La precarietà in Italia, invece di essere ricompensata con stipendi più sostanziosi, è meno retribuita. «Faccio un esempio: se compro un biglietto aereo con date prefissate pago un prezzo che automaticamente salirebbe se scegliessi l'opzione di cambiare il rientro. Il perché è semplice: è il costo della flessibilità»: come mai questa regola del mercato non vale da noi? A chiederselo è Andrea Dili, portavoce dell'Associazione 20 maggio, alla presentazione romana di 'Storie precarie' (Ediesse, 10 euro), un volume curato da un gruppo di ricercatori Istat e Sapienza e incentrato sulla vita di una fetta di lavoratori italiani tra i 20 e i 50 anni senza posto fisso, che viaggiano tra un'occupazione e l'altra, cambiando continuamente mansioni e colleghi. Quella porzione di precariato vero, radicatissimo, in cui alcuni dichiarano perfino di trovarsi bene - considerandolo una scelta - ma che per tutti significa soprattutto rinunce, talvolta a diritti essenziali come la maternità. Sono «parole, vissuti e diritti negati della generazione senza», come si legge in copertina, su cui – senza pretese di scientificità (il libro è frutto di un questionario somministrato a 470 soggetti, con la collaborazione della rivista Internazionale) – l'indagine promossa da Cgil e Smile fa luce, fotografando chi galleggia ai margini del mercato del lavoro.
Il problema essenziale sembra essere uno: come tirare a campare con stipendi tiratissimi e zero tutele. Si tratta «soprattutto di lavoratori della conoscenza, con un titolo di studio che cercano di spendere» spiega una delle responsabili della ricerca, Francesca Della Ratta. Il dato più evidente è che i gruppi sono due: «Chi pur nell'assenza di diritti si è comunque costruito un'identità solida come professionista e chiede per lo più diritti di cittadinanza al pari delle generazioni precedenti» riassume la studiosa, e poi «soggetti dal percorso più fragile, discontinuo, che sono passati da un impiego all'altro». Questa frangia è la più debole: «Nel questionario è una minoranza ma i dati ci dicono che nella realtà siano invece la maggioranza». L'intervista si apriva con una domanda aperta sulla storia personale di ciascuno, «e questo ha scoraggiato più di uno», chiarisce Della Ratta. Spesso queste persone «non hanno il tempo e la lucidità per rivendicare diritti, restano legati ai bisogni della sussistenza quotidiana. Sono quelle che vorrebbero tutele universalistiche e nuovo welfare».
A fine libro è riportata una selezione di racconti. Un paio di stralci ribadiscono come all'interno del mercato del lavoro non ci sia solo una suddivisione tra garantiti e non, ma come anche nel precariato i mondi siano due. «Precarietà è ansia, è privazione della libertà di scelta, è mancanza e senso di vuoto» scrive un'insegnante 31enne del nord. «Diventa precaria la vita perché non sai fino a quando potrai pagare l'affitto, non sai fino a quando potrai fare a meno di accettare l'aiuto dei tuoi genitori» è il suo sfogo: «Precarie diventano le possibilità di fare una vacanza, anche low cost: chi è precario non accumula ferie, non riesce a organizzarsi a lungo termine».
Di tutt'altro genere lo spaccato di una giornalista freelance, nella stessa fascia d'età: «La soluzione non è l'assunzione a vita: per me sarebbe la morte professionale. Ho un bel lavoro, me lo sono scelto e me lo coccolo. Sto molto bene. Ma va meno bene che non mi paghino per mesi, che mi diano due lire, che non sappia quando ricomincerò a lavorare. La mia preoccupazione» continua «è invecchiare perdendo lavori».
È questa dunque la verità dietro i numeri delle statistiche, secondo cui i precari in Italia sarebbero il 13% del totale, una cifra tutto sommato «non così lontana dalle percentuali tedesche» come osserva Patrizio Di Nicola, altro curatore dello studio. Ma la stortura italiana è tutta nella condizione di vita che accomuna l'universo dei precari, ai margini della società perché sottopagati e senza tutele, sia quando il lavoro autonomo rappresenta una loro scelta, sia quando è invece un percorso obbligato.
Alla presentazione del libro si è discusso anche di soluzioni a un sistema così strutturato. E a proporne è stato anche Stefano Fassina, ex viceministro dell'Economia in quota Pd, che mette subito in guardia: «Non ci sarà a breve un aumento dell'occupazione né dal punto di vista qualitativo né quantitativo. Stiamo alimentando una guerra tra poveri, che proseguirà finché non affronteremo le questioni di fondo» afferma, ovvero quella di «un paese che non cresce». In questo senso non funzionerà neppure, a suo dire, la riforma messa in piedi da Poletti («Mi metterò a contare uno a uno quanti contratti a tempo determinato diventeranno fissi, perché temo sarà il contrario», spiega ancora). Anche perché sono le leggi macroeconomiche a dettare e regole: «Se l'offerta di lavoro è massiccia, si possono scrivere tutte le riforme che vuoi ma saranno la domanda e le condizioni a svalutarsi». Va escluso il ritocco dell'articolo 18, che ha dimostrato di non essere il problema: «Si abbassa solo il livello per tutti: se la disuaguaglianza sociale è cresciuta a dismisura e la ricchezza si è concentrata nelle mani dell'uno percento della popolazione mondiale, questa non è di certo quella composta dai tempi indeterminati» sintetizza Fassina. Alcuni possibili correttivi potranno riguardare invece l'abbattimento degli incentivi fiscali agli straordinari, che è «una misura inammissibile quando l'occupazione è ferma». E poi un altro passo potrebbe essere «il prepensionamento flessibile, o tenere le aliquote della Gestione separata Inps al 27% senza farle arrivare al 33 come voluto dalla Fornero». Per questo «ci stamo battendo finanziaria dopo finanziaria» assicura Fassina.
Dili invoca invece lo stop all'introduzione del salario minimo - al vaglio di chi sta preparando la riforma del lavoro - che sarebbe solo un viatico per «abbassare ancora di più le retribuzioni, facendole uscire dalle griglie della contrattazione collettiva». «Una segretaria che prende 11 euro l'ora potrebbe arrivare a 4 o 5 con la nuova riforma» ipotizza.
I precari nel frattempo puntano solo a un confronto, spiega Della Ratta: «Conoscono le difficoltà degli imprenditori e vorrebbero solo dire basta al risparmio sempre e solo sul costo del lavoro». E poi, altro aspetto, «va fatto presente a chi dà lavoro che precarietà e produttività non coincidono: se mi scade il contratto penso a quello che farò quando perderò il lavoro: è una lotta al ribasso». E ai precari almeno l'ascolto andrebbe riconosciuto visto che quella delle generazioni precedenti, che avevano detto «studiate e starete meglio di noi», afferma Di Nicola, «è stata una promessa mancata». E una società che non mantiene le promesse, conclude, «è una società che mostra la propria decadenza».
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