Riforme sbagliate e pochi investimenti, ecco perché in Italia non c'è lavoro

Spazi Inclusi

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Scritto il 27 Ago 2014 in Articolo 36

Non è difficile spiegare perché in Italia non c'è lavoro, più complicato proporre la ricetta giusta sul "come si può fare per crearlo". Ci prova Romano Benini nel suo ambizioso "Nella tela del ragno", un libro che oltre a interrogarsi sul fallimento delle politiche italiane in tema di economia e lavoro, prova a proporre le possibili vie d'uscita. Grazie al punto di vista privilegiato dell'autore, direttore del master in Management dei servizi per il lavoro della Link Campus University di Roma e consulente delle maggiori istituzioni e agenzie per il lavoro italiane, è più facile capire quali siano state le cause che hanno portato il Paese al collasso.

Per prima cosa, una serie di riforme inefficaci, che non hanno seguito la direzione e le strategie tracciate nel 2000, a Lisbona, dai capi di stato europei. «Era chiaro già allora» spiega Benini «che bisognava 
mettere al primo posto le competenze delle persone. La proposta condivisa era stata quella di investire sul capitale umano e sulla riqualificazione del lavoro: a differenza di altre nazioni, l’Italia non l’ha fatto e purtroppo oggi ne paghiamo le conseguenze. Le nostre riforme si sono rivelate fallimentari: a che servono gli interventi sulla flessibilità se non ci si occupa del mercato del lavoro?».


Procedendo a ritroso nel tempo l'autore si sofferma sul Rinascimento italiano, «il primo a definire e a diffondere in Occidente un'idea di benessere e di sviluppo legata al lavoro, alla conoscenza e alla solidarietà». Le stesse peculiarità che servono oggi per rilanciare il Paese. «C’è bisogno di un nuovo Rinascimento» aggiunge l'autore «ma per attuarlo è necessaria rompere con il passato, con le burocrazie medievali che imperversano. Il lavoro, e non più la rendita, deve tornare al centro del sistema». Parte del libro è dedicata al confronto con alcuni stati europei, alla capacità che questi paesi, a differenza dell'Italia, hanno avuto nell'investire sulle persone.

Nel decennio 2003-2013, ad esempio, la Germania ha scalato posizioni nella classifica delle Nazioni Unite che tiene conto dell'indice dello sviluppo umano (welfare, sanità, formazione, lavoro), passando dal 25° al 5° posto. Nello stesso periodo l'Italia è scesa dal 18° al 26° posto. E la situazione peggiora se si confrontano gli investimenti sul lavoro. «Sui Centri per l’impiego» spiega l'autore «l’Italia impiega 600 milioni di euro, in Francia 6 miliardi, ben 9 miliardi in Germania, sono differenze pazzesche. Per l’inserimento di un disoccupato, con l’attivazione di servizi che mirano a fare incontrare domanda e offerta di lavoro, l’Italia spende 70 euro all’anno, contro i 1400 euro della Francia e i 1700 della Germania. Si è investito pochissimo anche sull'accompagnamento al lavoro, vale a dire tirocini, e intermediazione, mentre ai corsi formativi, numerosi e in molti casi assolutamente inutili, lo Stato ha destinato milioni di euro». Quando i paesi europei raddoppiavano gli investimenti in formazione, mercato del lavoro e interventi a favore dei giovani, l'Italia li dimezzava, dimostrando ben poca lungimiranza. A rallentare in qualche modo il patatrac nostrano, è stato l'enorme risparmio privato, di gran lunga superiore rispetto a Francia e Germania. «Ma il fieno in cascina prima o poi finirà e, forse, solo allora le cose cambieranno».

A metà del libro l'autore cambia registro. Trapelano fievoli spiragli di luce, è la ricetta del "come ne usciamo" proposta da Benini, che individua in quattordici parole chiave «gli indicatori per misurare cosa abbiamo e cosa serve per creare lavoro e sviluppo». Dalla capacità alle competenze, dall'orientamento alla progettazione. Serve una strategia concreta che metta al centro il capitale umano. Quello che hanno fatto alcune aziende italiane, mosche bianche che in tempo di crisi sono riuscite a ritagliarsi uno spazio di mercato importante, magari puntando sull'export «perché in giro per il mondo c'è tanta voglia di Made in Italy».

Nelle pagine finali, l'autore propone il decalogo delle "cose da fare subito”: dal corretto utilizzo dei fondi europei al riordino istituzionale, che definisca un sistema nazionale del lavoro capace di andare oltre le divisioni regionali imposte dal Titolo V della Costituzione. Serve uniformare il sistema dei servizi per il lavoro, con la creazione di un modello nazionale condiviso; promuovere un piano per l'apprendimento delle arti e dei mestieri del Made in Italy, in collaborazione con regioni e organizzazioni d'impresa. E ancora, rafforzare gli strumenti di accesso al credito e ridurre l'Iva e le imposte, che gravano sul costo del lavoro. Un'impresa titanica, ma essenziale per cambiare passo. «L'ostacolo più grande è scardinare le lobby che hanno tarpato le ali a un paese capace ma inerte. Quindi, occorre invertire la tendenza all'autocommiserazione e ritrovare il buon umore che ci ha sempre contraddistinto». La chiosa è dedicata al governo Renzi: «Mi auguro che questo esecutivo possa attuare riforme sul lavoro efficaci, i primi segnali sono positivi, ma servirà del tempo prima di ottenere qualche buon risultato».

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