La parola neet è diventata centrale negli ultimi tempi nel dibattito politico, mediatico e pubblico. Spesso e volentieri accentuando, in Italia, l’uso di questo acronimo (che sta per not in employment, nor in education or training) per generalizzare una categoria che in realtà è molto diversificata e dargli prevalentemente un’interpretazione che sta per "giovani sfiduciati con poca voglia di lavorare e studiare". Partendo proprio da questa constatazione Erica Antonini, ricercatore in sociologia generale e professore aggregato alla Sapienza di Roma, ha cercato di andare in profondità e raccogliere dati e interviste. Nasce così Giovani senza, sottotitolo «L’universo neet tra fine del lavoro e crisi della formazione» (Mimesis edizioni).
«Mi sembrava prevalesse la tendenza a rappresentare una sola categoria, più che un universo all’interno del quale ci sono tanti profili diversificati», spiega alla Repubblica degli Stagisti la Antonini: «Ma quella rappresentazione si riferisce al fatto che sembra prevalere una dimensione di volontarietà, quindi di giovani con scarso spirito di sacrificio, quando invece andando in profondità si scoprono diversi profili. Certo c’è anche una componente volontaristica ma non è assolutamente maggioritaria».
Ed è evidente che identificando i neet nei soggetti tra i 15 e i 29 anni si mettano insieme persone con situazioni totalmente differenti. È proprio contro questa rappresentazione semplificante che parte la ricerca del libro Giovani senza. «Fare molto riferimento alla dimensione della volontarietà» spiega l’autrice «nasconde qualche ombra su alcuni nodi strutturali e culturali che riguardano il nostro contesto e richiederebbero una maggiore attenzione. Senza enfatizzare, invece, una lettura del fenomeno solo in termini di responsabilità individuali».
Perché altrimenti si finisce, come dice anche il sociologo Franco Ferrarotti, con lo «psicologizzare dei fatti sociali» e rendere le vittime responsabili della loro condizione. Invece, secondo la ricercatrice, per molti di questi giovani c’è più un’assenza di opportunità che non una mancanza di volontà o di spirito di sacrificio. «Anzi, molti sono sottopagati e disposti a lavorare prendendo in considerazione anche proposte non corrispondenti alle proprie competenze».
Per analizzare il fenomeno dei neet Erica Antonini è partita da una ricerca condotta nel 2012 da Eurofound, una fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e da studi e rielaborazioni di dati condotte da ItaliaLavoro. Fonti che alla fine convergono in una certa caratterizzazione. «Ci sono i giovani in cerca di occupazione, poi c’è il sottogruppo più ampio che è quello dei disoccupati, divisi in quelli di breve e lungo periodo. C’è poi il gruppo degli indisponibili, quindi quelli che per ragioni prevalentemente familiari non intendono cercare lavoro anche se è difficile stabilire se questa indisponibilità sia una scelta o una necessità visto che sono in prevalenza donne, spesso sposate e madri, quindi con responsabilità di cura. Infine ci sono effettivamente i disimpegnati, quelli che non hanno interesse a cercare lavoro e non sono impegnati in percorsi di formazione sia perché scoraggiati sia perché disinteressati».
Andando a sommare le percentuali delle varie categorie si scopre che tra i neet quelli in cerca di occupazione o di opportunità sono il 60% del totale. «Quindi i veri e propri disimpegnati sono una quota assolutamente minoritaria». Ma una parte di questi potrebbe essersi creata negli ultimi anni anche grazie alla riforma universitaria del cosiddetto 3+2. Nel testo c’è una valutazione negativa sull’impatto di questa legge che nel mondo accademico è ancora oggetto di dibattito. «Effettivamente la riforma ha prodotto un gran numero di laureati che eccedono la domanda di lavoro. E la grande varietà dei profili delle lauree magistrali non sembra essere stata apprezzata nemmeno da chi offre il lavoro stesso».
La Antonini condivide l’idea che la laurea triennale per come è strutturata oggi non sia sufficiente per accedere al mondo del lavoro, ma il vero nodo critico fondamentale per l’Italia lo ritrova nello «scarso rendimento dell’investimento per la formazione rispetto ad altri Paesi. Il nostro tessuto produttivo, forse perché ancora fondato sulla piccola e media impresa, preferisce assumere il diplomato e poi fare la formazione specifica sul campo che non il laureato triennale che non ha competenze specifiche».
C’è ancora una fortissima distanza tra mondo del lavoro e della formazione, specie nel nostro Paese: «Sta diventando meno conveniente continuare lo studio o investire nella formazione» rimarca la Antonini con la Repubblica degli Stagisti «perché rispetto ad altre realtà, come gli Stati Uniti o i Paesi Scandinavi, da noi c’è una probabilità quasi pressoché identica nel trovare lavoro tra laureati e diplomati, almeno in alcuni ambiti disciplinari». Cosa che invece non si verifica all’estero, dove, prendendo ad esempio la Germania, un laureato ha una probabilità almeno quattro volte superiore di trovare un impiego rispetto a un diplomato.
Nel libro l’autrice scrive che «l’istruzione superiore non fornisce più uno scudo di difesa», perché nonostante il fatto di continuare gli studi sia sempre un valore aggiunto, è anche vero che «questo investimento sia sempre meno conveniente. Anche se certo, un laureato o specializzato riesce comunque a tenere insieme meglio le varie esperienze lavorative, a districarsi e orientarsi meglio sui vari percorsi, meno lineari del passato». E andrebbe valorizzata di più anche la formazione professionale e l’apprendistato. «Da noi c’è molta separazione tra momento formativo e lavorativo: prima si studia e poi si lavora. Mentre ci dovrebbero essere riforme di maggior raccordo tra le due realtà».
Inoltre dovrebbero essere aumentati gli investimenti diretti proprio ai giovani. Nel libro si mette infatti in evidenza come la quota di pil riservata dall’Italia alla spesa sociale non sia molto al di sotto della media europea. Il problema è nella distribuzione di questa spesa: se nel resto d’Europa solo il 39% è destinata ai trattamenti pensionistici, da noi sale al 50%, riducendo inevitabilmente la cifra diretta ai giovani. «È proprio la ripartizione interna di questa spesa che ancora una volta sembra privilegiare chi è già all’interno del mondo del lavoro rispetto a chi adesso si affaccia, contribuendo al disorientamento e alla sfiducia giovanile». L’auspicio della Antonini è che queste politiche prima o poi escano dalla logica occasionale ed episodica e siano invece impostate in maniera più continuativa, come sembra stia andando la garanzia giovani.
Certo il programma europeo, come fanno notare Massimiliano Mascherini, ricercatore Eurofound, e Giuseppe Sverzellati, presidente di ReteLavoro, entrambi intervistati dall’autrice nel suo libro, difficilmente riuscirà ad assorbire i circa due milioni di neet presenti oggi in Italia. Ma in questo senso la professoressa non è negativa, «Anche se non sono sufficienti per il momento questi tentativi vanno comunque valorizzati. Certo la logica deve essere in prospettiva continuativa, non deve essere solo un’iniziativa simbolica».
Quello che è certo ed è ben messo in evidenza nel volume, è che i fattori che hanno inciso sulla crescita dei neet nel nostro Paese sono tanti, non sono esplosi necessariamente negli ultimi tempi e hanno bisogno di tempi piuttosto lunghi per vedere una soluzione. «La ripartizione della spesa pubblica in una certa direzione è uno dei motivi, come anche la netta demarcazione tra protetti e non protetti» spiega Antonini. «Il fenomeno neet non è una novità, ma l’esito di una serie di processi che sono andati ad aggravarsi a causa di carenze di politiche risolutive. Così complice l’ultima crisi, che è quindi un fattore concomitante, in Italia c’è circa il 24% di giovani in questa situazione, molto distante dalla media europea, poco sotto il 16».
Per cercare di invertire la tendenza bisognerebbe puntare su una riforma della formazione, sul recupero dell’abbandono scolastico e incentivare le politiche attive per il lavoro puntando su orientamento e intermediazione. E c’è poi la flessibilità «con cui dobbiamo fare i conti e che non significa necessariamente deregolamentazione selvaggia». Ma quello che è più importante è non ricorrere al classico stereotipo del giovane italiano con poca voglia di studiare e lavorare che si adagia su una famiglia troppo protettiva, perché «la famiglia fa solo da ammortizzatore sociale rispetto alle carenze del welfare italiano». Servirebbero quindi più sostegni e ausili verso i giovani che dipendono, come ancora una volta Erica Antonini ripete, solo da scelte di tipo politico. Che al momento tardano ad arrivare e che, invece, potrebbero invertire la rotta per i giovani neet.
Foto rettangolare: di Flazingo photos in modalita Creative commons
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