Categoria: Approfondimenti

«Si può essere felici lavorando in smartworking: una nuova sfida anche per il sindacato», parola di un ex sindacalista

Nel giro di poco più di un anno è passato da oggetto semi-misterioso a modalità di lavoro entrata prepotentemente nella quotidianità di molti di noi. Stiamo parlando dello smartworking, uno dei temi più dibattuti da un po’ di tempo a questa parte, a ragione. Se infatti prima del Covid 570mila lavoratori in Italia erano in regime di smartworking oggi si parla di oltre cinque milioni di persone (dati Osservatorio smartworking Politecnico).Lo racconta Marco Bentivogli, ex segretario generale della FIM CISL protagonista di alcune tra le vertenze sindacali più complicate e note in ambito industriale, da Ilva a Whirlpool, attuale coordinatore di Base Italia, associazione finalizzata alla promozione e la realizzazione di iniziative di ricerca su temi economici, giuridici, sociali e ambientali a livello nazionale, nel suo libro Indipendenti. «Guida allo smartworking» (Rubbettino, 2020), raccontato nel corso di una conversazione con La Repubblica degli Stagisti.La scelta del titolo è subito spiegata: «Lo smartworking è un percorso di innovazione che incentiva l’autonomia del lavoratore. Va distinto dal telelavoro, che è quello che abbiamo visto più spesso in questi mesi mentre le aziende che avevano adottato il vero smartworking già prima della pandemia hanno retto molto meglio la crisi. Già in condizioni normali, infatti, è proprio la mancanza di autonomia a soffocare produttività e benessere delle persone al lavoro, da qui il titolo del libro. Nonostante nel lavoro agile sia ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento, con gli altri. Urge quindi un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano dipendenze sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori indipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale».La pandemia ha senz’altro fatto da «acceleratore» per lo smartworking in molte aziende, segno che probabilmente in passato qualcosa era mancato: «è mancato sicuramente il coraggio anche se in ambito tecnologico la paura dell’innovazione è un sentimento ricorrente nel nostro Paese. Oggi dibattiamo sul fatto che i robot ruberanno o meno posti di lavoro in fabbrica ma nell’Italia del 1978 la produzione della Fiat Ritmo era completamente automatizzata. L’industria 4.0 è un’evoluzione di quegli automatismi: tutto è perennemente connesso, i robot possono dialogare fra loro e con l’uomo», continua Bentivogli.In un contesto di crescente importanza degli strumenti tecnologici si assiste però a una progressiva crescita dell’età media della popolazione residente, 45,7 anni al primo gennaio 2020 e a una parallela diminuzione delle nascite. Chi ha a che fare con lo smartworking non è quindi solo il giovane, padrone degli strumenti tecnologici, ma anche chi sta o deve pian piano imparare a conviverci tutti i giorni. Come fare allora? Per Bentivogli la chiave è «un grande piano di reskilling dei lavoratori over 50. Dall’autunno scorso in poi, credo che, in Italia, un’importante parte del mondo produttivo si trovi in grosse difficoltà, con il rischio di chiudere, mentre un’altra parte è nelle condizioni di correre e di crescere. Dovremo vedere come il nostro Paese sarà in grado di attivare strumenti per interpretare questo momento e mettere in atto politiche pubbliche di accompagnamento all’innovazione. Bisogna evitare la doppia sconfitta: quella di chi perderà il lavoro in aziende fuori dal gorgo dell’innovazione e quelle che invece accelereranno senza accompagnare le persone nella loro riqualificazione professionale».La completa affermazione dello smartworking deve quindi fare i conti da un lato con un importante lavoro di «alfabetizzazione digitale» di buona parte della popolazione, dall’altra con un cambiamento di approccio nel mondo aziendale, che privilegi l’autonomia del lavoratore sulla logica del controllo: «La mentalità di chi governa l’impresa va cambiata anche perché le nuove tecnologie rendono sempre più complesso misurare la produttività in termini di ore di presenza e di pezzi prodotti dalla singola persona. I vecchi modelli, quindi, si dimostrano superati».Insomma la logica del cartellino deve necessariamente lasciare il passo a una dimensione che fa leva sull’autonomia delle persone, superando un approccio molto radicato nel panorama lavorativo nazionale. Il confronto con l’estero, Europa e in generale mondo, che emerge dal libro, mostra che in Italia esiste forse un tema di cultura del lavoro, come spiega Bentivogli: «C’è un grande problema culturale a cui si può rispondere solo con la formazione. Spesso, a mo’ di provocazione, sostengo che bisognerebbe tassare l’ignoranza. Un paradosso con cui vorrei sottolineare come si debba forzare sul diritto soggettivo alla formazione, che deve essere inserito in tutti i contratti di lavoro, anche quelli più brevi, e deve assurgere al rango di diritto umano».Per permettere il «vero» cambiamento serve allora una svolta, partendo da quella che Bentivogli definisce «una nuova cultura di gestione delle imprese» : «per diffondere nuovi concetti ritengo essenziale la creazione di ecosistemi 4.0, che favoriscano l’incrocio e la crescita dei vari fattori abilitanti, compresa una nuova cultura di gestione delle imprese e di formazione dei lavoratori. Mi riferisco, per esempio, ai Competence Center del ministero dello Sviluppo economico, il cui sviluppo è in forte ritardo rispetto ai tempi previsti, oppure ai Digital Innovation Hub, che sono realtà scarsamente integrate nei territori in cui sono state create. Strutture di questo tipo dovrebbero favorire la sedimentazione delle competenze nel territorio e non essere soltanto interfacce propedeutiche all’innovazione. Se non ci riusciamo, la maggior parte del tessuto del lavoro in Italia, che è costituito dall’86% di persone attive in aziende con meno di 15 dipendenti, resterà escluso o, comunque, troppo lontano dall’accesso agli strumenti culturali necessari per entrare in percorsi innovativi di questo tipo».Un secondo aspetto da cui ripartire è il ripensamento del ruolo del sindacato: «Nella mia precedente vita da sindacalista ripetevo spesso che se anche nel sindacato qualcuno pensa che la fatica, la serialità, l’usura delle mansioni siano spazi da difendere con i denti, si perderà l’occasione di espandere la sfera dell’umano. Accettare la sfida significa ripensare il mondo del lavoro, ma non è detto che mettere in discussione vecchi totem e aprirsi alla tecnologia debba costare in termini di occupazione. Oggi possiamo tutelare l’occupazione solo se siamo capaci di diventare un soggetto che partecipa, insieme con gli altri attori del mondo produttivo, al grande progetto per definire in che cosa consisterà il lavoro del domani. Se la logica con cui verranno costruite le nuove architetture industriali sarà soltanto tecnologica ed economicista, andremo incontro a soluzioni inefficaci, perché escluderemo la parte più profonda dell’uomo, che consiste nella sua umanità».Chiara Del Priore

Dieci anni di dati sugli stage in ottica di genere, ecco come il Covid sta penalizzando le donne

Le opportunità di tirocinio sono diminuite da quando è scoppiata la pandemia: nel dettaglio, confrontando il 2020 con il 2019, il Covid ha cancellato circa un terzo delle attivazioni. Ma per le donne va un po’ peggio che per gli uomini. Il Covid ha infatti modificato la distribuzione delle opportunità di tirocinio per genere, invertendo una tendenza che nel corso degli anni era sempre stata molto paritaria. Ecco una panoramica: dei 210.209 tirocini attivati nel 2011, primo anno per cui esistono dati ufficiali, 111.080 – pari al 52,8% – avevano riguardato stagiste e 99.129 – pari al restante 47,2% – stagisti. Le donne avevano dunque avuto accesso, quell'anno, a quasi il 6% di opportunità di stage in più rispetto agli uomini. Nel 2012 donne erano ancora in vantaggio di oltre quattro punti percentuali: rappresentavano il 52,3% dei beneficiari di percorsi di tirocinio extracurricolare (90.031 su un totale di 172.249) con gli uomini fermi a 47,7% (82.218 su 172.249). Nel 2013 la situazione si era fatta più equilibrata, con le donne comunque sempre in leggero vantaggio: 50,7% a 49,3%. 103.451 stagiste su 204.081, mentre gli stagisti quell’anno erano stati 100.630. 2014, ancora sostanziale parità e ancora donne sopra di un punto percentuale, 50,5% contro 49,5%: nel dettaglio, 105.614 stagiste e 103.632 stagisti sul totale di 209.246. Idem nel 2015: donne 50,7%, uomini 49,3%; in numeri assoluti, 329.192 stagisti in totale – il balzo in avanti dovuto all’avvio, nel maggio dell'anno precedente, di Garanzia Giovani – di cui 166.791 donne e 162.401 uomini. Il 2016 è l’anno della parità perfetta “fifty-fifty”: 159.093 stagiste e 159.580 stagisti (il totale era 318.673). Nel 2017 ancora parità quasi perfetta, anche se per la prima volta le donne passano in “minoranza”: 49,8% donne (in valori assoluti, 184.412 su un totale di 370.495, il numero più alto mai registrato di tirocini in un decennio) e 50,2% uomini (186.083). Nel 2018 le donne scendono ancora di uno 0,2 percentuale: le stagiste sono infatti 172.619 e rappresentano il 49,6% dei 347.889 tirocini extracurricolari attivati quell’anno, mentre gli stagisti quell’anno sono il 50,4% (175.270). Il dato viene ribaltato l’anno successivo: nel 2019 infatti le stagiste donne nel 50,4% dei casi (179.223 su 355.863) e uomini nel restante 49,6% (176.640). I dati sono tratti dai Rapporti sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro pubblicati nel corso degli anni (che talvolta, peraltro, riportano anche numeri differenti da un anno all’altro – anche se di poco per fortuna).Fino ad arrivare ai dati inediti che la Repubblica degli Stagisti ha appena ottenuto dal ministero del Lavoro e che riguardano le attivazioni di tirocini extracurricolari nel 2020. 2020, anno del Covid. 2020, anno in cui le donne hanno rappresentato solo il 48,7% dei beneficiari di stage, sulla totalità dei 234.513 percorsi attivati: gli stagisti maschi sono stati invece 120.209, pari al 51,3%.È il differenziale più alto mai registrato dal 2012, con la differenza che allora era un differenziale di quattro punti percentuali a favore delle donne; mentre ora è un differenziale di due punti e mezzo (per la precisione 2,6%) a favore degli uomini.Insomma, da quando è scoppiata la pandemia le donne hanno patito un po’ più degli uomini il calo delle opportunità di tirocinio. Per esempio, la variazione del numero delle opportunità di tirocinio extracurricolare causata dal Covid confrontando i dati del 2020 con quelli del 2019 è pari a -34%, ma in realtà a ben guardare le attivazioni a favore di donne sono scese del 36% (114.304 nel 2020 contro le 179.223 registrate nel 2019) mentre quelle a favore di uomini sono scese soltanto del 32% (120.209 nel 2020, erano state 176.640 nel 2019). L’andamento si comprende ancor meglio considerando i dati trimestre per trimestre. Se il calo generale nel primo periodo dopo lo scoppio della pandemia, e cioè il secondo trimestre 2020, è stato pari a -73% (contando la riduzione del numero di attivazioni di stage in tutta Italia, tra il 1° aprile e il 30 giugno 2020, e confrontando questo numero con lo stesso periodo dell'anno precedente), per le donne è stato -75% mentre per gli uomini “solo” -71%. Similmente, nel terzo trimestre – quello della piccola “ripresa” estiva – la riduzione generale è stata del 12%: ma per le donne è stata -14%, per gli uomini -10%. E infine l’ultimo dato, ben più preoccupante: nel quarto trimestre del 2020 le attivazioni si sono ridotte del 26%. Ma per le donne questa riduzione è stata pari a -30%. Quattro punti percentuali in più del dato generale, e ben nove punti in più del dato riguardante i soli maschi: per loro il calo di opportunità tra ottobre e dicembre 2020 è stato soltanto del -21%.Cosa significa questa panoramica? Significa che nell’ultimo decennio –  il 2011 è il primo anno per il quale si dispone di dati certi del ministero del Lavoro – i tirocini extracurricolari sono stati, per molte ragioni, un’oasi di parità di genere. Ma nei momenti di crisi questa parità vacilla: come se fosse necessario assicurare le opportunità prima di tutto ai maschi e solo in seconda battuta, se ce ne sono abbastanza, anche alle donne.

Stage, il Covid cancella nel 2020 60mila opportunità per gli under 25: tutti i dati del calo per classe di età

Gli stage sono calati di un terzo a causa del Covid. Sono i numeri inediti che il ministero del Lavoro ha fornito alla Repubblica degli Stagisti: una diminuzione del 34% del numero di attivazioni di tirocini extracurricolari confrontando quelli avviati tra il 1° gennaio e il 31 dicembre del 2020 e quelli avviati nello stesso periodo dell’anno precedente.     Ma il calo è uniforme per tutte le età? La risposta è no. I giovani sono molto più colpiti, in proporzione, rispetto agli adulti. Si vede proprio una tendenza lineare: più si sale di età, più l’effetto del Covid sembra meno forte. Dunque i più penalizzati, quelli per cui le opportunità sono calate maggiormente, sono proprio quelli per cui lo stage è più importante: i giovani, che hanno meno esperienza nel mercato del lavoro e più bisogno di arricchire il proprio cv. In termini assoluti, la classe di età degli under 25 ha visto cancellarsi di botto oltre 60mila opportunità di tirocinio.Mentre al contrario il dato in un certo senso clamoroso è che gli “anziani”, cioè gli stagisti ultra 55enni, hanno visto ridursi solamente del 20% le opportunità di stage. Ben quattordici punti percentuali meno della media.In particolare, se si guarda il calo delle attivazioni considerando singolarmente le quattro classi anagrafiche in cui il ministero del Lavoro suddivide tutte le persone che fanno stage, si scopre che per gli under 25 il calo è stato del 36%. In numeri assoluti nel 2020 sono stati perse oltre 60mila opportunità per questa fascia di età: risultano infatti essere stati attivati poco più di 107.500 tirocini a favore di persone al di sotto dei 25 anni, quando nel 2019 questo numero aveva rasentato 169mila. La classe immediatamente successiva, che comprende le persone che hanno tra 25 e 34 anni, ha patito un calo del 33%: nel 2019 erano stati circa 128.500, a causa del Covid il numero è sceso un po’ al di sotto degli 86mila.Per gli stagisti (o aspiranti tali) tra i 35 e i 54 anni l’impatto è stato del -32%: i dati 2020 parlano di po’ più di 33mila tirocini extracurricolari partiti per persone in questa classe di età, circa 16mila meno che l’anno precedente.Ma il risultato più inaspettato, come anticipato, è quello degli stagisti attempati: le persone di più di 55 anni che sono state avviate in stage, pur poche dal punto di vista numerico, in termini percentuali hanno visto una riduzione delle opportunità molto contenuta: solamente un -20%. Per la precisione, sono stati circa 8mila i tirocini per over 55 che hanno preso avvio nel 2020, mentre nel 2019 erano stati un po’ meno di 10mila.Dal punto di vista della parità di genere, dei 234.513 percorsi formativi extracurricolari partiti nel 2020 il 48,7% ha riguardato donne e il 51,3% ha riguardato uomini, con una leggera diminuzione delle opportunità per le donne se si considera che nel 2019 la proporzione era stata praticamente perfetta 50-50, anzi con un leggero vantaggio – 50,4% – per le donne.Guardando i dati con la lente incrociata del genere e delle classi di età emerge che nel 2020 gli stagisti under 25 sono stati nel 55,5% maschi e solo nel 44,5% femmine: i ragazzi in effetti erano di più anche nel 2019, ma il dato si era fermato a 53,5% contro 46,5%. La situazione si ribalta nella classe di età successiva: gli stagisti tra i 25 e i 34 anni sono in prevalenza – 54% dei casi – femmine (nel 2019 erano state il 55%). Prevalenza di donne anche nel cluster di stagisti 35-54enni: nel 2020 hanno rappresentato il 52,6% del totale (nel 2019 erano state il 55%), mentre gli uomini si sono fermati a 47,4% (45% nel 2019). Nel segmento di stagisti più “attempati” invece, gli over 55, la netta prevalenza è di uomini: 66,4% del totale, e solo il 33,6% donne; quindi oltre due stagisti anziani su tre sono uomini (nel 2019 il dato registrato era stato: 64% uomini, 36% donne).Dunque accanto al dato eclatante che gli stage per persone avanti con gli anni sono calati, a causa della pandemia, molto meno degli stage per persone giovani, vi è anche da registrare la tendenza a privilegiare i maschi per le opportunità di stage in giovane età (cioè quando lo stage sarebbe più “appropriato”).Cosa significano questi dati? Perché, in una situazione di contrazione delle opportunità di stage, esse calano per i giovani in maniera più marcata rispetto a quanto calino per adulti? La spiegazione probabilmente sta nel fatto che gli stage per over 55enni sono, salvo rari casi, “non fisiologici”. Cioè non sono il frutto “naturale” del mercato del lavoro – giovani che devono aumentare le proprie competenze professionali per rendersi appetibili per i datori di lavoro, aziende che cercano giovani da formare e utilizzano il conveniente inquadramento dello stage per avere meno vincoli rispetto a un contratto di lavoro – bensì il frutto di specifici programmi di “riconversione professionale”, spesso pagati con soldi pubblici, altrettanto spesso svolti in strutture della pubblica amministrazione. Questi stage per persone adulte-quasi-anziane assomigliano sovente, purtroppo, a dei “depositi” dove scaricare persone scarsamente occupabili in attesa che raggiungano l’età per la pensione, quando sono scadute tutte le altre possibilità di ammortizzatori sociali. E dunque qui non sorprende che ci sia una netta prevalenza di uomini: le donne, si sa, incontrano molto spesso ostacoli che le espellono in anticipo dal mondo del lavoro, primo fra tutti la difficoltà di conciliare maternità e lavoro.Certo, ci potrebbero essere anche altre spiegazioni: ma quali?L'immagine a corredo dell'articolo è di David Ingram [da Flickr in modalità Creative Commons]

Stage e Covid, nel terzo trimestre più di attivazioni per gli adulti e meno per i giovani

Nel terzo trimestre del 2020 sono partiti 68.514 tirocini (si intendono qui solo degli extracurricolari, quelli svolti al di fuori dei percorsi di studio: gli unici che vengono contati e monitorati a livello ufficiale): il 12% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Un calo molto contenuto, anche in ragione del fatto che in quei mesi – tra luglio e settembre – sono state recuperate tutte le attivazioni che erano state congelate nel trimestre precedente, in pieno primo lockdown. Ma le opportunità favoriscono tutte le fasce di età? Analizzando i dati inediti che la Repubblica degli Stagisti ha ricevuto dal ministero del Lavoro dal punto di vista anagrafico, facendo un confronto col III° trim 2019 l’età media delle persone avviate in stage nel 2020 è un po’ aumentata. Per la fascia di età degli under 25 il numero di attivazioni tra luglio e settembre è diminuito del 17%, e  per quella immediatamente successiva – 25-34 anni – del 10%; per i 35-54enni le attivazioni sono rimaste praticamente identiche, mentre per la classe over 55 i tirocini sono addirittura saliti del 20%.In particolare, meno di 35mila – per la precisione 34.801 – dei 68.514 tirocini attivati nel terzo trimestre 2020 in Italia hanno riguardato persone al di sotto dei 25 anni: il 51% del totale. L’anno prima, nello stesso periodo, gli under 25 avevano rappresentato il 54% del totale. Peraltro queste opportunità per i giovanissimi non sono distribuite affatto equamente a livello di genere: a fronte di poco più di 20mila stage attivati a favore di ragazzi, infatti, sono stati solo  14.750 gli stage attivati a favore di ragazze. Insomma 42% di opportunità per giovani donne, contro 58% di opportunità per giovani uomini. Curiosamente, anche nel terzo trimestre dell’anno precedente si era verificata una situazione molto simile: sui  42.208 tirocini attivati a favore di under 25, ben il 57% aveva riguardato ragazzi e solo il 43% ragazze.Proseguendo nella disamina anagrafica: 22.546 sono stati i tirocini attivati a favore di persone tra i 25 e i 34 anni, il che rappresenta un altro 33% della torta. Le stagiste femmine qui sono un po' più numerose, 12.055 contro 10.491: vale a dire 53,5% di opportunità per le donne, 46,5% per gli uomini. In questo caso i dati sono praticamente identici, confrontando i numeri di questo trimestre con quelli dello stesso trimestre dell’anno precedente, sia per quanto riguarda la proporzione di questa fascia di età sul totale, sia per quanto riguarda la percentuale di donne tra i 25 e i 34 anni coinvolte in percorsi di stage.Infine, nel terzo trimestre 2020 sono stati attivati oltre 11mila stage per persone adulte o addirittura quasi anziane: si tratta di un dato non entusiasmante se si pensa che nello stesso periodo dell’anno precedente questi “casi” di stagisti anziani erano stati un numero simile, 10.773, ma su un totale più numeroso, rappresentando quindi solo il 14% del totale, mentre nel terzo trimestre 2020, quindi in epoca Covid, sono aumentati di due punti percentuali raggiungendo il 16%.In particolare nel terzo trimestre 2020 un po’ più di 9mila attivazioni di tirocinio hanno coinvolto cittadini tra i 35 e i 54 anni, e 2.154 sono stati gli stagisti (sic) over 55. Nella fascia di età 35-54 si rileva una parità di genere quasi perfetta (50,5% donne, 49,5% uomini), mentre i 2.154 stagisti anziani sono uomini in oltre due casi su tre (64,5%). Il dato è praticamente identico all’andamento dei tirocini per persone senior avviati nel terzo trimestre 2019: in quel caso c’erano stati 1.796 stage per over 55, e il 62% aveva riguardato uomini.In linea generale, dunque, anche dal punto di vista anagrafico l’analisi delle attivazioni di stage del terzo trimestre del 2020 in Italia conferma il tentativo di “rientro alla normalità” dopo il tonfo del secondo trimestre, in pieno lockdown. Ma per avere ben chiaro il quadro di come il Covid abbia impattato sull’occupazione giovanile e sull’universo stage bisognerà aspettare di avere i dati anche del quarto trimestre 2020, e poter fare dunque un bilancio complessivo di tutto l’anno 2020, comparandolo con il 2019.[La foto a corredo di questo articolo è di ThisisEngineering RAEng, tratta da Unsplash][La foto di apertura di questo articolo è di Annie Spratt, tratta da Unsplash]

Contratto di apprendistato usato un po' più che in passato, ora il Recovery Plan potrebbe rilanciarlo

L'apprendistato non è più la pecora nera del mercato del lavoro italiano, e negli ultimi anni sembra aver conosciuto un certo miglioramento. Stando ai dati più recenti «l’occupazione in apprendistato si attesta sui 429mila rapporti di lavoro in essere, facendo registrare un aumento del 12,1 per cento rispetto all’anno precedente», come rileva l'ultimo monitoraggio disponibile dell'Istituto per le analisi delle politiche pubbliche Inapp, risalente al 2019 e riferito però a due anni prima, il 2017 quindi. Per il prossimo studio si dovrà attendere la primavera. Allo stato si tratta di un «andamento positivo» si legge ancora, «confermato dalle quasi 325mila assunzioni nello stesso anno, che segnano un aumento del 22 per cento sul 2016».Un trend «in controtendenza con la decrescita verificatasi tra il 2010 e il 2015, quando le assunzioni erano passate da 285.378 a 203.570», ovvero quasi 30 punti percentuali sotto. Numeri appena sopra la sufficienza: perché se è vero che nel 2013 l'Isfol (antenato dell'Inapp) registrava 300mila apprendisti all'anno, per di più in calo rispetto al passato, nel 2012 gli apprendistati in essere erano oltre mezzo milione. Quanto invece alla distribuzione sul territorio, la crescita più sostenuta degli apprendisti, che nella maggioranza dei casi sono maschi (57,7 per cento) e con un'età media di 24 anni, si è verificata al Sud (più 18 per cento), contro il più dieci per cento di Centro e Nord. La risalita dell'apprendistato ha una spiegazione pratica, e cioè che in precedenza questo strumento «aveva sofferto la concorrenza delle misure di decontribuzione previste per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato inserite nella legge di bilancio 2015» spiega alla Repubblica degli Stagisti Marco Granelli, presidente di Confartigianato [nella foto a destra]. Sgravi poi esauriti a partire dal 2017, e di lì la corsa all'apprendista. Che potrebbe però intensificarsi ancora, considerando come per gli imprenditori che applicano l'apprendistato «i vantaggi sono duplici» come illustra alla Repubblica degli Stagisti Vincenzo Silvestri, presidente della Fondazione consulenti del lavoro, [nella foto a sinistra]: «Si paga un’aliquota fissa del 10 per cento per i contributi Inps, molto inferiore rispetto a quella ordinaria» e in più «il lavoratore può essere sotto inquadrato fino a due livelli inferiori rispetto alla qualifica da conseguire». Esiste anche uno sconto sul piano fiscale «perché l’apprendistato non si computa ai fini dell’Irap».Il sospetto è però che l'apprendistato possa aver subito, negli anni, la concorrenza di un inquadramento ancora più vantaggioso per chi deve assumere, perché di fatto meno costoso, ovvero il tirocinio. Silvestri lo esclude: «Si tratta di modelli che rispondono a esigenze diverse» sottolinea, «tanto è vero che la naturale finalizzazione di un tirocinio è proprio l’apprendistato, e se non si sfrutta l’apprendistato la colpa non è da attribuire al tirocinio, ma all’azienda che non ha interesse a proseguire il rapporto». Della stessa opinione Granelli, secondo cui «i tirocini sono un momento di formazione e di orientamento a stretto contatto con le aziende, al fine di facilitare la transizione dalla scuola al lavoro». L'apprendistato viene dopo «e la concorrenza sleale si verifica solo quando il tirocinio viene utilizzato in maniera distorta». Sarà, ma nel 2017 si contavano in Italia 368mila attivazioni di stage extracurriculari (al netto dei curriculari, che non rientrano nei monitoraggi), raddoppiate rispetto alle 185mila del 2012. La direzione che andrebbe presa «affinché l'apprendistato venisse più considerato dalle imprese è quella di sburocratizzarlo» sintetizza Silvestri, «soprattutto nelle versioni del primo e terzo tipo». Vale a dire quella per la qualifica e il diploma professionale e quella per l'alta formazione e la ricerca, le tipologie che prevedono l'alternanza tra i banchi di scuola o dell'università e il lavoro in azienda. Utilizzate poco o nulla, perché – evidenzia il rapporto Inapp – «oltre il 97 per cento dei rapporti di lavoro in apprendistato è di tipo professionalizzante», il secondo tipo, quello che non prevede nessun laccio con il mondo della scuola o accademico. Non a caso il rapporto indica anche che ben un quarto degli apprendisti risulta occupato nell'industria, il 21 per cento nel commercio al dettaglio e all'ingrosso e nell'autoriparazione, e infine il 17 per cento nell'alloggio e ristorazione.  «Il professionalizzante di fatto è un contratto di inserimento con la maggior parte della formazione on the job e, quindi» continua Silvestri, «più semplice da attuare e con molti meno vincoli». Dello stesso parere Granelli, per cui «l’apprendistato di primo livello sconta la presenza di un quadro regolatorio frammentato, oltre a oneri burocratici e economici tali da renderlo poco appetibile». Quello di alta formazione, «di nicchia per i suoi piccoli numeri», andrebbe comunque mantenuto «per il valore in termini di innovazione e competitività». E se si passasse a una unica tipologia? Per Granelli sarebbe «un errore perché le tre classi rispondono ognuna a finalità che concorrono a rafforzare la competitività e la produttività del sistema economico e, nel contempo, a sostenere l'occupazione». Ciò su cui si deve puntare è invece a «affiancare le imprese nell'investimento, con un contributo a copertura del costo dell'apprendista per l'apprendistato di primo livello, e con una decontribuzione totale per i primi tre anni di contratto per il professionalizzante». Non serve, a detta del presidente di Confartigianato, neppure un'altra riforma: si può semplificare la gestione del rapporto di lavoro nell'apprendistato di primo livello «partendo dall’impianto già esistente del Jobs Act». Se una riforma serve è quella «del sistema di orientamento, che guidi verso percorsi formativi che tengano conto delle prospettive occupazionali». La formazione professionale, prosegue Granelli, «rappresenta ancora una scelta residuale, per cui opta soltanto l’11,9 per cento degli studenti, a fronte del 57,8 per cento dei licei e del 30,3 per cento degli Istituti tecnici».C'è però da ben sperare. Il neopremier Mario Draghi parlando al Senato ha detto che «è stato stimato in circa 3 milioni, per il quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell'area digitale e ambientale». In più, fa presente Silvestri, «è scritto sui progetti di riforma legati al Recovery Plan che si potenzieranno gli Its e il sistema dell’alta formazione legata alle università». Allora sì che «l’apprendistato potrà trovare la sua giusta collocazione e rinascita».Ilaria Mariotti 

Uno stage da mille euro al mese al ministero, senza possibilità di assunzione: buona opportunità o trappola?

Un avviso di selezione del Ministero dei beni culturali per cercare quaranta tirocinanti sotto i trent'anni interessati al lavoro di archivio e digitalizzazione – la finestra per le candidature si è chiusa l'altroieri – ha evidenziato luci e ombre di un settore che la grave crisi ha messo in ginocchio, ma che tanto bene non stava neanche prima.«Nei fatti nulla di nuovo»: è netta Rosanna Carrieri, venticinque anni, portavoce dell’associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali che già a dicembre aveva pubblicato sul proprio sito un duro commento contro questa selezione. «È da anni che il Mibact continua a utilizzare selezioni di questo tipo chiedendo lavoratori specializzati e mascherando questo con bandi temporanei per giovani. Quest’ultimo, poi, è quasi inaccessibile perché si richiedono requisiti altissimi, una laurea di base in archivistica e poi punteggi aggiuntivi per contratti di ricerca, collaborazioni con il ministero, pubblicazioni. Un bando limitante perché è difficile, purtroppo, avere questa esperienza al di sotto dei ventinove anni. Nel piano di rilancio del ministero, poi, è prevista una forte digitalizzazione del sistema, ma nei fatti la si vuole fare sfruttando i 40 giovani che risponderanno all’avviso». Anche l’Associazione nazionale archeologi intravede luci e ombre su questa selezione: «Se da un lato è una formidabile occasione di formazione, con un rimborso spese non scandaloso per uno stage, e qui siamo nel campo delle luci, ci sono poi elementi che destano perplessità: perché il titolo di specializzazione, che è teoricamente più professionalizzante del dottorato, viene valutato meno di quest’ultimo che è un titolo accademico puro?» chiede Oriana Cerbone, quarant'anni, vice presidente nazionale dell'Ana con delega al lavoro e all'ufficio stampa. Sul fatto che si affidi il compito importante della digitalizzazione a uno stagista Carrieri precisa: «Più che un tirocinante sono richieste figure specializzate. Il ministero non lo dice, ma sta cercando dei lavoratori e si gioca a tappare i buchi con stagisti, lavoratori occasionali, senza assumere ma riempiendo i vuoti con impieghi per periodi limitati. Sul piano della digitalizzazione c’è molta confusione forse perché negli anni sono stati fatti dei piani poi rimasti nel cassetto». «Un tirocinante già pienamente formato dall’accademia – e questa è la figura richiesta – è sicuramente in grado di svolgere il compito della digitalizzazione, purché sia realmente supervisionato da personale esperto» pensa invece Cerbone. L’Associazione nazionale archeologi non vede necessariamente in questo bando l’offerta di un lavoro mascherato da stage: «Non riteniamo scandalosa la pratica del tirocinio formativo, purché non si esaurisca in questo la strategia del ministero per procedere nella digitalizzazione del patrimonio culturale». E sul perché il ministero riproponga un bando su cui la Corte dei Conti aveva già espresso forti perplessità nel 2016, ipotizza che ciò sia frutto di una “distrazione”: «Diversamente dovremmo pensare che qualcuno si sia convinto di poter agire in contrasto con l’indicazione degli organismi di controllo dello Stato».C'è anche chi giudica questo bando di tirocini positivamente. «Questo è un momento di grandissima difficoltà, in cui l’organico del ministero è sottodimensionato soprattutto in uffici che hanno una grandissima rilevanza per tutti noi qual è quello degli archivi. Fare i bandi è purtroppo lunghissimo, e il rischio è tenere chiusi gli archivi o non cominciare mai il lavoro di digitalizzazione: abbiamo tentato di adottare graduatorie di altre realtà, di fare delle proroghe per trovare degli archivisti, ma non ci siamo riusciti perché devono avere delle qualifiche molto alte» spiega Flavia Nardelli, deputata 74enne che oggi siede in Commissione Cultura alla Camera, già presidente di quella stessa Commissione e per oltre vent'anni segretaria generale dell’Istituto Luigi Sturzo. Nardelli precisa che non si tratta semplicemente di riprodurre in digitale un documento, ma di «metadatare: quindi il documento va studiato, vanno indicate le parole chiave, contestualizzate, un lavoro molto importante che rende gli archivi una straordinaria ricchezza, ecco perché si cercano persone con una qualifica molto alta. Ed ecco perché non mi scandalizzo» che per queste attività siano previsti degli stage: «Sono convinta che sono comunque delle esperienze straordinarie che si troverà poi il modo di utilizzare. Se fossi un giovane con quei requisiti confesso che parteciperei, perché sarebbero dentro una realtà che sta cambiando, un mondo importantissimo, perché gli archivi oggi hanno bisogno di personale ed è evidente che ora non riusciamo ad assumerli ma che un’esperienza del genere consentirà poi di essere avvantaggiati».Il riferimento è alle conoscenze che si apprendono direttamente sul campo, mettendo in pratica i compiti su cui in tanti hanno studiato o si sono specializzati, ma anche alla possibilità di riconoscere poi questa esperienza nei fatti «con un impegno da parte nostra a cercare di riconoscere dei crediti nei concorsi pubblici». Una prospettiva interessante, ma che non mette d'accordo tutti. L'Ana per esempio la giudica molto pericolosa: «Che la partecipazione allo stage di oggi costituisca titolo preferenziale in altri concorsi domani è un rischio. Dato che l'accesso al bando prevede una soglia a ventinove anni, se ciò avvenisse sfocerebbe in una discriminazione verso i professionisti ben formati già over trenta. Su questo le associazioni di categoria dovranno fare buona guardia».Rimane il nodo che il ministero stia ripetendo un bando che ha molte similitudini con un progetto già sviluppato nel 2013 e 2015 su cui addirittura la Corte dei Conti aveva espresso forti perplessità: «Abbiamo una domanda di lavoro pazzesca negli archivi e un’offerta di ragazzi preparatissimi, di grande competenza che non riescono a occupare quei posti di lavoro. Domanda e offerta di lavoro non si incontrano» commenta Nardelli: «O troviamo altre formule, magari facendo dei corsi concorsi, ma i bandi così come sono previsti dalla pubblica amministrazione sono lunghissimi, costano tanto, hanno dei contenziosi che si trascinano per anni, diventano un problema oggettivo», e aggiunge: «Siamo molto attenti alle carenze di organico in un settore delicatissimo come quello degli archivi. La storia è qualcosa che non possiamo eliminare dalle nostre vite, ma di fronte a questa carenza di personale, alle difficoltà per i tempi lunghi di bandire dei concorsi e all’urgenza di preparare persone che sappiano affrontare questi temi molto complessi di una metadatazione degli archivi, non mi sento di rimproverare questa procedura».In ogni caso questo tirocinio avrà la funzione di «insegnare un mestiere» e consentirà l’avvio di un percorso di digitalizzazione altrimenti rimandato. Flavia Nardelli sottolinea l’importanza che uno stage del genere può avere nella in una carriera lavorativa e quanto al fatto di reclutare stagisti mettendo nero su bianco di non avere intenzione – né possibilità – di assumerli risponde pragmaticamente: «Ho visto giovani fare stage di questo tipo con dei privati con condizioni meno limpide e meno trasparenti. Se il ministero in un momento di crisi del settore fa una cosa di questo tipo in modo trasparente lo trovo positivo e non negativo».Insomma il tirocinio da mille euro al mese è il massimo che il settore pubblico possa offrire, in questo momento. Perché alla fine, come spesso capita, il problema principale – specie nel settore culturale – è la mancanza di investimenti e finanziamenti. Per questo Rosanna Carrieri dell’associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali ricorda la loro proposta lanciata un anno fa: la costituzione di un sistema culturale nazionale che comporti una rivoluzione del settore. «Le istituzioni culturali sono essenziali perché generano benessere – perciò non andrebbero considerate come un costo ma come un aspetto fondamentale per la collettività. Ci dovrebbe essere maggiore apertura alla ricerca, alla valorizzazione del patrimonio culturale e tornare a internalizzare i lavoratori».Anche l’Associazione nazionale archeologi sottolinea la necessità di una sufficiente dotazione economica. «C’è bisogno di innovazione sia nella dotazione digitale che nei processi di messa a disposizione del pubblico degli strumenti cognitivi per godere del diritto alla fruizione del patrimonio culturale» indica Oriana Cerbone. «E del coinvolgimento di forze nuove e fresche, sia attraverso una più corposa dotazione di personale dipendente a tempo indeterminato, essenziale per programmare, sia attraverso il coinvolgimento intelligente delle forze del libero mercato».Un problema, quello della carenza di organico, che ricorre più volte nei ragionamenti di Flavia Nardelli: «Abbiamo bisogno di personale preparato e giovane che integri i dipendenti ormai ridotti con il tempo. Una carenza trasversale per tutto il ministero: musei, archivi, biblioteche: è un problema molto grande». Gli stagisti possono tamponarlo, per qualche tempo: ma non possono, verosimilmente, essere la soluzione.Marianna Lepore

Laurea abilitante non solo per i medici, ora vale anche per farmacisti, psicologi, veterinari: cosa vuol dire per i giovani

Dopo il corso di laurea in Medicina, il primo a essere stato riconosciuto come abilitante abbreviando i tempi di accesso alla professione – anche per far fronte all’emergenza da Coronavirus – ora arrivano anche la laurea magistrale in Psicologia e le lauree a ciclo unico in Farmacia e farmacia industriale, Medicina veterinaria, Odontoiatria e protesi dentaria. È stato infatti approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge del ministero dell’Università in materia di titoli universitari abilitanti. Una decisione che ha un impatto estremamente significativo sul mondo delle professioni, se si considerano i numeri di queste categorie. In Italia, secondo gli ultimi aggiornamenti di ordini professionali e Anagrafe nazionale studenti, si contano infatti: 100mila psicologi totali e 6.800 laureati annui in Psicologia; 127mila farmacisti e 4.300 laureati in Farmacia e farmacia industriale; 33.300 medici veterinari e 783 laureati in Medicina veterinaria; 45mila odontoiatri e 790 laureati in Odontoiatria e protesi dentaria. A questi corsi si aggiungono quelli professionalizzanti in Professioni tecniche per l'edilizia e il territorio, Professioni tecniche agrarie, alimentari e forestali e Professioni tecniche industriali e dell'informazione, rispettivamente abilitanti per le figure di geometra laureato, agrotecnico laureato, perito agrario laureato e perito industriale laureato. In questi casi, è previsto un ulteriore step. ll testo stabilisce infatti che i corsi che consentono l'accesso agli esami di abilitazione all'esercizio delle professioni di tecnologo alimentare, di dottore agronomo e dottore forestale, di pianificatore paesaggista e conservatore, assistente sociale, attuario, biologo, chimico e geologo possano essere resi abilitanti, su richiesta dei consigli degli ordini, dei collegi professionali o delle relative federazioni nazionali, con uno o più regolamenti da adottare su proposta del ministro dell'università, di concerto con il ministro vigilante sull'ordine o sul collegio professionale competente.«La laurea abilitante è una notizia positiva che viene dopo mesi di mobilitazioni, in particolare da parte degli studenti dell’area sanitaria» commenta Enrico Gulluni, 25 anni, coordinatore dell’Unione degli universitari: «Un risultato atteso da molti anni come riconoscimento del valore legale del titolo di studio e che il Coronavirus ha accelerato». Ma si tratta solo di un primo passo. «Riguarda ancora poche lauree, tenendo fuori dei corsi che potrebbero a tutti gli effetti essere abilitanti come Ingegneria, Economia e Architettura» aggiunge Gulluni «e resta ancora da capire come verranno cambiati i percorsi di studio».  Al momento di certo c’è che la laurea abilitante si traduce nella cancellazione dell’esame di abilitazione professionale. Per iscriversi all’albo di riferimento diventa infatti sufficiente portare a termine il percorso formativo, da concludersi con tirocinio pratico-valutativo ed esame finale. Questa semplificazione delle modalità di accesso alle professioni porta ad anticipare l’ingresso nel mondo del lavoro, abbattendo i tempi di attesa delle sessioni d’esame, in genere fissate ogni sei mesi. «La laurea abilitante è sì la risposta a una esigenza contingente, ma potrebbe aprire lo scenario a un riordino del piano di studi, per renderlo più attuale e adattarlo a una professione che richiede sempre nuove competenze e ruoli» commenta Carolina Carosio, 33 anni, presidente della Federazione nazionale associazioni giovani farmacisti. L’emergenza sanitaria, in particolare, ha visto e sta vedendo i farmacisti in prima linea e alle prese con nuovi servizi: «Dal digitale all’integrazione con il territorio, la professione si è distinta per coraggio e abnegazione tangibile» aggiunge la presidente Fenagifar: «Ne sono usciti anche spunti interessanti, ad esempio l’implementazione dei servizi di vicinanza al cittadino come la consegna a domicilio dei farmaci e la dematerializzazione delle ricette».«La laurea abilitante rappresenta l’opportunità di suonare la sveglia dentro i percorsi formativi» dice Laura Parolin, 48 anni, vice presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, presidente dell'ordine della Lombardia e docente di Psicologia dinamica alla Bicocca «per segnarle il bisogno di cambiamento al loro interno». A partire dalla ristrutturazione dei corsi di studio. «Se davvero si vuole equiparare quella in Psicologia alle lauree sanitarie è necessario, di concerto tra mondo accademico e ordini, un ripensamento del ciclo di studi, ad esempio valutando la proposta di una laurea magistrale “plus” o un ritorno al ciclo unico e di un ripensamento sulle numerosità degli iscritti, con riduzione delle classi di laurea» aggiunge la psicologa: «E ancora, l’implementazione della formazione professionale, che ad oggi ha dei limiti, ad esempio il fatto che molti dei docenti incardinati non possono esercitare attività professionale, creando una frattura tra chi forma e il mondo professionale».   Ancor più centrale, con l’eliminazione dell’esame di abilitazione, diventerà l’esperienza del tirocinio. «Dobbiamo avere la lungimiranza di sfruttarlo al meglio, perché rappresenta il primo confronto con la professione, e di comprendere l’importanza della responsabilità del tutor» ammonisce Carosio. Va ricordato che, già da prima della laurea abilitante, il tirocinio era una pratica obbligatoria ai fini del conseguimento del titolo di studio per tutti gli iscritti a Farmacia e farmacia industriale, da svolgersi per la durata di sei mesi, almeno al quarto anno di corso, presso farmacie aperte al pubblico o farmacie ospedaliere. Con il riconoscimento del titolo di studio come abilitante, questa esperienza assume ora una valenza ancor maggiore. «Il tirocinio dovrebbe essere gestito dall’università congiuntamente agli ordini» propone Gaetano Penocchio, 66 anni, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici veterinari italiani «i quali dovrebbero allestire un elenco di strutture accreditate in cui svolgere i tirocini, per un minimo di 20 cfu. Infine università e ordine dovrebbero valutare l’attività svolta dal laureando.»La Fnovi chiede inoltre, dopo la regolamentazione della laurea abilitante, di mettere sul tavolo altri aspetti della professione veterinaria. «Il confronto dovrà essere più ampio e riguardare l'omogeneizzazione del core curriculum del corso di laurea, la modifica dei criteri di accesso, la necessità di porre rimedio alla carenza di zooiatri ipotizzando modalità di accesso ad hoc» aggiunge il presidente: «E ancora, la fattibilità di programmare il corso di laurea in dodici semestri, o undici come in Spagna, sfruttando gli ultimi semestri per il tirocinio, e l’introduzione della retribuzione ai dottorandi e specializzandi con attività degli stessi nelle Asl e negli Istituti zooprofilattici».Le lauree abilitanti, insomma, sono percepite dalle categorie interessante come un buon risultato, anche se frutto della contingenza: diventeranno tuttavia davvero efficaci, al di là del risparmio di tempo, solo se si saprà sfruttare l’occasione per rivedere i percorsi formativi. Rossella Nocca

Controesodo a Sud, boom di immatricolazioni nelle università del Mezzogiorno

Le immatricolazioni universitarie nell’anno del Covid non solo non sono crollate (+7 per cento), ma hanno anche segnato una nuova tendenza: il ritorno a Sud. Secondo l’ultima rilevazione del ministero dell’Università, aggiornata al 15 novembre scorso, il Mezzogiorno ha registrato una crescita del 6,6 per cento, con ben 8mila matricole in più rispetto al 2019. A incidere sulla scelta di “studiare a casa” è stata senza dubbio la situazione di incertezza legata all’evolversi dell’emergenza sanitaria. Questo nonostante la possibilità di frequentare un ateneo del Nord o del Centro e allo stesso tempo rimanere nella propria località d’origine, usufruendo della didattica a distanza. Altro fattore che ha incoraggiato gli studenti del Sud e delle isole a restare è stata l’adozione, da parte di numerosi atenei, di misure di incentivo alle immatricolazioni, in aggiunta a quella ministeriale dell’innalzamento della no tax area a 20mila euro. Il fattore economico ha inciso sicuramente molto sulle scelte dei giovani italiani. Uno su cinque dei fuori sede che hanno risposto a un sondaggio di Skuola.net ha dichiarato di aver deciso di rientrare, soprattutto per problemi economici e necessità di risparmiare. E il 45 per cento di essere intenzionato a tornare a casa per restare. «Abbiamo approvato una misura per 880mila euro» spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesco Priolo, rettore dell’università di Catania, che ha registrato un +17,4 per cento di immatricolazioni «comprensiva di buoni libro per l’acquisto dei manuali, di premi di merito per mezzo milione di euro e di incentivi per la mobilità sostenibile.» Dal 1° ottobre, prima delle ulteriori restrizioni anti Covid-19, era stata infatti introdotta la possibilità per gli studenti di acquistare un abbonamento annuale al trasporto pubblico al costo “simbolico” di 15 euro. «La metà degli studenti non pagherà le tasse quest’anno» aggiunge Priolo «e il nostro è già uno degli atenei d’Italia con la tassazione media più bassa: 600 euro». In alcuni casi le immatricolazioni sono cresciute anche in assenza di ulteriori misure di incentivo. Come capitato ad esempio all’università di Foggia, che ha registrato un +26,8 per cento. «Negli ultimi sei anni abbiamo avuto un trend di crescita sistemico» commenta il rettore Pierpaolo Limone «ma mai era stato così consistente, con 1.000 immatricolazioni in più rispetto al 2019. Lo attribuiamo alla situazione attuale, ma anche all’ampliamento dell’offerta di corsi e alla sua manutenzione, ad esempio con la cancellazione del numero chiuso per corsi come Biotecnologie e Scienze motorie».Fra gli altri atenei del Sud che hanno registrato un picco di immatricolazioni, sono da segnalare: L’Orientale di Napoli (+32 per cento), l’università di Messina (+27 per cento) e l’università del Sannio (+21,7 per cento). Quali i corsi di laurea più richiesti? «Nel nostro ateneo sono cresciute soprattutto le domande di iscrizione a Biotecnologie, Economia, Lettere, Scienze dell'educazione e della formazione e Psicologia», afferma il rettore catanese. «Medicina e professioni sanitarie, Dipartimento di studi umanistici ed Economia le aree preferite», gli fa eco Limone. Se pur per circostanze negative, le università meridionali hanno oggi l’occasione di intercettare una platea di studenti che probabilmente, avendo la possibilità di spostarsi, non avrebbe mai preso in considerazione l’offerta formativa del proprio territorio.  «Quella di Foggia non rappresenta una provincia particolarmente attrattiva, né per sbocchi occupazionali né per qualità della vita» ammette il rettore pugliese «ma abbiamo oggi l’opportunità di far entrare nelle nostre aule studenti che pregiudizialmente non ci sarebbero mai entrati prima dell’emergenza e persuaderli della qualità degli insegnamenti e della ricerca, convincendoli a restare».Sempre nell’ottica di supportare gli studenti del Sud (Campania, Molise, Abruzzo, Puglia, Calabria, Basilicata, Sicilia e Sardegna), sia laddove scelgano di spostarsi all’interno della propria regione che in Italia e all’estero, è stato stanziato il fondo StudioSì, finanziato dal Fondo sociale europeo attraverso la Banca europea per gli investimenti. Esso prevede prestiti a tasso zero per finanziare le tasse universitarie e il costo della vita. Fino al 25 per cento delle risorse saranno utilizzabili da studenti non residenti che scelgono di studiare in una regione del Mezzogiorno.   Secondo uno studio di Talents Venture sui dati dell’anno accademico 2017-2018, il 32 per cento degli universitari del Meridione studiava in un ateneo diverso da quello di origine. Le università del Sud hanno ora l’opportunità di trasformare l’inversione di tendenza in un fenomeno stabile, ma chiedono di essere supportate per poter offrire un servizio all’altezza degli atenei più quotati del Nord. «Sicuramente avremo bisogno di un più forte aiuto strutturale per l’edilizia universitaria: stiamo facendo un grande lavoro per rendere le nostre università più moderne. Altra priorità sarà l’investimento sui giovani per entrare nel mondo della ricerca e del lavoro. L’università sta affrontando la sfida più difficile, ma noi stiamo facendo di tutto perché i nostri giovani possano non perdere nemmeno un giorno per coronare i propri sogni» conclude Priolo.Saranno i prossimi anni a dirci se la tendenza al controesodo universitario, così come quella del cosiddetto “south working”, porterà a un effettivo ritorno nei luoghi d’origine e in particolare a Sud. Rossella Nocca

L'Erasmus non si ferma, ma per ora si “parte” solo online

“European community action scheme for the mobility of university students”: è il “nome completo” dell'Erasmus, che mette al centro il concetto di mobilità. Il programma di scambio europeo nasce infatti nel 1987 proprio per favorire il confronto con realtà universitarie e culturali diverse. Eppure quest’anno per la prima volta, almeno per il semestre in corso, gli studenti faranno l’Erasmus “da casa”. Secondo i dati raccolti dalla Commissione europea erano 165mila gli studenti che si trovavano in Erasmus a marzo 2020. Di questi, circa sei su dieci hanno deciso di tornare il prima possibile nel proprio paese. In particolare «gli studenti italiani in mobilità erano 13mila» spiega alla Repubblica degli Stagisti Elena Maddalena dell’Ufficio comunicazione dell’Agenzia nazionale Erasmus+ Indire, che gestisce il settore Istruzione «e di questi il 50 per cento ha proseguito l’Erasmus.» Questa volta, invece, la maggior parte dei giovani non ha fatto in tempo a partire. Nel 2014 il progetto Erasmus è diventato Erasmus+ per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport. Ogni area ha la sua tipologia di progetti, di conseguenza anche l’impatto dell’emergenza Covid-19 è differenziato.  Per quanto riguarda il settore Istruzione, gli studenti possono cominciare regolarmente il loro Erasmus, ma almeno per i primi mesi seguendo i corsi online, come avviene negli atenei italiani. Gli universitari già partiti invece potranno scegliere se seguire da casa presso il paese di destinazione o rientrare in Italia. È in ogni caso sempre ammessa, durante tutto l’anno accademico, la rinuncia all’Erasmus. «Avevamo un migliaio di domande, ma solo una sessantina hanno accettato la modalità virtuale» racconta Alessandra Scagliarini, prorettrice per le relazioni internazionali di Alma Mater Bologna, prima università d’Europa per mobilità internazionale Erasmus+: «Gli altri hanno rinunciato, un po’ perché alcuni atenei, ad esempio in Olanda e in Francia, non avevano dato certezze di fare didattica a distanza; un po’ perché non hanno ritenuto interessante lo scambio virtuale e hanno preferito aspettare gli sviluppi nel secondo semestre».Una scelta condivisibile? «L’Erasmus non è un’esperienza solo finalizzata all’acquisizione dei crediti ma molto di più» ammette la prorettrice: «Tuttavia con le novità tecnologiche le attività diventano sempre più interattive e partecipative e la modalità a distanza può essere un modo per rendere l’Erasmus più inclusivo e far partecipare a programmi di mobilità anche studenti che ne restavano esclusi, ad esempio dai paesi in via di sviluppo».Per quanto concerne l’Erasmus Vet, la mobilità internazionale ai fini dell’apprendimento nell’ambito Istruzione e formazione professionale, la formazione si farà a distanza – in attesa di poter cominciare nei prossimi mesi l’esperienza “sul campo”.  «Quello che ha ci ha stupito è che le domande per l’Erasmus Vet non hanno subito flessioni» commenta Scagliarini di Alma Mater «con 300 richieste e pochissime rinunce. Alcuni giovani erano già partiti, altri faranno formazione a distanza.»Certo rispetto alle lezioni universitarie online la situazione è più complessa. «Un tirocinio aziendale per essere realizzato virtualmente richiede un grande lavoro» spiega alla Repubblica degli Stagisti Paola Careddu, coordinatrice dell’Unità gestione progetti dell’Agenzia nazionale Erasmus+ Inapp, che gestisce il settore Formazione «e nel primo lockdown nessuno era pronto. Su 25mila mobilità, il 90 per cento è stato posticipato. Qualcuno è rimasto – per lo più a Malta». Oggi c’è un po’ di organizzazione in più: «Gli enti stanno facendo un grande sforzo e vogliamo coltivare gli esempi positivi. È stata tuttavia chiesta una proroga dei progetti da 24 a 36 mesi», aggiunge Careddu.  C’è poi il capitolo riguardante l’Erasmus per la gioventù, che consiste in esperienze di mobilità, come scambi di giovani, partenariati strategici, progetti di dialogo giovanile per giovani fra i 13 e i 30 anni, a prescindere dal grado e livello di scolarizzazione. Il focus sono i giovani a rischio di esclusione sociale. «Proprio nel periodo del primo lockdown in Italia abbiamo ricevuto il maggior numero di proposte progettuali: 900, il dato più alto in tutta Europa, soprattutto nell’ambito del Corpo europeo di solidarietà» dice Lucia Abbinante, direttrice generale dell’Agenzia nazionale per i giovani, che gestisce il settore Gioventù: «Un dato significativo che evidenzia la voglia dei giovani di partecipare, di essere attivi, di contribuire alla crescita e sviluppo del proprio territorio. Di esserci ed essere solidali».Per il 2020 sono stati finanziati ad oggi (in attesa degli esiti dell’ultima scadenza dell’anno) 290 progetti, che coinvolgono 8.553 ragazzi: ma ha senso un’esperienza come l’Erasmus in modalità online? «Il digitale sarà la nostra grande sfida» commenta Abbinante «ma il capitolo Gioventù prevede per sua natura la mobilità fisica, la partecipazione attiva, quindi le modalità online continueranno a essere complementari. In ogni caso, per rispondere alla crisi da Covid, i beneficiari hanno la possibilità di realizzare attività online, in special modo per quanto riguarda i partenariati strategici».Nonostante i limiti di un’esperienza “a metà”, c’è chi ne coglie i segnali positivi. «Non sospendere l’Erasmus è stata una decisione coraggiosa e molto importante» sostiene Eji Ivanaj, web and communication manager di Erasmus student network Italy: «Vuol dire che a livello istituzionale c’è un’ottima consapevolezza dell’importanza del programma per i giovani coinvolti». L’associazione, durante il primo lockdown, ha supportato in vari modi i giovani che si trovavano all’estero e lo sta facendo anche per i partecipanti di quest'anno. «Abbiamo fornito in tempo quasi reale tutte le faq riguardanti i vari dpcm, organizzato eventi online, dal tandem linguistico ai city tour virtuali, fornito servizi di housing e un contatto h24 con tutti gli atenei e l’Agenzia nazionale Erasmus+ Indire. E abbiamo creato l’Erasmus Monitor, uno strumento nato con l’obiettivo di raccogliere in una sola pagina le informazioni relative alle modalità di svolgimento della mobilità negli atenei italiani per l’anno accademico 2020/21.» Certo l’auspicio è che i giovani possano tornare a sperimentare al più presto la parte più autentica dell’esperienza Erasmus, che apre gli occhi sul mondo e permette di rientrare con un bagaglio più pesante di conoscenze, esperienze, legami che un viaggio virtuale difficilmente potrà eguagliare.Rossella Nocca

Dagli addosso allo stagista, il nuovo sport sui social network

Dagli allo stagista: ormai da tempo c’è un nuovo sport sui social network, specie Twitter – attribuire gli errori di giornali e televisioni ai tirocinanti. Che è divertente, certo. Ma anche crudele. E sleale.Il fatto che ci siano molti stagisti impiegati nel settore dei media è innegabile, e sicuramente tante, troppe testate li utilizzano, anche se sono inesperti, per risparmiare sul costo del personale ed evitare di pagare collaboratori con più esperienza. Altrettanto innegabile è che a volte questi stagisti vengano caricati di compiti che non hanno ancora gli strumenti per svolgere bene e in autonomia, e di responsabilità che vanno oltre il loro ruolo.Da qui il fiorire di commenti sardonici, sopratutto su Twitter, ogni volta che sui giornali, in tv o sugli account social delle testate appare qualcosa di scarsa qualità – un refuso, una traduzione imperfetta, un titolo sballato. Qualche esempio?“Singolare che il principale quotidiano economico italiano faccia un titolo che stonerebbe a Cuba. Stagisti dei social del Sole datevi una regolata”“Cercate di pagarli sti stagisti traduttori, poi vi lavorano a cazzo”“Che sfigati repressi che devono essere quelli che gestiscono gli account della serie A...stagisti sottopagati”“sono stato a manifestazioni che, descritte il giorno dopo su Repubblica: si erano svolte altrove, con altre persone presenti,  ed erano successe cose diverse. Pagateli sti poveri stagisti che magari fanno un po di desk research  prima di scrive”“Alcuni degli on line news sono fatti da stagisti sottopagati, altri da scimpanze’”“A scrivere i tweet ci mettono gli stagisti.”“Un appello per la correttezza dell'informazione: SMETTETELA di affidare le mansioni di photo editor a stagisti affetti da discromatopsia”Capitolo a parte il Grande Fratello VIP, che genera commenti letteralmente a profusione sugli (ipotetici) stagisti incapaci: “Stop freeze? Dai ragazzi ma chi c’è alla regia? Gli stagisti? #GFVIP”“Ringraziamo Mediaset che risolve il problema della disoccupazione giovanile mettendo ogni anno in regia stagisti usciti dalla scuola di meccanica #gfvip”“forse in regia, quest'anno, hanno messo stagisti  c'è crisi #gfvip”“Regia di Mediaset extra pietosa, audio osceno. Piersilvio ma li vogliamo pagare questi stagisti? #gfvip”In realtà, capita molto spesso che gli errori siano compiuti invece da chi ha un contratto sicuro, e magari meno motivazione a controllare con cura il proprio lavoro. Altro che i poveri tirocinanti inesperti con l'ansia da prestazione.Inoltre, una dei vantaggi principali del “learning on the job” è proprio – o quantomeno dovrebbe essere – quello di avere il diritto di sbagliare: uno stagista sta imparando, non è un professionista, e quindi tutti suoi output dovrebbero essere vagliati dal suo tutor e dai colleghi. O forse vogliamo gli “stagisti con esperienza”, vero e proprio ossimoro sempre più frequente negli annunci di lavoro? Non c’è niente di più ingiusto che penalizzare una persona per gli errori che fa mentre sta imparando, proprio per il concetto che sbagliando si impara e che lo stagista sta lì per ricevere formazione, non per offrire lavoro. Ora, come questa verità si concili con la vena sardonica dei social, e di coloro che li usano per strappare un sorrisetto e magari un like o un retweet, è arduo da dire. Ma magari la prossima volta che vedrete un tweet che “blasta lo stagista”, anziché aderire al giochino dedicate un pensiero commosso al poveraccio che nel migliore dei casi stava solo facendo lo stagista – il che comprende la possibilità di fare errori – e nel peggiore è invece additato come colpevole della scarsa qualità del lavoro dell’organizzazione in cui è capitato, e viene accusato ingiustamente di errori che nemmeno è stato lui a fare.Eleonora Voltolina