Lavoro manuale, nei mestieri del passato c'è il futuro dei giovani italiani?

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 08 Ago 2014 in Approfondimenti

Secondo le ultime rilevazioni del "Rapporto Giovani" curato dall'Istituto Toniolo, oltre l’80% dei giovani italiani sarebbe oggi pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, e tre su quattro aspirerebbero a una attività in cui potere esprimere la propria creatività, anche indipendentemente dai percorsi formativi effettuati in precedenza. Sembra dunque che i giovani siano pronti a mettere la propria laurea nel cassetto e a riscoprire mestieri dimenticati: come quelli raccontati da Paola Caravà nel recente saggio Il lavoro manuale, sottotitolo «Orgoglio e pregiudizi», (Guerini e GiGroup), che racconta storie di successo di professionisti che per farcela hanno utilizzato soprattutto le mani.
Quelle che hanno fatto grande il Made in Italy
e a cui l'autrice, formatrice e coach da trent'anni, dedica il primo capitolo, a ricordarne l'importanza: «Siamo due sorelle imprenditrici e ci compensiamo perfettamente.
stage lavoroUna più logica, razionale e orientata all’azione; l’altra più sensibile, fantasiosa e dotata di senso estetico» scrive descrivendo la destra e la sinistra. La mente, ironizza, «è il direttore generale della nostra azienda». L'autrice non istituisce una gerarchia tra tipologie di lavoro per cui è necessario l'utilizzo della manualità: che sia il cameriere di sala, o lo stilista di grido, o il macchinista del teatro («Come se le mani non si usassero anche per tenere una penna o per battere su una tastiera del computer!», si legge in un passaggio) la dignitosità non cambia. E così, in tono leggero e a tratti scherzoso, si riporta un'intervista a Rosita Missoni, moglie del leggendario Ottavio, scomparso di recente, e tuttora alla guida di un'azienda quasi di culto per il Made in Italy. Il loro fu soprattutto un grande amore: lei ancora studentessa lo conobbe a Londra alla fine degli anni Quaranta, dove lui si trovava per gareggiare alle Olimpiadi. Dopo il colpo di fulmine, il resto fu storia: «Ottavio lavorava la materia, i filati, il colore, le righe... orizzontali, verticali, diagonali, a zig zag. Così nascevano i tessuti, che poi Rosita traduceva nelle linee e nelle forme della moda» sintetizza Caravà. Ma non è solo di icone dell'industria italiana, soprattutto manufatturiera, che si parla nel libro. Il manuale raccoglie anche esperienze meno gloriose, ma esemplari perché di fatica, dedizione e successo. C'è per esempio il percorso di Ruben, un 28enne fiorentino che dal 2008 lavora al Teatro alla Scala di Milano come macchinista-costruttore. Il pratica oggi fa il falegname: ma era il suo sogno. «Mi cimentai nella costruzione di una pedana da danza, cioè una struttura composta da murali di legno, tavole edili gialle 50 per 2 metri, un tappeto di linoleum e le classiche aste da sala di danza con gli specchi. Fu un’esperienza bellissima» racconta dei suoi esordi, «una settimana immerso in Garfagnana a fare un lavoro che mi piaceva e ad ascoltare i racconti di maestri, come Saverio Cona, che avevano vissuto gli anni gloriosi del teatro (Settanta, Ottanta e Novanta)». Poi la selezione e l'accesso al teatro più prestigioso d'Italia, dove ogni giorno – dice – segue «il primo consiglio che mi hanno dato i colleghi più esperti di me: ruba il mestiere con gli occhi». Il rischio è che altrimenti la tradizione si perda di generazione in generazione. Affascinante è anche l'avventura di tre giovani designer fiorentini, trasformatisi per gioco in cappellai di lusso. Sono ancora all'università quando Ilaria e Veronica Cornacchini (32 e 29 anni) e Matteo Gioli (27) decidono per hobby di provare a creare cappelli che poi, sempre per gioco, presentano alla fiera Pitti. I loro modelli piacciono, il passatempo diventa un'azienda (la Super Duper), arrivano i compratori esteri (soprattutto giapponesi), oggi il 90% del loro fatturato. «Nessuno di noi ha intrapreso questa avventura per 'fare soldi', ma solo per passione» spiega Ilaria, ed è così che «a ogni stagione riusciamo ad ampliare il nostro parco clienti». Un ottimismo quasi stridente rispetto alla valle di lacrime in cui si ritrova oggi il lavoro intellettuale, sempre più svilito e sottopagato. «Io non faccio distinzione tra mestieri più o meno umili, ma sono convinta che qualsiasi mestiere se fatto bene abbia la stessa dignità: dal cameriere alla modista» chiarisce alla Repubblica degli Stagisti. Quello che «mi interessa è spostare l'attenzione sul fatto che il lavoro tecnico non deve essere percepito come seconda scelta, come alternativa per i 'falliti della conoscenza'», e il rimprovero va a una madre che vide anni piangere dopo un colloquio con un professore che le aveva sconsigliato studi liceali per il figlio. Anche Missoni, prima e anche dopo le luci della ribalta, «si è seduto al tavolo di lavoro e con le mani ha progettato tessuti». Il messaggio è insomma chiaro: stage lavororeinserire il lavoro manuale nella mappa mentale dei ragazzi, con la stessa dignità di quello intellettuale. Non considerarlo un ripiego in attesa dell'occasione della vita. Restituirgli valore perché è lo stesso che ci ha consegnato il Made in Italy, quel marchio che oggi gli investitorio esteri si contendono: «Nessuno vuole venire a investire da noi, o aprire uno stabilimento qui, però se si tratta di accapparrarsi pezzi del Made in Italy fanno a gara» riflette Caravà. Forse ci voleva la crisi a metterci in guardia sull'assurdità di certi «pregiudizi». La colpa della scarsa fama di cui gode questo settore - nel libro viene riportato un sondaggio, che rileva come la manualità sia giudicata «non importante» dal 60% preso da un campione di figli 15-19enni e genitori 40-64enni - non è certo dei giovani, ma della cultura che è stata loro tramandata: «A monte c'è una scuola materna che punta tantissimo sulla manualità, ma poi progressivamente dalle elementari questo allenamento scompare» riflette la formatrice. E poi, «siamo stati noi, quelli della mia generazione, a dire 'studia e trovati un lavoro sicuro, magari in banca'» ammette. È giunto invece il momento guardare con occhi nuovi agli insegnamenti del passato, quelli del Novecento, pensando a cosa hanno significato per lo sviluppo del Paese. Sarà per questo che la Caravà dedica il libro al padre Pietro, tenente dell'esercito fatto prigioniero dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e poi morto a causa degli stenti della prigionia. Il pensiero di quella storia è d'ispirazione a «guardarsi indietro e lasciarci alle spalle certi pregiudizi».

Ilaria Mariotti 

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