«Interessante l’idea della Carta dei diritti dello stagista. Però non sono affatto d’accordo con il sesto punto, quello che suggerisce che le aziende dovrebbero dare un compenso in forma del rimborso spese ai loro tirocinanti. Questo è profondamente sbagliato: non in sè, ma come possibile fonte di gravi abusi. Più il rimborso spese è alto, infatti, più a me si drizzano le antenne perché dietro la forma dello stage si potrebbe nascondere la sostanza di un normale rapporto di lavoro. Lo dico chiaro e tondo: dare un rimborso spese per lo stage dovrebbe essere vietato per legge».
La provocazione arriva alla Repubblica degli Stagisti da Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia e direttore scientifico di ADAPT - Centro Studi Marco Biagi. E qui bisogna fare due passi indietro.
Prima di tutto, ricordare cosa dice la nostra Carta sull'argomento: «Gli stagisti devono percepire un rimborso spese adeguato e commisurato all’età, alla scolarità, alle competenze pregresse e all’apporto fornito all’ospitante». Quindi il principio è che il costo della formazione aggiuntiva – rappresentata appunto dallo stage – non debba ricadere sulle spalle dello stagista, e che questo non debba andare addirittura a rimetterci dovendosi pagare di tasca propria i trasporti, il pranzo e magari anche un alloggio (non di rado infatti per fare uno stage ci si deve trasferire in un’altra città). Continua la Carta dando un’indicazione di massima sull’entità del giusto rimborso spese: «almeno 250 euro netti mensili per diplomati e studenti universitari; almeno 500 euro netti mensili per laureati».
Il punto, e qui sta il secondo passo indietro, è che Tiraboschi parte da una prospettiva ben precisa: e cioè che lo stage non dovrebbe essere mai utilizzato con la funzione di "inserimento lavorativo", bensì solo ed esclusivamente come periodo di formazione e raccordo tra scuola e mondo del lavoro. «Non c’è bisogno di dare un compenso allo stagista» spiega il professore «primo perché, se lo stage è vero e non maschera un rapporto di lavoro, lo stagista non produce nulla per l’azienda, dato che non ci sta per lavorare, ma esclusivamente per imparare. Secondo, perché il suo vantaggio sta appunto nelle competenze che acquisisce nel corso dello stage. In un progetto formativo serio sono indicati con chiarezza gli obiettivi, e il ragazzo attraverso il suo tutor e l’apprendimento “on the job” si porta a casa un patrimonio di competenze che gli permette di arricchire il suo curriculum». Secondo Tiraboschi, insomma, un’impresa che offre una vera occasione formativa a un ragazzo non ha bisogno di mettere sul piatto anche un premio in denaro. Salvo poche e pregevoli eccezioni, anzi, quelle che lo fanno sarebbero da mettere sotto osservazione: «Perché se danno dei soldi ai loro stagisti il rischio è che poi, sentendosi la coscienza a posto, li trattino come dipendenti». In più, eliminare il rimborso spese dal punto di vista del professore metterebbe fine alla pratica impropria degli stage troppo lunghi: «A volte i ragazzi accettano stage di sei-nove mesi, o addirittura un anno: lo fanno perché c’è un rimborso spesa che assomiglia in tutto e per tutto a uno stipendio. Se il rimborso spese fosse vietato per legge, i ragazzi non accetterebbero mai stage così lunghi. Gli stage non dovrebbero superare i tre, massimo cinque mesi».
La posizione da cui parte la Repubblica degli Stagisti è diversa: innanzitutto, il rimborso spese è da considerarsi un giusto e anzi indispensabile riconoscimento per il tempo e l’impegno che una persona dedica allo stage, perchè non sta scritto da nessuna parte che la formazione debba essere a carico dei giovani (e questo concetto viene confermato anche dall’esistenza delle borse di studio universitarie, degli assegni di ricerca etc). Secondo poi, i giovani italiani già oggi si trovano a fare i conti con migliaia e migliaia di stage gratuiti, e li accettano – anche se sono molto lunghi: l’indagine annuale di Cesop sui neolaureati, a questo proposito, evidenzia per esempio che il 59,4% dei laureati sarebbe disponibile a fare uno stage di sei mesi addirittura gratis, pur di avere l’opportunità di farsi conoscere da un’azienda. Infine, da quando lo strumento dello stage è stato introdotto e incentivato dal pacchetto Treu nel 1997, è diventato un passaggio obbligato dal mondo della formazione a quello del lavoro - tanto che moltissime aziende ormai lo indicano esplicitamente nei loro siti come canale di recruiting privilegiato.
«Si dimentica sempre però che lo stage non è un contratto di lavoro, è uno strumento orientato esclusivamente alla formazione. Se si vuole una vera forma mista di formazione e lavoro, che preveda anche una giusta retribuzione, ci sono oggi due forme: il contratto di inserimento e l'apprendistato. Se invece si ha bisogno di personale per brevi periodi, ci sono il lavoro a progetto, il lavoro a chiamata e a tempo parziale, i buoni lavoro. Insomma: lavori veri, con copertura previdenziale» conclude il professore: «Utilizzare lo stage per queste funzioni è spesso improprio».
E questa è una sfida che la Repubblica degli Stagisti si è già impegnata a raccogliere: promuovere l’utilizzo di altre forme di formazione, come già espresso nell’ultimo punto della Carta dei diritti dello stagista, sarà una delle priorità di questo sito. Caro professor Tiraboschi, è una promessa. Ma lei non potrebbe rivedere questo giudizio così severo sui rimborsi spese, ammettere che non sono poi così ripugnanti, e che per gli stagisti sono una gratificazione e un sostegno economico talvolta indispensabile?
Eleonora Voltolina
Per saperne di più su questo argomento, vedi anche gli articoli:
- Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»
- Lo stage, formidabile strumento di selezione di Paolo Citterio, presidente nazionale associazione direttori risorse umane GIDP/HRDA
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