Lo scopo dello stage è quello di far conoscere ai neolaureati il mondo delle imprese per verificare se sono interessati - e adatti - a lavorare in azienda, oppure se la loro vocazione è quella di diventare dei liberi professionisti, insegnanti o altro.
Attraverso l’associazione Gidp/Hrda, network di 2350 dirigenti del personale di aziende medio grandi (sopra i 250 dipendenti), noi prestiamo da tempo molta attenzione all’inserimento nelle imprese dei giovani neolaureati che si trovano per la prima volta a contatto con aziende industriali, del terziario, del credito ecc.
Curiamo ogni anno un’indagine (siamo ormai arrivati alla nona edizione!) che fa il punto sull’utilizzo degli stagisti come raccordo tra il mondo universitario e le grandi imprese.
I giovani che si affacciano per la prima volta sul mondo del lavoro, infatti, spesso hanno una visione poco realistica del mondo economico - specie se hanno lauree umanistiche.
Dalla nostra indagine emerge che le grandi aziende fanno un uso molto corretto degli stagisti: prevedono un tutor che segua i giovani nel progetto loro affidato, li utilizzano per le competenze che hanno e cercano di farli transitare dalla logica del sapere a quella del saper fare.
Gli stagisti partecipano alla vita aziendale per periodi generalmente di 6 mesi (qualcuno anche di 12), e non certo gratis: sono retribuiti in media con un emolumento che si aggira sui 625 euro netti mensili e con un buono mensa da 5,20 euro al giorno.
Le aziende serie ovviamente non utilizzano gli stagisti per supplire alle assenze per gravidanza, ferie temporanee o malattie dei propri dipendenti, ma cercano in loro dei validi collaboratori per accrescere il capitale umano dell’impresa. Insegnano loro il lessico aziendale, magari iniziando dalle fotocopie, per farli poi passare gradualmente a incarichi semi operativi.
Gli stage sono poi un formidabile strumento di selezione!
Normalmente, un’impresa che deve assumere un paio di neo ingegneri o economisti (le lauree più concupite dal mercato) mette inserzioni sul Corriere, qualche avviso su Jobadvisor, Catapulta, TalentManager e simili, e attende che arrivino i cv.
Ne riceve in media circa 300: a quel punto parte lo screening da parte del responsabile del recruiting, che deve verificare il tipo di laurea, gli anni di conseguimento (molto importante) la conoscenza della lingua inglese (sempre fondamentale), il percorso all’estero (Erasmus o altro) l’eventuale altra lingua del gruppo se il recruiter opera in una multinazionale, i piccoli lavori svolti durante il percorso di studi ecc…
Così, attraverso un lavoro certosino, dagli iniziali 300 cv si passa ad una decina. A quel punto i candidati vengono chiamati per il colloquio di gruppo: gli esaminatori in poche ore devono indagare le capacità relazionali, di problem solving, decisionali di ciascuno, e scegliere chi far arrivare al colloquio individuale.
Un percorso davvero lungo e costoso per un’azienda. Attraverso uno stage, invece, una nuova risorsa può essere conosciuta e osservata con calma, durante quei 6/12 mesi di stage che diventano in effetti un periodo di prova reciproca: perchè non solo i dirigenti hanno modo di conoscere il giovane, ma anche il giovane può capire se gli piace lavorare in quella realtà o no.
Così il periodo di stage giova sia all’azienda che ai giovani, perchè fluidifica il passaggio a un contratto vero e proprio – che può essere di volta in volta a tempo indeterminato, determinato, di apprendistato professionalizzante, di inserimento o a progetto.
Questo processo si conclude molto spesso con soddisfazione da entrambe le parti: prova ne sia che dalla nostra indagine risulta che il 41% degli stagisti finito il percorso viene assunto. Vi pare poco?
Paolo Citterio
Presidente nazionale associazione direttori risorse umane GIDP/HRDA
Membro C.D. Pmi di Assolombarda
Membro C.D. Terziario Innovativo di Assolombarda
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