L'apprendistato non è più la pecora nera del mercato del lavoro italiano, e negli ultimi anni sembra aver conosciuto un certo miglioramento. Stando ai dati più recenti «l’occupazione in apprendistato si attesta sui 429mila rapporti di lavoro in essere, facendo registrare un aumento del 12,1 per cento rispetto all’anno precedente», come rileva l'ultimo monitoraggio disponibile dell'Istituto per le analisi delle politiche pubbliche Inapp, risalente al 2019 e riferito però a due anni prima, il 2017 quindi. Per il prossimo studio si dovrà attendere la primavera. Allo stato si tratta di un «andamento positivo» si legge ancora, «confermato dalle quasi 325mila assunzioni nello stesso anno, che segnano un aumento del 22 per cento sul 2016».
Un trend «in controtendenza con la decrescita verificatasi tra il 2010 e il 2015, quando le assunzioni erano passate da 285.378 a 203.570», ovvero quasi 30 punti percentuali sotto. Numeri appena sopra la sufficienza: perché se è vero che nel 2013 l'Isfol (antenato dell'Inapp) registrava 300mila apprendisti all'anno, per di più in calo rispetto al passato, nel 2012 gli apprendistati in essere erano oltre mezzo milione. Quanto invece alla distribuzione sul territorio, la crescita più sostenuta degli apprendisti, che nella maggioranza dei casi sono maschi (57,7 per cento) e con un'età media di 24 anni, si è verificata al Sud (più 18 per cento), contro il più dieci per cento di Centro e Nord.
La risalita dell'apprendistato ha una spiegazione pratica, e cioè che in precedenza questo strumento «aveva sofferto la concorrenza delle misure di decontribuzione previste per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato inserite nella legge di bilancio 2015» spiega alla Repubblica degli Stagisti Marco Granelli, presidente di Confartigianato [nella foto a destra]. Sgravi poi esauriti a partire dal 2017, e di lì la corsa all'apprendista. Che potrebbe però intensificarsi ancora, considerando come per gli imprenditori che applicano l'apprendistato «i vantaggi sono duplici» come illustra alla Repubblica degli Stagisti Vincenzo Silvestri, presidente della Fondazione consulenti del lavoro, [nella foto a sinistra]: «Si paga un’aliquota fissa del 10 per cento per i contributi Inps, molto inferiore rispetto a quella ordinaria» e in più «il lavoratore può essere sotto inquadrato fino a due livelli inferiori rispetto alla qualifica da conseguire». Esiste anche uno sconto sul piano fiscale «perché l’apprendistato non si computa ai fini dell’Irap».
Il sospetto è però che l'apprendistato possa aver subito, negli anni, la concorrenza di un inquadramento ancora più vantaggioso per chi deve assumere, perché di fatto meno costoso, ovvero il tirocinio. Silvestri lo esclude: «Si tratta di modelli che rispondono a esigenze diverse» sottolinea, «tanto è vero che la naturale finalizzazione di un tirocinio è proprio l’apprendistato, e se non si sfrutta l’apprendistato la colpa non è da attribuire al tirocinio, ma all’azienda che non ha interesse a proseguire il rapporto». Della stessa opinione Granelli, secondo cui «i tirocini sono un momento di formazione e di orientamento a stretto contatto con le aziende, al fine di facilitare la transizione dalla scuola al lavoro». L'apprendistato viene dopo «e la concorrenza sleale si verifica solo quando il tirocinio viene utilizzato in maniera distorta».
Sarà, ma nel 2017 si contavano in Italia 368mila attivazioni di stage extracurriculari (al netto dei curriculari, che non rientrano nei monitoraggi), raddoppiate rispetto alle 185mila del 2012.
La direzione che andrebbe presa «affinché l'apprendistato venisse più considerato dalle imprese è quella di sburocratizzarlo» sintetizza Silvestri, «soprattutto nelle versioni del primo e terzo tipo». Vale a dire quella per la qualifica e il diploma professionale e quella per l'alta formazione e la ricerca, le tipologie che prevedono l'alternanza tra i banchi di scuola o dell'università e il lavoro in azienda. Utilizzate poco o nulla, perché – evidenzia il rapporto Inapp – «oltre il 97 per cento dei rapporti di lavoro in apprendistato è di tipo professionalizzante», il secondo tipo, quello che non prevede nessun laccio con il mondo della scuola o accademico. Non a caso il rapporto indica anche che ben un quarto degli apprendisti risulta occupato nell'industria, il 21 per cento nel commercio al dettaglio e all'ingrosso e nell'autoriparazione, e infine il 17 per cento nell'alloggio e ristorazione.
«Il professionalizzante di fatto è un contratto di inserimento con la maggior parte della formazione on the job e, quindi» continua Silvestri, «più semplice da attuare e con molti meno vincoli». Dello stesso parere Granelli, per cui «l’apprendistato di primo livello sconta la presenza di un quadro regolatorio frammentato, oltre a oneri burocratici e economici tali da renderlo poco appetibile». Quello di alta formazione, «di nicchia per i suoi piccoli numeri», andrebbe comunque mantenuto «per il valore in termini di innovazione e competitività».
E se si passasse a una unica tipologia? Per Granelli sarebbe «un errore perché le tre classi rispondono ognuna a finalità che concorrono a rafforzare la competitività e la produttività del sistema economico e, nel contempo, a sostenere l'occupazione». Ciò su cui si deve puntare è invece a «affiancare le imprese nell'investimento, con un contributo a copertura del costo dell'apprendista per l'apprendistato di primo livello, e con una decontribuzione totale per i primi tre anni di contratto per il professionalizzante».
Non serve, a detta del presidente di Confartigianato, neppure un'altra riforma: si può semplificare la gestione del rapporto di lavoro nell'apprendistato di primo livello «partendo dall’impianto già esistente del Jobs Act». Se una riforma serve è quella «del sistema di orientamento, che guidi verso percorsi formativi che tengano conto delle prospettive occupazionali». La formazione professionale, prosegue Granelli, «rappresenta ancora una scelta residuale, per cui opta soltanto l’11,9 per cento degli studenti, a fronte del 57,8 per cento dei licei e del 30,3 per cento degli Istituti tecnici».
C'è però da ben sperare. Il neopremier Mario Draghi parlando al Senato ha detto che «è stato stimato in circa 3 milioni, per il quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell'area digitale e ambientale». In più, fa presente Silvestri, «è scritto sui progetti di riforma legati al Recovery Plan che si potenzieranno gli Its e il sistema dell’alta formazione legata alle università». Allora sì che «l’apprendistato potrà trovare la sua giusta collocazione e rinascita».
Ilaria Mariotti
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