Al Festival del Giornalismo, che si è chiuso domenica a Perugia dopo cinque giorni intensi e 50mila visitatori, si è parlato anche - e come poteva essere altrimenti? - dei problemi della professione giornalistica. Due su tutti: il precariato sottopagato e i canali di accesso.
A quest'ultima tematica, la prima che ogni aspirante giornalista si trova a dover affrontare, era dedicato il panel «In-formazione - La pratica che fa scuola». Perché «il giornalismo è ormai l'unico mestiere per il quale non serve portare il curriculum», come ha riassunto con disappunto Roberto Cotroneo, direttore della scuola di giornalismo della Luiss. «Si fa ancora riferimento al tempo in cui i caporedattori si crescevano i collaboratori preferiti: ma quel giornalismo non esiste più, oggi è una realtà industriale. Il giorno in cui i giornalisti saranno assunti per quello che sanno, forse cambierà qualcosa». Tra i relatori Monica Maggioni, inviata del Tg1 ed ex allieva della scuola di Perugia, ha provato a smontare la solita visione stereotipata del giornalista che si fa le ossa sul campo, consumandosi la suola delle scarpe, contrapposto al ricco pivello che comodamente svolge il suo praticantato all'interno di una scuola. «Mi fa paura l'impianto di retorica associato alla formazione: la storia delle suole delle scarpe ne è un esempio. C'è chi se le consuma restando alla scrivania e chi torna con le suole integre pur essendo andato dall'altra parte del mondo». Insomma essere sul posto è importantissimo, certo, ma «solo se si è studiato e si conoscono le chiavi di decodifica». Quindi le scuole di giornalismo servono a dare ai futuri giornalisti gli strumenti per potersi poi consumare le suole delle scarpe con cognizione di causa: «L'antica contrapposizione tra scuola e talento, tra studio teorico e suola delle scarpe, non è più attuale».
Anzi le scuole dovrebbero essere l'avanguardia: «Il territorio avanzato di ricerca sulla professione» secondo Angelo Agostini del master di giornalismo Iulm. Che ha rievocato: «Ventidue anni fa, al primo anno della scuola dell'università di Bologna, scegliemmo di insegnare agli allievi la videoimpaginazione, che allora era vietata dal contratto nazionale. Nel corso del biennio il contratto venne rinnovato, il divieto decadde e molti di quegli ragazzi non finirono nemmeno la scuola perché vennero immediatamente assunti. Questo insegna che le scuole di giornalismo devono essere un passo avanti, dare gli strumenti per sopravvivere nel mondo del lavoro del futuro».
Coro unanime però sui costi troppo alti: secondo Marcello Greco - oggi giornalista del Tg3, ieri allievo della scuola di Perugia - la Rai in primis essendo servizio pubblico dovrebbe «investire nella formazione permanente di chi è già dentro, ma anche dando borse di studio». Quasi un'utopia secondo Cotroneo: «Nessun editore mi ha mai detto "ecco 30mila euro per due borse di studio". Ma io sono ottimista, perché entro un paio d'anni cambierà tutto - volenti o nolenti. Il problema è che nel giornalismo non esiste l'idea che si debba assumere gente che sa fare il giornalista. Per ora gli editori sanno solo dichiarare stati di crisi e prepensionare. Vedremo cosa succederà con la riforma del lavoro».
Per chiudere Gianni Riotta, già direttore del Tg1 e del Sole 24 Ore, ha fatto una panoramica delle difficoltà economiche del comparto editoria-giornalismo: «Il mercato sta cambiando negativamente, i dati 2011 dicono che sono usciti dal mercato del lavoro dei media oltre 1100 giornalisti di cui oltre 600 solo dalla carta stampata». Insomma il momento è duro perfino per chi ha un contratto: figurarsi per chi non ce l'ha. «Alla scuola di giornalismo della Columbia un docente insegnava ai futuri freelance anche come contrattare e ottenere il compenso» Rivolgendosi poi direttamente agli allievi delle scuole italiane: «Voi non avete amici: né l'Odg, né la Fnsi, né la Fieg, né i giornalisti assunti. Siete solo voi i vostri amici. Alleatevi con i colleghi, e magari coi prepensionati che sono stati espulsi dal mondo del lavoro prematuramente». Per cercare di lavorare dignitosamente, e di ricavarci uno stipendio decente.
E qui si arriva al secondo grande problema della professione. I precari sottopagati, supersfruttati, calpestati. Quei giornalisti che non hanno un contratto di lavoro a proteggerli e si ritrovano alla mercé di testate che pagano un articolo pochi euro - facendo magari attendere anche mesi il saldo del pagamento. Ormai da mesi i collettivi di precari, insieme all'Ordine e alla Fnsi, sono sul piede di guerra. All'inizio di ottobre c'è stata in Toscana la prima "convention", con 400 partecipanti, in cui è stata presentata e discussa la Carta di Firenze: un documento deontologico, poi approvato dall'Ordine dei giornalisti, che dovrebbe disincentivare lo sfruttamento e responsabilizzare gli "insider" ad essere solidali con gli "outsider".
A Perugia il primissimo panel, quello che ha inaugurato il Festival, è stato proprio il meeting dei movimenti dei giornalisti precari italiani, moderato da Vittorio Pasteris e Francesca Ferrara con la partecipazione tra gli altri di Viola Giannoli di Errori di Stampa, Nicola Chiarini del coordinamento Refusi del Veneto, Massimo Romano di quello dei giornalisti precari della Campania e di Federico Belprete per quello dell'Emilia Romagna. Per fare il punto sullo stato dell'arte e soprattutto sull'efficacia della Carta di Firenze, a sei mesi dalla sua approvazione e a quattro dall'entrata in vigore. A Chiarini [nell'immagine a fianco insieme a Romano] il compito di tracciare una radiografia della situazione: «Siamo una categoria parcellizzata, perché parcellizzate sono le condizioni contrattuali e di lavoro. Ma finalmente, anche grazie al lavoro dei coordinamenti regionali, la questione del precariato viene affrontata fattivamente - oltre gli slogan, oltre la lamentela sterile da bar, cercando con coscienza di costruire percorsi ed exit strategy per la maggioranza dei giornalisti». La maggioranza? «Su 44mila colleghi attivi, 24mila sono fuori dalla cornice del contratto collettivo nazionale di lavoro, e lavorano in condizioni al di sotto della soglia di dignità: una media di 7.500 euro lordi annui per un parasubordinato, il famoso cococo, 9mila per le partite Iva che in molti casi sono monomandatarie». Secondo Chiarini l'unica soluzione è «ripartire dal dovere di colleganza, la collaborazione solidale tra colleghi: per questo la Carta di Firenze mira a sanzionare quelli che svolgono un odioso ruolo di caporalato, andando ad avallare le politiche miopi di quegli editori che non riconoscono il valore della professione giornalistica». Ma la Carta è solo uno strumento: «Se non arrivano le segnalazioni non potranno arrivare nemmeno le sanzioni».
Deluso invece Massimo Romano: «Io c'ero a Firenze, ed ero un grande entusiasta della Carta. Proprio per questo posso dirlo: dopo l'approvazione non è successo quasi niente. Alcuni articoli sono rimasti lettera morta: per esempio gli ordini regionali avrebbero dovuto fissare le soglie di equo compenso per i giornalisti precari, e Odg e Assostampa istituire un osservatorio per valutare i casi di violazione, ma entrambe le cose non sono state fatte. Allo stesso modo c'è un punto che riguarda i pensionati, per evitare che chi va in pensione venga poi impiegato dalla stessa testata come collaboratore: rimasto lettera morta anche questo. E molte persone questa Carta nemmeno la conoscono». Non distante il parere di Viola Giannoli: «Il problema è proprio la concreta applicazione. Il presidente Iacopino ci ha detto che a Roma ci sono stati gli unici tre casi di ricorso a questo strumento. Solo tre casi in quattro mesi sono un fallimento - o quantomeno una battuta d'arresto rispetto alle aspettative. Ma all'Odg chiediamo: a che livello si impegna ad agire rispetto alle sanzioni? Potrà chiedere all'Inpgi di fare ispezioni, per esempio per controllare la pratica dei neopensionati che tornano subito in redazione, con tanto di scrivania, pagati il doppio o il triplo dei collaboratori giovani? Insomma, va rilanciata da parte nostra e degli organi istituzionali una campagna che dia nuova linfa alla Carta di Firenze. Affinché non resti solo "carta"». Indirizzato a Iacopino anche l'appello di Federico Del Prete: «L'Ordine nazionale porti questa Carta nelle redazioni: andrebbe affissa sui muri delle stanze dei direttori».
In attesa che riparta il percorso di approvazione della legge sull'equo compenso giornalistico, stoppata a sorpresa qualche giorno fa dal governo - che ha dichiarato di voler apportare alcune modifiche non meglio precisate. «Noi però puntiamo a riattivare al più presto l'iter» ha assicurato alla Repubblica degli Stagisti Roberto Natale, presidente della Fnsi [nella foto a fianco]: «Per questo saremo al fianco dell'Ordine e dei comitati dei precari, e disponibili anche a scendere in piazza nelle prossime settimane con una grande manifestazione. Entro la fine della legislatura questa legge deve vedere la luce». I giornalisti, specie quelli più giovani, lo sperano fortemente.
Eleonora Voltolina
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