Quando si è affacciato al mondo della piccola editoria italiana Federico Di Vita aveva 24 anni, una laurea in lettere in tasca e un'attrazione per i libri tanto forte da fargli apparire ragionevole l'idea di iniziare a lavorare come redattore in una casa editrice indipendente. Cinque anni più tardi, dopo aver brillantemente ricoperto praticamente tutti i ruoli disponibili nel settore, Federico non aveva ancora avuto l'onore di firmare un vero contratto di lavoro. Il primo stage si era infatti presto trasformato in una "collaborazione informale", cioè gratuita, durata più di due anni. Il secondo microeditore elargiva invece una remunerazione di 250 euro mensili, in nero. Una situazione limite, un'eccezione? Magari. «Tutto il settore si regge di fatto sul contributo di stagisti e persone che lavorano in condizioni simili alle mie», ammette Federico che in «Pazzi scatenati, usi e abusi dell'editoria italiana» (Effequ 2011) si è preso la sua piccola rivincita. Il suo libro inchiesta, di estremo interesse proprio perché scritto da un insider, racconta i perversi meccanismi che governano la filiera del libro italiano, svelando tra l'altro come centinaia di microeditori riescano oggi a sopravvivere in un mercato in crisi e altamente concorrenziale, dove i grandi gruppi si spartiscono gran parte della torta. La battaglia di resistenza combattuta dalla microeditoria indipendente rischia però di scaricarsi troppo spesso sulle spalle dei lavoratori, se così è lecito definire chi per anni offre il proprio lavoro in cambio di compensi nulli o irrisori.
Di Vita, come si è arrivati ad una situazione di illegalità tanto diffusa?
Negli ultimi quindici anni il numero delle piccole case editrici è molto cresciuto e al tempo stesso si sono quasi completamente saturati alcuni dei principali sbocchi professionali per i laureati in materie umanistiche, in primis la scuola. Moltissimi laureati si sono così orientati sull'editoria generando una grande offerta di lavoro per un settore che aveva invece capacità di assorbimento limitate. Nel frattempo c'è stata anche una rivoluzione tecnica che ha reso apparentemente semplice mettere in piedi un'impresa editoriale: in tanti hanno pensato che bastasse un computer, senza considerare invece quanto può essere difficile portare un titolo in libreria in un mercato così saturo.
A quanto pare in tanti hanno creduto in questa illusione…
Sì. Illuso è l'editore che crede di poter un giorno offrire un contratto a quelli che nel frattempo fa lavorare gratis o quasi; e a loro volta illuse le persone che si prestano a lavorare a simili condizioni, perché molto spesso indugiano troppo prima di capire la situazione. Io per primo intendiamoci: ho scritto questo libro proprio perché sono rimasto invischiato per cinque anni in questo ambiente, senza mai aver avuto un contratto ed essendo sempre stato pagato niente o pochissimo.
Ma come si giustifica in questi casi l'editore?
Molti piccoli editori hanno la «sindrome del benefattore», io la chiamo così. Ti dicono: ti faccio fare questa esperienza per 250, 300 euro al mese. Certo ti pago in nero, ti sfrutto, ma intanto ti aiuto a formarti. Il microeditore non ti promette un impiego definitivo, anzi molto spesso ti sprona a cercare altro nel frattempo, con l'alibi che la casa editrice non ti impegnerà tutta la giornata. Il che può essere vero: ma a me è capitato più volte di dover lavorare fino alle 4 di notte all'impaginazione di un libro. Alcuni piccoli editori, non c'è dubbio, sono in malafede; tanti altri invece si ritengono sinceramente dei benefattori. Sono una particolarissima specie di squali-sognatori.
Che tipo di mansioni si può essere chiamati a ricoprire?
Chiunque lavora nel settore finisce per fare un po' di tutto: non solo nella microeditoria, ma anche in case editrici un po' più conosciute e affermate i ruoli non sono quasi mai definiti una volta per tutte. Nell'ultima casa editrice per cui ho lavorato facevo il redattore, ma curavo anche tutta la comunicazione online e fino allo scorso luglio anche l'ufficio stampa.
Il tutto per?
Per 250 euro al mese, con degli extra a volte. Non è che lavorassi a tempo pieno, però lavoravo tanto, molto molto di più di quello per cui ero pagato.
Secondo te quante persone si trovano oggi in una situazione analoga?
Facendo un giro sui siti dei vari microeditori, tra lo staff trovi quasi sempre 5 o 6 o anche dieci persone. Poi ti accorgi che la casa editrice esce con un libro ogni due o tre mesi. Quindi o quei libri vendono tutti 200mila copie o questa gente non lavora, oppure, come poi in effetti è, lavora in nero. Mentre fai lo stage, non sei pagato d'accordo, ma almeno resti entro i limiti della legge: dopo ovviamente no. Basterebbe un semplice accertamento fiscale per portare alla luce lo stato delle cose. In un'intervista che riporto nel libro un piccolo imprenditore dice esplicitamente che «si lavora su base volontaria», che è un ossimoro per definizione, un controsenso. Il lavoro è una mansione svolta in cambio di un compenso, intendo dire: vocabolario alla mano.
Nelle grandi case editrici la situazione è diversa? Uno stage ha qualche probabilità in più di trasformarsi in un posto di lavoro?
Sicuramente anche i grandi editori sfruttano il meccanismo dello stage, anche se in questo caso non posso parlare per esperienza diretta. Ma almeno in una grande realtà non è impossibile riuscire ad avere un contratto e comunque non credo ci siano persone che lavorano per sempre, del tutto e completamente in nero. Oltretutto in Mondadori o in Feltrinelli i ruoli sono ben definiti: se entri come redattore o come ufficio stampa, puoi ragionevolmente presupporre di continuare a fare il tuo lavoro, senza che ti sia richiesto di passare a fare altro semplicemente perché ce n'è la necessità. La definizione dei ruoli aiuta la tua crescita professionale, ma anche la macchina dell'editore a funzionare bene.
La vera domanda a questo punto è: perché tante persone si prestano a lavorare in condizioni simili?
Secondo me esiste la percezione che sia socialmente prestigioso lavorare nell'editoria e in particolare per una realtà indipendente: aiutare a far crescere una piccola impresa, sfidare i grandi giganti editoriali può sicuramente essere appassionante. Ma se mi presto a lavorare gratis o per cifre irrisorie in realtà io sto svalutando quel lavoro, è come se ammettessi che il valore di quello che faccio è nullo o quasi. Non è solo una questione personale, ma anche sociale. Io sconsiglierei vivamente di intraprendere questa strada.
Tu stesso alla fine ti sei deciso ad abbandonarla: la collaborazione con la casa editrice con cui hai pubblicato «Pazzi scatenati» si è interrotta dopo l'uscita del libro.
Sì, mi è stato detto che non c'era più la necessaria serenità per continuare il nostro rapporto. Adesso lavoro in una libreria indipendente di Roma e sono soddisfatto: non solo perché mi piace, ma soprattutto perché mi pagano per quello che faccio, cioè proporzionalmente al lavoro che svolgo. A questo punto per me è un dato inaspettato.
Ilaria Costantini
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