano lo fa sempre più spesso. E sempre più spesso tende a non ritornare nel Belpaese.Il fenomeno è definito «mobilità internazionale» e indica la tendenza di una multinazionale a proporre ai propri dipendenti passaggi a una propria sede estera, per periodi di tempo variabili, o ad accettare proposte di partenza da parte del lavoratore.La legislazione italiana distingue tra trasferta, distacco o trasferimento. Nei primi due casi si può parlare di un cambiamento di sede temporaneo, che per il distacco può protrarsi per mesi o anni (decreto legislativo 276/2003 e decreto legislativo 72/2000). Nel caso del trasferimento invece la modifica del luogo di lavoro è definitiva. Le retribuzioni legate al lavoro dipendente prestato all’estero sono disciplinate dall’art.51 del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), che prevede che i redditi da lavoro svolto all’estero per più di 183 giorni siano disciplinati in base a retribuzioni convenzionali suddivise per settori merceologici, stabilite da un decreto del ministero del Lavoro. A livello internazionale un riferimento importante è il Modello di convenzione OCSE, che sancisce, tra le varie disposizioni, l’imponibilità dei redditi da lavoro dipendente nello stato in cui è esercitata questa attività e secondo la legislazione dello stesso stato, a patto che il soggiorno all’estero nell’anno fiscale considerato superi i 183 giorni. Chi si trova nel corso della propria vita a lavorare in paesi diversi, può beneficiare dei cosiddetti accordi bilaterali, che sommano tutti i periodi di assicurazione e di contribuzione maturati nei differenti paesi, per riconoscere al lavoratore un «trattamento pensionistico adeguato al lavoro prestato in Nazioni differenti», come stabilito dall'Inps.Com’è la situazione oggi e quale il profilo tipo del lavoratore espatriato? Next ha provato a fotografare il fenomeno insieme a Mercer, società di consulenza sul capitale umano, che monitora costantemente i processi legati alla mobilità del personale di aziende italiane e straniere. «Non è facile quantificare il numero annuale di lavoratori che si trasferiscono all’estero per conto della propria azienda, ma si può andare dai 30 di imprese medie fino alle circa mille unità l’anno di importanti multinazionali. Il trend indica comunque una crescita rispetto agli anni precedenti», spiega Elena Oriani, global mobility leader di Mercer. Gli expat sono nella maggior parte dei casi lavoratori tra i 35 e i 50 anni, a un buon livello di carriera, anche se sono in aumento i giovani. «I giovani hanno meno vincoli familiari e personali e tendono a giocarsi la carta estero per arricchire il proprio curriculum e avanzare a livello professionale». La percentuale di donne, variabile per settore, si aggira tra il 10 e il 20% del totale. Tendenzialmente è la società a proporre un trasferimento a un proprio dipendente, in seguito allo sviluppo di nuovi progetti o per  specifiche esigenze di personale. Nella maggior parte di casi si sta fuori dall’Italia per un periodo variabile tra i 3 e i 5 anni, ma è sempre più frequente che il lavoratore decida di non tornare a casa, ma di restare nella sede estera o fare una nuova esperienza in un altro paese straniero.Una tendenza confermata anche da Nadia Cappellini, HR manager di Philips, azienda presente in più di 120 paesi: «I nostri dipendenti lavorano all’estero nella maggior parte dei casi dai 3 ai 5 anni. Si tratta di figure professionali già con una discreta esperienza lavorativa, se non addirittura di top manager, che decidono di chiudere la propria carriera fuori dall’Italia. Nel nostro caso è di solito il dipendente a proporre il trasferimento all’azienda, che valuta poi la richiesta in base alle specifiche esigenze di personale. La perfetta conoscenza della lingua inglese è fondamentale per il trasferimento, dal momento che noi lavoriamo in inglese. Può però capitare che all'expatriate venga fornito come supporto anche un corso di lingua locale per integrarsi meglio nella società civile. Una multinazionale come Philips ha all’estero una maggiore disponibilità di posizioni di alto livello. Il rientro in Italia è difficile, proprio perché l’estero offre maggiori opportunità di crescita sia dal punto di vista economico che per la carriera». Del resto, una recente classifica mondiale del World Economic Forum ha segnalato che l’Italia è solo al centunesimo posto su un totale di 122 per capacità di mantenere talenti e al novantanovesimo per capacità di attrarne. Il che significa che spesso le nostre aziende non riescono a offrire condizioni ottimali per permettere la migliore crescita professionale dei propri dipendenti. Chiara Del PrioreLa foto dell'uomo con la valigia è di Seabamirum