Si è parlato spesso, negli ultimi anni, della fuga dei cervelli: la corsa di giovani laureati con master e dottorati verso paesi stranieri alla ricerca di un lavoro dignitoso e di maggiori possibilità nel futuro. Adesso è l’Istat a fotografare questa particolare categoria e a includerla nella 23esima edizione del Rapporto annuale, presentata la scorsa settimana a Roma.
In realtà i risultati non sono ancora definitivi: i ricercatori infatti non sono l'unica categoria a scappare all'estero per lavorare e l’Istat anticipa alla Repubblica degli Stagisti che sta lavorando sui dati riguardanti anche i laureati, dunque su una fetta molto più grande di giovani. I numeri al momento disponibili sui dottori di ricerca possono quindi essere considerati come un “assaggio” rispetto al monitoraggio completo che sarà pubblicato prossimamente.
Dal rapporto esce un quadro complesso del nostro paese: studiare, specializzarsi, approfondire può aiutare a trovare un lavoro. A meno che non si sia donne, perché in quel caso le difficoltà sono maggiori e i compensi diminuiscono. O non si appartenga, appunto, alla categoria dei ricercatori. Perché allora non c’è genere che tenga e la scelta è quasi obbligata: «fuggire» con il carico di conoscenza appresa in Italia per realizzarsi all’estero.
«Mobilità intellettuale»: questo il nome che l’istituto statistico dà al fenomeno. Rispetto alla precedente indagine, relativa ai dottori di ricerca del 2004 e del 2006, il dato è cresciuto di quasi sei punti arrivando al 12,9% di quanti oggi vivono all’estero. La scelta di partire viene fatta principalmente dagli uomini; analizzando i dati si vede come i più a rischio emigrazione siano i dottori di ricerca nelle scienze fisiche, visto che quasi un terzo abbandona l’Italia per continuare il suo lavoro. Poi i dottori di ricerca in scienze matematiche e informatiche e quelli in scienze chimiche o economiche e statistiche. Tra i più lontani a fare questa scelta sono i dottori di ricerca in scienze giuridiche: solo il 7,5% è emigrato per continuare il proprio lavoro. Forse perché gli ordinamenti giuridici sono diversi, e cambiando Paese si perderebbe anche gran parte delle proprie competenze.
«Uno dei maggiori freni alla crescita del sistema paese è la difficoltà a valorizzare il capitale umano specifico delle nuove generazioni» commenta Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale all’università Cattolica di Milano, direttore del Center for applied statistics in business and economics e responsabile del Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo: «La propensione a lasciare il Paese, sia per fare esperienze che per carenza di opportunità, cresce all’aumentare del livello di istruzione. Non solo quindi in Italia abbiamo meno giovani rispetto al resto d’Europa e tra questi abbiamo meno laureati, ma una volta laureati e dottorati c’è il rischio maggiore di vederli partire per altri paesi. Quello che preoccupa di questi numeri» spiega Rosina alla Repubblica degli Stagisti «è che al flusso di uscita di giovani talenti non ne corrisponde uno equivalente in entrata. Anzi, il divario sta diventando sempre più ampio. Siamo un paese produttore di talenti da esportazione: dopo averli formati li regaliamo a paesi che anche grazie a loro diventano più competitivi del nostro».
Il paese che nel campo della ricerca attrae più italiani è il Regno Unito, scelto da quasi due ricercatori italiani su dieci e tallonato da Stati Uniti e Francia. Le destinazioni comunque variano a seconda dell’area disciplinare. Se l’Inghilterra è la prima meta per l’area delle scienze chimiche, statistiche, politiche e per l’ingegneria civile e le scienze della terra, il territorio americano è invece preferito dai ricercatori in scienze mediche e biologiche, mentre il Belgio risulta primo obiettivo per agraria e veterinaria.
Non ci vuole molto a capire perché i giovani ricercatori abbandonino l’Italia, ma anche in questo caso l’Istat toglie qualsiasi dubbio facendo parlare i numeri: c’è, infatti, praticamente unanimità nel far riferimento a un lavoro meglio retribuito e più qualificato. Senza contare che se chi vive in Italia trova un lavoro ad elevata specializzazione nell’85% dei casi, il dato sale di ben sei punti per quanti, invece, emigrano.
Come probabilmente i prossimi dati Istat confermeranno, non sono comunque solo i ricercatori ad andarsene, ma anche molti laureati. «In continua crescita c’è anche il numero di giovani con basse qualifiche che cerca qualsiasi tipo di lavoro all’estero» conferma il professor Rosina. Perché lo facciano, lo spiegano ancora una volta i numeri del rapporto Istat che fotografa anche la situazione del lavoro giovanile, sempre preoccupante. Tra il 2008 e il 2014 c’è stata una perdita di occupati nella fascia di età fino ai 35 anni di quasi due milioni. Nello stesso periodo si sono persi quasi cinque punti percentuali anche nella fascia di età tra i 35 e i 49 anni, mentre gli unici ad aver visto addirittura un aumento dell’occupazione sono stati gli ultra cinquantenni: un riflesso della riforma Fornero, e dell’inasprimento dei requisiti per accedere alla pensione.
I pochi giovani che riescono a trovare un’occupazione, devono poi accontentarsi di contratti a termine o collaborazioni. In particolare le donne, specie se madri. Così non stupisce che il part time sia l’unica forma di lavoro che non subisce frenate e nell’anno passato ha riguardato, secondo l’Istat, quattro milioni di occupati: la maggioranza ha dovuto accettare questa tipologia di contratto, non sceglierlo, trasformando dunque una opportunità di work-life balance in un "part-time involontario".
Il quadro generale europeo, però, sembra positivo sul fronte occupazionale: secondo l’Istat nel 2014 si è registrata una ripresa pari allo 0,8%, - crescita che in Italia si è fermata solo allo 0,2%. Per recuperare la distanza dovremmo avere un incremento di tre milioni e mezzo di occupati, numeri che al momento sembrano difficili da realizzare. Se però la riduzione del tasso di occupazione ha interessato nel nostro Paese trasversalmente tutti i titoli di studio, bisogna aggiungere che il calo è stato più contenuto per i laureati, dove gli occupati dal 2008 al 2014 scendono di tre punti. Mentre tra i diplomati il dato è praticamente raddoppiato.
Quello che i numeri dell’istituto statistico sembrano suggerire è che un titolo di studio avanzato potrebbe fare la differenza. «Soprattutto se ottenuto in una buona università, nei tempi giusti e con una media alta, produce sempre un vantaggio rilevante nel mercato del lavoro anche in un periodo difficile come questo» commenta Rosina. «Il vantaggio, inoltre, soprattutto in Italia, cresce nel tempo. Se quindi è vero che i tassi di occupazione dei laureati prima dei trent'anni non sono molto più alti rispetto ai diplomati, tendono poi a migliorare successivamente. È la combinazione giovane e laureato che noi non riusciamo a valorizzare adeguatamente e questo è ancora più vero al Sud e per le donne. Questo paese continua a presentare squilibri generazionali, di genere, geografici che non solo frenano la crescita ma alimentano persistenti diseguaglianze».
In effetti i numeri Istat mostrano come il titolo di studio avanzato non incida particolarmente se si appartiene al genere femminile. Le donne con una laurea sono pagate in media fino al 29% in più di quelle solo con il diploma, nel centro Italia, ma ben staccate dagli uomini dove lo stesso titolo di studio fa quasi raddoppiare la retribuzione. Una differenza di genere che a parità di qualifica è più contenuta al Sud, ma che mette in evidenza come nel 2015 il soffitto di cristallo che impedisce alle donne di raggiungere posizioni di vertice, con relativi stipendi, sia ancora lì.
«C’è una maggiore attenzione oggi verso le politiche di genere e l’occupazione giovanile, ma non sono ancora considerate una priorità» osserva Rosina «Vengono fatte ai margini, senza quindi essere in grado di mettere davvero donne e nuove generazioni al centro dei processi decisionali, di crescita e cambiamento profondo del paese». Che non può certo dirsi fermo, come in passato, ma che, secondo il professore «è ancora sotto la velocità di decollo».
I dati Istat da soli non possono certo certificare che l’Italia con il suo +0,2% sul fronte occupazionale stia uscendo dalla crisi. «Servono altre conferme. Ci sono però condizioni positive sia internazionali che interne e anche il clima sembra virare verso l’uscita dalla cattiva stagione», conclude Rosina. «In particolare è in crescita la fiducia di famiglie e imprese. E il dato più rilevante, per ora, è la forte voglia generale di uscire dallo stato di depressione sociale ed economica. Questi segnali positivi incoraggiano a muoversi per rendere la crescita ancora più solida e reale».
Marianna Lepore
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