Categoria: Storie

Stage al Parlamento UE, «un'opportunità incredibile: se non vi prendono subito, continuate a provare!»

Chiudono il prossimo 15 maggio le selezioni per i tirocini Schuman al Parlamento europeo. Circa 1.200 euro il rimborso spese in palio e tre le opzioni disponibili: generale, giornalismo e Premio Sacharov. Qui di seguito la testimonianza di Anna Ferrari, che ha raccontato alla Repubblica degli Stagisti la sua esperienza.Ho 28 anni e sono di Crema, dove ho frequentato il liceo classico. Fin da quei tempi il mio sogno è stato di diventare giornalista. Quando è arrivato il momento di iscrivermi all’università, però, ero indecisa: la triennale in giornalismo non esisteva e scienze della comunicazione non mi interessava, così ho scelto Giurisprudenza, spinta dal fatto che alcuni dei miei giornalisti preferiti, primo fra tutti Tiziano Terzani, avevano studiato legge. Mi sembrava poi una formazione solida, se per caso avessi cambiato idea. Mi sono laureata con 110 e lode all'università Statale di Milano, pur non essendo mai stata una studentessa modello: ci sono stati degli alti e bassi soprattutto perché ero impegnata in una facoltà che sapevo non essere il mio diretto sbocco. Ma si può e si deve spingere e avere pazienza quando sai che un percorso, anche se non ti porterà direttamente al tuo obiettivo, può formarti. Durante Giurisprudenza mi sono innamorata del diritto dell’Unione Europea, e ho capito che mi sarebbe piaciuto combinare quella passione con quella per la scrittura. La seconda svolta è arrivata con l’Erasmus in Germania. Ero a Tübingen, una piccola città universitaria vicino a Stoccarda che attrae studenti e ricercatori internazionali: lì ho capito che volevo vivere all’estero. Conclusa Giurisprudenza ho fatto domanda e sono stata accettata per il master Erasmus Mundus in giornalismo, che mi ha portato per due anni a studiare tra Danimarca e Olanda con studenti da tutto il mondo. Quell’esperienza mi ha formato molto sui contenuti della comunicazione politica e della ricerca accademica, ma per me è stata soprattutto una piattaforma di lancio, che mi è servita per costruire una rete di contatti di qualità e per fare altri progetti in ambito europeo, ad esempio con la European Youth Press.Sulla traineeship nelle istituzioni europee ci tengo a dire due cose: la prima è di continuare a provare, perché va molto a fortuna. Non pensate di non sentirvi all’altezza di fare domanda: c’è tanta gente preparata ma anche tanti non più preparati di voi! Io, ad esempio, avevo già provato una volta dopo aver finito giurisprudenza, ma non mi avevano presa. Le candidature Schuman vengono raccolte in un database dove chi si occupa della selezione fa una ricerca per parole chiave, a seconda delle esigenze contingenti: nel mio caso, in quel momento a loro serviva una persona che avesse un background in giornalismo e comunicazione, ma anche che sapesse il tedesco, quindi il mio profilo rispondeva alle necessità. Il mio secondo consiglio è di prendere l’occasione se si presenta, perché si impara tantissimo. Io sono stata fortunata perché sono finita nel top del top, il team di comunicazione nel Gabinetto del presidente del Parlamento europeo Tajani, da settembre 2017 a febbraio 2018. Ci tengo a sottolineare che il livello è molto alto: anche se capita di dover svolgere relativamente compiti umili rispetto ai propri studi, stare in un ambiente così stimolante fa imparare moltissimo.Il mio lavoro nel Cabinet è stato un po’ diverso da quello di altri tirocinanti al Parlamento europeo, perché era tutto incentrato su Tajani. L’ho incontrato di persona diverse volte - c’è stata anche un’occasione in cui gli ho parlato a lungo! Per me stare lì significava essere in una posizione privilegiata, ma comunque al servizio dei cittadini. Tra le cose non comuni che succedono lavorando nel Cabinet, si ha ad esempio l’occasione di vedere da vicino personalità importanti come capi di Stato o ministri che vengono ad incontrare il presidente, e si assiste a come vengono fatte le interviste e le conferenze stampa. L’aspetto del giornalismo lo vivi dall’altra parte, nel gestire le relazioni con i media, ma è interessantissimo vedere dall’interno delle istituzioni come funziona. E se ti trovi nel posto giusto al momento giusto, anche tu puoi fare la tua parte. Una volta, per esempio, in occasione di una conferenza sull’Africa patrocinata dalla presidenza del Parlamento ho avuto la possibilità di segnalare alcuni nomi validi, e queste persone sono state invitate! Chi lavora nel Gabinetto è molto impegnato, ma c’è anche molta disponibilità a formare le persone, quindi se si è così fortunati da poterci essere, bisogna mettersi nell’ottica di avere una grande opportunità a disposizione e lanciarsi in situazioni nuove, parlare con altre persone ed essere creativi, non semplicemente portare a termine il proprio compito a fine giornata.Aspetti negativi? All’inizio non capivo il livello di stress nell’ambiente, ma in realtà sono tutti un po’ messi sotto pressione: lavorare nelle istituzioni europee comporta tanta paura di non essere all’altezza, perché si trattano problemi veramente di ordine mondiale, e gli addetti dello staff del Parlamento devono inevitabilmente sacrificare una parte della propria vita personale. Per quanto riguarda la città, invece, posso dire che Bruxelles mi manca. E' una città di lobbying, quindi se da un lato c’è molta energia perché le persone vogliono conoscersi, dall'altro c’è anche molta superficialità nelle relazioni. Quando mi sono trasferita ho avuto pochissimo tempo, perché quando ho ricevuto la conferma era estate, stavo partendo per un mese e mezzo di viaggio in India e mi chiedevano di iniziare un mese prima rispetto al ciclo normale degli Schuman. Ho trovato casa inizialmente tramite dei conoscenti, ma l'affitto era alto (700 euro al mese) perché vivevo in un appartamento da sola a St. Catherine, una delle zone più belle e centrali. Una volta arrivata lì ho cercato ancora e ho trovato un appartamento condiviso con un'altra persona, più economico, spazioso e vicino al Parlamento, a 580 euro al mese. Ci sono arrivata tramite passaparola tra amici, ma su Facebook ci sono gruppi molto popolari per fare ricerca, come Bruxelles à louer, Brussels rooms and flats for rent, Desperate people looking for a room in Bxl. C'è molto ricambio, ma potrebbero volerci molta perseveranza e una certa pazienza per trovare una buona soluzione per sé.Posto questo, lo stage è un’opportunità di formazione incredibile, poi uno deve capire cosa vuole fare. Io per il momento sono rientrata in Italia e sto valutando il da farsi, ma qualcuno rimane a Bruxelles e si concede una fase esplorativa. Tra i sogni nel cassetto conservo ancora quello del giornalismo in ambito europeo, oppure di tornare a lavorare nelle istituzioni UE. E se è vero che uno stage al Parlamento europeo non mette al riparo dai no,  sicuramente, se sfruttato bene, può preparare molto per tanti altri lavori, oltre ad essere un’ottima presentazione sul CV. Personalmente, sono da tempo convinta di una cosa: spesso non è una laurea o uno stage di per sé a darti un lavoro. Bisogna muoversi, essere attivi in più ambiti, cercare, proporsi, essere dinamici. E' l'insieme di tutte quelle esperienze a renderti un buon candidato. In conclusione, consiglierei assolutamente il tirocinio al Parlamento europeo, perché è un’esperienza formativa di altissimo livello e ben pagata che ti fa conoscere persone, dà contatti e consente di essere aggiornati e in prima linea sull’attualità. E ricorda che ognuno può dare il suo contributo al progetto europeo.Testo raccolto da Irene Dominioni

A 27 anni già responsabile di un team di 19 persone: «Do tre consigli ai neoingegneri come me»

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Antonio Piane, 27 anni, oggi assunto con un contratto a tempo indeterminato in Magneti Marelli.Sono nato a Cosenza nel giugno del 1990 e ho continuato a vivere in Calabria, a Rende, fino ai 25 anni. Lì ho frequentato il liceo classico e poi il corso di Ingegneria meccanica dell’università della Calabria, che ha la sua sede proprio qui. Anche mio padre è ingegnere, ma civile, mentre mia mamma è un medico ospedaliero: avevo preso in considerazione entrambe le opzioni prima di scegliere definitivamente per ingegneria meccanica.Ho scelto l’università della Calabria perché avevo ricevuto delle recensioni molto positive. E le mie aspettative sono state rispettate, soprattutto nei primi tre anni: ho trovato la maggior parte dei corsi ben strutturati per contenuti e qualità della didattica. Non posso dire lo stesso per la magistrale: in quel periodo, infatti, non sono riuscito a fare uno stage per la scarsità di opportunità presenti nel territorio.Ho però un ricordo positivo della magistrale perché in quel periodo – era febbraio 2015 – sono partito per l’Erasmus: ero desideroso di fare un’esperienza all’estero per migliorare il mio inglese, conoscere una realtà diversa da quella italiana e mettermi alla prova lontano da casa. La borsa di studio che l’università mi ha garantito è stata di 230 euro al mese per sei mesi: ovviamente questo minimo contributo economico non copriva neanche le spese di alloggio, per cui tutto è stato possibile grazie ai miei genitori. Da appassionato del mondo automotive e dell’industria meccanica, non potevo che scegliere di farlo in Germania, paese che mi ha colpito per la qualità della vita e dove non escludo in futuro di ritornare. Non sono frasi scontate e di circostanza quelle che si dicono sull’Erasmus: è davvero un’esperienza formativa sotto tantissimi punti di vista, e lo consiglio a tutti. Tornato dall’Erasmus ho iniziato la tesi specialistica nei laboratori di ingegneria chimica e meccanica, realizzando una tesi sperimentale nell’ambito dell’ingegneria dei materiali. Ho finito di scrivere la tesi a febbraio 2016, ma ho iniziato a inviare il mio curriculum in giro e ad affrontare colloqui ben quattro mesi prima della laurea! Così poche settimane dopo, mi sono trasferito a Bologna, era il marzo del 2016, e ho cominciato a collaborare con uno studio di progettazione meccanica per macchinari industriali. Un’esperienza che porterò sempre con me perché mi ha introdotto nel mondo lavorativo. La possibilità di entrare in contatto con questo studio è nata da una conversazione casuale con un docente della mia università nei giorni successivi alla laurea. Alla fine sono stato confermato con una collaborazione come consulente a partita Iva che mi avrebbe garantito una retribuzione di circa 1.800 euro al mese.Ma due giorni dopo l’inizio della collaborazione, ho ricevuto la chiamata da Magneti Marelli, per uno stage di sei mesi nell’ambito del World Class Manufacturing. Non ho avuto dubbi sull’intraprendere questo nuovo percorso, anche se pagato molto meno e con più incertezze sul futuro. L’offerta era per uno stage di sei mesi a 1000 euro lordi al mese, ma era un’esperienza più in linea con quello che volevo fare.Così ho dovuto affrontare una delle situazioni più dure della mia carriera: parlare con il mio primo capo per chiudere improvvisamente il rapporto lavorativo a soli due giorni dalla conferma! Poi ho cominciato lo stage, nel maggio 2016, in Magneti Marelli e mi sono trasferito a Magenta, scelta per la vicinanza al posto di lavoro che è Corbetta. I primi tempi non sono stati facili: avevo vissuto in un contesto cittadino e mi sono ritrovato in una realtà relativamente piccola. Ma la vicinanza con Milano e l’aver conosciuto, grazie al lavoro, tantissimi coetanei ha reso la mia vita molto più completa e stimolante. Avevo contattato Magneti Marelli tramite autocandidatura. Dall’invio del curriculum alla chiamata dell’HR sono passati all'incirca un paio di mesi; una volta cominciato lo stage, ho avuto fin dall’inizio un ottimo rapporto con il mio tutor – il continuo supporto e i suoi consigli hanno reso i miei primi mesi in azienda stimolanti e piacevoli. Qualche mese prima della fine dello stage mi è stato offerto il ruolo che ho ancora: responsabile di manutenzione di un reparto produttivo. L’offerta era di un periodo di sei mesi di prova retribuito, e dopo un contratto a tempo indeterminato: entrambi con una RAL di 28mila euro annui. Quando ho ricevuto questa proposta, a pochi mesi dal mio arrivo, mi sono sentito orgoglioso di quanto fatto fino a quel momento e fortemente responsabilizzato. È stata una sfida dura, ma bellissima. Avevo la gestione di nove persone esperte su tre turni e quattro di queste coetanee dei miei genitori, tutti molto preparati da un punto di vista tecnico. Era una sensazione meravigliosa anche solo osservarli e carpire i segreti del mestiere. Sono da tredici mesi responsabile di manutenzione del reparto di lavorazioni di base, stampaggio ad iniezione e stampa serigrafica, e a breve oltre al mio attuale reparto, diventerò responsabile anche di quello Clusters, ovvero la parte di stabilimento in cui vengono assemblati i quadri di bordo delle auto di numerosi clienti nel campo automobilistico. È una grossa responsabilità perché si aggiungono sotto la mia supervisione altre dieci persone e centinaia di macchinari. Oggi oltre a coordinare varie persone, gestisco tutti gli interventi a guasto e di manutenzione preventiva sulle macchine del mio reparto, i fornitori per l’acquisto di ricambi e per interventi di manutenzione straordinaria e mi occupo della realizzazione di progetti di miglioramento sulle macchine di produzione. Sono stato nominato un anno fa anche co-Pillar del pilastro di manutenzione professionale del WCM – una metodologia che segue le logiche del lean manufacturing e del total quality management – e questo mi consente di contribuire al miglioramento continuo della mia azienda nel mio reparto e nel resto dello stabilimento produttivo. Mi è stato anche chiesto di partecipare come reclutatore in colloqui tecnico/motivazionali per assunzioni all’interno dello stabilimento. Così ho osservato con occhi totalmente diversi il colloquio di lavoro e il punto di vista del recruiter.Ah, durante l’università ho lavorato in ambito sportivo, giocando per circa dieci anni nella squadra di pallavolo della mia città, ricevendo a partire dai sedici anni un rimborso spese di 150 – 200 euro al mese. Dal 2014 ho smesso di giocare ma ho allenato fino al 2016, con un contratto che prevedeva lo stesso rimborso spese le giovanili, under 15 e 17. Non è stato semplice coniugare l’università con un’esperienza di questo tipo: ma mi ha permesso di portare avanti una delle più grandi passioni della mia vita. Ed è stato molto bello il confronto con i ragazzi: c’è il rapporto che si configura sul campo da gioco, imparare a coordinare 15 persone, valutare i momenti di calo della concentrazione e gestire la motivazione. E poi la parte più difficile è quella fuori dal campo, perché ti costringe a capire come mantenere quel giusto distacco allenatore – giocatore anche quando, vedi il mio caso, la differenza d’età è minima. Proprio questa seconda parte dell’esperienza è un bagaglio prezioso che sto applicando nella mia carriera di supervisor di manutenzione in Magneti Marelli.Oggi sono in una fase in cui voglio ancora migliorarmi e nel medio e breve termine mi piacerebbe continuare a lavorare in ambiti molto tecnici, continuando a crescere all’interno del gruppo. In futuro non escludo un’esperienza all’estero: da neolaureato ho mandato anche il curriculum per aziende straniere, ma poi ho avuto la fortuna di trovare un lavoro che mi piace... vicino a casa.Penso che lo stage sia il completamento del percorso di formazione: è molto importante per uno studente nelle ultime fasi della sua carriera accademica guardarsi intorno e capire, anche grazie alle esperienze altrui, cosa aspettarsi dal mondo del lavoro. Mi fa piacere dare un piccolo contributo a questo obiettivo, partecipando a questa rubrica della Repubblica degli Stagisti. Ai neoingegneri mi sento di dare tre consigli: non precludersi nessuna delle possibilità che questa laurea può dare, cercare un lavoro che può arricchire ogni giorno, e poi essere pronti a partire – anche per situazioni apparentemente non ottimali!  Testimonianza raccolta da Marianna Lepore

Girl Power: «Ragazze, non temete di studiare al Politecnico: la digital business transformation è nel suo momento d’oro!»

Girl Power è la rubrica attraverso la quale la Repubblica degli Stagisti vuole dare voce alle testimonianze di donne - occupate nelle aziende dell’RdS network - che hanno una formazione tradizionalmente "maschile" e/o ricoprono ruoli solitamente affidati agli uomini, in ambito Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) ma non solo. Storie che invoglino le ragazze a non temere di scegliere percorsi considerati appannaggio pressoché esclusivo degli uomini. La storia di oggi è quella di Sarah Corti, user experience architect per Sketchin, società ticinese leader nel design thinking, parte del gruppo Bip-Business Integration Partners.Ho trentadue anni, ricopro un ruolo gestionale di responsabilità in una multinazionale del design, Sketchin – e da quattro mesi sono mamma. Non nego che essere donna e giovane in alcune occasioni per me rappresenta uno scoglio: molto spesso il cliente, sentendo la mia “vocina”, mi chiede “Non è che potete portare qualcuno con più esperienza?”, ma poi al momento dell’incontro e iniziando a lavorare il pregiudizio viene meno. Certo se fossi un uomo con i capelli bianchi l’approccio da parte dei clienti sarebbe sicuramente diverso... Per fortuna con i colleghi questo scoglio non esiste!  Sono cresciuta nella provincia di Como e ho frequentato l’Istituto tecnico con indirizzo informatico. L’ho scelto perché a tredici anni mi veniva difficile decidere cosa fare da grande, così ho pensato che l’informatica ormai stava prendendo il sopravvento e che studiarla mi avrebbe fornito la base per fare quello che mi piaceva. I miei, che non hanno studiato all’università, mi hanno supportato nella scelta di un percorso che mi avrebbe permesso sia di entrare subito nel mondo del lavoro sia di proseguire gli studi nelle materie scientifiche. Alle superiori eravamo solo due ragazze su ventisei e ovviamente eravamo oggetto continuo di scherzi, ma non è mai pesato.  Dopo la maturità, ero indecisa sulla scelta e mi sono iscritta ai test di ammissione sia per il corso di laurea in Ingegneria informatica che per quello di Design del prodotto industriale al Politecnico di Milano. Alla fine ho superato entrambi e ho optato per il Design. Alle superiori ho capito che era la dimensione progettuale che mi attirava di più – come una infrastruttura dovesse funzionare – quindi ho deciso di spostarmi su una parte più creativa, anche se le materie più artistiche erano tutte nuove per me. Due giorni soltanto dopo essermi laureata ho iniziato a lavorare come free lance per Danese, storico studio milanese dove già avevo svolto sei mesi di stage durante l’università. Era il periodo del Salone del mobile; inizialmente mi occupavo di prodotto, poi mi sono spostata su grafica e comunicazione, lavorando al sito internet e alla dimensione digitale. Sono rimasta lì per tre anni e nel frattempo ho aperto la partita Iva, che mi ha permesso di svolgere altri lavoretti in parallelo per altri studi. Poi cinque anni fa ho trovato la proposta di lavoro di Sketchin – un'azienda che oggi fa parte del gruppo Bip – come designer. Sketchin è un'azienda "flat", cioè la sua organizzazione aziendale è all'insegna dell'appiattimento della gerarchia: i livelli operativi sono solo due, un responsabile o manager di processo e una serie di collaboratori. Così anche il mio colloquio è avvenuto in modalità "anomala". Mi attendevano tutti nell'open space, Ceo compreso, per sentirmi raccontare i miei progetti. Credo li abbia convinti la mia spontaneità e la mia propensione a mettermi in gioco. Sono stata assunta fin da subito con un contratto a tempo indeterminato. Allora i dipendenti erano solo in diciassette: ora siamo una settantina! Per i primi tre anni il mio ruolo era di user experience designer, poi sono diventata user experience architect, ruolo che rivesto da ormai un paio d'anni. Oggi gestisco un team di cinque persone: ho un ruolo di coordinamento sia nei confronti del cliente finale che con il team. Il mio compito è quello di esplorare le esigenze del cliente per tradurle in progetto. Se i primi tre anni ero operativa nel disegno dell’interfaccia, ora lo sono nel coordinamento del team e delle attività collaborative. Sketchin ha un gruppo di lavoro giovane – l’amministratore delegato, Luca Mascaro, ha trentacinque anni! – e c’è equilibrio tra uomini e donne. L’ambiente è positivo, super motivante e stimolante, grazie al confronto quotidiano. E l’organizzazione è flat: io formalmente sono responsabile di un team, ma non si sente la gerarchia. Inoltre c’è grande flessibilità, io lavoro tra gli uffici di Milano, Lugano e anche da casa. Conosco l'inglese e mi è anche capitato di lavorare a dei progetti presso la nostra sede di San Francisco. Ho viaggiato molto, ma non ho mai vissuto all'estero.Amo il mio ruolo perché è stimolante e vario, mi permette di interfacciarmi con clienti e tipologie di business totalmente diversi – editoriale, banking sanitario... E il bello è dover riuscire con metodologie di design a far sedere intorno a un tavolo manager con ruoli importanti e, in massimo otto ore, a tirar fuori requisiti di business importantissimi, che impattano in maniera decisiva sull’azienda. Questo permette di vedere il design applicato non solo sul prodotto ma sul business. Ho appena avuto una bambina e sono rientrata a lavoro da un mesetto. Avendo un contratto svizzero, il periodo di maternità previsto dopo il parto è di tre mesi. Io, d’accordo con il mio capo, sono invece riuscita ad assentarmi da lavoro un mese prima del parto e poi i tre successivi. Ho anche avuto la possibilità di partecipare a giornate di team building portando con me la mia bambina, se ne avevo la necessità. Ora i miei genitori, che per fortuna abitano a mezz’ora da me, mi danno una mano occupandosi di mia figlia durante il giorno. Sia dal punto di vista familiare che formativo ho avuto a che fare con figure femminili molto forti, partendo da mia madre, passando alle professoresse, fino alla mia prima datrice di lavoro. Questo mi ha aiutato perché mi ha permesso di dire “Se ce l’hanno fatta loro, ce la posso fare anch’io”. Il consiglio che mi sento di dare alle ragazze e ai ragazzi è di scegliere una scuola che apra porte su più fronti, visto che a 13-14 anni si è troppo giovani per decidere cosa diventare. E poi di non farsi condizionare: dopo le superiori c’era che mi diceva “Non scegliere una facoltà solo di maschi”, ma molto spesso avere a che fare con più uomini è più produttivo e stimolante e ti aiuta a rafforzarti. Il design dei servizi può essere una buona scelta per i giovani di oggi: la digital business transformation è nel suo momento d’oro, il valore aggiunto è enorme. Progettando bene un servizio si può trasformare un’azienda, basti pensare a start up come Netflix o al carsharing, e a tutte quelle aziende nate da progetti fatti da qualcuno come noi e che stanno rivoluzionando il mercato. È interessante cavalcare quest’onda. Il mio futuro? Essendo Sketchin un’azienda flat, mi vedo in crescita prima di tutto a livello umano e di soft skills: mi interessa la dimensione umana di crescita più che di ruolo e di prestigio. Tra dieci anni, ora come ora, mi vedo ancora qui, ed è strano perché io di natura sono irrequieta, se mi annoio cambio subito. Ma per fortuna qui il mondo dei clienti è in continua evoluzione, ogni giorno è una sfida nuova! Testimonianza raccolta da Rossella Nocca

Girl Power, «Da ingegnera gestionale faccio l'Operation Manager: mi diverto a risolvere problemi»

La scienza è sempre più donna. E c’è un’ampia serie di ragioni per le quali oggi, per una ragazza, può essere conveniente scegliere un percorso di studi in ambito Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). La Repubblica degli Stagisti ha deciso di raccontarle una ad una attraverso una rubrica, Girl Power, che avrà la voce di tante donne innamorate della scienza e fortemente convinte che, in campo scientifico più che altrove, di fronte al merito non ci sia pregiudizio che tenga. La testimonianza di oggi è quella di Simona Barbato, Operation Manager per Noovle, azienda specializzata in cloud e trasformazione digitale. Sono nata in Calabria quarantotto anni fa. Lì ho studiato al liceo scientifico e poi alla facoltà di Ingegneria dell’università della Calabria. L’indirizzo era quello meccanico, ma è cambiato in corso, così sono stata tra i primi laureati in Ingegneria gestionale. La scelta è nata “banalmente” dalla passione per la matematica, i numeri, le formule. La mia famiglia non mi ha influenzato: i miei genitori sono avvocato e maestra, ma i miei fratelli sono diventati architetto, biologo e insegnante di educazione fisica. Anche se mia madre verso il terzo anno mi disse: “Ma perché non studi Lingue?”. Dopo la laurea sono andata via da casa e dalla Calabria, avevo voglia di evadere dalla piccola città. Avevo la sensazione che qualcuno potesse dominare la mia vita, ad esempio non dicevo a mio padre che andavo a sostenere gli esami, come se potesse interferire nel mio valore. E quando volevo dei soldi in più per comprarmi qualcosa, anche se in casa non ne mancavano, non li chiedevo ma andavo a lavorare di nascosto come hostess nei palazzetti. Ho sempre avuto un forte senso di indipendenza. Inizialmente mi sono iscritta all’Albo degli ingegneri, ho svolto uno stage presso il dipartimento di Robotica dell’Enea, a Roma, e mi sono occupata di ricerca operativa, e dell’ottimizzazione di un progetto per l'Istituto centrale del catalogo e della documentazione (Iccd) del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact). Dopo un paio d’anni a Roma, mi sono trasferita a Milano. Qui, attraverso il network universitario, sono stata contattata per lavorare nel mondo dei sistemi informativi come consulente funzionale: mi occupavo di seguire vari processi aziendali migliorati tramite l’informatica. Ho lavorato per diverse società di consulenza: viaggiavo molto, era un mestiere bellissimo e ben pagato. Poi a trentasette anni sono diventata mamma e, anche se mio marito mi ha aiutato tantissimo, è stato un periodo molto duro. Ho lavorato fino all’ottavo mese e sono ritornata dopo il periodo obbligatorio con un part time verticale, deciso da me perché lavoravo fuori sede. Facevo tre giorni da otto ore, che non erano mai otto. Nonostante ciò mi hanno fatto capire che senza il figlio avrei potuto avere una promozione. Quando il bambino ha compiuto dodici mesi e avrei dovuto riprendere il full time, non ho retto il ritmo e ho deciso di dare le dimissioni. Mi ero resa conto che così non poteva più funzionare: uscivo la mattina alle cinque e tornavo alle otto di sera, facevo 180 km all'andata e 180 al ritorno. Stavo male fisicamente ed ero piena di sensi di colpa verso mio figlio. Dubito che un uomo si sarebbe posto lo stesso problema, anche se mi piace pensare che l'equilibrio come genitore sia indipendente dal ruolo e dal genere. Dopo un periodo di riflessione, ho deciso di tornare a fare quello che avevo sempre fatto ma da un’altra prospettiva, come Operation Manager per un’azienda. Ho avuto la fortuna di incontrare Piergiorgio De Campo, CTO di Noovle, una persona che ho stimato da subito. Scherzando, nel colloquio, gli ho detto che l’unica cosa che volevo nella vita era non cambiare ufficio fino a quando non diventavo vecchia. In quel periodo Noovle aveva bisogno di una ristrutturazione a seguito di una fusione. Ho avuto subito un contratto a tempo indeterminato. Mi sono trovata a gestire vari team, composti perlopiù da uomini. All’inizio non è stato facile conquistare autorevolezza ai loro occhi. Ma il mio lavoro è uno di quelli in cui si nota maggiormente il valore aggiunto di essere donna: la particolare propensione al multitasking, la capacità  di ascoltare le persone, diventando anche una sorta di “confidente”. Nel mio lavoro c’è uno studio continuo, ed è difficile che a fine giornata tu ti senta soddisfatta: appena risolvi un grande problema, se ne presenta un altro. Con gli anni ho dovuto imparare a trovare un compromesso tra il lavoro e l’essere mamma, ad esempio a tornare a casa e non guardare più il telefono. Ad oggi viaggiamo con la media di cento mail al giorno!La discriminazione di genere l’ho avvertita sin dall’università, dove eravamo una decina di ragazze su 300 studenti, e i professori non risparmiavano battutine. E poi nel mondo del lavoro: quando mi presentavo con un team di colleghi, loro erano chiamati “ingegneri” e io “signorina”. Per fortuna nella mia esperienza ho trovato anche tante persone intelligenti, che non giudicavano dal sesso ma dal valore. Da un lato credo che l’essere donna mi abbia anche aiutato, perché spesso a parità le donne costano la metà. Ho avuto delle fasi della vita in cui era evidente che fossi sottopagata. Ad esempio, dopo aver dato le dimissioni ho lavorato per quattro anni part time, ma il tipo di lavoro mi portava a essere sempre operativa, quindi era un part time solo nello stipendio! Noi donne nasciamo già con l’idea che ci dobbiamo adattare un po’ di più, perché dobbiamo gestire le priorità in maniera diversa. Inoltre siamo troppo impegnate a farci valere per curare altri aspetti. L’ambizione che ho oggi è quella di continuare a fare quello che mi piace e mi diverte. Amo questo mestiere perché si lavora con la mente, si respira un’aria libera, si segue l’istinto. E poi il mio campo, il cloud, sta dando oggi grandi sbocchi. Qualche tempo fa mi avevano proposto di “fare un salto”, ma non me la sono sentita. Avrei dovuto interfacciarmi con la parte internazionale e riprendere a viaggiare, ma ho deciso di non mettere in discussione il mio equilibrio tra mamma, lavoratrice e donna, che oggi mi fa stare serena. Ho una tata su cui contare, visto che la mia famiglia di origine e quella di mio marito sono lontane, in Calabria, ma delego solo per lo stretto necessario. Per fortuna ho sposato un uomo molto intelligente e presente, che mi ha sempre sostenuta e incoraggiata in tutte le mie scelte.  Alle ragazze consiglio di non sottovalutarsi mai, di coltivare una sana ambizione, per emergere con meritocrazia. E poi di non precludersi nulla: io a quarant'anni ho cambiato lavoro e vita e non tornerei indietro.  Testimonianza raccolta da Rossella Nocca

«Grazie al servizio volontario europeo ho trovato il coraggio per trasferirmi all'estero»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Chiara Avataneo. Ho 27 anni e sono nata a Torino, dove ho svolto sia le scuole superiori, diplomandomi in ragioneria, sia l’università, laureandomi in Servizio sociale. Durante gli studi universitari ho lavorato nell’attività commerciale della mia famiglia, riuscendo a ricavarmi del tempo per fare anche due interessanti tirocini come assistente sociale: uno presso l’Unità spinale unipolare del Cto di Torino, centro che si occupa della riabilitazione di persone para e tetraplegiche, e l’altro nel reparto di oncologia del San Luigi Gonzaga di Orbassano. Non ho invece fatto l’Erasmus, perché non mi sentivo ancora pronta: ho sempre avuto un forte interesse verso l’estero, il mondo, ma a parte le vacanze non avevo mai trovato il coraggio di lasciare tutto e tutti per partire. E solo facendo lo Sve mi sono poi resa conto di quale opportunità avessi perso.La paura di lasciare e cambiare mi ha spinto, terminati gli studi, ad iniziare a lavorare; all’inizio ho fatto la barista, poi ho lavorato in un’agenzia che organizza eventi nella mia città. Ma sentivo che qualcosa continuava a non quadrare, sentivo che non stavo realizzando il mio sogno di vivere all’estero.. ma come potevo lasciare tutto? Avevo un lavoro stabile, famiglia, amici, il ragazzo, la mia vita. In più non sapevo l’inglese e questo mi sembrava chiudermi tutte le possibili porte. Dopo essere venuta a conoscenza dello Sve grazie al centro Informagiovani di Torino, decido però di provare ad inviare qualche candidatura e un giorno, in un ritaglio di tempo, mi candido per un progetto in Polonia. Non ero molto convinta e non avevo sinceramente grandi speranze, ma dopo una settimana vengo contattata telefonicamente dall’associazione Eufemia di Torino. Abbiamo organizzato un colloquio nel quale ci siamo conosciuti e mi hanno spiegato cosa sarei andata precisamente a fare durante il mio progetto Sve. Dopo il colloquio con l’associazione di invio è stato il turno della chiamata via Skype con la responsabile dell’associazione polacca, la Fundacja Kreatywney Edukacj. Ottenuto il via libera, ho avuto due settimane di tempo per organizzarmi e partire.Sono arrivata a Bydgoszcz nel marzo 2016, emozionata ma anche spaventata. Sono atterrata a mezzanotte e ho trovato ad accogliermi un ragazzo, che ho poi scoperto essere il mio collega, con delle amiche. Mi hanno accolta con un abbraccio, invitandomi subito ad una festa, ma ero ancora troppo scombussolata per accettare. Dal giorno dopo, ad essere onesta, la vita per circa un mese è stata durissima: non avevo mai passato lunghi periodo lontani da casa e la nostalgia era tanta; anche il tempo grigio, il freddo e la lingua diversa non aiutavano. Le comunicazioni erano difficili e spesso mi chiudevo in me stessa; anche la casa, che si trovava in un posto abbastanza centrale, inizialmente mi sembrava lontanissima, non conoscendo i mezzi per arrivare velocemente in centro.Vivevo con un altro ragazzo italiano, che faceva parte insieme a me del progetto all’interno della scuola; si trattava di una scuola privata che gestiva un nido, una scuola materna e una elementare. Inizialmente i nostri compiti non erano ben chiari, perché si trattava anche per loro della prima esperienza e non ci avevano assegnato un mentore che organizzasse il lavoro. Ma con il passare del tempo le cose sono migliorate: ho iniziato a capire cosa c’era da fare e, facendomi guidare anche dai miei colleghi, sono riuscita a stabilire le miemansioni e dare un senso concreto alla mia presenza nella scuola. Ho lavorato prima al nido, dove la comunicazione non era fondamentale, prendendomi cura dei bambini, giocando con loro, portandoli a fare passeggiate. Poi sono stata “promossa” alla scuola materna e lì abbiamo istituito un giorno d’insegnamento della lingua e della cultura italiana. Ho partecipato a gite e a molte attività, organizzando giochi, pasti e tempo libero. Nel frattempo ho iniziato anche a uscire e conoscere gente del posto, ritrovando così serenità e voglia di divertirmi. Passavo le mie giornate coi bambini, e la sera uscivo coi colleghi o con altri giovani conosciuti sul posto. Essendo poi la Polonia un posto economico, ho avuto la possibilità di visitarla in lungo e in largo, ospitata anche da altri volontari conosciuti durante il progetto. Il guadagno non era certamente il punto forte del mio Sve, ma il mio pocket money di circa 230 euro mi ha permesso di fare tutto ciò che desideravo, avendo già vitto, alloggio e trasporti pagati.Se penso alle difficoltà mi viene subito alla mente la mancanza di un mentore e quindi l’iniziale sensazione di sentirci abbandonati in un posto del tutto estraneo. Un’altra cosa che avrei cambiato è il mio coinquilino italiano, perché credo sarebbe stato più utile e formativo convivere con una persona di un’altra nazionalità. Ma, a fronte di questo, ci sono stati mille aspetti positivi, direi quasi tutti. Ho imparato a parlare l’inglese e un po’ di polacco, ho appreso la bellezza di vivere all’estero scoprendo nuove culture, pensieri e abitudini, e il fascino di un paese come la Polonia che viene troppo spesso sottovalutato. Infine ho aperto la mia mente, cambiato pensieri e imparato ad analizzare le situazioni con maggiore elasticità.Terminato lo Sve, infatti, non me la sentivo proprio di mettere la parola fine a questa meravigliosa avventura all’estero e ho deciso di trasferirmi in Inghilterra, così da migliorare l’inglese: ho frequentato una scuola per conseguire un certificato di lingua e lavorato intanto come tata per una famiglia inglese, occupandomi delle loro due bambine. Non so ancora come continuerà la mia avventura, cosa farò, ma se provo a immaginare il mio futuro lo vedo a casa, con la speranza di fare di queste esperienze nate dallo Sve qualcosa di concretamente spendibile nel mercato del lavoro italiano. Vorrei provare a lavorare seriamente come assistente sociale nell’ambito delle adozioni internazionali o, come piano b, in un’agenzia di viaggi. Per il momento continuo a viaggiare, ad emozionarmi e a scoprire.Testo raccolto da Giada Scotto  

Girl Power: «Io, promossa dirigente in Nestlé mentre ero in maternità»

Girl Power è la rubrica attraverso la quale la Repubblica degli Stagisti vuole dare voce alle testimonianze di donne - occupate nelle aziende dell’RdS network - che hanno una formazione tradizionalmente "maschile" e/o ricoprono ruoli solitamente affidati agli uomini, in ambito Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) ma non solo. Storie che invoglino le ragazze a non temere di scegliere percorsi considerati appannaggio pressoché esclusivo degli uomini. La storia di oggi è quella di Alessandra Fazio, 41 anni, Head of Quality per Nestlé.Ho 41 anni e sono nata e cresciuta in provincia di Como. Ho studiato al liceo scientifico e dopo il diploma misono iscritta al corso di laurea magistrale in Scienze e tecnologie dell’alimentazione presso la facoltà di Agraria della Statale di Milano. Frequentavo da pendolare e nel frattempo lavoravo in un negozio di alimentari e in una palestra.  Ho sempre avuto interesse per le materie scientifiche, per mia attitudine personale ma anche favorita da alcuni esempi intorno a me come mio zio, laureato in chimica industriale, “mosca bianca” della famiglia. I miei genitori non sono andati all’università: mio padre faceva l’operaio, mia madre l’impiegata, ma mi hanno sempre sostenuta. La passione e soprattutto la curiosità per le scienze alimentari è arrivata studiando in filosofia Feuerbach con il suo motto “L’uomo è ciò che mangia”. Ad influenzarmi è stato anche un modello femminile importante: la mia nonna materna, classe 1923. Lei si laureò in Lingue e letterature straniere sotto il fascismo: da un paesino della provincia di Cremona si trasferì a Parigi per studiare alla Sorbonne!  Dopo la laurea ho cominciato subito a lavorare. Ho trovato una sostituzione maternità come Quality Specialist in uno stabilimento Parmalat, ma era il 2003, l’anno del crac, quindi è stato chiaro sin da subito che non c’erano prospettive. Poi un’altra sostituzione maternità in uno stabilimento della provincia di Bergamo di un’azienda che è stata successivamente acquisita dalla multinazionale angloirlandese Kerry. Lì ho lavorato in laboratorio, occupandomi della parte analitica di ricerca e sviluppo sul prodotto, per poi diventare responsabile del controllo qualità dello stesso sito. Dopo il periodo di sostituzione, sono stata assunta a tempo indeterminato come Quality Assurance Manager prima degli stabilimenti italiani e poi dell’intera divisione europea, ruolo che mi ha portato a viaggiare tanto e a studiare la lingua inglese.Nel 2010 sono stata contattata da Nestlé per la figura di Quality Manager dello stabilimento di Moretta, in provincia di Cuneo. Non è stata una scelta semplice, perché comportava un trasferimento da sola. Allora convivevo e non è stato facile spiegare ai miei genitori e ai miei suoceri l’importanza di quel passo. Inoltre sarei tornata “indietro” da un ruolo europeo a un ruolo di stabilimento. Tuttavia si trattava della prima multinazionale alimentare al mondo, della possibilità di crescere e di passare dal business to business al prodotto per il consumatore finale. Non potevo rifiutare, così mi sono buttata, pienamente sostenuta - in quell’occasione così come in tutte le mie successive scelte di carriera - dal mio compagno Andrea.Mi sono trasferita a Saluzzo, dove ho vissuto per tre anni e mezzo. Svolgevo un ruolo con le “mani in pasta” nella fabbrica. Poi l’azienda mi ha proposto di diventare Regulatory & Scientific Affair Specialist, quindi di occuparmi della conformità alle leggi dei prodotti commercializzati sul territorio italiano. Si trattava di passare da un ruolo operativo a un incarico dietro la scrivania, ma anche lì ho visto un arricchimento. Così mi sono trasferita a Milano, dove tutt’oggi vivo. Ad aprile 2015, all’ottavo mese di gravidanza, sono andata in maternità. Durante questo periodo sono stata contattata dall’azienda perché si era liberata la posizione di Head of Quality per l’Italia e per Malta. Una scelta “controcorrente”, perché significava puntare su una donna, una madre e una persona giovane, entrata in azienda da soli cinque anni e mezzo. Lavorare in una multinazionale alimentare con un ruolo di responsabilità in un ambito tecnico era il sogno della mia vita e inaspettatamente l’ho realizzato quando sono diventata mamma. Per questo oggi sono felice di portare la mia testimonianza nei convegni su diversità e inclusione e in interviste come questa!Oggi ho la responsabilità della salute dei consumatori che acquistano i prodotti Nestlé. Il mio lavoro è dinamico, viaggio molto, ogni giorno non è mai uguale al precedente. Da donna e da mamma porto in esso l’empatia con cui mi relaziono con tantissime persone sia in azienda, dalle vendite alla comunicazione, sia fuori, dalle associazioni di categoria al Ministero della Salute alle Asl.  Il futuro? La mia volontà è di consolidarmi in questo ruolo, da cui sento di poter imparare ancora tanto. In futuro mi vedrei bene anche in un altro ruolo tecnico, oppure nelle risorse umane, dove mi piacerebbe occuparmi di diversità e inclusione. Mi piace far sì che le persone siano messe nelle condizioni di dare il meglio di sé e di trovare un equilibrio tra vita e lavoro. Ora però devo pensare prima di tutto al secondo figlio, che è in arrivo a luglio! In Nestlé non avverto particolari differenze di genere, il mio ambiente di lavoro è piuttosto bilanciato, anche se la direzione tecnica è prevalentemente maschile. Se ci sono differenze salariali, sono dovute al fatto che le donne - per occuparsi della famiglia - tendono ad accettare meno trasferimenti all’estero. Qui il bilanciamento tra vita privata e lavorativa è favorito da diversi strumenti di gestione degli spazi e del tempo, dal lavoro agile allo smart working fino all’asilo nido aziendale, per fare solo alcuni esempi. A volte mi capita di riuscire a finire prima e andare a prendere mio figlio al nido e poi, tornata a casa e sbrigate le faccende domestiche, accendere il computer per lavorare. Negli altri giorni mi appoggio a una tata, visto che non posso contare sui nonni, che vivono lontano. Possono capitare settimane in cui sono fuori quattro giorni su cinque di lavoro e, visto che il mio compagno fa il pendolare su Varese e rientra tardi, la tata si debba fermare anche a dormire.   No so se consiglierei alle ragazze di scegliere Scienze e tecnologie alimentari come ho fatto io. È vero, è un corso interessante e particolare, e mi ha permesso di realizzare il mio sogno, ma è anche molto vincolante, perché è molto specifico e settoriale e non ci sono aziende alimentari ovunque. Altre lauree più trasversali si possono spendere in molti più ambiti.Tuttavia continuo a consigliare in maniera convinta alle ragazze una carriera tecnica e dico loro di non porsi mai dei limiti. Non c’è niente che sia appannaggio degli uomini. Non fate l’errore che ho fatto io che, quando il mio capo mi ha proposto la promozione durante la maternità, gli ho detto “Sei sicuro che io ce la possa fare?”. Non c’è niente che noi donne non possiamo fare... se abbiamo voglia di farlo!Testimonianza raccolta da Rossella Nocca

Apprendistato in Spindox grazie a un corso ITS: «Finalmente applico ciò per cui ho studiato»

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Marco Pini, 21 anni, oggi assunto con un contratto di apprendistato in Spindox.Sono nato a Milano ma cresciuto a Cremona dove ho frequentato il liceo delle scienze applicate, per poi trasferirmi a fine 2015 a Milano per proseguire i miei studi all’università Cattolica del Sacro Cuore. La scelta di Milano non è stata casuale: non solo lì vivono molti amici e gran parte della mia famiglia, ma ho anche pensato alla moltitudine di opportunità che offre sia lavorativamente parlando che a livello di intrattenimento.Avevo scelto la facoltà di Lettere perché avevo trovato un percorso formativo interessante che poteva conciliare le mie passioni umanistiche a quelle accademiche. L’ho frequentata per due mesi e a poco a poco mi sono reso conto che quel tipo di percorso non faceva per me: troppo teorico e ripetitivo. Ho realizzato che la mia principale necessità era di fare e applicare con concretezza quello che apprendevo. Così mi sono ritirato dall’università e a novembre mi sono iscritto al corso sistemi informatici e cloud computing dell’ITS Angelo Rizzoli presso Cefriel, in collaborazione con Eforhum.Il corso di virtualizzazione informatica che ho scelto mi ha permesso di sviluppare le mie conoscenze informatiche e di applicare in concreto ciò che studiavo indirizzandomi verso il mondo lavorativo. Durante il corso ho avuto modo di conoscere e apprendere nuove tecnologie legate alla virtualizzazione informatica e di prendere le relative certificazioni professionali, come quella in Windows Server 2012 R2 o quella in Linux Server. Non solo informatica, però, perché ho seguito anche lezioni più relazionali come comunicazione, inglese, sicurezza aziendale e diritto. La mia classe era formata da una ventina di persone tra i 19 e i 29 anni. Grazie proprio al numero contenuto di corsisti si è instaurato subito un clima sereno e c’è stata sempre una buona collaborazione. Anche il rapporto con i docenti è stato ottimo, con una condivisione di esperienze utili a capire le criticità che si possono presentare in un contesto lavorativo reale. Oggi sono soddisfatto della scelta che ho fatto perché mi ha consentito un’evoluzione personale, umana e lavorativa. E non escludo in futuro un ritorno agli studi accademici.Il corso ITS prevedeva durante i due anni anche un’esperienza individuale presso un’azienda. L’istituto ci ha quindi proposto una serie di aziende tra cui esprimere una preferenza per fare i colloqui. Ho scelto Spindox, pur non conoscendola, perché offriva un posto nell’ambito del cloud computing, tecnologia che vedeva applicata la teoria studiata durante il corso, ma ad un livello superiore rispetto alla virtualizzazione classica. L’azienda mi ha contattato per un colloquio formale con il responsabile di selezione del personale a cui è seguito un colloquio tecnico con il responsabile dell’area in cui sarei poi stato inserito, quella di cloud infrasctructure and services.I due colloqui sono andati bene e sono stato scelto per uno stage di cinque mesi, a partire da febbraio 2017. L’esperienza, che è stata il mio primo contatto con il mondo del lavoro, prevedeva un rimborso spese di 800 euro al mese più buoni pasto giornalieri da 5,50 euro. All’inizio ho imparato a conoscere meglio le tecnologie utilizzate in azienda. Poi ho preso contatto con i progetti e con i clienti e cominciato a mettere le mani sulle infrastrutture in cloud nelle quali ho eseguito diversi interventi dalla manutenzione alle modifiche. Il rapporto con il tutor è stato ottimo fin dall’inizio: mi ha introdotto nell’ambiente di lavoro e aiutato a capire i meccanismi aziendali. Oltre a insegnarmi tanto anche sul fronte tecnico. Durante lo stage ho anche acquisito una certificazione Microsoft Azure, suggeritami dal mio precedente responsabile. Lo stage è finito il 27 luglio e cinque giorni dopo ho ricominciato come apprendista sempre in Spindox. Ho subito visto aumentare le mie responsabilità su diversi progetti, cosa che mi ha permesso di avere una crescita personale e professionale. Oggi ho quindi un contratto di apprendistato con una Ral di 20mila 600 euro, più telefono, pc e tessera ATM aziendale. All’interno di Spindox sono collocato nel team Cloud, formato da nove persone sparse per le sedi nazionali: ci occupiamo trasversalmente di diversi clienti e progetti. Lì dove in un progetto è utilizzata una tecnologia cloud noi interveniamo affiancando gli altri team di sviluppo come quello digital incaricato di sviluppare l’applicazione che andrà a risiedere all’interno di una piattaforma cloud. In pratica durante la mia giornata di lavoro ho diversi compiti: creo infrastrutture per supportare siti web o infrastrutture per applicazioni smartphone, presto supporto ai clienti sia in ufficio che fuori ufficio, creo le guide per i clienti e mantengo i rapporti con i fornitori.Ormai vivo per conto mio, condividendo un appartamento con un amico, dai tempi del corso Its. Essere così autonomo, a 21 anni, è molto stimolante. Penso che l’autonomia raggiunta così velocemente sia proprio il risultato delle scelte fatte negli ultimi tre anni: aver deciso di frequentare un corso Its mi ha senza dubbio agevolato nel veloce accesso al mercato del lavoro. E aver ottenuto un contratto di apprendistato solo cinque mesi dopo l’inizio dello stage evidenzia due aspetti: il mio impegno e la mia professionalità, colti dall’azienda, ma anche la grande attenzione che Spindox ha nei confronti di nuovi e giovani talenti su cui investe, insegnandogli il mestiere fin da quando hanno solo vent’anni.È vero, la gran parte dei miei coetanei ancora studia o non guadagna abbastanza, e in questo senso penso che la mia indipendenza sia frutto anche di un mio personale bisogno di svincolarmi da un apprendimento tradizionale verso un percorso di crescita individuale rivolto alle sfide che realmente il mondo del lavoro oggi propone. Mi sento decisamente all’inizio del mio percorso professionale e la mia età lo conferma! Penso di essere fortunato nel lavorare con dei professionisti e con ragazzi giovani che ogni giorno mi insegnano qualcosa. Mi auguro di proseguire la mia carriera nel mondo dell’informatica che è un settore in costante evoluzione e non ti permette di fermarti a quello che già sai, garantendo un grande dinamismo. Ho delle buone prospettive, ma per il momento preferisco focalizare su questi due anni che ho davanti in cui posso e voglio imparare ancora molto.Certo la mia esperienza di stage con Spindox è stata ottima, soprattutto se si considera che era il mio primo contatto con il mondo del lavoro. Ero seguito, aiutato e soprattutto, fin dall’inizio, ho visto e preso contatto con progetti reali che hanno aiutato a capire e apprendere più velocemente. Sento però le storie delle esperienze di amici e colleghi: non erano seguiti per niente e questo non consente un confronto costruttivo né una crescita delle proprie competenze. Perciò penso che non si possa parlare in generale dei problemi degli stage oggi in Italia, perché questi derivano troppo spesso dal tipo di approccio che l’azienda ha nei confronti dello stagista. La Repubblica degli stagisti è in questo senso uno strumento utile per chi si affaccia al mondo del lavoro perché può avere diversi punti di vista grazie alle storie di chi ha affrontato uno stage prima di lui.Testimonianza raccolta da Marianna Lepore

«Lavoro in un mondo di auto e motori, ma non ho mai pensato di trovarmi in un ambiente poco adatto a una donna!»

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Martina Cernicchi, 29 anni, oggi assunta con un contratto a tempo indeterminato in Magneti Marelli.Sono nata e cresciuta a Torino, dove ho frequentato il liceo classico: ho sempre prediletto le materie umanistiche, ed ero incuriosita dallo studio di due lingue e culture antiche come il latino e il greco. Dopo la maturità ho scelto senza troppa indecisione la facoltà di Giurisprudenza a Torino. È stata una scelta dettata dal cuore: mi attirava lo studio del diritto in ogni sua sfaccettatura e mi stimolava il poter imparare a risolvere problemi che ci troviamo ad affrontare nella quotidianità.Ho avuto un percorso di studi lineare, senza difficoltà – la mia scelta si è confermata quella giusta! Con un grande rammarico però: non fare l’Erasmus. Penso che un’esperienza all'estero ti arricchisca e ti insegni a vivere, poiché contribuisce a sviluppare la capacità di adattamento a un nuovo contesto, insegna a confrontarsi con sé stesso nel corso delle diverse sfide quotidiane e aumenta il bagaglio culturale, sotto il profilo della lingua e della conoscenza di una cultura diversa. Purtroppo da studentessa non mi rendevo conto di quanto poi si potesse rivelare importante un'esperienza del genere, soprattutto nel mondo del lavoro.Comunque, mi sono laureata nel luglio 2013 discutendo una tesi in diritto penale amministrativo e subito dopo ho deciso di incominciare il percorso tradizionale della professione forense: sembrava il proseguimento naturale dei miei studi. Non ci ho messo molto a trovare uno studio legale, scegliendo quello che rispecchiava le mie aspettative: a Torino e con una dimensione medio piccola, un luogo dove ci fosse attenzione alla persona e alla formazione. Ho lavorato in questa realtà dall’ottobre 2013 al luglio 2015, avendo modo di approfondire i vari aspetti del diritto civile – in particolare il commerciale, tributario e di famiglia - e del diritto penale. Svolgevo attività di consulenza, redazione degli atti giudiziari, ricerche giurisprudenziali, partecipavo alle udienze e ai colloqui con i clienti. È stata un’occasione di crescita personale perché è stato il mio primo vero contatto con il “mondo degli adulti”. Il primo anno di tirocinio avevo un rimborso di 300 euro al mese, aumentato il secondo anno a 400.Ho fatto tutto il tirocinio per accedere all’esame di abilitazione alla professione forense, ma già consapevole che avrei voluto fare altro nel futuro. Fin da subito mi sono sentita stretta nella realtà dello studio legale: mi sembrava una professione molto legata alla tradizione del passato (codici, manuali e ricerche giurisprudenziali) e poco in linea con il sempre più veloce sviluppo - soprattutto tecnologico - della nostra società. Così ho preso in considerazione il lavoro come legale di impresa: mi sembrava un ambiente più dinamico, proiettato verso realtà estere, orientato al pragmatismo e alla concretezza.È stato in questo "cambio di rotta" che ho deciso di recuperare l'esperienza mancata durante l'università e trascorrere i mesi di luglio e agosto del 2015 a Brighton, piccola cittadina a un'ora da Londra che si affaccia direttamente sul Canale della Manica. Certo non è stato un lungo periodo come l’Erasmus, ma è stata la prima volta in cui mi sono messa davvero in gioco. Proprio io che non avevo nemmeno cambiato città per studiare ho dovuto affrontare la mia timidezza in un ambiente completamente sconosciuto. L’obiettivo era migliorare l'inglese, ma anche acquisire più sicurezza. In quei due mesi ho alloggiato a casa di una signora inglese che mi ha accolto calorosamente: cucinava per me e trascorrevamo quasi tutte le cene chiacchierando! Di giorno, invece, frequentavo un corso di lingua: c’erano lezioni frontali per approfondire le regole grammaticali e organizzare attività in gruppo per migliorare la conversazione. Mentre il pomeriggio e la sera c’erano attività con tutti gli studenti per visitare le attrazioni culturali della città, andare al cinema, in qualche pub... Un metodo che ci permetteva di socializzare. Tutto – sistemazione in famiglia e corso – rientrava in un pacchetto dal costo di circa 2.400 euro, a cui ho aggiunto le spese per i pranzi, sempre fuori, e i biglietti per tutte le attività.Un corso che si è inserito bene nella mia voglia di cambiamento e che sull’onda dell’entusiasmo mi ha convinto a iscrivermi, nel settembre 2015, al corso di laurea specialistica in Economia e management internazionale presso la facoltà di economia a Torino: per farlo ho dovuto sostenere due esami integrativi in economia aziendale e microeconomia. Volevo ampliare il mio spettro di competenze tecniche su materie economiche che potessero combinarsi con le mie competenze giuridiche.I corsi del primo anno mi hanno subito incuriosita, anche grazie all’intervento di grandi imprenditori italiani che raccontavano la loro esperienza di lavoro, le strategie vincenti per le loro aziende, anche quelle di internazionalizzazione. Finalmente vedevo da vicino come e verso quale direzione le aziende italiane si muovevano nello scenario mondiale.Il corso di laurea prevede due mesi di tirocinio obbligatorio presso un’azienda: io ho mandato il curriculum alla Magneti Marelli, tra le aziende accreditate presso l’università. Il tirocinio, che valeva sei crediti, è cominciato nel settembre 2016 e al termine dei due mesi, a novembre, l’azienda mi ha proposto di continuare con un altro stage di sei mesi, cominciato a fine mese e terminato a fine maggio del 2017. In questo periodo avevo un rimborso spese di 1000 euro lordi, più mensa e pc aziendale.Quando Magneti Marelli mi ha fatto questa proposta ho subito accettato perché i primi due mesi di stage sono stati un’esperienza straordinaria: ho finalmente messo in pratica ciò che avevo studiato, in una realtà grande ma che presta attenzione alla persona, alla formazione dello stagista e al suo coinvolgimento nel team e nel mondo aziendale. Sono stata fin da subito presentata a tutto il team dell’ufficio legale e mi sono sentita accolta in una grande famiglia. Il rapporto con colleghi e tutor è stato ottimo e improntato al confronto e al dialogo. E proprio in questo periodo sono andata a vivere da sola, trasferendomi da Torino a Magenta!Poi a giugno 2017 è arrivata la bella notizia, il sogno: la firma del contratto a tempo indeterminato, con una Ral di 28mila euro circa più pc aziendale. Così oggi sono convinta di aver fatto la scelta giusta nel non intraprendere la libera professione. L’opportunità in Magneti Marelli è stata la prima della mia vita in una realtà aziendale e oggi è la conferma che questo è il mio ambiente di lavoro ideale: un ambiente dinamico in cui è possibile, anzi doveroso, confrontarsi. La laurea in economia, che sarebbe comunque la mia seconda laurea, è andata quindi un po’ in standby, ma mancano pochi esami – li farò mentre lavoro!Oggi all'interno dell’ufficio legale fornisco attività di consulenza legale nell’ambito delle operazioni di M&A e in relazione a tutte le nuove opportunità di Business Development affrontati dall’azienda. Presto supporto e consulenza legale insieme al mio team per fusioni, cessioni e acquisizioni di rami di azienda, per la costituzione di società all’estero e di joint venture companies, provvediamo a redigere tutta la documentazione necessaria per queste operazioni, a livello giuridico e di impatto finanziario e contabile, e prestiamo supporto durante tutte le fasi di negoziazione. È un lavoro molto dinamico, che favorisce dialogo e confronto con i colleghi di nazionalità e culture diverse ed è stimolante perché consente lo sviluppo di una efficace capacità di problem solving.Nonostante lavori in un mondo di auto, moto e motori in generale non ho mai pensato di trovarmi in un ambiente poco adatto a una donna: mi piace questo settore e sono io stessa motociclista e appassionata di moto! So di essere ancora all’inizio del mio cammino professionale e sotto questo punto di vista penso che in Magneti Marelli avrò l’opportunità di crescere tanto. Questa azienda è il compromesso ideale per me: multinazionale, ma italiana, e quindi spero di avere la possibilità di viaggiare e vivere esperienze all’estero grazie al mio lavoro.Oggi che ho un contratto a tempo indeterminato posso dire con certezza che l’inserimento in azienda tramite stage sia uno step necessario perché rappresenta un momento importante per il neolaureato per la prima volta alle prese con il mondo del lavoro. È una messa alla prova con se stessi e con l’azienda. Anche se alcune aziende ne fanno un uso smodato, tanto che molti fanno sei mesi di stage da una parte, sei da un’altra e così via, accumulando esperienza ma non certo stabilità economica, rimandando continuamente i propri sogni. Perciò penso che la Repubblica degli Stagisti rappresenti una grande opportunità per i giovani, che in questo modo sono consapevoli dei loro diritti, e per le aziende che fanno parte dell’RdS network, che hanno l’opportunità di farsi conoscere e di essere dei buoni esempi di datori di lavoro che credono e scommettono sui giovani: come Magneti Marelli!Ai neolaureati in giurisprudenza un consiglio: la libera professione non è l’unico sbocco. Nessuno prende in considerazione la figura del legale in azienda, pensando sia meno prestigioso e routinario. Non è così: si affrontano tante questioni, si sviluppa una capacità di problem solving più efficace, è un lavoro stimolante. Quindi, osate! Abbiate il coraggio di uscire dagli schemi tradizionali e non ve ne pentirete.Testimonianza raccolta da Marianna Lepore  

Dall'Armenia all'Italia col servizio volontario europeo, «il primo passo per cambiare la propria vita»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Nona Simonyan.La mia storia è iniziata a Yerevan, in Armenia, dove sono nata 28 anni fa. Sin dalle scuole superiori ho avuto le idee chiare su cosa volevo fare: mi piacevano le lingue straniere, soprattutto l’inglese, e nel 2005 sono riuscita ad essere ammessa alla facoltà di filologia romanza dell’Università di Yerevan, dove ho studiato, oltre all’inglese, l’italiano, di cui mi sono subito innamorata. Dopo soli due mesi di studio, infatti, già mi cimentavo nella scrittura di poesie in italiano e, a distanza qualche anno, ho preso anche la certificazione linguistica Cils. Mi sono laureata in triennale nel 2009 e ho iniziato subito la magistrale, sempre nella stessa università, ma questa volta alla facoltà di traduzione. In quei due anni sono riuscita a fare la mia prima breve esperienza in Italia: due mesi di studio presso l’università per stranieri di Perugia. Da lì l’amore per l’Italia non mi ha più lasciata. Terminati gli studi mi sono trovata ad affrontare la difficile ricerca di un’occupazione e, dopo vari mesi trascorsi da un lavoro all’altro nell’ambito della traduzione e dell’insegnamento dell’italiano, ho trovato finalmente un’occupazione seria: coordinatrice di programmi di formazione, traduttrice e interprete presso il Council of international studies dell’Hayq-Yan University. Facevo finalmente quello che mi piaceva, avevo un buon rapporto con capi e colleghi e i miei studenti erano diventati anche degli amici. Per questo è stato difficile, inizialmente, decidere di lasciare tutto e partire per lo Sve in Italia! Ho scoperto l'esistenza di questo programma grazie a mia sorella, che durante gli studi aveva fondato insieme a due amici una ong in cui realizzavano progetti a livello locale ed europeo del programma Youth in action, adesso Erasmus+.Il progetto mi attirava tantissimo: si trattava di sei mesi a Matera, presso una onlus che si occupa di immigrati, e il mio compito sarebbe stato quello di organizzare eventi che favorissero la loro integrazione nella società italiana nonché fare attività in scuole e università. L’idea di perdere il lavoro che avevo tanto cercato mi ha inizialmente bloccata ma poi, non riuscendo a togliermi dalla testa il pensiero di quest’opportunità, ho deciso di mollare tutto e candidarmi per il progetto. Ho scritto una lettera di motivazione, professionale ma allo stesso tempo molto sincera, in cui mi sono lasciata andare anche a qualche riga più emozionale, ho allegato il mio cv e ho inviato la mail all’associazione Link. Dopo qualche settimana ho saputo di esser stata selezionata e, nel giro di poco tempo, mi sono ritrovata finalmente in Italia. Sono arrivata a Bari, dove sono rimasta una settimana per fare un “on arrival training”, un corso di preparazione prima dell’inizio vero e proprio, e poi sono partita in direzione Matera, dove l’associazione Tolbà mi aspettava per dare avvio al progetto. Sono stati mesi intensi, in cui ho fatto cose che, da sola, avrei impiegato anni a fare: abbiamo realizzato progetti coi bambini, come ad esempio la costruzione di un enorme drago con gli alunni della scuola media in occasione del capodanno cinese, in modo che i ragazzi scoprissero una cultura diversa e interessante e che i bambini cinesi si sentissero ancora più integrati nella comunità italiana. Ho tradotto articoli e storie, alcune delle quali sono state poi pubblicate in un libro in più lingue tradotto dai volontari e dagli immigrati con cui lavoravo. L’associazione ospitante organizzava poi anche progetti nelle scuole elementari, nei quali preparavo testi e canzoni tradizionali e brevi lezioni di lingua. Oltre ad aver imparato tanto dai progetti seguiti, grazie allo Sve ho avuto modo di riflettere sulla mia cultura e sulle mie tradizioni e di capire che, pur avendo differenti nazionalità, abbiamo tanto in comune e quelle che riteniamo “differenze”, differenze di esperienze o di conoscenze, sono in realtà ciò che di più bello possiamo far conoscere di noi stessi agli altri. Ho capito che neanche la differenza di religione può essere un ostacolo nella convivenza con una persona: la mia compagna di stanza era una ragazza musulmana franco-marocchina, con la quale ho avuto da subito un buon rapporto e con la quale continuo tuttora ad essere in contatto. Ho fatto amicizia velocemente, sia con italiani che con stranieri, migliorando sempre più la mia conoscenza dell’italiano e imparando anche un po’ di dialetto materano. Anche i mentor che seguivano me e gli altri volontari sono diventati come una seconda famiglia, e questo è stato fondamentale soprattutto nei momenti in cui sentivo la mancanza dei miei cari. Credo che lo Sve sia un’esperienza che fa crescere sia professionalmente che mentalmente, perché devi imparare a gestire il tuo tempo, creare rapporti con i colleghi, e organizzare le spese con i soldi che non bastano mai: percepivo un compenso di 160 euro al mese per il vitto e 115 euro di pocket money; è vero che non pagavo l’affitto dell’appartamento, che era incluso nel budget del progetto, ma per riuscire a far tutto con quella somma bisognava organizzarsi, e questo aiuta a maturare e a diventare più forti. C’è solo una cosa di cui mi pento e che, tornassi indietro, farei diversamente: viaggiare di più. Ero così dedita al lavoro che cercavo di fare ore extra, di imparare di più, e mi sono goduta troppo poco la natura e i paesaggi. Alla fine del progetto sono tornata in Armenia, intenzionata a cercare un lavoro e ad andare a vivere da sola, dato che i mesi in Italia mi avevano fatta crescere e mi avevano resa indipendente. Ho fatto vari lavori come traduttrice simultanea, finché non sono stata contattata da una ong per lavorare come pr manager e assistente ai progetti, e lì ho conosciuto il ragazzo italiano grazie al quale ho trovato il coraggio di tornare in Italia e trasferirmi finalmente qua. A settembre 2016 abbiamo fondato insieme l’associazione Nous, con la quale facciamo partire tanti ragazzi per progetti nell’ambito di Erasmus+ e anche, quindi, per progetti Sve. Il nostro obiettivo è informare i giovani sulle opportunità di mobilità grazie ai finanziamenti europei, perché vogliamo condividere quello che abbiamo imparato. Lo Sve è stata sicuramente l’esperienza più bella della mia vita e a tutti i ragazzi che vorrebbero trovare il coraggio di cambiare la propria vita dico che lo Sve è il giusto primo passo. Bisogna trovare la forza per lasciare tutto e scoprire se stessi, cercare il progetto giusto e mettersi in gioco senza arrendersi, perché tutte le difficoltà sono temporanee e poi sono le stesse difficoltà a farci maturare. Testo raccolto da Giada Scotto

Girl Power: «A 28 anni progetto quadri di bordo in Magneti Marelli: ragazze, studiate senza temere i pregiudizi»

La scienza è sempre più donna. E c’è un’ampia serie di ragioni per le quali oggi, per una ragazza, può essere conveniente scegliere un percorso di studi in ambito Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). La Repubblica degli Stagisti ha deciso di raccontarle una ad una attraverso una rubrica, Girl Power, che avrà la voce di tante donne innamorate della scienza e fortemente convinte che, in campo scientifico più che altrove, di fronte al merito non ci sia pregiudizio che tenga. La storia di oggi è quella di Alice Sandri, 28 anni, di Robbio (Pavia), software engineer presso l’azienda di componenti automotive Magneti Marelli.Ho una vera e propria passione per le materie scientifiche: quando ho scelto di studiare Ingegneria l'ho fatto perché ero convinta che mi potesse dare la giusta formazione, sia a livello teorico che pratico, ma soprattutto un metodo – e la possibilità, una volta laureata, di scegliere tra vari ambiti lavorativi. Anche se mio padre è ingegnere, in famiglia non ho mai subito “pressioni”. Certo le persone vicine a me sapevano che poteva essere una buona scelta e mi hanno sempre supportato. Così, dopo il liceo scientifico, ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Ingegneria informatica all’università di Pavia. Nel 2011 ho conseguito la laurea triennale e mi sono iscritta alla specialistica, indirizzo automazione, laureandomi nel 2013. La passione per l’automazione e la robotica è nata nel corso degli studi: lo trovavo un ambito nuovo e interessante, che permetteva di essere creativi oltre che tecnici.Conclusi gli studi mi hanno proposto un dottorato, ma dopo cinque anni ho pensato che era il momento di passare ad altro. All’uscita dall’università ho subito iniziato a lavorare in un’azienda di automazione industriale in ambito calzaturiero, in un nuovo polo di ricerca, a Vigevano, dove avevo un contratto di apprendistato. Lì ho lavorato per sei mesi, poi sono stata contattata da Magneti Marelli, probabilmente tramite il portale AlmaLaurea, per uno stage come software engineer. Molte persone si sono stupite perché ho lasciato un contratto a tempo indeterminato per uno stage... Ma si trattava di una proposta stimolante che non potevo rifiutare! Anche in Magneti Marelli, dopo sei mesi di stage e dieci di tempo determinato, ho ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Lavoro nella divisione Electronics, dove sviluppo software per quadri di bordo, e attualmente coordino un gruppo di persone per un progetto relativo a un nuovo quadro di bordo. Siamo sessanta software engineers e uno su dieci è donna. Probabilmente il fatto che sia un ambiente così giovane - siamo quasi tutti tra i 25 e i 35 anni - comporta un’apertura mentale maggiore, e di questo mi sento fortunata. Lavorare con persone con una mentalità aperta mi ha infatti aiutato nel poter dimostrare le mie capacità professionali. Di conseguenza, non ho percepito una “discriminazione” rispetto ai colleghi uomini che hanno fatto il mio stesso percorso. Inoltre tra colleghi abbiamo un ottimo rapporto, e organizziamo cene ed eventi anche al di fuori di quelli aziendali. Avevo scelto di studiare ingegneria informatica per avere la possibilità di lavorare in diversi ambiti e avere la forma mentis per risolvere i problemi, ed è stato così. L’ingegneria ti fornisce un approccio che puoi applicare non solo in ambito tecnico ma in generale nella vita professionale quotidiana. Ciò che più mi appassiona del mio lavoro è poter concretizzare idee e concetti teorici in un qualcosa di reale e tangibile, come un prodotto.  Le difficoltà di non saper fare le cose ovviamente ci sono, ma sono quelle che ti fanno crescere. Non mi sono mai pentita del percorso intrapreso finora. Al momento, a livello di ambizione professionale, l’obiettivo  principale è quello di accrescere  le mie competenze, sia tecniche che di soft skills, che sono le più difficili da acquisire. Questo è il momento giusto per farlo. Spero quindi che la mia crescita di posizione in un organigramma sarà poi frutto di questo.All’università eravamo poche ragazze, soprattutto nel ramo dell’informatica: più o meno il 5%. Invece tra i docenti, soprattutto per le materie matematiche e fisiche, c’era una buona rappresentanza. Noi ragazze non abbiamo mai formato un gruppo isolato, eravamo perfettamente integrate con i nostri compagni universitari. Il rapporto è sempre stato completamente alla pari, con costante collaborazione e scambio di informazioni. I gruppi si sono formati durante gli anni, ma sulla base di interessi comuni e amicizia. Probabilmente di fronte a una donna che fa un lavoro tendenzialmente maschile c’è un pregiudizio iniziale più forte, ma per me non è mai stato bloccante, né in ambito formativo né professionale. Né sono spaventata dall’idea di potermi fare una famiglia e di conciliare la vita privata a quella lavorativa. Non considero un'attività maschile intraprendere la carriera da ingegnere e, nello specifico, il mio lavoro. Magari tale concezione deriva da un retaggio storico. Per questo, credo che non ci sia nulla da temere nell'affrontare tale percorso in quanto ragazza. Anzi, sicuramente il carattere scientifico di questo tipo di indirizzo permette di valutare più oggettivamente le competenze e le qualità tecniche di una persona, a prescindere dal suo essere uomo o donna.Alle ragazze appassionate di materie scientifiche consiglio Ingegneria perché è un’ottima facoltà, che permette di accrescere le proprie conoscenze e approfondire tanti aspetti lavorativi diversi. In particolare, l’ambito in cui lavoro, l’automotive, è uno dei settori che sta crescendo di più. La sua continua evoluzione permette di poter lavorare su prodotti tecnologicamente avanzati e questo è particolarmente stimolante e sfidante a livello professionale. Ma in generale consiglio alle ragazze di non limitarsi nel fare determinate scelte solo perché si sentono in minoranza e hanno paura di essere giudicate. Io sono convinta che bastano competenza e professionalità, dimostrare di saper fare le cose, per superare ogni pregiudizio.Testimonianza raccolta da Rossella Nocca