«Il futuro è a colori, se si sanno sfruttare le opportunità»: la deputata Irene Tinagli sprona a reinventarsi
In un mercato del lavoro in cui i giovani fin dall’inizio temono di non poter entrare, rincorrendo magari per anni lo stesso lavoro senza guardare alle altre opportunità che hanno intorno, Irene Tinagli invita a osare: uscire da casa, incontrare gente, viaggiare e sbagliare. Per provare a costruire il proprio futuro. Nel libro «Un futuro a colori – scoprire nuove opportunità di lavoro e vivere felici» racconta la sua storia, da un paesino di provincia fino al Parlamento: passando per la Bocconi, poi una specializzazione negli Stati Uniti, la cattedra all’Università Carlos III di Madrid e la candidatura, due anni fa, nella lista di Scelta civica. Oggi la neoquarantenne Tinagli racconta le storie di chi ce l'ha fatta: Articolo 36 ha deciso di fare una "radiografia" del suo ottimismo.Partiamo dal sottotitolo, «Scoprire nuove opportunità di lavoro e vivere felici»: la sua visione sul mondo del lavoro è positiva?Lo è se uno guarda le dinamiche che si sono create negli ultimi anni grazie all’emergenza di nuovi settori e di innovazioni tecnologiche, e allora si vedono le opportunità che si aprono. Poi è chiaro che ci sono ambiti che stanno soffrendo e probabilmente dovranno ancora attraversare periodi di crisi. Sono tante le definizioni, da «bamboccioni» a «choosy», date ai giovani incapaci di staccarsi dalla famiglia di origine.Penso siano state affrettate: non hanno saputo cogliere i cambiamenti strutturali che erano alla base di questi fenomeni e le loro cause. Il fatto che questo fosse la manifestazione delle difficoltà oggettive delle nuove generazioni a cogliere le opportunità nel mondo del lavoro. Ci sono poi anche fenomeni giornalistici che magari ci costruiscono sopra dei casi e colgono la definizione che funziona meglio per suscitare un dibattito.
Scrive che la scuola continua a insegnare sempre le stesse cose mentre il mondo cambia: parte della colpa della crisi economica italiana è da ricercare anche in questo?Penso di sì, nella scuola e nella società italiana che non ha saputo coltivarla come una leva di crescita. Abbiamo la forza lavoro meno qualificata di tutto il mondo occidentale, un tasso di istruzione, non solo di laurea, tra i più bassi persino nelle fasce più giovani. Questo secondo me ha fortemente condizionato la capacità dell’Italia di cogliere le opportunità legate alle nuove tecnologie, ai nuovi settori emergenti, alle competenze innovative. Le abbiamo colte peggio perché avevamo una società e un sistema delle imprese in ritardo sul fronte dell’istruzione e delle competenze tecniche e scientifiche.Perché in Italia si investe così poco nell’istruzione? Ci sono vari elementi e uno di questi è connesso alla nostra struttura economico produttiva. Da sempre legata al manifatturiero tradizionale e in quel tipo di struttura probabilmente le competenze legate all’istruzione, scientifiche e culturali, sono state meno valorizzate, sia dal mondo dell’economia sia dagli stessi politici che hanno sottovalutato l’importanza e l’impatto dell’istruzione nello sviluppo economico. Oggi nel ruolo di parlamentare, cosa pensa dovrebbe fare il Governo per rilanciare istruzione e cultura? Operare su due binari: una riforma profonda di come funziona la scuola a tutti i livelli e un’attenzione maggiore alle politiche economiche che determinano i modelli e le traiettorie di sviluppo del nostro sistema produttivo. L’istruzione per troppo tempo ha giocato in difesa. E parliamo delle basi più profonde su cui si regge: programmi, valutazione, merito, autonomia scolastica, capacità di adeguarsi nelle strutture e nei contenuti. Questi sono i veri nodi su cui non abbiamo fatto progressi: il modo di insegnare i programmi sono gli stessi da 50 anni. Bisogna intervenire ma cambiare anche il modello di sviluppo economico del nostro paese. Le due cose sono collegate. Se non rendiamo il settore economico più moderno sarà difficile creare una sinergia positiva tra istruzione e mondo del lavoro. Parla di asimmetrie informative che non consentono a tutti i giovani di vedere le opportunità che hanno di fronte: di chi dovrebbe essere il compito di ridurle? La scuola stessa potrebbe avere un ruolo importante nel rendere i giovani più consapevoli delle scelte che devono fare. Può farlo se supportata da un sistema pubblico che agevola la realizzazione di questi servizi di orientamento. Poi ci sono anche interventi normativi che possono aiutare. Faccio un esempio banale: se tutte le università per qualsiasi corso di laurea fossero costrette a pubblicare le statistiche sulle probabilità dei loro laureati di trovare lavoro a uno - due anni e le probabilità di carriera, sarebbero informazioni importanti per aiutare i giovani a scegliere. Sarebbe un segnale di trasparenza per ridurre questa asimmetria informativa: chiunque potrebbe accedere a quel tipo di informazione. Poi andrebbero diffuse le dinamiche economiche e occupazionali. Ci potrebbe essere una bella collaborazione potenziale tra ministero del lavoro e dell’istruzione per fare in modo che alle scuole arrivino delle informazioni precise su quali sono i settori che crescono di più. Si possono fare tantissimi interventi perché al momento attuale su questo fronte c’è una tabula rasa. Scrive che qualcosa nel mondo politico sta cambiando, con parlamento e premier tra i più giovani di sempre. È un cambiamento di facciata, lontano dall’Italia reale? Mi auguro di no, questo ricambio che oggettivamente c’è stato dovrà anche calarsi in azioni concrete. Chiaramente è una cosa che ha bisogno di tempo perché possa realizzarsi. Certo, le cose devono essere accompagnate anche da elementi qualitativi di merito. Così come non basta una laurea presa ovunque per essere competenti e bravi, non basta essere giovani per avere la capacità di cambiare il Paese. In questo ricambio generazionale un trentenne può garantire una maggior volontà di cambiare le cose e credo che sia già un gran passo avanti. Fino ad oggi abbiamo avuto dei limiti proprio di volontà con una classe politica molto autoreferenziale. Già il fatto che ci sia voglia di un ricambio generazionale è positivo, ma non sarà sufficiente perché servono competenze forti, preparazione, voglia di valorizzare il merito delle cose in tutti i settori.Ritorna più volte il tema della cultura del fallimento: perché manca in Italia e cosa fare per svilupparla? È difficile dirlo, probabilmente ha retaggi culturali profondi. Siamo abituati a guardare in bianco e nero: o sei un genio come Michelangelo o sbagli e sei un cretino. Non ci sono vie di mezzo, non si ammette il fatto che uno possa reinventarsi e che ci possa essere un percorso fatto di ostacoli e ricadute. Fa parte del nostro modo di intendere il talento: pensiamo sia una cosa innata. Ma anche il talento va coltivato. Penso che si possa cambiare questa cultura e si debba partire dalla scuola, se fin da bambini si cambia il modo di imparare e competere con gli altri, in modo che non sia un confronto sull’ultimo risultato finale ma sul percorso che si fa, sulla capacità di imparare dagli errori e capire che il talento non è una caratteristica fissa dell’individuo ma una cosa che si può e si deve migliorare. Andrebbero coinvolti anche i media, nel modo di presentare le storie di successo e di insuccesso. Si passa dall’osannare il personaggio pubblico a linciarlo due mesi dopo perché ha sbagliato qualcosa. Sono tutti meccanismi che andrebbero cambiati per aiutarci a vivere gli errori come una parte del percorso di crescita individuale e professionale. Dal libro si capisce che non crede alla generalizzazione della “fuga dei cervelli” … Sono andata all’estero e ho visto che tutti i Paesi si lamentano perché le persone più istruite se ne vanno come se fosse un danno, ma fa parte dell’evoluzione della società e del mercato del lavoro. Le competenze circolano, ma è bene che succeda: come possiamo pensare di crescere e ammodernare i nostri sistemi se le persone non si formano anche così, conoscendo altri paesi, sviluppando le proprie potenzialità dove è meglio. Se confrontiamo la mobilità fisica delle persone, anche di quelle più qualificate, con quella delle merci, la prima è minima rispetto alla seconda. Sicuramente la mobilità delle persone crescerà, ma non è una cosa che deve spaventare: è un’opportunità per migliorare le nostre competenze. Poi è chiaro: ci sarà una competizione tra Paesi su chi è capace di attrarre talenti stranieri. Però non è un problema della persona che se ne va, ma del Paese che dovrebbe essere accogliente verso i cervelli. Nel libro suggerisce di costruire ponti, approfittando di tutte le occasioni per conoscere gente nuova e trovare l’occasione della vita. Lo studio serve solo fino a un certo punto? Lo studio serve, perché se ti crei dei canali con delle persone ma sei un incompetente, allora quelle impareranno solo questo e non ti daranno delle opportunità. Se però sei una persona bravissima, ma non esci mai di casa, non parli con gli altri, nessuno sa quello di cui sei capace, chiaramente diventa molto più difficile scovare queste opportunità e farsi apprezzare. È un binomio che va coltivato, competenza e capacità, ma hanno bisogno anche di un po’ di megafono. Incita i giovani a provarci, sbagliare, crederci, ma mai abbattersi. È questo il punto di discrimine per raggiungere i propri obiettivi? Direi che questo è davvero un punto cruciale: chi ha la determinazione di non buttarsi giù, di reinventarsi, alla fine trova la sua strada. Se una persona invece si lascia abbattere dalla convinzione che tutto è molto difficile, raramente riuscirà. Anche perché tutta l’energia che ha la butta in pensieri negativi. E si preclude l’opportunità di scoprire nuove strade. Pensando già da prima che non ci sono. Poi ovvio ci sono tante variabili, non voglio scaricare tutto sull’individuo, ma uno può cambiarle. Le leve che abbiamo a disposizione sono tante e spesso non le usiamo tutte.Lei scrive che Marissa Mayer, ad di Yahoo a 37 anni, dichiarò che il miglior consiglio mai ricevuto fosse “Trova il tuo ritmo”. Il miglior consiglio che, invece, lei hai ricevuto e darebbe ai giovani qual è? “Ricordati che la tua vita e la tua carriera non sono uno sprint ma una maratona e non devi guardare alle persone che hai vicino, se hanno fatto un metro in più”. Bisogna immaginarsi in un orizzonte lungo, senza farsi abbattere. Pensare che se questi 100 metri non si fanno al meglio, magari nei prossimi le proprie capacità verranno fuori. Guardare sempre alla visione complessiva delle cose perché è l’unico modo per superare la negatività del momento. La carriera non si esaurisce nell’oggi, ma è un percorso: il lungo respiro è il modo che ti aiuta ad affrontare le difficoltà temporanee.