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L'industry 4.0 è il futuro: 15 opportunità di apprendistato di alta formazione in Bosch, candidature fino a fine febbraio

Assunti subito, senza bisogno di stage. Assunti con un contratto vero, subordinato: un apprendistato di due anni. E non un apprendistato qualsiasi: un apprendistato di alta formazione, che implica un enorme investimento dell'azienda perché prevede che una parte della durata del contratto sia dedicata a formazione in aula. E poi, ancora, l'opportunità di passare sei mesi all'estero, nel paese "casa madre". Specializzandosi in quelle competenze che sono già oggi il futuro della produzione industriale.Il nuovo programma di assunzione di talenti del gruppo Bosch in Italia, che fa parte dell'Rds network, racchiude tutto questo. Si chiama "Bosch Industry 4.0 Talent Program" ed è una opportunità aperta a quindici laureati di eccellenza. Neoingegneri, matematici e fisici sono i potenziali partecipanti; il requisito principale, oltre alla competenza in queste materie, è ovviamente una passione per il tema dell'Industry 4.0 e delle nuove tecnologie. Buone conoscenze di informatica e dei principali linguaggi di programmazione, disponibilità alla mobilità nazionale e internazionale e ottima conoscenza dell'inglese completano il profilo del (o della!) "candidato/a ideale".Le candidature sono aperte da meno di tre settimane e sono già oltre mille i giovani che hanno compilato l'application form. «Siamo molto soddisfatti dalla qualità delle candidature» commenta Angelo Formenti, employer branding manager di Bosch: «Purtroppo alcuni non hanno i requisiti base, penso sopratutto ai laureandi: per questo specifico programma di assunzioni possiamo infatti considerare solo chi è già in possesso di laurea magistrale. Inoltre è bene ricordare che vi è un limite anagrafico, posto dalla normativa sull'apprendistato, per cui alla data del 10 aprile bisognerà che i partecipanti non abbiano ancora compiuto 30 anni».Il graduate program si basa sulla collaborazione tra Bosch, Cefriel e il Politecnico di Milano: «Dopo una iniziale scrematura sulla base dei prerequisiti e un primo colloquio conoscitivo, che svolgiamo al telefono oppure via Skype, scegliamo la rosa di candidati da chiamare per gli assessment, i colloqui di gruppo: proprio ieri abbiamo fatto il primo, nella sede di Cernusco, e oggi ne faremo un altro a Milano».  Le selezioni si svolgeranno anche presso le sedi Bosch di Torino, Bergamo, Offanengo in provincia di Cremona, Udine, Bari e Modena ma anche in Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Lazio, Piemonte, Toscana e Marche, per dare a tutti l'opportunità di provarci.L'ultima prova di selezione sarà un hackathon, per testare le capacità informatiche, di programmazione e sviluppo software dei candidati. I 15 che arriveranno in fondo alla selezione saranno inizialmente assunti con un contratto di apprendistato di alta formazione di due anni, durante i quali frequenteranno un master esclusivo presso il Politecnico di Milano. «Durante il percorso formativo i neoassunti saranno impegnati per circa 50 giorni in aula» conferma Formenti «e per altri 50 giorni in un progetto Industry 4.0 ad hoc legato all'innovazione». Nello specifico qui si parla di digitalizzazione delle macchine, data mining (il processo di estrazione di conoscenza da banche dati di grandi dimensioni tramite l'applicazione  di algoritmi), IoT (acronimo di "Internet of things", neologismo riferito all'estensione di Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti: gli oggetti acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati e accedere ad informazioni aggregate - gli impianti di riscaldamento che interagiscono con clima esterno, per dirne una). «È previsto un periodo di formazione di sei mesi in Germania, a Blaichach, uno dei plant d'eccellenza per l'Industry 4.0 di Bosch» aggiunge Formenti. Blaichach è un sito produttivo; vi lavorano 3.400 persone e rappresenta la più importante realtà industriale dell'Allgäu, una regione situata nella parte meridionale della Germania, al confine con Austria e Svizzera. A Blaichach vengono prodotti sistemi elettronici di controllo dei freni (ABS e ESP), sistemi per veicoli ibridi, componenti della catena cinematica come la tecnologia di iniezione, turbocompressori e sensori di gestione del motore, sensori video, e le linee di produzione per la rete di produzione internazionale. Si tratta di uno stabilimento completamente proiettato verso l'innovazione e l'Industry 4.0, dove vengono costantemente sperimentati nuovi strumenti e modalità di lavoro.«Ai neoassunti questa esperienza internazionale permetterà di sviluppare soluzioni pratiche per migliorare le performance aziendali attraverso la digitalizzazione delle macchine e IoT» spiega Formenti: «Al termine del percorso, conosceranno in modo approfondito le realtà del gruppo Bosch e seguiranno progetti trasversali in ambito produttivo, commerciale entrando a far parte del team di riferimento per tutte le tematiche riguardanti l'Industry 4.0». C'è tempo fino a martedì 28 febbraio per provare a cogliere questa opportunità; l'ufficio HR di Bosch ha deciso di posticipare l'avvio dei contratti e dunque del master dal 20 marzo al 10 aprile, per avere più tempo per vagliare tutti i cv. «Un ultimo messaggio? Vorremmo sempre più giovani donne candidate, dunque il nostro appello alle ingegnere e alle matematiche è sicuramente quello di candidarsi!»Ci si candida al Bosch Industry 4.0 Talent Program attraverso il sito Bosch o utilizzando i canali partner di employer branding come Glickon. Chi ha i requisiti adatti si faccia sotto!

Donne e scienza, questione di fisica?

Un anno fa Fabiola Gianotti veniva nominata direttore generale del Cern, il più grande laboratorio mondiale di fisica delle particelle, diventando così la prima donna nella storia dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare ad assumerne la guida. Un motivo di orgoglio per il nostro paese, ma anche uno sprone per tutte quelle ragazze che temono di affrontare una carriera che statisticamente resta appannaggio maschile.La fisica è infatti una delle materie dell’area Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) dove si registra una maggiore difficoltà nel superamento del gap di genere. Secondo i dati dell’Anagrafe nazionale studenti (Ans), nell’anno accademico 2015/16 su 3.632 immatricolati alla classe di lauree in "Scienze e tecnologie fisiche" solo il 31% erano donne. Più o meno la stessa percentuale di dieci anni prima.Il divario si avverte profondamente anche nel mondo del lavoro. Secondo l’Unione europea la fisica è tra le discipline scientifiche con la più bassa rappresentatività di donne a tutti i livelli di carriera. Emblematico lo studio Careers in physics: which perspectives for women?, condotto nell’ambito del Progetto Genera (Gender Equality Network in the European Research Area). I primi risultati sono stati presentati lo scorso novembre in occasione del Gender Summit di Bruxelles da Sveva Avveduto, direttrice dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali  del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Fra i dati raccolti, spiccano quelli sui ricercatori in fisica del Cnr: solo il 32,3% sono donne. E più è alto il livello di carriera più la differenza aumenta.Per sensibilizzare le nuove generazioni sul tema il Cnr, insieme all’Istituto nazionale di fisica nucleare, ha recentemente bandito un concorso rivolto alle scuole superiori di II grado per la realizzazione di un elaborato dalla seguente traccia Donne e ricerca in fisica: stereotipi e pregiudizi. Il testo giudicato migliore sarà presentato nel maggio prossimo in occasione del Gender in Physics Day, sempre nell’ambito del Progetto Genera.Ma all’abbattimento degli stereotipi si può contribuire anche e soprattutto con l’esempio di donne che non si sono arrese ad essi. «Alla mia prima esperienza a colloquio, alla Deutsche Bank, mi dissero di no perché ero una donna, allora non assumevano donne», racconta alla Repubblica degli Stagisti Anna Sirica, direttore generale dell’Agenzia spaziale italiana, per intenderci l’equivalente italiano della Nasa. «Ho fatto una serie di domande da direttore generale» continua «e non sono stata presa perché ero donna. Ma non mi sono mai arresa».Nel 2002 le capitò sotto mano un bando di concorso dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, che allora stava nascendo. «Nonostante dovessi occuparmi di aspetti gestionali, fui interrogata da un astrofisico e da due commissari, e questo loro amore per una materia per me allora inavvicinabile - io odiavo la fisica - questa passione per la scienza, me la trasmisero tutta. Da quel momento mi sono studiata la fisica, l’astronomia, ho partecipato ad osservazioni in Arizona, alle Canarie. Poi sono passata alla fisica nucleare e infine allo spazio, e oggi seguo la nuova missione di Paolo Nespoli».Un incontro, quello di Anna Sirica con la fisica, avvenuto per caso dopo gli studi in Economia e commercio, ma che le ha cambiato la vita. Per questo oggi è convinta che le ragazze abbiano ottimi motivi per scegliere questa materia. «Qui secondo me c’è maggiore riduzione del divario di genere, ad esempio dal punto di vista dei salari. La donna riesce comunque ad arrivare a livelli apicali. Quello della fisica è un mercato molto competitivo e strategico per l’Italia, valuta quanto sei innovatore, al di là che tu sia uomo o donna». Il direttore generale Asi riporta l’esempio a lei più vicino: «In Agenzia la proporzione apicale è di un terzo: su circa 30 responsabili, 10 sono donne, in aree strategiche e tecnologiche non amministrative. E abbiamo aperto un asilo nido, forse primo caso in un ente pubblico, che consente alle donne di avere un ruolo anche apicale senza sacrificare la famiglia».Anche l’Istituto italiano di tecnologia  di Genova rappresenta un modello positivo di impegno concreto per il superamento del divario di genere in ambito scientifico. È infatti l’unico centro di ricerca ad avere introdotto, due anni fa, la regola dello  “Stop the clock for maternity”  (“Ferma l’orologio per la maternità”), considerata una best practice a livello internazionale. In sostanza i contratti a tempo determinato, subordinato o a progetto vengono prorogati per un periodo che pareggia la maternità, e la sospensione delle attività non impatta sul curriculum, perché è come se la carriera fosse “congelata”. Quella dell'Iit è stata la risposta italiana allo slogan “Freeze your eggs, free your career”, ("Congela i tuoi ovuli e libera la tua carriera") di Facebook ed Apple.«Dopo un paio di esperienze all’estero» racconta alla Repubblica degli Stagisti Greta Radaelli, 30 anni, ricercatrice e amministratore delegato della start up BeDimensional «ho avuto la fortuna di imbattermi nell’Istituto italiano di tecnologia, che dà la possibilità di budget competitivi in Europa e di mettersi in gioco su progetti industriali. Quindi da un lato di continuare a fare ricerca, dall’altro di affacciarsi a problematiche del mondo reale». Greta Radaelli è nel database online 100esperte.it, che ha raccolto i profili di 100 donne italiane esperte nell’area Stem, al fine di combattere il gender gap nei mezzi di informazione. La sua start up è nata in seno all'Iit per favorire l’introduzione nelle aziende manifatturiere del “materiale del futuro”, il grafene. Duplice la funzione di BeDimensional: da un lato produrre grafene e altri materiali bidimensionali; dall’altro sviluppare ricette che permettano alle aziende di sfruttarne le potenzialità, sia in sostituzione dei materiali standard sia in integrazione ad altri materiali. Tanti i possibili campi di applicazione del grafene, così come i vantaggi del suo utilizzo. Qualche esempio: integrato nella scocca di un casco, aumenta la resistenza agli urti, e quindi la sicurezza, nonché il comfort termico; usato nella soletta di una scarpa, le conferisce la capacità di dissipare il calore. Con il grafene si possono produrre “magliette intelligenti” in grado di monitorare il battito cardiaco. E ancora, a livello ambientale, lo speciale materiale può essere utilizzato per produrre del fotovoltaico semitrasparente e rendere le finestre conduttrici di energia elettrica pulita.Un mondo di potenzialità che presto potrebbero aver bisogno di nuove menti. «Oggi siamo in una fase di incubazione e resteremo nell’Iit ancora per un anno, ma quando entreremo sul mercato confidiamo di poter offrire nuove opportunità lavorative», conclude Greta Radaelli. Il suo auspicio è quello di poter restituire ad altri giovani quella fiducia che lei ha avuto la fortuna di ricevere e la capacità di meritare.Insomma, oggi le ragazze - al pari dei loro colleghi - hanno tutto l'interesse a formarsi nel campo della fisica, senza aver paura di sognare in grande. 

Bip, con l'exponential recruting per 15 neolaureati subito l'inserimento in azienda: “Fossero tutti così i colloqui...”

Metti una mattinata qualunque all'università, tra i banchi di un'aula: ma non per lezioni o esami, bensì un colloquio di lavoro. Con esito immediato: se piaci, arriva seduta stante una proposta di stage finalizzata all'assunzione. Succede a Tor Vergata, dove qualche giorno fa Bip, multinazionale della consulenza, membro del circolo virtuoso RdS, ha convocato una ventina di studenti – 15 ragazzi e 5 ragazze – per una giornata di exponential recruiting. Hanno tutti tra i 23 e i 27 anni, sono laureati da poco oppure a pochi esami dal traguardo.Un format innovativo che mette da parte i tradizionali metodi di reclutamento e consente a chi è nel ruolo di esaminare il candidato di «osservarlo nella versione migliore di se stesso» spiegano alla Repubblica degli Stagisti Angelo Proietti, partner di Bip e ideatore del format, e Alberto Gennari, founder e managing partner di WeOne, società specializzata in processi innovativi che ha messo a punto le metodologie dei laboratori collaborativi utilizzate da Bip. Entrambi hanno voluto seguire dal vivo la tappa romana, per poterla raccontare dall'interno. «A un certo punto mentre lavorano si dimenticano di essere valutati». Non è casuale: dietro c'è il metodo del cosiddetto design thinking, che fa sì che tutto il processo sia come «collegato da un filo rosso».Funziona così: Bip contatta l'ufficio placement di un ateneo (questa di Tor Vergata è la sesta edizione, in passato gli appuntamenti sono stati in altre città tra cui Palermo, Milano, Trento e Pavia). L'università si attiva e chiede a qualche professore delle facoltà interessate – in questo caso Economia e Matematica – di inviare una call ai migliori studenti, tra laureandi e laureati. C'è entusiasmo per questa iniziativa, una professoressa di tanto in tanto fa capolino in aula per controllare come stanno andando i suoi studenti. «Si crea un punto di contatto tra i career service e il mondo occupazionale, e loro ne sono contentissimi» conferma Gennari.«In tutto sono arrivati 45 curriculum» aggiunge Valeria Falconi delle risorse umane di Bip. «Li mandano direttamente a noi, in modo che non ci siano altri filtri» prosegue. «Lo screening si basa non tanto sul voto, quanto sul tempo che hanno impiegato per laurearsi, le esperienze all'estero, le competenze linguistiche». E a quel punto si apre la giornata, a cui invece di prendere parte solo gli addetti Hr, «partecipano anche i manager di linea, cioè quelli con cui i candidati si troveranno poi a lavorare». All'inzio non si sa quanti saranno presi: «Dipende» commenta Falconi: «Potenzialmente anche tutti, se ci colpissero tutti quanti». Bip è infatti in fase di espansione dell'organico e per il 2017 è prevista l'assunzione di 350 professionisti, di cui 150 tra neolaureati e laureandi.Dopo il benvenuto iniziale, si passa alla prima fase. Banditi i cellulari e altri mezzi digitali: le regole del gioco prevedono solo musica di sottofondo, cartoncini, pennarelli. Ragionamento puro senza fronzoli. C'è la presentazione dell'azienda da parte dei manager, e poi viene chiesto ai partecipanti di farlo a loro volta. «Un'inversione identitaria in cui smettono di essere studenti» chiarisce Proietti. «E già da lì si comincia a vedere chi è in grado di esporre con una certa autorevolezza». Segue la divisione in gruppi, per la risoluzione di un problema, che va successivamente esposta. «Si capiscono le capacità di presentare, di fare analisi, sintesi e formulare ipotesi» commenta. Ha appena finito di chiacchierare con i ragazzi, in gruppo. A loro è stato chiesto di esprimersi a ruota libera, senza una traccia precisa, sulla base di alcune cartoline con su scritto ognuna una frase diversa.Dopo la pausa la seconda parte. Adesso ai candidati viene chiesto di risolvere un caso pratico aziendale, e di sintizzare le idee per poi presentarlo. Intorno a loro è stato ricreato il sistema di lavoro aziendale reale Con il cronometro si calcola quanto manca alla fine dell'esercizio: finito il tempo, si confrontano a rotazione con i manager: spiegano – talvolta devono farlo anche in inglese – perché quella opzione, come superare quell'ostacolo, cosa dire al cliente. O quanto budget stanziare, «che è la parte dove i ragazzi di solito tentennano di più» confida Gennari.«Come si fa a ricordare i singoli profili?», chiede la Repubblica degli Stagisti. «Facciamo una foto a ognuno, che poi useremo per il finale, quando andremo a decidere» spiega Falconi. Dopo la pausa pranzo i manager e gli addetti HR si riuniranno infatti per mettere ai voti i candidati. Tutti avranno un feedback, anche solo tramite sms. Per Gennari «è una questione di rispetto: loro ci dedicano del tempo, e noi glielo dobbiamo anche per dare modo di riflettere su quello che eventualmente non è andato».A sei di loro, a fine giornata, viene chiesto di presentarsi per un secondo colloquio per confermare la propria idoneità alla posizione. È il caso di Federica, 23 anni, soltanto quattro esami dalla laurea specialistica in Economia. «Ci sarà una seconda convocazione» racconta alla Repubblica degli Stagisti. «Questo è stato il primo colloquio della mia vita e mi è piaciuto tanto perché è un ambiente informale. Sei in aula a lavorare con i tuoi compagni, non ti senti sotto pressione» ammette. «Fossero tutti così i colloqui...».Per nove di loro, invece, direttamente una lettera di proposta di inserimento in stage, che è poi quasi una garanzia di assunzione visto che Bip stabilizza più del 90% dei tirocinanti che inserisce. Domenico, laureato da due mesi in economia da 110 e lode, è tra questi: «Esperienza molto dinamica e stimolante, ma anche faticosa perché devi tenere alta la concentrazione per sei ore di seguito». E serve prepararsi prima: «Ho studiato sui business case di qualche libro». L'inizio è da subito, si dovrà solo decidere dove: «Vivo ad Avezzano, in Abruzzo. Ma la sede la potrò scegliere io». Adesso si aprirà per lui una nuova stagione come business analist. E poi, con tutta probabilità, un contratto a tempo indeterminato.Ilaria Mariotti

Bando agli stereotipi, con Bet she can si scommette sulle donne: fin da piccole

Investire sulle future generazioni e in particolare sulle bambine che diventano veicolo e centro del cambiamento: da qui parte la fondazione Bet She Can, (espressione inglese che vuol dire “scommetto che ce la fa!”) nata nel gennaio 2015 da un’intuizione di Marie Madeleine Gianni, 44 anni, oggi dirigente part time in una multinazionale italiana, con l’obiettivo di offrire a giovanissime gli strumenti per sviluppare la consapevolezza di se e delle proprie potenzialità.«Ho avuto la fortuna di vivere un’infanzia e un percorso professionale e personale da privilegiata, senza subire una serie di stereotipi e sovrastrutture, che hanno pesato meno rispetto ad altre coetanee sulla mia educazione. Ma, purtroppo, nelle nostre società occidentali ci sono ancora tante costrizioni per le bambine. E da qui è nato l’intento di ragionare in modo diverso dal solito concentrandosi sulle opportunità», spiega la presidente della Fondazione Gianni. Partire quindi con un approccio positivo e far crescere delle opportunità, altrimenti non prese in considerazione, proprio in una fascia di età in cui gli stereotipi non giocano ancora un ruolo predominante. «Tra gli otto e i dodici anni si può ancora agire in modo positivo e ottenere un cambiamento. Anche perché la fascia di età successiva, l’adolescenza, ha altre priorità e il dialogo con gli adulti diventa più complesso». Perciò la Fondazione ha scelto questo target, buttando un occhio a quello che succede all’estero. Se in Italia corsi di empowerment per donne non mancano ma sono principalmente dedicati alle giovani dai 16 anni in su, all’estero - in particolare in Canada e Stati Uniti - ci sono varie realtà che anticipano questo tipo di interventi.Al momento Bet she can offre vari progetti, in corso o in cerca di finanziamento, come la seconda edizione di “In viaggio con Rosetta”. «È un progetto che tocca il settore della robotica e dell’aeronautica e attraverso l’avventura della sonda Rosetta che va a raggiungere la sua cometa, le bambine svolgono dei laboratori di robotica e programmazione e dei workshop sui pianeti e le comete. Quindi nozioni base di astrofisica per avvicinarle a questi mestieri prettamente maschili». Oggi le donne rappresentano ancora solo circa il 10% degli ingegneri nell’industria aeronautica e aerospaziale. Un altro progetto che ha avuto molto successo è stato Cambiamo gioco, abbinato alla campagna «Barbie puoi essere tutto ciò che desideri» organizzato a Roma questa primavera con l’appoggio della Mattel, che lo aveva finanziato per diffondere il messaggio che la bambola «non sia tanto un recipiente di stereotipi ma un avatar che dà alle bambine la possibilità di sperimentare tutta una serie di opportunità di vita e di esperienze».La Fondazione ha una serie di progetti attivi, ma è sempre disponibile ad attivarne nuovi. «Prima li ideiamo e poi cerchiamo il finanziamento». Al momento sono tutti concentrati tra centro e nord Italia, ma solo perché ci sono poche risorse. «Mi piacerebbe svolgere i prossimi progetti al Sud, anche perché la portata della Fondazione è assolutamente nazionale. Purtroppo però non abbiamo una struttura fissa: sono la presidente ma faccio la dirigente in una multinazionale italiana, quindi la Fondazione è la mia passione ma posso seguirla nei ritagli di tempo. Trovare partner locali per strutturare un progetto prende molto tempo e al momento nessuna azienda del sud ci ha chiamato per realizzare qualcosa insieme. Ma siamo convinte che queste tematiche siano assolutamente trasversali, geograficamente ma anche culturalmente e in termini sociali e di religione».La Fondazione, poi, va oltre i corsi di empowerment. «Stiamo costruendo un database, raccogliendo i dati con dei questionari somministrati ai genitori, che a quell’età sono il punto di contatto delle bambine, per seguirle negli anni e vedere se rispetto alla media nazionale avranno strade diverse». Anche perché se vengono abbandonate e lasciate alla quotidianità ricca di stereotipi perderanno tutto ciò che hanno imparato. «Per questo sono importanti formule annuali come La Tribù. Di solito le bambine sono entusiaste, ma poi il corso finisce. La Tribù, invece, è ripetibile, con varie annualità, e superati i 12 anni si può anche diventare tutor delle bambine più piccole, dando continuità al percorso». Un modo per seguire queste giovanissime, pensando a tutte le difficoltà che a causa del loro genere saranno costrette ad affrontare: «Pensiamo che le iscritte al Politecnico di Milano ancora oggi sono il 10-20%: trovarsi in una classe di ingegneria meccanica dove si è l’unica ragazza è complicato, si vive una vita di minoranza. Ma se uno ha acquisito gli strumenti per affrontare al meglio queste difficoltà, allora sarà più semplice». Di strada, però, ce n’è ancora moltissima da fare. Basti pensare che nell’ultimo report del World economic forum sulla partecipazione delle donne alla vita sociale ed economica, il nostro Paese è 114esimo su 145. «Uno magari nella vita di tutti i giorni non se ne rende conto, ma questa è la realtà dei fatti».Bet she can è tra i pochi a prevedere percorsi di empowerment femminile per bambine così in tenera età. Ci sono però progetti simili realizzati per altre fasce di età. Per esempio il progetto La Nuvola Rosa, ideato da Microsoft Italia per sensibilizzare le studentesse tra i 17 e i 24 anni a colmare il divario di genere nella scienza, tecnologia e ricerca. Nel 2016, dopo le prime tre edizioni a Firenze, Roma e Milano, il progetto ha toccato il Sud, fermandosi a Bari, Napoli e Cagliari. In più di mille hanno potuto seguire dei corsi di formazione gratuiti, in ambiti molto tecnici, come il coding, per imparare basi di programmazione o sviluppare app o cloud computing.A giugno 2016 è partito il progetto biennale Women in Technology promosso dalla Fondazione Mondo Digitale con la Costa Crociere Foundation e dedicato a 150 studentesse tra Campania, Calabria e Sicilia per prevenire il fenomeno dei Neet e creare nuove opportunità di lavoro. In questo caso il progetto è applicato in tre istituti di istruzione secondaria superiore dove si svolgono una serie di attività che mirano a dare informazioni sulla redazione di un business plan e mentoring nello sviluppo del progetto. Con l’obiettivo di supportare i progetti imprenditoriali delle giovani donne nel settore delle tecnologie.Un altro programma tuttora in corso che cerca di aiutare le ragazze a raggiungere l’obiettivo della parità di genere nel mondo del lavoro – che secondo il World Economic Forum di questo passo non ci sarà prima di 100 anni – è Coding Girls. Promosso da Fondazione Mondo Digitale e dall’Ambasciata americana in Italia in collaborazione con Microsoft, cerca di raggiungere le pari opportunità nel settore scientifico e tecnologico. Destinatarie del programma sono mille studentesse di Milano, Napoli e Roma, suddivise in dodici scuole. Il progetto è partito nel 2014, durante il semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea e nel 2015 ha coinvolto 400 studentesse di sette scuole secondarie di Roma e Napoli.Progetti apparentemente diversi tra loro per target, struttura e finanziamenti, ma accomunati dall’obiettivo di dare fiducia alle donne, fin dalla tenera età, e convincerle che tutte le strade nella loro vita saranno possibili. «Più una persona cresce, più si accorge dell’importanza di questi temi», spiega Marie Gianni motivando il perché abbia deciso di dare vita a Bet she can. Perché solo con corsi di questo tipo si potrà cercare di ridurre veramente il divario tra donne e uomini e dare alle prime la possibilità di fare nella vita tutto quello che desiderano e per cui si sentono portate, semplicemente alla pari dei maschi.Marianna Lepore

Trasferte all'estero, nessun problema: per l'Inail gli stagisti sono uguali ai lavoratori

Secondo l’Inail «gli stagisti sono lavoratori». Con una interpretazione opposta a quanto di continuo ripetuto dalle istituzioni, cioè che lo stage non è un rapporto di lavoro, l’Inail, l'Istituto italiano per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, equipara  di fatto i tirocinante ai dipendenti. La Repubblica degli Stagisti lo ha scoperto, quasi per caso, contattando l’Inail per avere chiarimenti sulla copertura assicurativa delle trasferte all’estero nell’ambito di tirocini nazionali.«Per quanto riguarda la trasferta, intesa come mutamento temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione nell'interesse e su disposizione unilaterale del datore di lavoro e con previsione certa di rientro nella sede di lavoro di provenienza, il lavoratore inviato in qualsiasi paese estero rimane sempre assoggettato integralmente alla legislazione italiana» spiega Agatino Cariola, direttore centrale dell’Ufficio Rapporti internazionali e gestione prestazioni economiche Inail: «L’obbligo di comunicazione all’Inail, da parte del datore di lavoro, vige soltanto nel caso in cui il lavoratore venga esposto a rischi diversi da quelli per i quali è stato già assicurato presso l’Istituto». Alla richiesta della Repubblica degli Stagisti di specificare il trattamento del tirocinante, e non del lavoratore, dopo due mesi l’Istituto risponde così: «Per l’Inail lo stagista è un lavoratore, e come tale sottoposto alla disciplina di cui alla precedente risposta». Insomma, il tirocinante è equiparato al lavoratore a tutti gli effetti, quindi anche per le trasferte internazionali.Durante il periodo di tirocinio potrebbe infatti presentarsi l’opportunità di fare dei viaggi di lavoro, o anche una trasferta di un solo giorno. E, se l’azienda ospitante è una multinazionale o comunque è attiva sui mercati esteri, questi spostamenti potrebbero riguardare la visita di sedi aziendali in paesi stranieri oppure la partecipazione a eventi internazionali. Un’indubbia occasione di crescita e di confronto per chi si affaccia al mondo del lavoro nell’epoca globale. Ma questo tipo di esperienza è davvero consentita al tirocinante al pari di un lavoratore?Alla Repubblica degli Stagisti è giunta segnalazione, nei mesi scorsi, che alcuni enti promotori di tirocini in Lombardia vietano di mandare all’estero i propri stagisti. In particolare, le è presentato il caso di una società convenzionata, e quindi autorizzata alla promozione di stage, dalla Regione Lombardia. L’ente in questione aveva giustificato l’imposizione del divieto spiegando di aver contattato direttamente la Regione Lombardia per una delucidazione ufficiale, e di aver ricevuto conferma che uno stagista accolto presso un'impresa in Italia non può assolutamente svolgere nemmeno una piccolissima parte del proprio stage in terra straniera. La motivazione? Che il tirocinante, uscendo dai confini nazionali, non sarebbe più stato coperto in caso di incidenti. Eppure le trasferte all’estero sono consentite ad esempio dalle principali università milanesi. Ciò vuol dire che esse mettono a rischio i propri studenti? O... soggetto promotore che vai, regola che trovi?Sul sito ufficiale della Regione Lombardia nella sezione dedicata ai tirocini si legge: «Il soggetto promotore, o il soggetto ospitante se previsto dalla convenzione, è tenuto a garantire l’attivazione delle seguenti garanzie assicurative: assicurazione del tirocinante contro gli infortuni sul lavoro, presso l’Inail; assicurazione del tirocinante per la sua responsabilità civile verso i terzi durante lo svolgimento del tirocinio, con idonea compagnia assicuratrice. La copertura assicurativa deve comprendere anche eventuali attività svolte dal tirocinante al di fuori della sede ospitante». “Al di fuori” è un po' vago: al di fuori dalla sede, certo, ma anche della Provincia? della Regione? Dei confini nazionali?La Repubblica degli Stagisti ha chiesto conto alla Regione Lombardia della risposta data alla società convenzionata, interpellando la Direzione Generale Istruzione, Formazione e Lavoro. Il dirigente Alessandro Corno però smentisce tutto, negando che la Regione abbia mai vietato ai tirocinanti di effettuare trasferte all’estero: «In base alla normativa regionale vigente, la Regione Lombardia non dispone divieti circa la eventualità che la realizzazione del  tirocini possa svolgersi anche con attività  fuori sede, a condizione che vengano rispettate: le garanzie assicurative estese a tutte le attività rientranti nel progetto formativo; il tutoraggio; l'indennità di partecipazione; e la durata del tirocinio».Stessa risposta da parte dell’Afol Metropolitana, l'Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro di Milano. L'istruttore amministrativo Yeni Castaneda risponde così: «La trasferta breve all’estero, massimo una settimana, è consentita. Se la sede operativa viene spostata all’estero, allora il tirocinio non ha più validità. Il tirocinante deve essere accompagnato dal tutor o da un suo collega». Alla richiesta di un testo che lo formalizzi, la risposta è che si tratta di una «regola non scritta, che si è deciso di adottare per motivi assicurativi». Perchè proprio sette giorni, piuttosto che due o dieci? «Perché più il tempo di permanenza all'estero aumenta più aumentano i rischi», risponde Castaneda. La regola contrasta con quanto affermato dalla Regione, che non aveva parlato di limiti temporali. Come mai? «Le Afol Metropolitana dispongono di propri moduli per potere richiedere una eventuale trasferta all'estero da parte del tirocinante», è la risposta del dirigente Corno. Viene fuori quindi ancora una volta che in Italia basta spostarsi di ufficio... per trovare regole diverse.La Repubblica degli Stagisti ha condotto allora una piccola indagine fra gli atenei lombardi, per capire come si regolano nel caso in cui per i loro studenti si presenti l’opportunità di una trasferta all’estero. Ebbene, tutti confermano che la trasferta è consentita, se pur con condizioni che variano da un’università all’altra.«La nostra assicurazione come ateneo pubblico copre tutte le attività, comprese le trasferte all'estero», spiega alla Repubblica degli Stagisti Barbara Rosina, direttore del Cosp dell'università Statale di Milano: «La comunicazione di tali spostamenti deve essere inserita nel progetto formativo o, se essi subentrano in un secondo momento, basta inviare all'ateneo una mail precisa, che specifichi anche che il tirocinante è accompagnato da un tutor o che ne troverà uno nel luogo di destinazione». Ma difficilmente arrivano richieste di questo tipo: «I casi di trasferte all’estero nell’ambito di tirocini svolti in Italia sono molto rari, mentre capitano più di frequente stage interamente all’estero». Viene quindi da chiedersi se questa opportunità non venga davvero quasi mai sfruttata, magari per una questione economica, o se piuttosto lo step della richiesta di autorizzazione venga bypassato.Al Politecnico di Milano Cristina Perini, responsabile dell’ufficio Relazioni con i Media, conferma l’obbligo di comunicazione preventiva, che deve essere presentata dall’azienda con almeno 24 ore di anticipo all’Ateneo (Ufficio Career Service) via email, indicando il periodo di effettuazione della trasferta, le modalità di raggiungimento del luogo, le motivazioni e possibilmente anche l’accompagnatore. Qui emerge però anche una differenza di trattamento fra tirocinanti curriculari ed extracurriculari. «Lo studente o il laureato in trasferta in Europa risultano coperti dal Politecnico di Milano in termini di infortuni e responsabilità civile» puntualizza Perini: «Lo studente è coperto anche per trasferte extra-Europa, mentre il laureato in trasferta fuori dall’Europa perde la copertura per infortuni».All’università Cattolica funziona ancora diversamente. Qui i tirocinanti possono effettuare viaggi di lavoro all’estero anche da soli. Emanuela Gazzotti dell'ufficio stampa di ateneo – per conto dell’ufficio stage e placement – risponde infatti che «i tirocinanti sono obbligati a comunicare la trasferta ma non ad essere accompagnati dal tutor».E ancora, all'università di Brescia «i tirocinanti possono effettuare trasferte all'estero, ma sono tenuti a comunicare lo spostamento all'ateneo – spiega Elisa Fontana dell'ufficio stampa – e ad essere accompagnati da un tutor. La copertura assicurativa copre le trasferte sia nel paesi Ue che extra Ue, e senza differenze fra tirocinanti curriculari ed extracurriculari».Insomma: un tirocinante può effettuare una trasferta all’estero, a patto che il viaggio rientri nelle attività previste dal tirocinio, che l’azienda ospitante ne dia preventiva comunicazione al soggetto promotore, e che – a parte qualche eccezione – lo stagista sia accompagnato dal proprio tutor. Perché per l'Inail, a livello di assicurazione contro gli infortuni, la trasferta fuori Italia di uno stagista è esattamente identica alla trasferta di un lavoratore.Rossella Nocca    

"Stagisti Anonimi", al via gli incontri riservati per confrontarsi dal vivo

A volte – o per meglio dire, quasi sempre – quando si muovono i primi passi nel mondo del lavoro, ci si sente soli. I punti di riferimento sono pochi, instabili, spesso lontani. A chi confidare un problema senza mettere in pericolo la propria situazione professionale? Come risolvere un intoppo burocratico, o verificare il rispetto dei propri diritti? In che modo capire se la situazione che si sta vivendo è insolita, o se già altri ci sono passati? Noi con la Repubblica degli Stagisti ci muoviamo da molti anni su questo fronte, offrendo attraverso il sito un luogo di informazione, confronto, supporto. Il nostro Forum è uno spazio aperto e molto frequentato da tantissimi ragazzi che lo usano per condividere le proprie esperienze e cercare consigli.Ma a volte un sito non basta. Scrivere da casa propria, poter raccontare i propri dubbi attraverso una tastiera, ha certamente il vantaggio di potersi esprimere in anonimato, accedere a informazioni e supporto da luoghi remoti. Ma per quanto viviamo immersi nella società dei social network – e consideriamo ormai sempre più normale leggere i giornali online, coltivare rapporti di amicizia online, fare shopping online, corteggiarci online! – c'è comunque quel piccolo particolare che siamo animali sociali. Che la nostra vita acquista senso grazie ai rapporti umani offline che stabiliamo.Per questo come Repubblica degli Stagisti abbiamo spesso accettato e continuiamo ad accettare gli inviti di scuole e università, non solo per tenere workshop e seminari ma anche per fornire un "punto di incontro" e di ascolto in occasione di career day ed eventi speciali. Ma fino ad ora non ci eravamo mai spinti a organizzare noi stessi incontri di questo tipo. Adesso ne sentiamo l'urgenza: riteniamo che sia indispensabile creare delle occasioni di incontro faccia - a - faccia con i nostri lettori.Abbiamo dunque deciso di organizzare “Stagisti Anonimi”, una serie di incontri informali per dare la possibilità a piccoli gruppi di nostri lettori di venire a conoscerci, confrontarsi con noi, raccontarci le loro esperienze, condividere dubbi e riflessioni. Guardandoci negli occhi. Una delle particolarità degli incontri sarà la riservatezza: chi verrà a raccontare il suo problema avrà la garanzia non solo dell'anonimato ma anche della discrezione sui contenuti emersi.Il debutto di “Stagisti Anonimi” sarà a Milano mercoledì 1 febbraio, dalle 18:30 alle 20, nella sede della testata giornalistica online Linkiesta in via G. B. Morgagni n° 6; l'accesso sarà naturalmente libero e gratuito, ma solo per i primi 15 che si iscriveranno attraverso questo form. Ciascuno dei partecipanti avrà a disposizione un suo momento (all'incirca 5 minuti) per la sua riflessione, testimonianza o domanda; e oltre alle risposte di Eleonora Voltolina, fondatrice e direttrice della Repubblica degli Stagisti, ci sarà anche la possibilità di confrontarsi in maniera orizzontale, condividendo esperienze e consigli con gli altri. Vi aspettiamo.

Tasse in calo per gli studenti universitari, ma restano grandi differenze tra Nord e Sud

Quanto costa andare all’università? In tempi di crisi economica per le famiglie diventa sempre più difficile sostenere le spese necessarie per mantenere uno o più figli all’università. E allora l’indagine dell’Osservatorio Nazionale Federconsumatori sui costi degli atenei pubblici italiani torna utile per capire dove orientarsi e soprattutto quali differenze ci sono lungo lo Stivale. In linea generale, le tasse universitarie portano via da 158 a 3.890 euro, a seconda di quale ateneo si scelga e soprattutto di quale sia il reddito dello studente (o della sua famiglia) e il conseguente inserimento nelle fasce Isee che vanno dalla più bassa, fino a 6mila euro, alla più alta, oltre i 30mila.La ricerca, pubblicata un paio di mesi fa, ha cercato di dare un quadro il più possibile completo suddividendo l’Italia in tre macroaree geografiche e poi esaminando per ciascuna di queste le tre regioni con il maggior numero di studenti: Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia. In ognuna di queste regioni sono state considerate due università, scelte in base alla grandezza, e di cui sono stati analizzati gli importi previsti per cinque fasce di reddito Isee.I dati raccolti raccontano quello che sarebbe facile dedurre, ovvero che gli atenei del Nord sono più cari rispetto a quelli del Sud con una differenza particolarmente accentuata per le fasce medio basse. Uno studente di prima fascia, quindi fino a 6mila euro di reddito, in Veneto paga in media 624 euro contro i 456 del suo omologo a Palermo, con una differenza del 27% che sale ulteriormente se si prendono in considerazione le singole università di Verona e Palermo.La differenza Nord - Sud è costante: l'importo medio per gli appartenenti alla prima fascia, infatti, è negli atenei settentrionali oltre l'8% più alto di quello applicato nel Mezzogiorno. Ma, un po’ a sorpresa, le rette più basse sono richieste dalle università del centro Italia che, ad esempio nel caso della prima fascia di reddito, chiedono circa la metà delle somme previste negli atenei del nord.Come si spiega questo grande divario? È dovuto principalmente alle importanti modifiche introdotte nei sistemi di calcolo delle tasse, in particolare nelle università dell’Emilia Romagna, dove sono state inserite agevolazioni economiche per le prime tre fasce di reddito. Specie  nell’università di Parma, tra le due prese in considerazione nella regione, si è passati da sei fasce contributive dell’anno accademico precedente alle 24 di quello attuale e gli studenti con un Isee inferiore ai 23mila euro sono stati esentati totalmente dal pagamento di tasse e contributi universitari. Quindi chi rientra in questa categoria deve versare solo la tassa regionale. Ecco spiegato perché quest’ateneo che nell’anno accademico 2015-2016 aveva ottenuto il primato di più caro tra quelli presi in considerazione, quest’anno è, invece, con la sua media dai 158 ai 1600 euro, tra quelli con rette più basse.Se poi lo studente preferirà una facoltà scientifica piuttosto che una umanistica, allora dovrà mettere in conto di spendere, almeno per alcune università, un po’ di più. Per quanto riguarda la prima fascia di reddito, infatti, si vanno dai circa 80 e 70 euro in più per gli atenei del Salento e la Federico II di Napoli ai poco più di 30 de La Sapienza di Roma, con un aumento che va dai tre ai sette punti percentuali.In questo quadro c’è una buona notizia che val la pena ricordare: rispetto agli importi delle tasse del 2015, nell’anno accademico iniziato ci sono state delle diminuzioni tra il 4 e il 14% per le prime quattro fasce di reddito, con il picco della più alta riduzione per gli appartenenti alla terza fascia, cioè quella con un Isee tra i 10 e i 20mila euro. Diminuzioni che però, comunque, difficilmente arrivano davvero a fare la differenza, e aiutare le famiglie che in tempi di crisi devono affrontare lo sforzo economico di pagare gli studi dei figli.Anche il report ci tiene a sottolineare che nonostante tutto le rette restano alte e, soprattutto, che il metodo di calcolo degli importi in base al reddito non risolve i problemi connessi all’evasione fiscale. Motivo per cui il figlio di un evasore riuscirà ad usufruire di agevolazioni e rette più basse, pur non avendone bisogno, a differenza del figlio di un operaio che potrebbe trovarsi a pagare di più. E come se non bastasse riuscirebbe difficilmente a conciliare un eventuale lavoro con la frequenza universitaria. L’ultimo rapporto Istat sugli studenti universitari pubblicato mostra, infatti, come negli ultimi dieci anni (dal 2005 al 2015) sia dimezzato il numero degli studenti lavoratori che, l’anno scorso, erano appena il 2% del totale.Un quadro, quindi, solo parzialmente positivo. Perché poi alle cifre delle tasse universitarie vanno aggiunti i libri di testo e, nel caso dei fuorisede, anche tutte le altre spese necessarie per vivere lontano da casa. Costi che Federconsumatori aveva analizzato durante lo scorso anno accademico, in un rapporto in cui definiva “esorbitanti” le spese sostenute dalle famiglie dei circa 600mila studenti fuorisede. Obbligati a pagare tra gli 8mila e gli oltre 9.600 euro annui per coprire tutte le spese di vita lontano da casa.Tempi, quindi, un po’ duri per le famiglie che devono mantenere i figli all’università. Se, da una parte, possono festeggiare una parziale riduzione delle tasse, dall’altra devono affrontare i costi comunque alti per gli studenti fuorisede oltre, poi, a confrontarsi con un mondo del lavoro che non sempre è pronto ad accogliere e quindi a mettere effettivamente a frutto gli anni di studio universitario.A questo punto, però, non può mancare un confronto con l’estero, anche questa volta abbastanza deludente per il nostro Paese. I dati arrivano dal National student fee and support systems in European higher education 2016/2017  di Eurydice, la rete che raccoglie, aggiorna e diffonde informazioni sulle politiche e l’organizzazione dei sistemi educativi europei. Il rapporto offre una panoramica comparativa delle tasse e dei sistemi di sostegno per gli studenti nei 33 paesi che fanno parte della rete Eurydice. Ed evidenzia come l’Italia sia tra i paesi in cui meno di un terzo degli studenti ottiene borse di studio, elemento che sommato alle alte tasse universitarie rende i giovani totalmente dipendenti dall’aiuto economico familiare. Meglio di noi fa la Spagna, con quasi il 29% di studenti beneficiari di borse di studio, e decisamente meglio Germania, Danimarca e Svezia dove non sono previste tasse e le borse di studio arrivano a coprire, come nel caso svedese, quasi nove studenti su dieci.Marianna Lepore

Garanzia Giovani, troppi tirocini e pochi sbocchi professionali: più della metà si ritrova al punto di partenza

I Neet sono oggi in Italia 2 milioni e 279mila. Quando partì Garanzia Giovani «erano 2 milioni e 250mila, quindi 20mila in più». A fornire il dato è Andrea Brunetti, responsabile Politiche giovanili del principale sindacato italiano, la Cgil [nella foto sotto], a un incontro convocato appena prima di Natale per riflettere sui tirocini in Italia e in Europa e il futuro di Garanzia giovani. Presenti tanti esperti del mondo del lavoro: da Corrado Brachetti, coordinatore del mercato del lavoro della Cgil, a Cesare Damiano, già ministro del lavoro e oggi presidente della commissione Lavoro alla Camera; e poi Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti, Anna Teselli, ricercatrice della Fondazione Di Vittorio, Diego Ciulli, policy manager di Google, e Claudio Treves del Nidil Cgil, solo per citarne alcuni. Obiettivo: interrogarsi su cosa di questo programma abbia, o non abbia, funzionato. Perché è evidente che se dopo un tirocinio svolto nell'ambito di Garanzia Giovani più della metà dei partecipanti si ritrova allo stesso punto di partenza (come rilevato da un questionario promosso dalla Cgil su un campione casuale di quasi mille persone, presentato all'evento) forse l'obiettivo non è stato proprio centrato.«Il quadro sarà più chiaro a marzo» riflette Gianna Gilardi, sindacalista, alludendo a una nuova indagine conoscitiva ufficiale sul programma che partirà a gennaio. Ma le fila si possono tirare sin da ora. «I mesi di tirocinio dei partecipanti non ne hanno cambiato la posizione, e ce li ritroveremo in carico nel nuovo programma». A tutte le perplessità sulla gestione del programma europeo dedicato ai Neet se ne aggiunge un'altra: e cioè che lo stage sia lo strumento su cui puntare tutto, come finora è stato. Il 'peso' dei tirocini nell'ambito del programma lo dà la percentuale di utilizzo, che è del 73% in media, secondo i dati Isfol di cui ha parlato la ricercatrice Giovanna Infante, con picchi «dell'88% nel Lazio».I risultati dell'indagine presentati da Brunetti la dicono lunga: per il 35% è stata l'unica proposta arrivata dall'ente incaricato della presa in carico, oppure la «scelta migliore» per il 31% degli intervistati, nei casi in cui con tutta probabilità l'alternativa non era un posto di lavoro ma un corso di formazione. La stragrande maggioranza finisce insomma in un percorso di tirocinio dopo l'iscrizione. E dopo cosa succede? Gli assunti con contratto a tempo determinato o indeterminato sono circa uno su dieci (secondo i dati Isfol invece chi trova un'occupazione dopo quattro mesi è un più soddisfacente 37%). Quasi il 60% resta disoccupato, oppure – in piccolissima parte – ha iniziato un nuovo stage. Chi insomma ha beneficiato in modo concreto di Garanzia Giovani, o trovando un impiego direttamente nell'azienda che lo ha ospitato o contando sulle competenze acquisite tramite quell'esperienza, supera di poco il dieci per cento.Ma almeno si sarà trattato di buona formazione? Niente affatto: per oltre la metà lo stage è stato vero e proprio lavoro mascherato, e solo per un ristretto 30% ha rappresentato una buona occasione di crescita professionale. Dunque bisogna lavorare anche sulla qualità dei tirocini, come ha ricordato Voltolina [nella foto a sinistra]. «Sul nostro forum non sono pochi gli interventi di chi racconta che sta facendo il tirocinio come cassiere in un supermercato». Se «utilizziamo fondi pubblici per regalare a un supermercato un addetto in più stiamo facendo una cosa contraria rispetto all'obiettivo di Garanzia Giovani». Quando è stato fatto presente, sottolinea, «Grazia Strano, direttore generale dei sistemi informativi del ministero del Lavoro, ha ammesso che non si fanno controlli a monte sulla qualità dei tirocini in Garanzia Giovani».  L'altro grande problema resta, come osserva Damiano [nella foto sotto], «la mancanza di continuità: non basta il contatto tramite lo stage». Naturale che quei giovani resteranno «delusi e distanti dalle istituzioni», se conclusa l'esperienza «quella porta viene subito richiusa». O meglio, «si apre un po' e poi la si richiude subito» come aggiunge Anna Teselli, che sul tema dell'efficacia dello stage ha da poco pubblicato il volume Formazione professionale e politiche attive del lavoro (Carocci editore). Non è detto che il tirocinio non possa valere come misura temporanea, ma per evitare che presti il fianco a distorsioni «deve essere utilizzato in tempi strettissimi». Questa tipologia di inquadramento deve valere come «l'anello di una catena». Sono tre i contratti attorno a cui si gioca la partita dopo lo stage: «altro tirocinio, una collaborazione, oppure l'apprendistato». Se nei 36 mesi non arriva il consolidamento però, «si è espulsi dalla carriera».In sostanza il tirocinio va ripensato come misura di politica attiva – specie in Garanzia giovani – perché nel 40% dei casi «chi partecipa non accede poi al mercato del lavoro dipendente». Treves propone anche un ripensamento dei criteri di profilazione, «rivedendoli attraverso una operazione di trasparenza che tenga conto delle prospettive economiche del territorio di riferimento». Senza sottovalutare l'aspetto da sempre troppo trascurato, che è il matching delle aziende con i candidati giusti.Lo ha ricordato Ciulli, responsabile di un progetto speciale all'interno di Garanzia Giovani, Crescere in digitale, che a differenza di quello generale non passa per le regioni. Crescere in digitale, gestito da Google in collaborazione con Unioncamere, organizza formazione e tirocini in ambito digital allocando ragazzi in aziende che hanno bisogno di aggiornarsi sulle nuove tecnologie. «Facciamo due call, una ai ragazzi interessati e una alle imprese, di cui molte sono nostri clienti». Ma queste «faticano a trovare ragazzi con le competenze giuste». Se non si interverrà eliminando le storture del mercato di oggi «pagheranno i nostri figli, cui si rischia di consegnare un futuro che tale non ha diritto di definirsi» paventa Brachetti. Assicura che il sindacato non si arroccherà in difesa: «è pronto a fare la sua parte». Ilaria Mariotti 

Miglior stagista dell'anno, quest'anno Bip premia i due assunti più giovani

Presto e bene. Iscriversi all'università giusta, macinare esami con buona lena, buttarsi in un'esperienza “on the job” ancor prima di essersi laureati. Fare uno stage mentre si scrive la tesi: doppio impegno, doppia energia. E a volte anche doppia ricompensa. Come è accaduto a Alia Falcone e Alberto Bruschi, che insieme non fanno mezzo secolo, e che hanno firmato un contratto a tempo indeterminato prima ancora di finire l'università. Ad assumerli è stata Bip, società di consulenza tra le aziende virtuose del network della Repubblica degli Stagisti, con tanto di Bollino OK Stage e di AwaRdS 2016 per il miglior tasso di trasformazione di stage in contratti (oltre il 90%!). L'altra sera, all'Alcatraz di Milano, alla convention annuale di Bip sono stati premiati come “migliori stagisti dell'anno”, scelti proprio con il criterio dei due più giovani assunti del 2016.«La consulenza è un mondo che mi ha subito affascinato» racconta il 24enne Alberto alla Repubblica degli Stagisti: «Fin dai primi anni di università lo sentivo come uno strumento per riconoscere e applicare i modelli teorici che stavo studiando a realtà sempre diverse, adattando e perfezionando via via le mie conoscenze». Originario di San Donato Milanese, attualmente iscritto alla facoltà di Ingegneria gestionale presso il  Politecnico di Milano – se tutto va secondo i piani, si laureerà nella primavera del 2017 – Alberto è entrato in Bip a marzo di quest'anno e, in pochi mesi, da stagista si è ritrovato assunto a tempo indeterminato. Un'esperienza che si sta rivelando strategica anche per la stesura della sua tesi di laurea: «Lo stage in Bip mi ha offerto un'opportunità molto interessante: lavorare su un progetto Six Sigma, uno dei temi che più mi avevano interessato in università. La tesi è venuta di conseguenza!»«Il mio percorso di ingresso nel mondo del lavoro è stato più "veloce" rispetto a quello dei miei compagni di corso» riflette Alia: «Molti miei amici stanno ancora aspettando risposte dalle aziende a cui hanno mandato cv o con cui hanno fatto colloqui, mentre altri sono ancora in stage». In tempi di disoccupazione giovanile al 40%, non capita spesso di firmare un contratto così a 23 anni, e la prima ad esserne stupita è proprio la diretta interessata: «Sicuramente non me lo sarei mai aspettato» confessa «ma è una sensazione “liberatoria”. So di poter crescere, senza dovermi preoccupare di altro».Originaria di Taranto, laureata in Management alla Bocconi giusto giusto tre giorni prima della convention in cui ha ricevuto il premio [nella foto qui a fianco, il momento della consegna della targa con Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti, e Costanza Ramorino, vicepresidente di ValoreD], Alia considera il suo incontro con Bip una fortunata «opportunità. Mi ha inserita nel mondo del lavoro e mi fa crescere ogni giorno, mettendo a frutto quanto appreso in università». Oggi lavora in un team che si occupa di governante e PMO lato technology. La sua giornata tipo inizia alle 9: «generalmente ci si prende un caffè tutti insieme e poi si parte. Mi piace fare una lista delle attività delle attività da completare, così da non perdermi nulla e organizzare il mio tempo. Tipicamente si lavora a stretto contatto non solo all’interno del team, ma anche con i clienti. Gli imprevisti non mancano mai, ma è anche il bello della nostra attività».«Per me Bip rappresenta un modello di azienda per la quale sono orgoglioso di lavorare e alla quale voglio contribuire» aggiunge Alberto: «dal punto di vista professionale ha espresso fiducia anche nei confronti del più giovane arrivato, offrendomi attività stimolanti e la giusta autonomia. Dal punto di vista umano, pur crescendo molto e arrivando di fatto a affiancare come dimensioni in Italia le multinazionali anglosassoni della consulenza, Bip è riuscita a rimanere un ambiente più informale, con un'organizzazione di fatto orizzontale, molta collaborazione e attenzione alla crescita dei più giovani».Sia Alia sia Alberto non erano al primo stage. «Io ne avevo già svolto uno durante la triennale» ricorda Alia: «Nell’ambito di un progetto con l’università, che si intitolava “Dai un senso al tuo profitto”, avevo passato tre mesi in una cooperativa sociale, Dimensione Lavoro, che in provincia di Milano occupa persone con disabilità fisiche o mentali o con vissuti di emarginazione alle spalle». Un'esperienza lontana dal suo lavoro attuale, ma certamente molto formativa dal punto di vista umano.Più vicina alla consulenza, invece, la precedente esperienza di Alberto: «A 18 anni avevo passato un'estate presso una allora piccola società di consulenza in ambito farmaceutico a Boston» aggiunge Alberto: «Studiavo ancora al liceo, quindi il mio contributo all'azienda si limitava a curare i database e altro back office. Il vero contributo l'ho dato alla mia crescita: è stato il mio primo contatto "in solitaria" con una realtà estera e di convivenza quotidiana con ragazzi di altra nazionalità, da cui ho tratto molto».Su una cosa Alia e Alberto concordano: nel mondo del lavoro è meglio entrare con determinazione, senza paranoie. «Il consiglio che darei ai miei coetanei? Di non farsi scoraggiare dai primi no e di cercare un lavoro che consenta di continuare ad imparare» dice Alia. «Per prima cosa di non farsi prendere da ansia e paura durante la ricerca: a volte tutto quello che serve è tenere gli occhi aperti alle occasioni che ci si aprono davanti» aggiunge Alberto: «E poi seguire le proprie passioni, che a volte sono la chiave per conquistarsi una competenza particolare: io devo molto al fatto di aver coltivato il mio interesse per la statistica, che ora è parte importante della mia tesi e di alcune attività sul lavoro». Parola di stagisti dell'anno Bip!

Idee, proposte, analisi degli italiani “fuori dai piedi”: metti una sera al Meetalents a Bruxelles

«Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dov'è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi», la frase pronunciata qualche giorno fa dal ministro del lavoro Giuliano Poletti si cala nel dibattito molto acceso negli ultimi anni su quanti, per un motivo o per un altro, scelgono o subiscono un lavoro all'estero. Tematiche che di recente sono state al centro del MeeTalents 2016, l’appuntamento annuale organizzato da Italents, associazione che dal 2011 svolge attività per la promozione dei talenti entro e fuori i confini nazionali (a proposito: Italents ha pubblicato la lettera aperta di risposta di una expat al ministro Poletti, e ha lanciato una call dando la disponibilità a pubblicare altre risposta di expat!). L'evento si è aperto con un video “sempreverde” in cui Renzo Piano, architetto e senatore a vita, dice una cosa molto diversa dal ministro Poletti: «Secondo me i giovani devono partire, devono andare via per curiosità, non per disperazione. E poi devono tornare. Devono andare per capire com’è il resto del mondo, ma anche una cosa più importante: capire se stessi». Quest'anno il MeeTalents è stato organizzato per la prima volta fuori dall’Italia, a Bruxelles, un luogo che Eleonora Voltolina presidente di Italents dal 2016 definisce «città più rappresentativa per gli expat italiani», visto che proprio qui vivono molti nostri connazionali e qui passano, per un periodo più o meno lungo, tantissimi giovani impiegati negli stage presso le tante istituzioni europee.La serata si è aperta sul tema dell’importanza di continuare a incidere sulle politiche italiane pur vivendo all’estero, con un panel moderato dal giornalista Roberto Bonzio che, prima di introdurre Francesco Cerasani, segretario PD Bruxelles, ha voluto raccontare la sua storia di rinascita. «Dopo 30 anni in redazione ho deciso di fare un investimento per la famiglia e i ragazzi e sono andato sei mesi in Silicon Valley». Un’esperienza che cambia la sua vita e gli fa scoprire due tratti caratteristici del talento italiano, che portano a sperperarlo: «La capacità di affrontare la complessità del mondo ma anche l’incapacità di fare squadra e l’invidia che ci fa giorire della sconfitta altrui». Da tutto questo Bonzio ha costruito un progetto multimediale, Italiani di Frontiera, in cui ancora oggi continua a raccontare la storia di italiani capaci di fare nuove imprese.Tra i primi relatori a parlare, Cerasani sottolinea l’importanza di «investire a livello politico su questa comunità di nuovi migranti». E soprattutto sulla «necessità di fare rete, di incidere e fare politica dentro le amministrazioni politiche di riferimento e di comprendere realmente cos’è la cittadinanza europea». Senza dimenticare quella di provenienza, però, e ricordandosi di esercitare il proprio diritto al voto: dal 2001 infatti i residenti all'estero possono eleggere i propri rappresentanti in una apposita circoscrizione. Ma è altrettanto importante fare vita politica attiva, come dice Gianluca Cerri, del MeetUp Movimento 5 stelle Bruxelles, che emigrato in «età avanzata» è riuscito a dare una svolta alla sua vita. «Dall’estero ho avuto la possibilità di ricostruirla. E di continuare l’attività politica iniziata in Toscana».Fare politica ma anche, e soprattutto, fare rete. Un concetto sottolineato da Maria Chiara Prodi, presidente della VII Commissione “Nuove migrazioni e generazioni nuove” del Consiglio generale italiani all’estero, l’organo consulente del governo e parlamento sui temi di interesse per chi non vive più nel nostro Paese. «La nostra emigrazione, oggi, è individuale ma è importante riunirsi» ha detto Prodi, ricordando come il crescente individualismo degli emigranti abbia portato sempre più italiani residenti all’estero a non iscriversi all’Aire. «E invece è importante abbandonare l’ottica pietista del cervello in fuga e pensare che se non ci si iscrive si sprecano risorse: solo per fare un esempio, circa 2mila euro l’anno alla voce sistema sanitario».Fare rete, dunque, tra quanti vivono all’estero anche per rendere più semplice la fase di integrazione nel nuovo contesto sociale. È il lavoro che fa anche la Comune del Belgio, un’associazione che in un’ottica di mutuo soccorso mette insieme tutta una serie di conoscenze che possono aiutare chi arriva dall’Italia. Anche perché, ci tiene a sottolineare Pietro Lunetta – da sei anni a Bruxelles «nonostante fossi tra quelli che non volevano partire dall’Italia» – se «negli anni ’70 la rappresentazione all’estero era più forte, ora lo è di meno e questo comporta una debolezza estrema nella fase di integrazione». Soprattutto se si considera che moltissimi tra gli espatriati hanno un profilo professionale non qualificato e quindi ancora più difficoltà a integrarsi nel nuovo contesto. Tra gli altri intervenuti al primo panel anche Alessandro Facchin, responsabile del comitato giovani nuove emigrazioni dell’associazione Trevisani nel Mondo, che oggi conta 10mila iscritti e cerca di mantenere un rapporto tra quanti già sono emigrati all’estero e quanti invece oggi vogliono emigrare. Anche se non è facile perché «abbiamo a che fare con chi è emigrato di recente come con quelli ormai di quarta o quinta generazione». A chiudere il primo panel, la ricercatrice Ilaria Maselli illustra il progetto “I vote where I live campaign” che cerca di convincere gli italiani da tempo residenti all’estero a partecipare attivamente alla vita politica anche attraverso il voto alle elezioni comunali nel Paese che li ha accolti.Il secondo panel è stato invece dedicato alla circolazione dei talenti e a coloro che decidono di tornare in Italia. Qui ci si è soffermati sulla percentuale, altissima, di giovani convinti che per realizzarsi sia necessario andare all’estero. Situazione che ha favorito lo sviluppo di progetti come Eures o Erasmus, e la nuova idea di servizio civile europeo avanzato, come ha raccontato Federico Pancaldi, Policy officer alla DG occupazione Commissione europea. La storia di emigrazione di Pancaldi è cominciata già a 16 anni con un viaggio con Intercultura; oggi lui è più che mai convinto che «l’Europa non può parlare di brain drain, perché in realtà quello che noi facciamo è facilitare le opportunità degli individui di andare a cercarsi un futuro in un altro Paese».Futuro cercato non solo dai giovani ma anche dagli imprenditori. Matteo Lazzarini, segretario generale della Camera di Commercio belgo italiana, racconta infatti la storia degli imprenditori espatriati e delle difficoltà che incontrano nel continuare ad avere rapporti con l’Italia vista, ad esempio, l’impossibilità di partecipare a molti bandi pubblici a causa di requisiti prettamente italiani. Ma alla Camera di commercio non vanno solo imprenditori, anche giovani appena emigrati che non sanno bene come cercare un lavoro. A loro è stato dedicato un nuovo sportello unico che prenderà il via nel 2017.Emigrazione che spesso parte dal sud Italia: un dato che Bruno Cortese, funzionario della Regione Siciliana Bruxelles ricorda correlato alla percentuale di rischio povertà che se nella media italiana è del 18% al Sud sale fino al 39. Numeri «umilianti ed allarmanti».E se emigrare non sempre significa rimanere all’estero, c’è però una soglia critica  – citata da Paolo Balduzzi, professore di scienza delle finanze alla Cattolica di Milano e segretario di Italents – oltre la quale è molto difficile si torni indietro. Sono i tre anni: se si sta fuori dall'Italia olltre quella soglia, è probabile che si resti stabilmente lontano da casa. Ma come facilitare il  rientro? In Italia nel 2010 è stata approvata la legge Controesodo, che ha introdotto incentivi fiscali molto vantaggiosi per rientrare, aperti agli italiani laureati che avessero un'esperienza di almeno due anni all'estero.. Tra chi ha scelto di usufruire della legge anche Cecilia Gozzoli, membro del gruppo informale Controesodo che racconta come la sua scelta di tornare fosse stata presa con un obiettivo “controcorrente”: far nascere i suoi figli in Italia. Gozzoli sottolinea che «l’incentivo aiuta, ma non è il driver principale: i motivi personali determinano la scelta di ciascuno». Oggi, dall’interno del gruppo Controesodo, Cecilia si batte perché questa misura da temporanea diventi un po’ più programmatica in modo da consentire a tanti come lei di decidere con calma se e quando tornare.Nell’ultimo dibattito, moderato da Eleonora Voltolina, è stato affrontato un altro tassello, forse il più importante: quello inerente al mercato del lavoro. Partendo innanzitutto dai dati dell’ultimo Rapporto Giovani illustrati da Alessandro Rosina, responsabile del rapporto e professore di demografia all’università Cattolica nonché ex presidente di Italents. L’indagine, partita nel 2012 in Italia, è stata estesa dall’anno scorso in tutta Europa con l’obiettivo di capire quale idea abbiano i giovani proprio dell’Ue. E così si scopre che, un po’ a sorpresa visti i tempi, «hanno la consapevolezza che è meglio essere uniti piuttosto che tanti Paesi in ordine sparso». Questo nonostante la libera circolazione e la moneta unica non siano stati vissuti come veri vantaggi. Cosa vorrebbero quindi i giovani? «Una politica sociale comune, intesa come lavoro e welfare».Ma oggi l’Europa fa fatica proprio sulla politica sociale, evidenzia Brando Benifei, europarlamentare PD e grande sostenitore del Meetalents 2016, che sottolinea come nell’attuale Europa a 28, molto eterogea, sia più difficile rispetto al passato trovare un unico sistema comune. «Proprio per questo serve un’Europa più avanzata, anche sul tema delle pensioni, visto che oggi si rischia che chi lavora in vari paesi europei perda i contributi accumulati in diversi luoghi. Senza dimenticare che anche il riconoscimento dei titoli non è automatico».Proprio sul tema dei diritti sociali è Germana Viglietta, membro della Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione europea, a dire che «nessuno deve esserne escluso, perché sono collegati con la mobilità e rientrano tra i principi cardine della costituzione europea». E spiega che se «i giovani europei chiedono per il 77,2% un Europa più sociale, è perché effettivamente è la prima percezione quando si gira l’Europa per sentirsi parte integrante del sistema».L’orizzonte, però, non sembra positivo ed è Eleonora Medda, Inca Cgil Belgique e membro del Consiglio Generale degli Italiani all'estero, a confermarlo: «Frans Timmermans, presidente del partito socialista europeo, ha dichiarato nel 2015 che l’accesso al mercato del lavoro non significa un accesso automatico alla previdenza sociale»  e questo secondo Medda «significa tornare indietro di 60 anni». Un ritorno al passato che nei fatti si sta già concretizzando, con «paesi democratici come il Belgio in cui ci sono italiani o altri cittadini europei che ricevono l’ordine di lasciare il Paese perché hanno fatto la richiesta del sussidio sociale». Se i giovani dimostrano di voler credere nel progetto europeo, in realtà «i diritti civili vanno nell’altro senso».Per tutti questi motivi, l’armonizzazione dei contributi per quanti hanno lavorato in più Paesi sarebbe necessaria, ribadisce Andrea Brunetti, responsabile politiche giovanili Cgil. Lanciando un allarme: il rischio che l’assenza di queste misure porti ad avere invece di un “brain drain”, uno “youth drain”, un calo demografico tale che andrebbe affrontato subito.In chiusura un altro intervento di Ilaria Maselli, che ha voluto ricordare i due motivi principali per cui, oggi, il tema di un sussidio europeo di disoccupazione sia molto importante. Perché «permetterebbe di creare un piccolo budget per stabilizzare le economie quando una va su e una giù. Significa che se oggi c’è una disoccupazione al 4,5% in Germania e al 20 in Spagna, un sussidio comune permetterebbe di intervenire per pagare con i contributi di un paese i sussidi di un altro. E poi perché è un semplicissimo diritto dei lavoratori. Abbiamo un mercato unico per tantissime cose, perché non per il lavoro? Oggi c’è una mobilità incompleta e aggiungere un sussidio di disoccupazione europeo andrebbe a completarla». Nonostante di questa idea si parlasse già in un rapporto del lontano 1978, oggi nel 2016 sembra di nuovo tutto fermo. Perché dopo il referendum sulla Brexit del 23 giugno «tutti i sogni si sono infranti» e sembra molto difficile riuscire a trovare un accordo sul tema nonostante ci siano molti motivi per farlo.Un vero peccato se si pensa alla partecipazione a questo MeeTalents fuorisede, che in una fredda sera a Bruxelles è riuscito a radunare un centinaio di persone in una sala per diverse ore. Tutti pronti a ragionare e interrogarsi. E a portare a tante riflessioni e spunti per il futuro, su un tema che, da vicino o da lontano, coinvolge ormai moltissimi italiani. Lavorare e vivere lontani dal proprio Paese, qualche volta per libera scelta, altre volte meno. Senza dimenticare, però, di provare a incidere sull’Italia, anche da lontano.Marianna Lepore