Eleonora Voltolina
Scritto il 05 Ott 2022 in Approfondimenti
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I lavori sottopagati – così come gli stage sottopagati, o addirittura gratuiti – sono ingiusti. Specialmente quando si tratta di mestieri prestigiosi, ambiti, e dunque i datori di lavoro giocano sulla “attrattività” di quei settori, di quelle professioni, per poter avere persone entusiaste e capaci senza pagarle il giusto.
Nel caso degli stage la situazione è ancor più complicata perché c’è sempre di mezzo il discorso-trappola della formazione come “vantaggio principale” messo a disposizione dello stagista – uno scivolo per chi vuole comportarsi in maniera truffaldina e ottenere manodopera o cervellodopera a costo basso o nullo. “Eh ma ti sto insegnando!” è la scusa classica che si sentono indirizzare gli stagisti quando il tirocinio proposto prevede come indennità una somma irrisoria... o addirittura niente.
La questione della dignità del lavoro, del diritto ad essere pagati per la propria prestazione (anche quando si è in formazione), è centrale anche perché, come è facile intuire, se ci sono mestieri prestigiosi ma cronicamente sottopagati o gratuiti, questi mestieri saranno aperti e contendibili solo da chi ha risorse proprie, e insomma, non ha – troppo – bisogno di guadagnare per vivere. Ciò di solito coincide con chi ha una famiglia abbiente alle spalle, disponibile a integrare i magri guadagni o, nel caso degli stage gratuiti, ad assumersi in toto il mantenimento dei figli per il tempo di svolgimento del periodo di formazione/lavoro senza compenso.
Dunque una prima, grande ingiustizia, la più grande, è che se non si riesce a imporre che l’attività lavorativa – in qualsiasi forma che non sia volontariato – debba essere pagata equamente, avremo sempre nicchie più o meno grandi di lavoro (solitamente glamour) presidiate dai cosiddetti “figli di papà”.
Eppure c’è un’altra ingiustizia. Più piccola, meno visibile, meno facile da riconoscere. Ma non per questo meno vera. E molto, molto diffusa. A potersi permettere questi periodi – anche lunghi – di scarso guadagno non sono necessariamente, in realtà, solo i “figli di papà”. Ci sono anche tantissimi giovani della classe media, e perfino medio-bassa, che ricevono un aiuto sistematico dalle proprie famiglie – anche se queste famiglie non nuotano nell’oro.
Che sia il contributo per l’affitto o la messa a disposizione di una casa per vivere, regali importanti come la macchina o le vacanze, oppure semplicemente l’abitudine di riempire il frigo o pagare le multe, o l’attività di babysitting per gli eventuali (pochi) figli, mille sono gli aiuti che i giovani, specialmente in Italia, ricevono dalle loro famiglie d’origine. Le famiglie lo fanno, il più delle volte, in maniera generosa, altruista, amorevole – per permettere a questi figli di rincorrere i loro sogni professionali, di poter realizzare i loro obiettivi senza l’ansia di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Ma chi riceve aiuti dalla sua famiglia anche quando ha superato i venticinque, i trent’anni, è davvero fortunato?
C’è un aspetto che troppo spesso viene tralasciato quando si ragiona di questi argomenti, e che si può efficacemente rappresentare con la frase “Pago, pretendo!” di un famoso personaggio dei “cinepanettoni” degli anni Ottanta, il “commendator Zampetti”.
Pago, pretendo. I soldi sono un laccio, un guinzaglio. E nel caso dei giovani, un formidabile strumento di controllo in mano ai genitori su figli ormai grandi e vaccinati.
Una «anticamera di una ‘libertà vigilata’ sociale ed economica» per i giovani adulti: così la descrive Giuseppe Annibale Micheli, che ha dedicato decenni allo studio delle dinamiche demografiche, intergenerazionali, e dei rapporti all’interno delle famiglie, scrivendo libri appassionanti e illuminanti sul tema.
In Sempregiovani & Maivecchi, pubblicato da FrancoAngeli nel 2009, Micheli parte per esempio chiarendo come le cinque «tessere del mosaico» della transizione all’età adulta – «la fine degli studi, l’acquisizione di un lavoro stabile, l’uscita di casa, la formazione di un’unione stabile, la nascita di un figlio» – siano ormai scombussolate. E spesso non per scelta dei diretti interessati bensì per caso, per sorte avversa, perché molti meccanismi sociali ed economici sembrano essersi inceppati e impediscono ai giovani di andare avanti. I ventenni-trentenni trovano lavoro più tardi, vengono inquadrati con contratti precari (che spesso anziché «entry ports» si rivelano «job traps»), ricevono retribuzioni troppo basse per potersi permettere da soli una casa. Una vita.
E allora intervengono le famiglie. Aiutano. Ma questo aiuto non è gratuito. C’è uno scotto da pagare: accettare che il proprio distacco da casa venga «pilotato». Non poter tagliare il «cordone ombelicale con la famiglia di origine» – anzi, essere chiamati a mantenerlo «robusto». Restare vicini, fisicamente o anche solo mentalmente, alla casa paterna. Restare dipendenti. Una casa diversa viene messa a disposizione, certo, e questo è un «vantaggio materiale» per i figli squattrinati. Ma sono i genitori a – contribuire a – sceglierla. Sono i genitori a suggerire dove, come, quando comprarla o affittarla. E magari si tengono pure le chiavi, in concreto o in astratto, e con esse «il diritto di entrare nello spazio privato dei figli».
Uno spazio privato che include ogni scelta di vita: cosa studiare, che stile di vita adottare, con quali amici e partner, che mestiere fare, dove e come passare il proprio tempo, come spendere i propri soldi. Se e quando fare figli, con chi farne, come educarli. «I genitori italiani sono tradizionalmente disposti ad aiutare generosamente i figli che si conformano alle loro aspettative» scrive Micheli «ma la loro disponibilità cala in modo rilevante se i figli operano scelte non condivise». E quindi, inevitabilmente, «l’importanza strategica del sostegno economico dei genitori rende» (per i figli adulti “aiutati”) «particolarmente rischioso mettere in atto scelte che disattendano le loro aspettative». Costringendoli a sacrificare un pezzo – piccolo, grande, a volte addirittura enorme – della loro libertà.
Per questi figli che si avvicinano ai trent’anni e che a volte anche li superano eppure ancora guadagnano drammaticamente troppo poco – a volte nemmeno mille euro al mese – i genitori sono un’assicurazione sulla vita (e sulle comodità). Permettono loro di farsi strada nel mondo anche senza doversi “guadagnare da vivere” in senso stretto. Ma così facendo si auto-condannano al ruolo perenne di subordinati, di “sempre(troppo)giovani”, e mettono nelle mani di mamma e papà uno strumento di pressione formidabile: «Finiti i tempi dei padri padroni, l’arma più convincente» è proprio «la minaccia di ritirare il proprio supporto economico per l’acquisto della casa, e il supporto in manodopera per l’accudimento dei nipotini».
Nel suo libro più recente, Preferirei di no, uscito nel 2021 per Mimesis edizioni e focalizzato più specificamente sul crollo delle nascite, Micheli dice anche che il «definitivo arresto dell’ascensore sociale» (definitivo… ma non per sempre, si spera) sta portando «al graduale prosciugarsi dei salvadanai familiari» che però sono «per la verità ancora oggi sorprendentemente inesausti». Dunque le famiglie italiane hanno ancora dei “tesoretti” da distribuire ai figli per rimediare alla situazione economica e di welfare disastrata.
Ma il dono, ricorda Micheli di nuovo in Sempregiovani & Maivecchi, qualunque esso sia, implica un obbligo implicito a contraccambiare, che «scatta come una tagliola», «intrappolando il figlio inconsapevole». Quel figlio si renderà conto magari solo molto più avanti – quando per esempio la prospettiva di accettare una proposta di lavoro in un luogo lontano, o la scelta di fare un bambino al di fuori del matrimonio, o di separarsi dal partner di lunga data e avviare una nuova relazione, troveranno la disapprovazione e la pressione negativa da parte dei genitori “che ti hanno sempre tanto aiutato, non vorrai mica essere un figlio ingrato?” – di quanto questa tagliola possa far male. Un “Pago, pretendo” implicito, nella maggior parte addirittura inconsapevole, o comunque strenuamente negato.
Gli aiuti economici dei genitori sono spesso salvifici per i giovani italiani, è innegabile. Ma non sono indolori. E costringono il più delle volte a una vita “a responsabilità limitata”.
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