Le scuole di giornalismo sono il problema della professione giornalistica? Certo che no: chi lo pensa è ingenuo, o non conosce a fondo il mercato editoriale italiano, o è in malafede e per qualche ragione ha interesse a sparare su queste strutture.
La verità è che non sono le scuole – coi loro 200-300 nuovi praticanti all'anno – che alimentano l'inflazione, immettendo sul mercato un numero di cronisti superiore al necessario. Il problema vero sono in primis le retribuzioni da fame dei precari e dei freelance – con buona pace del ministro Fornero che recentemente in Commissione lavoro al Senato ha dichiarato di «non vedere la ragione» di una legge sull'equo compenso giornalistico. E in secondo luogo l'impervia via di accesso alla professione: perché all'iscrizione all'albo dei pubblicisti, o all'esame per diventare professionisti, si arriva quasi sempre dopo essere stati bellamente sfruttati per anni e anni.
Centinaia di persone pur di ottenere il tesserino arrivano anche a fingere di essere retribuite, scrivendo gratis - e pagandosi addirittura le ritenute di tasca propria - pur di poter presentare agli Ordini la richiesta di iscrizione all'albo pubblicisti. E poi ci sono i cosiddetti "praticanti d'ufficio", che rappresentano (stappate bene le orecchie, voi che accusate gli allievi delle scuole di inflazionare il mercato) ogni anno oltre il 50% del totale dei nuovi professionisti. È questo che crea il cortocircuito nella professione, unitamente a un mercato in caduta libera: sempre meno giornali venduti, sempre meno spettatori, sempre più scarsi introiti pubblicitari: ergo sempre meno soldi in cassa, editori sempre meno inclini ad assumere e a pagare.
Le scuole di giornalismo hanno, in effetti, il problema che costano un occhio della testa. Però non sono la malattia: sono semmai il sintomo della malattia che ha colpito il sistema dei giornali, delle radio, delle tv e sopratutto oggi del web, e che anno dopo anno si aggrava. Esse si propongono di fornire ai giovani aspiranti giornalisti un percorso formativo completo, che li metta in grado di produrre informazione di qualità nel rispetto delle leggi e seguendo la deontologia. L'accesso viene regolato attraverso selezioni e prove scritte e orali per garantire che - a differenza di ciò che accade nel "libero mercato" - possano avere la chance di diventare giornalisti anche coloro che, pur meritevoli, non hanno amici o parenti in qualche redazione e non possono quindi contare su segnalazioni o raccomandazioni.
Il problema delle scuole scoppia però una volta espletata questa procedura (sperabilmente) meritocratica di accesso: perchè i vincitori della selezione possono iniziare il loro praticantato solo a condizione di pagare una retta. E questa retta, come dimostra l'inchiesta di Marianna Lepore pubblicata nei giorni scorsi sulla Repubblica degli Stagisti, varia dai "soli" 4mila euro all'anno di Bari ai 10mila euro all'anno di alcune scuole romane. Soldi che ovviamente nella maggior parte dei casi sono le famiglie a dover tirar fuori, aggiungendo poi anche una quota in più per vitto e alloggio in caso l'aspirante cronista debba trasferirsi in un'altra città.
Un canale di accesso che dunque si configura come "classista", perchè riservato pressoché solo a chi proviene da famiglie abbienti: il sistema potrebbe essere controbilanciato da una forte quota di posti coperti da borse di studio ma in realtà quelle esistenti sono pochissime. Dagli ultimi dati risulta che solo un allievo su cinque riesce a beneficiarne (una settantina su poco meno di trecento), e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di borse di studio a copertura parziale, e non totale, della retta.
C'era una volta, a Milano, una scuola completamente gratuita. La prima scuola di giornalismo d'Italia, il glorioso "Ifg De Martino" [nell'immagine a fianco un particolare della copertina della pubblicazione uscita in occasione del suo 25esimo anno di attività], fondato negli anni Settanta proprio con lo scopo di garantire ai meritevoli di poter diventare professionisti pur senza avere "santi in paradiso". L'Ifg era gratis per i partecipanti, e lo è rimasto fino al 2007. Ora è accorpato al master della Statale, e costa circa 7mila euro all'anno.
Chi scrive ha frequentato l'ultimo dei bienni gratuiti, il 15esimo, e sempre difenderà la preparazione dignitosa fornita dalle buone scuole, che non ha proprio nulla da invidiare a quella conquistata - con una dicitura ormai retorica - da chi, assunto o semiassunto in qualche redazione, ha avuto e ha la chance di farsi le ossa sul campo, consumandosi la scuola delle scarpe. Anche perché gran parte degli allievi delle scuole ha avuto ed ha alle spalle mesi o anni di campo, e ricorre alla scuola solamente perchè dopo tanti sforzi si rende conto che è l'unica via per arrivare all'albo.
E poi comunque sul campo ci vanno anche i praticanti delle scuole: innanzitutto con le testate interne, per le quali lavorano in classe durante i mesi di formazione, e poi attraverso i periodi di stage in redazione "vere". Stage che rappresentano il secondo dei grandi problemi del meccanismo di funzionamento delle scuole: devono essere per forza svolti perchè questo tipo di praticantato sia considerato valido, ma si rivelano sopratutto un gran vantaggio per gli editori. Che di colpo possono disporre di decine e decine di giovani praticanti, affamati di esperienza e di contatti, già formati alla professione grazie alle competenze apprese alla scuola di giornalismo. Praticanti che non hanno però, a differenza di quelli contrattualizzati, nessun diritto: tantomeno alla retribuzione. Praticanti che possono essere inquadrati come stagisti, nel quadro delle leggi vigenti in materia, e quindi utilizzati senza nessun obbligo di erogare una indennità.
Questa situazione ha contribuito a creare un pregiudizio verso gli allievi delle scuole, visti non solo come quelli che «si comprano il praticantato» ma anche come disponibili a lavorare gratis, e dunque concorrenti sleali di precari e freelance.
Quel che spesso si dimentica è che dopo il biennio di praticantato, l'esame di Stato, l'iscrizione nell'albo dei professionisti, i ragazzi delle scuole si trovano nelle stesse identiche condizioni di tutti gli altri giornalisti precari, professionisti o pubblicisti. Una situazione insostenibile, fatta di 544 euro al mese di retribuzione media per i giornalisti freelance under 40 (il dato è quello ufficiale dell'Inpgi gestione separata), di testate che pagano pochi euro ad articolo e spesso facendo aspettare mesi (e qui ci sono le belle inchieste del collettivo Errori di stampa e di altri coordinamenti regionali).
Il dramma del precariato giornalistico agisce dunque come una livella: lungi dall'essere privilegiati, gli ex allievi delle scuole si ritrovano anzi per certi versi ancor più cornuti e mazziati degli altri – perchè dopo aver fatto investire alle proprie famiglie migliaia e migliaia di euro per una formazione specifica non trovano sul mercato acquirenti disposti a pagare il giusto per queste competenze. Il gioco delle testate, purtroppo anche le più grandi, è infatti ormai quasi sempre quello del massimo ribasso: far lavorare non chi sa farlo con più professionalità, bensì chi è disposto a farlo per il meno possibile.
Innescare guerre tra poveri è dunque controproducente, e molto miope. L'obiettivo comune di Ordine, sindacato e collettivi di precari dell'informazione dovrebbe essere quello di riportare le testate giornalistiche a fare contratti di praticantato. Quei famosi "articoli 35" che ad oggi sono praticamente estinti. E a fare una lotta senza quartiere agli editori sfruttatori, vigilando in maniera capillare (cdr, svegliatevi una buona volta: non siete stati eletti solo per perdere tempo alle riunioni sindacali in orario d'ufficio o ai convegni) e sopratutto a sanzionare in maniera esemplare chi non paga. Secondo il semplice principio che il giornalismo è una professione come un'altra e deve permettere a chi la svolge di pagarsi affitto e bollette: e pertanto un giornalista non pagato, semplicemente, non può essere un giornalista.
Eleonora Voltolina
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