Categoria: Approfondimenti

Garanzia giovani in difficoltà, ma dall'Ue miliardi per finanziare i progetti dei giovani

Una due giorni per fare rete, lanciare progetti e sfruttare le opportunità offerte dai finanziamenti europei. E per non lasciare che la mancanza di informazione o di organizzazione faccia perdere qualche buona occasione. Questo il senso dell'iniziativa dell'Agenzia nazionale giovani, 'Gioventù italiana, una garanzia per l'Europa', che ha riunito a Roma, il 5 e 6 novembre, 200 giovani esponenti di associazioni, enti locali, gruppi informali che hanno voluto dare voce alle proprie idee. Sono arrivati nella Capitale, hanno riempito il Tempio di Adriano e in due giornate hanno raccontato al pubblico quale progetto avessero in testa. Alla fine ne sono stati selezionati due: il progetto della delegazione Apollo 13 'Educazione al dialogo strutturato', che punta a creare un sistema internazionale di riconoscimento delle competenze, specie quelle acquisite tramite l’educazione non formale come il servizio volontario europeo. «Una proposta coerente con uno degli obiettivi del semestre europeo di presidenza italiano» sottolinea il comunicato di chiusura dell'evento, ovvero «la valorizzazione delle competenze». E poi il progetto 'Forever young, idee in movimento', che ha ricevuto il premio creatività grazie ad alcune idee per migliorare il livello di occupabilità a seguito di un’esperienza di mobilità internazionale.Per ora il riconoscimento ai vincitori è stato pressoché simbolico - ai vincitori è andata una targa e qualche gadget - ma non è escluso che l'Ang, come ente accreditato nell'ambito di Erasmus plus, «non supporti questi progetti nel percorso della ricerca dei fondi». Anche perché, come ha ricordato Chiara Gariazzo della direzione Gioventù e Sport della Commissione Europea, gli stanziamenti europei per i giovani sono lievitati negli ultimi anni, segnale che l'Europa ha riposizionato al centro delle sue politiche le nuove generazioni: «Per Erasmus Plus siamo al più 40 per cento, con circa 17 miliardi disponibili» riferisce la Garlazzo. Ignorarli sarebbe un paradosso in tempi di recessione e disoccupazione alle stelle. L'esperienza ha avuto anche altri risvolti. Lo spirito è stato infatti quello di stimolare la partecipazione giovanile: a questo proposito, ha annunciato la Gariazzo, si sta anche pensando «a come rendere internazionali i progetti di servizio civile». E Giacomo D'Arrigo, direttore Ang, in una nota ha puntualizzato che «aldilà del  primo classificato i veri vincitori di questi due giorni sono stati tutti i ragazzi che, provenienti da ogni angolo d’Italia, hanno animato con passione, determinazione e spirito d’iniziativa il Tempio di Adriano con il loro laboratorio di idee ispirato ad Erasmus plus capitolo Gioventù». Non solo neet e bamboccioni, ma «una generazione che rappresenta il futuro del Paese, che non sta ferma e che ha grande voglia di partecipare attivamente. Sono i giovani da cui l’Italia deve ripartire». Anche se poi Bruno Busacca, responsabile delle segreteria tecnica del ministro del Lavoro, intervenuto al convegno per fare il punto della situazione su Garanzia giovani, ha svelato un dato per certi versi sconcertante: «Il 20-25 per cento di quelli che si iscrivono e sono chiamati per un colloquio non si presenta». E non sembrerebbe essere un caso isolato. «Parlando con l'ad di Ikea Italia, Lars Peterson, ho scoperto che il fenomeno si ripete anche per loro» ha aggiunto Busacca: «Ogni volta che aprono un centro e cercano personale, c'è una fetta di ragazzi che diserta i colloqui». Lassismo? Pigrizia? Disillusione? Per Busacca la ragione potrebbe trovarsi nella «sfiducia verso le istituzioni». Una disaffezione del resto ben comprensibile. Ed è lo stesso segretario tecnico, con i dati sul progetto europeo che dovrebbe rilanciare l'occupazione giovanile, a dare la conferma. Non è passato tanto tempo dal lancio, ma a sei mesi dal primo maggio «su 170mila iscrizioni alla Garanzia Giovani, sono solo 76mila i presi in carico». Il che non vuol dire che abbiano un'occupazione o siano stati inseriti in qualche progetto, ma che «il centro per l'impiego o l'agenzia privata li ha sentiti» e in qualche modo messi in lista d'attesa. «Qualcuno ha trovato un'occupazione finora?» ha chiesto il moderatore del panel Paolo Migliavacca del giornale Vita. «Molto pochi» ha ammesso Busacca, giustificando il fallimento - o quasi - del sistema con la scusante del meccanismo mastodontico da mettere in moto. La situazione di partenza non era certo incoraggiante: centri per l'impiego malfunzionanti e sotto organico, enti locali e governo centrale da mettere in condizioni di comunicare per la prima volta attraverso un'unica piattaforma informatica di accesso per tutti i giovani interessati, un Paese come l'Italia in cui non si è mai investito in politiche attive. «È un po' come sparare sulla croce rossa» semplifica Busacca, assicurando però la volontà di «continuare a spingere affinché il sistema funzioni meglio e produca risultati». La buona notizia è che del miliardo e mezzo in dotazione, l'Italia ha già impiegato finora «circa 550 milioni». Nella speranza che il resto dei fondi vada a buon fine... E che i giovani italiani tornino a sperare di avere un futuro in questo Paese. Ilaria Mariotti 

Reddito minimo garantito, riparte la battaglia politica

I tempi sono sempre più magri, e allora si ricomincia a parlare di reddito minimo garantito. Sono diverse le associazioni, da San Precario a Libera a Sbilanciamoci, che da tempo si battono per l'introduzione di questa misura, certe che la politica possa trovare le risorse per finanziarlo riordinando l'indice delle priorità del Paese. Sull'argomento occorre «riportare l’attenzione ed esporre la preoccupazione sulla sua scomparsa dall’agenda politica italiana, dopo essere stato quasi egemone nel corso della campagna elettorale scorsa» sostengono gli esponenti di Bin (Basic Income Network).L'Italia in effetti è un dei pochissimi Paesi in Europa, insieme a Grecia e Bulgaria, privo di una misura di reddito minimo. Nonostante le proposte di legge esistano: ricordano da Bin che «in Parlamento ne giacciono tre oltre a quella di iniziativa popolare 'per l'istituzione di un reddito minimo garantito' che ha avuto l'adesione di 50mila cittadini e 170 associazioni». Eppure, a oggi, i testi «non sono stati né calendarizzati né discussi in una qualche commissione». La Regione Lazio è stata pioniera in questo senso con l'approvazione della legge 4/2009 per un sussidio in beneficio delle fasce in difficoltà. «Che però, salutata come momento di avanzamento e di innovazione nelle politiche sociali di questo Paese, è stata poi definanziata dalla giunta Polverini, malgrado le migliaia di richieste di sostegno avanzate nel primo e unico anno di sperimentazione» denunciano da Bin. La proposta del Movimento Cinque Stelle in materia - cavallo di battaglia del programma elettorale dei grillini - è confluita in un disegno di legge che prevede l'istituzione di un reddito di cittadinanza allargato praticamente a tutti i cittadini maggiorenni, titolari di almeno un diploma di scuola superiore e al di sotto della soglia di povertà. Che viene quantificata in 7200 euro annuali per chi percepisce meno di 600 euro annuali, per salire via via con gli importi (considerando ad esempio in una condizione di insufficienza di risorse una coppia che dispone di 1000 euro al mese, o una famiglia di tre membri con 1300 euro). Piccolo problema però: secondi i calcoli degli economisti Tito Boeri e Paola Monti, garantire un sussidio così strutturato costerebbe alle casse dello Stato almeno 17 miliardi di euro, con dodici milioni di famiglie beneficiarie, più del doppio rispetto allo stanziamento richiesto dai promotori del Reis (7 miliardi), altro possibile provvedimento di contrasto alla povertà. «Le risorse ci sono, noi le abbiamo individuate, l'importante è discutere la legge» ha però ribadito Nunzia Catalfo, senatrice M5S, l'altroieri a Roma in occasione dibattito 'Che fine ha fatto il reddito minimo garantito?'. Il nodo si ridurebbe alla registrazione in un qualsiasi ordine del giorno: dopodiché «tutti i gruppi parlamentari devono impegnarsi a votare gli emendamenti altrimenti stiamo perdendo tempo».Anche Pippo Civati, della minoranza del Pd, che ha fatto del reddito minimo garantito il punto di forza nella sua corsa alle primarie, relativizza il problema delle risorse. «Gli 80 euro di Renzi valgono 9,6 miliardi» sottolinea; è evidente dunque che si tratta di «una scelta politica» perché basterebbe rimodulare i criteri di attribuzione del sussidio. Civati sostiene invece che «questo governo prova fastidio verso questo tema» e che nella legge di stabilità sono altre le categorie che si cerca di tutelare: «chi già lavora e i lavoratori autonomi storici come i commercianti», senza nessun occhio di riguardo per le moderne fasce di bisognosi, i «nuovi poveri e nuovi professionisti» tra cui le partite iva. La riprova è che Matteo Renzi «è il più grande nemico delle misure anti povertà, lo è da sempre, gli 80 euro sono un manifesto contro», spiega, perché vanno a favore dei ceti medi e non dei più poveri. «L'unica che potrebbe occuparsene è il ministro Madia» facendo parte dell'esecutivo ed essendone sostenitrice.Che il grosso ostacolo sia invece rappresentato dai fondi lo ribadisce Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione Lazio. Allo stato «stiamo discutendo del taglio dei 4 miliardi alle regioni, che non si coprono eliminando le auto blu e altri sprechi: il totale vale solo 200 milioni, lo abbiamo già calcolato». Altro che spending review dunque: la scure si abbatterà su «asili nido, ospedali, comuni». Surreale in queste condizioni mettere sul tavolo la questione reddito minimo. Con tutto che da Act arriva un'idea per il finanziamento: «Colpire con un'aliquota minima, dello 0,5 per cento, il centile più alto della ricchezza del Paese, ripensando un welfare ancora tutto incentrato sulla previdenza». Certo, rilancia Maria Pia Pizzolante di Tilt, passi avanti ne sono stati fatti: «Si è tolto un velo sul dibattito, non lo si considera più utopia come anni fa». Nel frattempo la situazione del Paese è degenerata, la spirale della povertà si è allargata inglobando - secondo gli ultimi dati Istat - sei milioni di individui, circa il 10 per cento della popolazione. La disoccupazione è cresciuta, specie giovanile, «la precarietà è divenuta ormai normalità e si è generalizzata oltre il mondo del lavoro, senza considerare gli working poor o i milioni di 'scoraggiati', tutte e tutti senza alcuno strumento di sostegno del reddito» rincarano la dose da Bin. Il reddito minimo garantito potrebbe funzionare allora come strumento di democrazia, che «ricompatti la società», ipotizza Arturo Salerno di Progetto Diritti, «facendo crescere le opportunità per tutti, stimolando a non accettare lavori sottopagati, superando le dinamiche perverse dell'economia». Non è forse questo, si chiede, «l'obiettivo della politica?». Ilaria Mariotti

Il lavoro è già "smart", ma il Jobs Act non se n'è accorto

Il lavoro del futuro è sempre più smart: gli orari rigidi e prestabiliti e la presenza obbligatoria davanti alla scrivania non sono più elementi essenziali per valutare l’operato dei dipendenti, che invece, grazie alle nuove tecnologie, possono lavorare tranquillamente in mobilità (a casa, al parco, in treno, al mare) ed essere giudicati in base ai risultati effettivamente conseguiti, piuttosto che sul numero di ore trascorse in ufficio. Una vera rivoluzione, che è già diventata realtà: lo smartworking, olavoro agile, è già stato sperimentato in varie aziende private e in enti pubblici. Il Comune di Milano, ad esempio, ha dedicato a questa esperienza un’intera giornata, lo scorso 6 febbraio:  104 tra enti e aziende hanno aderito alla sperimentazione, proponendo ai dipendenti di lavorare in mobilità. La “Giornata del lavoro agile” ha permesso, con la semplice abolizione del tragitto casa-lavoro, di risparmiare circa 2600 ore, pari a 325 giornate lavorative di otto ore ciascuna: tutto tempo guadagnato, utilizzato dai lavoratori per riposare, o dedicarsi alle attività domestiche e alla cura della famiglia.Il lavoro del futuro è sempre più smart: gli orari rigidi e prestabiliti e la presenza obbligatoria davanti alla scrivania non sono più elementi essenziali per valutare l’operato dei dipendenti, che invece, grazie alle nuove tecnologie, possono lavorare tranquillamente in mobilità (a casa, al parco, in treno, al mare) ed essere giudicati in base ai risultati effettivamente conseguiti, piuttosto che sul numero di ore trascorse in ufficio. Una vera rivoluzione, che è già diventata realtà: lo smartworking, o lavoro agile, è già stato sperimentato in varie aziende private e in enti pubblici. Il Comune di Milano, ad esempio, dopo l'esperimento dello scorso anno ha deciso di replicare anche nel 2015 la "Giornata del lavoro agile": il prossimo 25 marzo sarà l'occasione, per lavoratori e aziende del capoluogo lombardo e dell'area metropolitana, di sperimentare una diversa organizzazione del lavoro e della vita quotidiana. Lo scorso anno oltre 100 tra enti e aziende di varie dimensioni hanno aderito alla prima giornata dedicata a questa nuova modalità lavorativa, toccandone con mano i vantaggi in termini di conciliazione tra vita privata e lavoro, risparmio di tempo e riduzione delle emissioni nocive. Quest'anno le aziende interessate potranno aderire compilando la domanda sul sito di Palazzo Marino. «Per questa edizione abbiamo voluto coinvolgere anche gli oltre 40 spazi di coworking presenti in città e aderenti all'albo qualificato creato dal Comune», ha spiegato l'assessore comunale alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani. «Questa giornata di "porte aperte" consentirà alle persone e alle aziende che vorranno aderire di utilizzare moderni spazi attrezzati, dove trovare un appoggio dotato di wifi e altri servizi per lavorare in maniera condivisia da una postazione diversa da quella abituale». Anche a Torino lo smartworking esiste da tempo: già nel 2012 il Comune aveva lanciato un progetto che coinvolgeva 20 lavoratori, e nel 2014 la possibilità è stata estesa a 40 dipendenti dell’ente locale. Come Laura Ribotta, ingegnere e madre di tre figli, che ha portato la sua esperienza al convegno sul lavoro agile organizzato lo scorso ottobre a Milano, nell’ambito della kermesse “Il tempo delle donne”. «Lavoro da casa e ogni giorno devo garantire due ore di reperibilità, durante le quali rispondo alle mail e alle telefonate che arrivano al numero del Comune. Una volta alla settimana vado in ufficio». Per Ribotta il lavoro agile rappresenta una soluzione efficace per conciliare gli impegni lavorativi con la gestione della famiglia: «Non provo più quella sensazione di ansia, di fretta, la preoccupazione di non riuscire a fare tutto», ha raccontato l’ingegnere. Ma lo smartworking non è solo un’opzione destinata alle mamme, o a chi ha importanti carichi familiari: «Questa modalità consente alle aziende di attrarre nuovi talenti e di trattenere le professionalità già presenti: negli Stati Uniti e nel resto d’Europa è molto diffuso, mentre in Italia la mentalità dominante lo considera ancora un’opportunità riservata a chi ha tanti figli o a chi ha problemi di salute». Nel nostro Paese, infatti, è ancora opinione diffusa che la presenza in ufficio fino a tardi sia un punto di merito. Sfatare questo luogo comune è uno degli obiettivi che si è posta Elisabetta Caldera, responsabile delle risorse umane di Vodafone Italia, che ha coinvolto in un’iniziativa di smartworking, partita ad aprile 2014, 3.100 sui 7mila dipendenti delle 8 sedi italiane. «Volevamo sperimentare una modalità di gestione delle risorse umane innovativa e al passo con i tempi, che fosse attraente anche per i giovani, e passare da una cultura orientata alla presenza fisica a una cultura che mette al centro gli obiettivi», ha spiegato Caldera. «Si tratta di un passo culturale molto rilevante, specie in Italia, un Paese in cui la presenza in ufficio fino a tardi è ancora considerata come l’unico modo di fare carriera». Inoltre, ha sottolineato la responsabile Hr della multinazionale, «lo smartworking non è riservato solo alle donne con carichi familiari, ma rappresenta un modo diverso di lavorare per tutti, anche per gli uomini». Al progetto i dipendenti di Vodafone Italia hanno aderito su base volontaria. «Tra i lati negativi dell’esperienza di lavoro agile c’è la mancanza di socializzazione fisica con i colleghi, che per molti resta un’esigenza», ha spiegato Caldera. «Per questo abbiamo deciso di proporre un’adesione volontaria: se lo smartworking diventa una forzatura, i risultati sono scadenti». Finora i riscontri sono stati positivi, anche da parte dei capi, all’inizio i più restii. «Li abbiamo formati con corsi appositi, perché molti di loro, più gli uomini che le donne, temevano di non riuscire a controllare i dipendenti e ad accertarsi che lavorassero», ha precisato la manager. Non ci sono ancora dati definitivi sulla produttività, ma il gradimento sembra alto. «Nessun capo si è finora lamentato dei risultati raggiunti dai dipendenti in smartworking: le persone sono pronte per questo cambiamento», ha concluso Caldera.Quello che manca è però una normativa che regoli alcuni aspetti fondamentali del lavoro agile, come la sicurezza per i lavoratori che operano fuori dalla sede. Una proposta di legge bipartisan sul tema, che superava le norme esistenti sul telelavoro, era stata presentata a gennaio dello scorso anno dalle deputate Alessia Mosca (Pd), Barbara Saltamartini (Ncd) e Irene Tinagli (Sc), con l’auspicio che entrasse a far parte del Jobs Act. Ma nel testo della riforma del lavoro c’è solo un riferimento al vecchio “telelavoro”: lo smartworking, la forma di flessibilità "buona" che pure già esiste, non sembra rientrare nella lista delle priorità.

Povertà, in Italia dilaga anche tra i giovani che lavorano. E spunta la proposta Reis

È un'Italia sempre più povera quella fotografata dalle ultime indagini Istat: 6 milioni di poveri assoluti a luglio 2014, il dieci per cento circa della popolazione. Un milione sono bambini. Il numero è più che raddoppiato nei sette anni di crisi, dal 2007, quando erano "solo " il quattro per cento del totale. «È il dato centrale sulla recessione, ancora di più che la chiusura delle imprese» osserva Mauro Magatti, economista della Cattolica di Milano, all'incontro romano per il lancio del Reis, quel reddito di inclusione sociale più volte chiamato in causa negli ultimi tempi. L'Italia è l'unica a non averlo in dotazione in Europa, oltre alla Grecia. Mentre i numeri lanciano l'allarme sulla necessità di una misura di contrasto alla povertà assoluta, intesa come impossibilità di vivere dentro i confini di un'esistenza dignitosa, che rende proibitivi gesti semplici come consumare pasti proteici o fare fronte a esigenze minime. «Si tratta di chi non raggiunge uno standard di vita minimamente accettabile legato a un’alimentazione adeguata, a una situazione abitativa decente e a altre spese basilari come quelle per la salute, i vestiti e i trasporti» viene spiegato nel comunicato di lancio dell'iniziativa, supportata da una 'alleanza' composta da Acli e Caritas in testa, e a seguire decine di enti e associazioni come Save the children, Comunità di Sant'Egidio, Action Aid e sindacati come la Cgil. Perché questa ennesima emergenza italiana non sembrerebbe più rimandabile: il problema non riguarda «solo il Sud, ma anche il Nord, non più solo gli anziani, ma anche i giovani, non solo i disoccupati, ma anche chi lavora» sottolinea ancora Magatti. «Dentro ci sono lavoratori come precari, stagionali, nuclei familiari con minori con un unico soggetto che apporta reddito e che si trova in queste condizioni» gli fa eco Vera La Monica, rappresentante Cgil. Che riporta al centro un tema fondamentale, quello della povertà non solo di chi è a spasso, ma anche e soprattutto di chi lavora regolarmente, i cosiddetti working poor, o di chi entra e esce di continuo dal mercato del lavoro. A tutti loro il reddito percepito non basta. «C'è un impoverimento generale del mondo del lavoro» afferma, e sarebbe sbagliato sacrificare una politica per l'altra: «Sono necessarie entrambe», sia quelle contro la povertà assoluta che un «welfare di protezione per chi esce dal mondo del lavoro». Il sospetto è anche che le statistiche ufficiali non riescano a intercettare un'altra grande fetta della società che annaspa: i giovani poveri che pur con un impiego vengono mantenuti dalle proprie famiglie. Magari centinaia di migliaia di trentenni che non ce la fanno con i propri guadagni, con Isee bassissimi e aiutati dai genitori sessanta-settantenni per raggiungere livelli di vita simili a quelli su cui potevano contare prima di rendersi (si fa per dire) indipendenti. Poco importa che sia attraverso il pagamento dell'affitto o il regalo della casa. Perché, attenzione, «non ci si riferisce al fenomeno d’impoverimento che tocca una parte ben più ampia della popolazione, costringendola a rinunciare ad alcuni consumi che desidererebbe potersi permettere (qualche apparecchio tecnologico o la possibilità di andare fuori città in estate) senza però impedire la fruizione dei beni e dei servizi essenziali» come scritto nel report. Ma di un disagio ben più profondo. «È il costo vero di anni di non crescita, ed è ciò che dovrebbe interessare più di tutto se manca la possibilità di una vita degna e libera» insiste Magatti. Non è la prima volta che la questione fa capolino in Italia. Già all'epoca del governo Letta, su impulso dell'ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, fu lanciata una versione sperimentale del reddito sociale: la Sia (Articolo36 ne parlò qui). A oggi attivata e con qualche primo risultato misurabile: «Sono undici le grandi città in cui è partita, eccetto Roma, e i primi pagamenti sono arrivati da aprile a agosto» fa sapere il sottosegretario al Lavoro, Franca Biondelli, intervenuto all'incontro. Mentre sono «27mila le famiglie interessate» e «50 milioni» i fondi stanziati. Una goccia nel mare considerato che la platea dei potenziali beneficiari dovrebbe essere di 6 milioni e le risorse dieci volte maggiori. Solo un inizio dunque, e per di più con un'impostazione che il Reis vorrebbe superare.Quanto costerebbe infatti quest'ultima misura? 7 miliardi, riferisce Cristiano Gori, coordinatore del gruppo scientifico che ha studiato l'intervento. Più o meno quanto si era prefisso il precedente esecutivo. Ma invece di inserire una quota così elevata da subito nella legge di stabilità, l'idea è di iniziare con «1,5 miliardi nel primo anno, già a partire dal 2015, per poi salire fino ad arrivare alla cifra menzionata solo nel 2018», chiarisce Gori: «Stiamo parlando dell'1% della spesa ordinaria corrente». Attualmente «l'Italia investe lo 0,1% nella correzione della povertà, contro lo 0,5 dell'Europa». E l'obiezione che i soldi non ci siano è una scusa, sostengono i promotori. «Basta pensare agli 80 euro di Renzi, che pesano sul bilancio dello Stato per 10 miliardi», torna a dire Magatti. Il punto «è la volontà politica e il disegno». Se la misura andasse in porto, ai nuclei più bisognosi andrebbero 400 euro al mese in più. Ma è solo un importo indicativo, perché il sussidio dipenderebbe da una serie di dati incrociati che tengono conto non solo del reddito, ma anche dei beni patrimoniali come il possesso della casa. L'affitto o il numero di figli farebbero di conseguenza scattare gli aumenti. «Il livello di reddito monetario al di sotto del quale si percepisce il Reis è pari a 628 euro nel caso di una coppia con casa di proprietà, mentre sale a 1.003 euro se la coppia paga un affitto pari a 500 euro» spiega il documento. «Se la medesima coppia avesse un figlio i due livelli aumenterebbero corrispondentemente a 817 e 1.192 euro. Ovviamente tale livello risulterà maggiore in caso di un più alto canone di locazione e minore in caso contrario». Da segnalare poi che l'impianto generale non prevede solo il trasferimento monetario – per i detrattori mero «assistenzialismo» - ma anche servizi alla persona, come «percorsi di inclusione sociale e lavorativa per «il superamento dell'emarginazione dei singoli e delle famiglie attraverso la promozione delle capacità individuali e dell'autonomia economica» specifica il rapporto, e ancora «percorsi di welfare generativo» che consentano alla persona di impegnarsi nel volontariato, ad esempio, come contropartita al sostentamento ricevuto. Il rischio che le buone intenzioni dietro una misura a favore dei più deboli rimangano tali è alto. Del resto la data del lancio dell'iniziativa, alla vigilia della legge di stabilità, non è casuale. Il sottosegretario ha aperto una speranza parlando della povertà come «priorità per il governo». Nel frattempo però sono arrivate le prime anticipazioni sulla legge di stabilità, ancora a livello di bozza. E del Reis non sembra esserci nemmeno l'ombra.  

Neet, l'Europa lancia Youth2Work

Un progetto europeo per offrire una soluzione al problema dei Neet (Not being in Employment, Education or Training), i giovani che non lavorano, non studiano e non hanno nemmeno avviato un periodo di tirocinio: si chiama Youth2Work (Y2W) ed è una piattaforma online, finanziata con il sostegno della Commissione Europea nell’ambito del Lifelong Learning Programme, che offre a questi ragazzi la possibilità di seguire una serie di corsi interattivi, nell’ottica di migliorare la propria formazione e acquisire competenze che facilitino la ricerca di un lavoro.Sebbene la situazione di questi giovani, sospesi in un limbo senza prospettive, sia un grave problema per tutta Europa, in alcuni Paesi il fenomeno ha assunto dimensioni preoccupanti: il progetto Youth2Work include infatti tra i partner alcune tra le nazioni europee con le più alte percentuali di giovani senza lavoro e scoraggiati, come Italia, Grecia, Portogallo, insieme a Regno Unito, Austria e Svizzera. A scattare una fotografia recente della situazione italiana è stato il rapporto dell’Istat “Noi Italia 2014”: secondo l’indagine, nel nostro Paese i Neet sono oltre due milioni, pari a circa il 24% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Una cifra ben superiore alla media dell’Unione europea a 27 (15,9%); meglio dell’Italia fa anche la Spagna (22,6%), mentre Grecia e Bulgaria presentano percentuali più elevate (rispettivamente 27,1% e 24,7%). Ad avere le maggiori difficoltà sono le donne: in Europa il fenomeno riguarda in media il 17,8% delle ragazze, contro il 14% dei loro coetanei maschi. Anche in Italia le donne Neet sono più degli uomini (in media il 26,1%, contro il 21,8% dei ragazzi); nel nostro Paese esiste anche una forte discrepanza tra le aree geografiche, dato che nelle regioni del Sud persistono maggiori criticità nell’accesso all’occupazione. Sicilia e Campania sono le regioni dove la percentuale di Neet è più elevata, con il 37,7% e il 35,4%, seguite da Calabria e Puglia.La crisi economica, che ha portato a tagli per i finanziamenti ai programmi di supporto ai giovani disoccupati, non è però la sola causa di questo fenomeno: alcuni fattori personali e sociali – come la disabilità, le disparità di genere, la provenienza da una famiglia di migranti, la residenza in aree remote -aumentano la probabilità che un giovane faccia fatica a trovare la sua strada. Proprio a questi ragazzi il programma Youth2Work offre la possibilità di accedere a un programma personalizzato di sostegno, per consentire loro di sviluppare nuove competenze professionali e relazionali, che facilitino la ricerca di un lavoro. Youth2Work non si rivolge solo ai giovani, ma anche ai professionisti che lavorano nel settore della formazione, che attraverso la piattaforma possono sviluppare una maggiore sensibilità nei confronti delle problematiche dei Neet, oltre ad avere la possibilità di entrare in contatto con le migliori pratiche a livello internazionale in materia di supporto ai giovani disoccupati.Per partecipare, basta registrarsi al sito youth2work.eu e accedere ai vari servizi: come la community, attraverso la quale i ragazzi possono interagire, su un modello simile a quello dei social network, con altri giovani o con i formatori; oppure si può cliccare sulle sezioni in cui vengono trattati gli argomenti più “caldi” per chi è alla ricerca di un lavoro, da “L’imprenditorialità è la carriera che fa per te?” a “Come gestire il proprio tempo” a “Conosci te stesso e scopri le tue potenzialità”. Gli argomenti vengono affrontati con un approccio interattivo: i ragazzi possono scaricare video e materiali, oltre a rispondere a questionari e svolgere esercizi pratici. Tra i punti di forza del progetto Y2W c’è l’introduzione dei Career Circles (circoli di carriera), una metodologia di supporto mutuata da un’esperienza avviata nel Regno Unito, dove è stata utilizzata soprattutto per sostenere le donne che volevano avviare nuove attività imprenditoriali. Il metodo si presta ad essere utilizzato anche per altri gruppi di riferimento, come appunto i Neet:  far parte dello stesso Career Circle consente a questi giovani di confrontarsi con i coetanei, stimolando lo scambio di idee ed esperienze. Un altro aspetto positivo è dato dal fatto che quasi tutti i contenuti del sito sono disponibili in tutte le lingue degli Stati coinvolti (inglese, italiano, greco, portoghese, tedesco): alcune sezioni, però, come quella dedicata ai partner, sono disponibili solo in lingua inglese. Inoltre, la presenza di questionari di autovalutazione permette ai ragazzi di scoprire le proprie potenzialità personali, permettendo loro di comprendere meglio le proprie capacità e orientarsi più facilmente nella ricerca di un lavoro.Conoscere se stessi: la vecchia massima si riscopre efficace anche per i Neet del 2014, come confermano i partecipanti. «Prima di entrare nel programma ero molto insicura, e non riuscivo a capire come mai trovare un lavoro fosse così complicato per me», scrive Cristina, greca. «Durante il progetto ho capito quali erano le mie difficoltà e ho trovato il modo di affrontarle: mi ha aiutato molto». Nicola, italiano, è invece un coach esperto di «transizione di carriera, o se preferite reinserimento professionale: basta non chiamarla disoccupazione, un termine antiquato e non aderente alla realtà», scrive. Per Nicola «cercare un lavoro è un'esperienza sicuramente impegnativa, ma è anche un percorso di crescita, di conoscenza, un'avventura per la vita! Il canale che offre maggiori possibilità di assunzione», sottolinea il coach, «è la rete di contatti. È una conferma. Puntate le energie sulla costruzione e attivazione di una rete di conoscenze. Siate motivati, pensate che ogni contatto può portarvi a conoscere la persona giusta, siate sempre attenti al modo in cui instaurate relazioni, e non dimenticate di curare sempre il vostro aspetto».

Modello tedesco: tutti ne parlano, ecco in cosa consiste

Con un tasso disoccupazione inferiore al 5% (da noi è del 12), e una percentuale di giovani senza lavoro del 7,6 (in Italia del 44%), la Germania ha senz'altro qualcosa da insegnare al Belpaese in tema di mercato del lavoro. Specie ora che il premier Matteo Renzi ha dichiarato di voler prendere quel sistema a modello. Se ne è parlato nei giorni scorsi nel corso di un seminario presso la sede del Pd, su iniziativa di Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro alla Camera. Tutti gli snodi di un accostamento dell'Italia al Paese leader d'Europa - ammesso che importare quello schema sia fattibile - sono contenuti nella rivista presentata all'evento e edita da Lavoro e Welfare, associazione presieduta da Damiano. A cominciare dalle politiche attive: «La Germania spende per politiche del lavoro più dell'Italia rispetto al Pil, ma la differenza sta soprattutto nell'allocazione di queste risorse» scrivono gli autori Romano Benini e Maurizio Sorcioni. Nello specifico in Germania più della metà è concentrata in formazione, orientamento, ricollocazione, mentre da noi la quasi totalità (80%) finisce in politiche passive, dunque ammortizzatori sociali come pensioni e cassa integrazione. Nel dettaglio, riferiscono Benini e Scorcioni, «dei 48 miliardi spesi per il lavoro, 24 se ne sono andati per servizi di attivazione del lavoro e centri per l'impiego» contro i 4 dell'Italia investiti nel segmento (su un totale di 27). Ai servizi per l'impiego sono andati 500 milioni. Un sesto rispetto al Paese guidato da Angela Merkel. Bocciati anche gli incentivi fiscali alle assunzioni – effetto desiderato ma mai raggiunto – applicati dai precedenti governi. Per i due esperti la soluzione è invece lanciare «un sistema di incentivazione al risultato del reimpiego del lavoratore» come in Germania, dove i servizi per il lavoro incassano 2500 euro a lavoratore assunto. Lì «un'impresa che cerca un lavoratore ottiene un lavoratore, non uno sgravio». Ridurre gli incentivi alle assunzioni comporterebbe un risparmio di 3 miliardi l'anno, da indirizzare «all'abbattimento dell'Irap e alla remunerazione per il reimpiego dei disoccupati». Tutt'altro che un aspetto marginale: è proprio grazie alle politiche attive che chi si trova impantanato nella precarietà potrebbe trovare la ricetta per uscirne. Si conclude un lavoro a termine, ma – grazie ai sistemi di formazione e inserimento – ne inizia in un altro. Nel frattempo coperti da sussidi di disoccupazione. Damiano, nel suo articolo, lo spiega così: «La deregolazione attuata con la cattiva traduzione fatta dai partiti della destra delle intuizioni di Marco Biagi non è stata nient'altro che il tradimento del pensiero del giuslavorista» ragiona. Biagi aveva concepito «accanto alle nuove flessibilità, una tutela nei momenti di disoccupazione da realizzare attraverso ammortizzatori sociali universali». Da noi invece - «con Berlusconi al governo» sostiene Damiano - si è sostenuta la flex e «rimandata la security». Un messaggio mal interpretato che ha portato alle conseguenze drammatiche di oggi. Ma, si sa, con un debito pubblico quasi doppio rispetto alla Germania (136 contro il 78) e il tetto del deficit sul Pil al 3% da rispettare, solo con un miracolo si potrebbe replicare l'indennità di disoccupazione generale per i lavoratori dipendenti (biennale) e il salario di cittadinanza per le persone in difficoltà su cui possono contare i tedeschi. Speranze di emulazione potrebbero esserci per il sistema duale di alternanza scuola-lavoro, in Germania «davvero vincente» spiegano ancora Benini e Sorcioni, con una «vera alternanza, certificazione delle abilità acquisite e accesso possibile anche all'istruzione universitaria». La proposta per l'Italia prevederebbe misure come «la definizione di un sistema nazionale di riferimento, la qualificazione degli istituti tecnici, l'instaurazione di un rapporto tra sistema formativo e imprese». E infine, «la promozione per gli ultimi anni di corso di tirocini obbligatori e la sperimentazione di percorsi di placement tra istituti formativi e imprese del territorio». Anche i minijobs – contratti part time a 5-700 euro al mese – potrebbero rappresentare una via d'uscita dal tunnel, se non altro con l'obiettivo di far emergere il lavoro nero, soprattutto femminile. In Italia esiste uno strumento simile, il lavoro accessorio, secondo gli esperti «da rendere più agevole, accessibile e sistematico» perché potrebbe ridurre «l'inattività di alcune fasce della popolazione più povera o sostenere percorsi di attivazione». La sede del seminario, il Nazareno, era la stessa del durissimo scontro sull'articolo 18 avvenuta giorni fa all'interno della direzione democratica. Finito poi con la vittoria di Renzi sull'applicazione della norma solo per i licenziamenti disciplinari o discriminatori. Lo ha ricordato Gianni Cuperlo, dirigente Pd, che all'incontro ha riflettuto sul fatto che «un approfondimento come questo avrebbe potuto cambiare le sorti della discussione». Sottolineando che l'abolizione dell'articolo 18 non sposterebbe di una virgola i dati sulla disoccupazione «senza gli investimenti in politica industriale». In Germania, è vero, licenziare è meno complicato. Ma è tutto il sistema a essere improntato alla garanzia del lavoratore. In primis grazie alla «cogestione», ovvero i comitati aziendali che per il 50% sono formati dagli stessi lavoratori. Insieme ai consigli di amministrazione decidono sul futuro delle imprese e risolvono i problemi dei singoli, riducendo al minimo i conflitti aziendali. «Sarebbe divertente ascoltare il punto di vista di Marchionne sull'argomento e delle multinazionali che abbandonano il territorio nazionale senza rendere conto a nessuno» ha concluso, con un certo sarcasmo, Cesare Damiano. Ilaria Mariotti  

Formazione continua, spina nel fianco dei professionisti italiani

L’aggiornamento professionale è una scelta, dettata dalla volontà di essere sempre al passo con le innovazioni del proprio mestiere, o una mera necessità burocratica? Tra i professionisti italiani il dibattito è acceso, specie dopo che, a fine 2012, la riforma delle professioni (Dpr 137/2012) varata dal governo Monti ha introdotto l’obbligo, per tutti gli iscritti agli ordini professionali, di frequentare corsi di formazione continua, come una delle condizioni per poter mantenere la propria iscrizione.Un obbligo che, come spiega l’avvocato Alessandra Pacchioni, «riguarda tutte le professioni ordinistiche, anche se per alcune di esse il dovere di aggiornarsi era già previsto da regole precedenti». Ad esempio, «per le professioni sanitarie la formazione continua è obbligatoria già dal 1992, grazie al decreto legislativo 502, successivamente integrato dal decreto legislativo 229 nel 1999. Dal primo gennaio 2010 anche i geometri iscritti all’albo sono obbligati a maturare un certo numero di crediti formativi professionali (CFP), anche se non svolgono l’attività, in base a un regolamento interno». Frequentare corsi di aggiornamento professionale è obbligatorio dal 2009 «anche per gli assistenti sociali, il cui ordine ha elaborato un regolamento di formazione continua che prevedeva un periodo di sperimentazione di tre anni, dal 2010 al 2012. Il periodo di sperimentazione è terminato con l’entrata in vigore del nuovo regolamento». La riforma del 2012 è stata poi recepita dall’ordine dei giornalisti, che a partire dal 2014 dovranno assolvere all'obbligo della formazione professionale continua (FPC); così come gli ingegneri, gli architetti e i periti industriali. Mille polemiche hanno accompagnato l'introduzione della formazione professionale obbligatoria per i giornalisti: dalle proteste per il costo dei corsi, alle quali l'Ordine ha replicato introducendo una serie di appuntamenti gratuiti, fino al recente disservizio che ha coinvolto la piattaforma informatica attraverso la quale è possibile iscriversi ai corsi. «Per gli avvocati, la nuova legge professionale, entrata in vigore nel febbraio 2013 prevede che il Consiglio nazionale forense stabilisca le modalità e le condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento da parte degli iscritti con superamento dell’attuale sistema dei crediti formativi, elaborato nel 2007», sottolinea il legale. Attualmente, aggiunge, «gli avvocati devono conseguire almeno 60 crediti in tre anni, di cui almeno 9 in materie obbligatorie, come la deontologia e la previdenza forense. Ogni anno si deve conseguire un minimo di 15 crediti, di cui 2 nelle materie obbligatorie».Aggiornarsi, quindi, è un dovere: o comunque è caldamente consigliato, anche ai professionisti non iscritti ad alcun albo. «La legge 4 del 2013 stabilisce che anche figure professionali come i tributaristi, gli amministratori di condominio, o alcuni specialisti del settore sanitario come i tecnici della prevenzione, pur non avendo l’obbligo di aggiornarsi, possono dare vita ad associazioni si base volontaria, che curano anche l’aggiornamento professionale», chiarisce l’avvocato Pacchioni. «La formazione, anche se non obbligatoria, diventa il “bollino blu” che garantisce la clientela». Per quanto riguarda l’offerta formativa, «inizialmente gli ordini avevano preso su di sé il monopolio della gestione dei corsi», sottolinea il legale. «Poi, una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, datata 28 febbraio 2013, ha liberalizzato il mercato, e ora anche altri enti indipendenti possono erogare i corsi di formazione, anche online. Questi enti devono essere accreditati presso gli ordini di riferimento e devono inoltre impegnarsi a trasmettere poi all’ordine di competenza il conteggio dei crediti maturati». Sui portali degli ordini professionali, inoltre, «sono disponibili link specifici sulla formazione, attraverso cui gli iscritti possono conoscere le varie offerte di corsi, iscriversi e pagare».Spesso, infatti, questi corsi sono a pagamento, e molti sono anche abbastanza costosi. «La spesa può variare di molto, soprattutto a seconda del fatto che si scelga di frequentare corsi online o lezioni frontali: si va da poche centinaia di euro a qualche migliaio». Esistono anche corsi gratuiti, «che di solito sono quelli che riguardano materie obbligatorie, come la previdenza o la deontologia», evidenzia l’avvocato Pacchioni. «La maggior parte degli altri corsi è a pagamento, anche se di solito online si trovano pacchetti abbastanza vantaggiosi. I professionisti devono sviluppare un’abilità particolare nel cercare le offerte formative più convenienti». Un discorso che vale soprattutto per gli iscritti più giovani, quelli che ancora non hanno una carriera avviata e non possono quindi contare su entrate cospicue. «Se si parla di onere economico è evidente che i giovani, che guadagnano generalmente meno dei colleghi più anziani, devono attingere ai loro pochi introiti in misura considerevole per poter assolvere all’obbligo formativo», nota il legale. «Ma questo vale anche per i professionisti che non sono più giovani, ma che per varie ragioni stanno attraversando un periodo di difficoltà: i loro guadagni sono ridotti e ne devono dedicare parte all’obbligo della formazione. Invece, se si parla di “onere” anche a livello di impegno, in termini di tempo e concentrazione, sicuramente i giovani sono avvantaggiati, perché le loro capacità di attenzione e apprendimento sono ben superiori a quelle dei colleghi più avanti con l’età».In generale, secondo l’avvocato Pacchioni è ancora presto per dare un giudizio sull’efficacia della formazione obbligatoria per i professionisti. «Occorre aspettare che le novità previste dalla riforma, e che sono state attuate in parte e comunque molto recentemente, esplichino i loro effetti nella realtà del mercato delle professioni», fa sapere il legale. «Bisognerà anche vedere come funzionerà in concreto il meccanismo delle sanzioni per chi non adempie all’obbligo. Ad esempio, nel 2010 la Cassazione ha dato torto a un notaio che non aveva conseguito tutti i crediti previsti dalla normativa del suo ordine, e per questo era stato oggetto di un provvedimento di censura». In generale, spiega l'avvocato Pacchioni, «nei confronti di chi non ottempera all'obbligo di aggiornarsi viene aperto un procedimento disciplinare, di diversa entità a seconda della gravità della violazione e del suo perdurare nel tempo. Sta ai consigli disciplinari di ogni singolo ordine professionale stabilire l'entità dell'illecito, e di conseguenza la sanzione da comminare».Non solo: secondo il legale, «per avere un’idea più completa sui corsi di aggiornamento professionale occorrerebbe attendere che la crisi si attenui e vengano meno le distorsioni che essa ha prodotto in campo economico e sociale. I professionisti hanno difficoltà a farsi pagare dai clienti in crisi, e la conseguente diminuzione dei loro guadagni li porta a cercare di ridimensionare il più possibile gli oneri economici, come quelli dedicati alla formazione permanente o all’obbligo di introdurre il Pos».  Da un lato, sottolinea l’avvocato, «si comprende la ratio della legge, cioè la necessità di garantire ai clienti professionisti qualificati, con competenze aggiornate. D’altra parte, tutto dipende da come il professionista affronta questo onere e da come lo assolve, se per dovere burocratico o se per un’effettiva volontà di aggiornarsi».Chiara Merico

Piano giovani in Sicilia, colpo di scena: salve le selezioni di luglio e agosto

Domani, mercoledì 1 ottobre, era la data-limite che centinaia di giovani siciliani si erano posti per avviare una causa per danni alla Regione Sicilia. Motivo del contendere, i tirocini da 500 euro al mese del Piano Giovani, iniziativa a favore dell'occupazione giovanile, e in particolare il procedimento del clicday del 5 agosto - poi annullato - utilizzato per far iscrivere i giovani aspiranti stagisti al programma. La Regione avrebbe rischiato di dover sborsare più di 7 milioni di euro di risarcimenti. E invece proprio oggi arriva il parere dell'avvocatura dello Stato, richiesto dall'assessore Nelli Scilabra, che ha definito valide le assegnazioni fatte il 14 luglio e il 5 agosto. Sospiro di sollievo per le centinaia di ragazzi selezionati attraverso questi due clicday, che a questo punto ovviamente non faranno causa alla Regione. Grande rabbia invece, per tutti coloro che da queste giornate di selezione erano rimasti tagliati fuori a causa di (probabili, ma non ancora accertati) disservizi informatici. Dopo questo parere ufficiale il terzo appuntamento del clicday - che doveva essere a settembre e a questo punto slitterà - verrà fortemente ridimensionato.  Si chiude così questo intricato capitolo del "Piano Giovani" che ha occupato le cronache dei giornali locali nelle ultime settimane, coinvolgendo tutti: cittadini, politici, procura. Pochi giorni fa, infatti, il 24 settembre, c’era stato un blitz della Guardia di finanza nella sede dell’assessorato alla Formazione professionale con il compito di indagare sul Piano che, nelle intenzioni del governo regionale, voleva fornire un'opportunità di tirocinio orientato all'inserimento lavorativo a migliaia di giovani siciliani. E invece stava diventando un'odissea senza fine. I militari hanno acquisito dei documenti, su delega della Procura presso la Corte dei Conti, e ascoltato alcune persone informate sui fatti, per un'indagine per eventuale danno erariale, visto che per la misura sono stati stanziati 19 milioni di euro di fondi europei. Se fuori ai palazzi aumentavano le polemiche, in Regione è scoppiata la guerra contro il presidente Crocetta. «Chiedo formalmente di calendarizzare la mozione di censura all’assessore Nelli Scilabra» aveva dichiarato pochi giorni fa il capogruppo di Forza Italia Marco Falcone, aggiungendo: «Abbiamo pronta anche la mozione di sfiducia al presidente». Clima molto teso: i democratici sono ormai da tempo in rottura con il governatore, cui hanno garantito fino ad ora solo un appoggio esterno. Appoggio che, almeno stando a queanto dice il segretario regionale Pd Fausto Raciti, è sempre più a rischio: già il 22 settembre, prima dell'intervento della Guardia di Finanza, era suonato un preoccupante campanello d'allarme che evidenziava come l’intero Piano fosse allo sbando. Quel giorno era stata pubblicata sul nuovo Bollettino ufficiale della regione siciliana la revoca del bando del 18 agosto, emanato di corsa dall’ex dirigente Corsello – dimissionaria – accorpando gli stanziamenti previsti per la Garanzia Giovani a quelli del Piano giovani. E si facevano precisazioni che lasciavano sottintendere un ok alla "finestra" del clicday del 14 luglio e un annullamento per quella invece del clicday del 5 agosto. Precisazione che aveva fatto andare su tutte le furie gli 800 che a inizio agosto erano riusciti a fare "clic" e ad aggiudicarsi uno stage.  Stanchi di aspettare la pubblicazione di un nuovo bando e delusi dal comportamento dei politici, gli esclusi avevano deciso di avviare una azione legale, seguiti dallo studio Grillo Cortese di Ribera. «Per chiedere il parere al tribunale, in quanto ente terzo, su tutto quello che è successo e avere il risarcimento del danno oltre al rimborso per la mancata chance: quella di essere assunti per tre anni dall’azienda che doveva iniziare i tirocini», aveva spiegato alla Repubblica degli Stagisti Giuseppe Sicilia, amministratore della pagina Facebook «Piano Giovani…se Crocetta annulla tutto faremo ricorso!». Più che i soldi, l’azione legale voleva però «far capire ai politici che non abbiamo colpa se siamo governati da incapaci». Ed è proprio l'appoggio mancato dalle forze politiche la cosa che ha ferito di più questi giovani che, nonostante la vittoria ottenuta, probabilmente non si fideranno più dei loro rappresentanti. Perché nessuno «ha ascoltato la nostra voce, ad eccezione di Valentina Zafarana, capogruppo del M5S», spiegava Sicilia. Il riferimento è all'audizione del 26 agosto della V commissione lavoro, quando Sicilia era riuscito a consegnare una lettera dei ragazzi che avevano superato il clicday alla Zafarana, che aveva accettato di leggerla al resto dell’assemblea. Il movimento aveva subito appoggiato i giovani salvo poi, in un secondo momento, «dopo aver saputo degli affidamenti diretti, decidere che non si poteva sostenere nemmeno in minima percentuale questo tipo di manovra» spiega Zafarana alla Repubblica degli Stagisti. L’affermazione sulla politica “assente”, però, fa meravigliare Fausto Raciti - che dei tanti aspiranti tirocinanti è praticamente coetaneo, avendo da poco girato la boa dei trent'anni: «Non è vero che non abbiamo espresso una posizione ufficiale» ribatte alla Repubblica degli Stagisti. «Abbiamo chiesto al presidente della Regione di prendere atto del fallimento e all’assessore Scilabra di assumersi la responsabilità politica di questo flop. Che è accertata e non ha bisogno di procure o indagini, perché è evidente che questo scaricabarile sul dirigente generale dell’assessorato è un modo per lavarsi le mani». Raciti non ha mezzi termini nel definire questo governo regionale «largamente insufficiente per una risposta all’emergenza occupazionale e sociale che la Sicilia vive» e crede che i giovani abbiano tutte le ragioni «ad avere in questo momento sfiducia nella classe di governo siciliana». È convinto che il Piano Giovani sia stato enfatizzato come la soluzione al problema occupazione nell’isola di cui, invece «è solo una goccia nell’oceano». Di incapacità della classe politica siciliana parla anche la Zafarana: «Non abbiamo nessun problema ad affermarlo, del resto nell’ultima occasione di aula abbiamo chiesto conto a Crocetta sulla instabilità di questo governo regionale che cambia assessori oggi sì e domani pure, perché questa poltrona è lo strumento con cui allargare o stringere la maggioranza. Questo è un governo che fa delle misure di respiro cortissimo, perciò gli contestiamo l’incapacità, che a un certo punto è peggio della malafede».Vincenzo Figuccia, di Forza Italia, chiede invece scusa ai giovani per quello che è accaduto: «Pensiamo che l’unica risposta vera oltre all’ascolto è la mozione di sfiducia che abbiamo presentato per mandare a casa la Scilabra». La mozione è stata già depositata e dovrebbe essere discussa in aula «il 7 ottobre: su questo non siamo disposti a fare un passo indietro» dice alla Repubblica degli Stagisti il vicecapogruppo del partito forzista. Mozione su cui anche il PD siciliano ha iniziato a discutere, per decidere come votare, «ma nessuno ha realmente spinto per la calendarizzazione decideremo prossimamente il da farsi» dice Mariella Maggio, vicepresidente della commissione lavoro e formazione all’Ars. Anche se la Zafarana precisa a distanza: «La decisione di Forza Italia arriva tardi. La nostra mozione di sfiducia è già stata presentata, è la 331 mentre quella di FI è la 333. Comunque certo, la voteremmo senza se e senza ma».  Se tra i partiti ognuno sottolinea le proprie differenze, c'è un punto, però, su cui sono d'accordo tutti: sul Piano Giovani si erano create troppe aspettative. Lo dice alla Repubblica degli Stagisti la Maggio, convinta che molti «lo avessero visto come l’anticamera di un lavoro sicuro che non ci sarà se nel frattempo non si creano le condizioni». Posizione che trova concorde Figuccia, convinto che i fondi comunitari usati per questo Piano dovessero essere gestiti con «modalità diverse che premino davvero la motivazione, le competenze, i titoli di studio, la professionalità dei giovani che non si possono individuare attraverso la velocità di un clic. E credo che il contributo assistenzialistico di 500 euro al mese per sei mesi» continua a spiegare alla RdS «non sia risolutivo. Il governo avrebbe fatto meglio a investire queste somme in fiscalità di vantaggio o sostegno alle start up. Nella migliore delle ipotesi i giovani faranno esperienze all’interno di aziende che alla fine del percorso li rimanderanno al mittente». Un punto condiviso anche dalla Zafarana: «Lo sappiamo bene che poi questi tirocini non sfociano nel contratto di lavoro a tempo indeterminato». In realtà il Piano giovani prevederebbe anche sgravi fiscali alle aziende per tre anni in caso di assunzione alla fine del tirocinio. Anche per questo le aziende si sono iscritte e hanno fatto le dovute selezioni per cercare i candidati: perché possono attivare un contratto con degli sconti fiscali, che in tempi di crisi fanno sempre gola.Al momento, tirando le somme, i giovani che sembravano esclusi - quelli che in pieno agosto erano riusciti a finire sulle pagine dei giornali per le loro proteste e che in due mesi avevano creato non poche crepe all'interno del governo Crocetta - possono festeggiare, e sopratutto possono evitare di fuggire al nord in cerca di qualche opportunità lavorativa. Per altri - forse 900, ma non ci sono ancora dati certi e molto dipenderà dai fondi che verranno stanziati - i giochi si riapriranno nelle prossime settimane: probabilmente con il sistema del clicweek, di cui si era discusso in Regione quando ancora si aspettava una risposta dall'Avvocatura. Nelle cronache di questo "caso" resteranno dunque una selezione gestita malamente, un paio di titoli di giornale, tante accuse, qualche poltrona saltata. E la classica conclusione all'italiana: prima tutti colpevoli, poi tutti innocenti. Così, dopo accuse e indagini, il prossimo appuntamento sarà nuovamente gestito da Ett, Italia Lavoro e Sviluppo Sicilia. Molto rumore per nulla - o forse, richiamando il Gattopardo siciliano, «cambiare tutto, perché nulla cambi». Marianna Lepore

Piazza dei Mestieri, così a Torino da dieci anni i giovanissimi imparano a lavorare

C'è chi impara a cucinare, lavorare il cioccolato e servire ai tavoli. Altri studiano i segreti della birra artigianale e riescono a produrne di buonissima. Grafici e tipografi seguono svariati progetti editoriali, dal biglietto da visita alle brochure, fino alla stampa del prodotto finale. Sono i ragazzi della Piazza dei Mestieri, un progetto pressoché unico nel suo genere di formazione mirata e inserimento lavorativo, che festeggia in questi giorni a Torino i dieci anni di vita: dall'apertura a oggi 3mila allievi hanno imparato un mestiere fra i banchi delle ex Concerie Fiorio - e, dettaglio non trascurabile, l'80% di loro è riuscito a trovare un'occupazione. In un vecchio stabilimento completamente ristrutturato trovano spazio, oltre alle aule del centro di formazione professionale, un birrificio, un ristorante, un laboratorio dolciario e uno studio grafico. L'agorà ospita inoltre corsi di apprendimento, laboratori, manifestazioni culturali e progetti che mirano all'inclusione sociale delle persone più disagiate. Un modello funzionante, che trae il proprio successo dalla mescolanza di più soggetti giuridici. Il primo è la Fondazione Piazza dei Mestieri, che ha dato vita al progetto. Ne fanno parte i soci privati che nel 2003 hanno acquistato l'edificio di circa 7 mila mq di via Durandi, ristrutturandolo un anno dopo grazie ai contributi pubblici - richiesti soltanto per la fase di start up. Poi ci sono due cooperative: "La Piazza", che si occupa delle attività commerciali, e "Immaginazione e Lavoro", che segue le attività di formazione mirate al conseguimento di una qualifica professionale. Infine, l'associazione Piazza dei Mestieri, che organizza attività culturali. Il cuore pulsante della Piazza è certamente il centro di formazione professionale, una struttura privata finanziata con contributi europei, che attualmente ospita 500 allievi. «I nostri ragazzi hanno dai 14 ai 18 anni» spiega il responsabile Paolo Basso: «Si iscrivono gratuitamente e scelgono una delle cinque aree professionali disponibili.  I corsi sono di due tipi: triennali, per i ragazzi che hanno conseguito la licenza media; biennali, per ragazzi con più di 15 anni. Delle 1050 ore all'anno più della metà sono dedicate alla parte professionalizzante, con il 90% delle lezioni che si svolgono in laboratorio. Quindi, all'ultimo anno, sono previste 320 ore di stage in azienda». Il punto di forza dei percorsi formativi è senz'altro l'affiancamento con i professionisti che lavorano nelle attività della Piazza: s'impara a cucinare seguendo lo chef che lavora al ristorante oppure a preparare dei dolci, mettendo in pratica i consigli del mastro pasticcere. «Le nostre attività commerciali possono contare su organici altamente specializzati e autonomi» aggiunge Basso «I ragazzi fanno affiancamento, imparano da chi il mestiere lo conosce. Un modello che s'ispira al "duale" tedesco, dove la scuola professionale e l'azienda sono entrambe incaricate nella formazione». Terminate le lezioni, gli allievi che vogliono lavorare al birrificio o al ristorante possono farlo e sono retribuiti con dei voucher. Fino a tre-quattro anni fa i ragazzi qualificati erano assunti subito, oggi i tempi d'inserimento lavorativo si sono allungati e, in certi casi, prima di trovare un impiego può trascorrere anche un anno e mezzo. Anche per questo motivo all'interno di Piazza dei Mestieri è nato uno "sportello lavoro" accreditato, aperto al pubblico venti ore alla settimana, dove si incontrano domanda e offerta. Ovviamente vi si rivolgono anche gli ex allievi, che una volta ottenuta la qualifica registrano il loro profilo sul database del sistema, indicando le rispettive competenze.«Oltre al calo occupazionale negli ultimi tempi abbiamo riscontrato un altro problema: la collocazione dei ragazzi che si qualificano a 17 anni» aggiunge Basso: «È vero che la legge consente di lavorare dai 15 anni in avanti, ma alcuni mestieri, come il panificatore, richiedono turni di lavoro notturni che i minorenni non possono affrontare. Per questo stiamo pensando a un modo per tenere occupati questi ragazzi, fino al compimento della maggiore età». Oltre alla formazione Piazza dei Mestieri è anche business. Nel 2013 le attività commerciali "interne" hanno confermato il trend positivo, con numeri interessanti: il ristorante ha servito quasi 19 mila pasti, mentre il birrificio ha spillato più di 50 mila litri di birra tra  fusti e bottiglie. E ancora, il laboratorio dolciario ha lavorato tonnellate di cioccolato, mentre il fatturato del service grafico ha registrato un aumento del 68%. In totale, la Piazza ha ottenuto ricavi per quasi 10 milioni di euro. Alla luce di questo successo, tre anni fa l'esperienza torinese è stata replicata a Catania, mentre in Brasile, a Belo Horizonte, è stato sancito un gemellaggio con una realtà simile. «In Italia c'è una distanza eccessiva tra scuola e lavoro» tira le fila Cristiana Poggio, vicepresidente della Fondazione Piazza dei Mestieri: «Il nostro obiettivo è accorciare i due mondi. Abbiamo rapporti con 700 imprese e cercheremo di ampliare ancora questa rete. Dopo dieci anni posso dire che il modello funziona: abbiamo ottenuto un pareggio di bilancio e questo è un dato positivo». Dopo la sede di Catania, che può già contare su 400 allievi, Piazza dei Mestieri potrebbe essere esportato anche in altri paesi europei, come la Spagna. «Stiamo ragionando su un'apertura a Madrid» conclude la vicepresidente «ma ancora non c'è nulla di concreto». Ma è già un passo importante che, una volta tanto, un progetto italiano sull'occupabilità dei giovani diventi "best practice" al punto da essere copiato da qualche paese straniero.Marco Panzarella

Garanzia Giovani, il ministero ammette: «Nessun controllo sulla qualità degli annunci». Infatti si trova di tutto

«Guardate cosa propone nell’ambito del programma Garanzia giovani, Synergie Italia Agenzia per il lavoro: 14 operatori di ristorazione per catena multinazionale di fast food, formazione per 30/35 ore settimanali a 3 euro all’ora ….  Tutto ciò è scandaloso» scrive una lettrice sulla pagina Facebook della Repubblica degli Stagisti a fine agosto. L’annuncio, se non proprio "scandaloso", è comunque in effetti per molti versi discutibile: non solo perché non offre un posto di lavoro bensì un tirocinio, o perché l’indennità di frequenza - 3 euro l’ora - definita come “borsa di studio” è prevista solo al raggiungimento del 100% delle ore previste dallo stage (lasciando ipotizzare che, se colto da influenza per una settimana, lo stagista potrebbe perdere il compenso di tutti gli altri mesi). O ancora perché al termine del tirocinio promette pomposamente “un attestato dei risultati di apprendimento” che si immagina in una catena di fast food non siano poi così complessi. Lo "scandalo" sta soprattutto nel fatto che è un annuncio che rientra all’interno del programma Garanzia Giovani, pensato per far ripartire l’occupazione giovanile e finanziato lautamente dall'Unione europea. E che l'indennità per questi mesi di stage per imparare a girare gli hamburger sulla piastra e a battere gli scontrini non verrà pagata dalla catena di fast food che si gioverà della presenza dei 14 stagisti, bensì con soldi pubblici.Di annunci così se ne trovano tanti. Basta fare un giro tra i vari portali regionali dedicati alla Garanzia Giovani o su quello nazionale per vedere che spesso tra le offerte ci sono moltissimi stage per qualifiche di basso livello. La Repubblica degli Stagisti si è messa nei panni di un giovane italiano che vuole scommettere su questo programma per trovare una buona opportunità, e ha analizzato per qualche settimana gli annunci sul portale nazionale e su quelli regionali. I risultati sono stati talmente deludenti da chiedersi: come mai nonostante i piani del Governo e le raccomandazioni europee gli annunci inseriti sono di basso livello e spesso solo una copia delle offerte di lavoro che si trovano sui siti disponibili online? Abbiamo girato la domanda direttamente a Grazia Strano, direttore generale del mercato del lavoro [nella foto, in un momento del suo intervento al Festival del Lavoro dello scorso giugno a Fiuggi], scoprendo che quello che tutti si chiedono semplicemente non è stato considerato dai vertici. «Non c’è nessun ufficio adibito al controllo della qualità e congruità degli annunci» ammette infatti la dirigente: «Le aziende dovevano rispondere ai requisiti presenti nel bando, era questo l’unico requisito. Il controllo avverrà a selezione conclusa, quando si valuterà la qualità dell’offerta». A questo punto non stupiscono offerte come quella del fast food, anche perché è proprio la Strano a confermare che «l’obiettivo della Garanzia è inserire nel mondo del lavoro. Solo dopo si controlleranno i dati finali». In attesa però delle verifiche a posteriori dal ministero, quello che salta agli occhi con un’analisi sommaria degli annunci è sconfortante. In Piemonte si sprecano le offerte di aiuto cameriere, cassiere di negozio, agricoltore e commesso da banco. In Lombardia si ricerca anche un affilatore arrotino mentre in Campania si va dal tirocinio per addetti a funzioni di segreteria a quello per un operatore all’infanzia, che per fare uno stage è preferibile abbia comunque già esperienze pregresse nello stesso campo. Tutti qui gli annunci scandalo? Non proprio: a Terni la Garanzia Giovani offriva una opportunità come collaboratrice familiare (va detto, però, con un contratto a tempo determinato), mentre a Taranto è ancora in corso la ricerca per un “banconista di salumeria con esperienza pluriennale”. Non mancano le classiche ricerche per operatori di call center o di telemarketing e, come un qualsiasi altro portale di annunci di lavoro, ci sono anche quelli per cameriere o idraulico. Conclusioni a cui è giunta anche l’analisi dell'Adapt sulle inserzioni pubblicate sul sito del ministero che infatti in una classifica delle prime dieci figure ricercate elenca operai, agenti di commercio, manutentori meccanici e saldatori. Gli annunci, poi, sono il più delle volte inseriti da altre agenzie per il lavoro e non direttamente dai professionisti o dalle aziende desiderose di sfruttare questa opportunità. E, ancora una volta come un qualsiasi portale di offerte di lavoro, spesso si richiede - come si è visto - una competenza acquisita con una precedente esperienza lavorativa, in evidente attrito con gli obiettivi della Garanzia Giovani che, secondo i piani del Governo, dovrebbe intercettare prima di tutto i Neet, cioè coloro che hanno finito (o smesso) di studiare ma che non hanno e non cercano un lavoro: e che ovviamente l’esperienza sul campo devono ancora acquisirla. Insomma: il ragazzo che si è registrato al portale e che ha passato il pomeriggio vagliando le pagine con le varie offerte per cercare un tirocinio o un lavoro, spesso e volentieri si trova a leggere gli stessi annunci che potrebbe trovare su uno dei tantissimi siti disponibili online.  Il programma, peraltro, dovrebbe cercare di aiutare anche i giovani laureati che non riescono a trovare un impiego malgrado i titoli di studio. A questo Grazia Strano trova due ordini di motivazione che illustra alla Repubblica degli Stagisti: la tipologia delle offerte inserite dalle aziende «ma anche la tipologia di giovani che hanno richiesto di partecipare. Al momento fra quelli iscritti alla Garanzia solo il 20% ha conseguito una laurea, mentre il 56% è diplomato. Quindi, secondo i dati a disposizione, per ora c’è un parallelismo tra titolo di studio e posti di lavoro offerti». C'è poi il problema della - scarsa - partecipazione del mondo delle imprese. Le aziende hanno infatti aderito alla Garanzia Giovani in numero molto più basso di quanto sperato. Una risposta ben diversa rispetto a quella massiccia raccontata nei giorni scorsi sul Corriere della Sera rispetto al Jobs Act australiano, che in poche settimane ha visto un'impennata di posti di lavoro offerti da aziende, commercianti e professionisti in risposta a un appello del governo per far scendere la disoccupazione. Su questo fronte però qualcosa dovrebbe migliorare - assicurano dal Ministero - dopo l’approvazione a inizio agosto di una convenzione tra ministero, Inps e regioni che stabilisce l’erogazione delle borse da parte dell’istituto nazionale di previdenza sociale. Ma la domanda finale resta: la Garanzia Giovani ha l'obiettivo di fornire uno strumento in più per diffondere annunci di qualifiche di basso livello, o di venire incontro al gran numero di giovani adulti italiani che nonostante le qualifiche ottenute negli anni non sono riusciti a trovare un adeguato posto di lavoro? La risposta sembra non abbiano voglia di darla nemmeno dal ministero, ma le lamentele dei giovani iscritti che non sono ancora stati selezionati e l’analisi degli annunci e dei dati fino a questo momento disponibili non fanno sperare in positivo. Dai dati di monitoraggio pubblicati il 18 settembre, i giovani registrati al progetto sono poco più di 200mila, di cui convocati solo 37mila, per un totale di opportunità (di lavoro o stage) al momento disponibile poco superiore alle 19mila unità. Rispetto ai dati di fine agosto, in una ventina di giorni i giovani sarebbero lievitati di 30mila unità mentre le offerte di lavoro di appena 6mila. È evidente che qualcosa in questo sistema ad oggi non ha funzionato: una promozione sbagliata del progetto, uno scarso interesse da parte delle aziende forse poco informate dei vantaggi, l'assenza da parte dei promotori di un seppur minimo controllo in fase di registrazione degli annunci di lavoro. Così come è nulla la verifica di offerte scadute o già assegnate.  Ma se nemmeno dal ministero (o dalle Regioni) ritengono opportuno curare la qualità delle offerte veicolate attraverso Garanzia Giovani, perché i diretti destinatari del progetto dovrebbero mai crederci e aver fiducia in questo programma?Marianna Lepore