Io, schiavo per tre anni in una piccola casa editrice

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Scritto il 22 Feb 2012 in Lettere

Dopo la pubblicazione dell'intervista a Federico Di Vita, autore di un libro-accusa contro le piccole case editrici che troppo spesso sopravvivono grazie allo sfruttamento di giovani laureati sottopagati e in nero, e la copertina dell'ultimo Emagazine della Repubblica degli Stagisti dedicato proprio a questo tema, alla redazione è arrivata la testimonianza di Tobia. Sotto questo pseudonimo si cela un professionista del settore che ha voluto condividere la sua esperienza, raccontando il suo percorso proprio all'interno di una piccola casa editrice dov'era impiegato prima in nero, e poi con un contratto finto part-time. Ecco la sua lettera aperta.

Mi sono laureato nel 2001, in dicembre. Una laurea debole che più debole non si può, ma quanto interessante: Lettere. Era ancora da venire l'epoca degli stage durante gli studi: infatti al momento della proclamazione a dottore io avevo all'attivo, come esperienza pratica, solamente un corso di qualche mese nella redazione di una casa editrice. E siccome il settore mi affascinava moltissimo, la mia intenzione era quella di provare a entrare al master in editoria più prestigioso in quel momento. La selezione (centinaia di aspiranti editor) fu una farsa, sembravamo vacche al macello. Il primo test di cultura generale era fatto chiaramente per sfoltire il più possibile, con domande improbabili di fisica e programmazione informatica. In breve, non passai.
stageComunque non ebbi molto tempo per piangerci sopra perché un'amica di mia madre mi disse che conosceva un piccolo editore e che, se la cosa mi interessava, poteva fargli avere il mio curriculum vitae di fresco laureato. Naturalmente accettai. Correva l'anno 2002, io ero molto ingenuo e invero non molto preoccupato dalla prospettiva di diventare uno squattrinato precario; erano davvero altri tempi, seppur vicini. Niente crisi economica grave, né recessione. C'era appena stato l'11 settembre, erano ancora tutti concentrati lì.
Intanto che aspettavo una chiamata dal piccolo editore suddetto mi barcamenavo con revisioni di traduzioni dall'inglese per una casa editrice medio grande, molto nota. Inciso doloroso anche questo: pagavano a ritenuta d'acconto - quindi, come si dice, "a babbo morto" - e dopo diverse telefonate di sollecito: fare la questua sui soldi guadagnati e che ti sono dovuti è un'esperienza faticosa e umiliante…
Finalmente il colloquio, in una redazione polverosa e in mezzo a cataste di libri, fogli, carte. Una situazione estetica perfetta per un giovanotto innamorato dei libri. Il colloquio va bene e comincio a lavorare. Gratis. Nel senso che dopo un paio di mesi in cui faccio di tutto - letteralmente: dalla spesa per l'ufficio, ai giri in posta per la corrispondenza alle multe per il figlio del titolare, dalla correzione di bozze alla gestione del magazzino, dalla scannerizzazione di tutte le cover delle pubblicazioni al trasporto al distributore editoriale di tonnellate di libri, su un'auto sgangherata, spaccandomi la schiena - mi accorgo che non sto facendo uno "stage" in redazione, come pattuito, ma sto sgobbando come un asino, e pure gratis. Mi sovviene anche che lo sto facendo senza aver firmato alcun foglio, alcuna impegnativa di alcun genere, contratto o qualsivoglia scritto. In pratica, mi rendo conto che sto lavorando in nero. E con alcune mansioni potenzialmente pericolose, come il magazzino o gli spostamenti in automobile.
Durante un evento in cui la casa editrice è presente con un piccolo stand, dopo una giornata di lavoro, l'editore di soppiatto e senza farsi vedere dai miei colleghi (per altro anche loro a nero, ma almeno pagati) mi mette in mano una mazzetta di soldi - tre-quattrocentomila lire, all'epoca non c'era ancora nemmeno l'euro - con l'espressione sul viso di chi sta pensando "non c'è bisogno che mi ringrazi". Io li prendo, imbarazzato ma almeno contento di guadagnare i primi spicci. Insomma: faccio cinque o sei mesi gratis, con qualche altra busta premio elargita in tutta segretezza. A un certo punto, con un diavolo per capello, faccio notare all'editore che sto lavorando a tutto tondo e non sto facendo alcuno stage, e che per giunta il mio lavoro non viene minimamente retribuito. Allora lui risponde che non può assumermi sennò fallisce, e lo dice colorando il discorso con una serie di piagnistei sulla condizione del mondo editoriale in crisi, e che lui, senza pubblicità alcuna, cerca di combattere la sua battaglia contro i grandi editori: la solita storia dei mulini a vento insomma. Io intanto penso: "però per tenere aperta la baracca sfrutti in nero la passione di giovani neolaureati...". Insomma, ci accordiamo per uno "stipendio". Per farla breve lavoro in nero per altri sei mesi e poi finalmente arriva l'assunzione reale. Ma, anche qui, col trucco: in pratica mi propone un'assunzione a tempo indeterminato part time. E il resto della giornata? In nero. Alè. Andiamo in pompa magna dal commercialista e, senza dare spiegazione alcuna, mi fanno firmare un contratto a tempo indeterminato e part time come pattuito, però al livello impiegatizio più basso possibile (C2) quando io in realtà svolgevo in autonomia mansioni per lo meno di tre livelli superiori (B1). Ma io questo non potevo saperlo, perché il contratto nazionale grafici editoriali era una pubblicazione di cui a 28 anni, lo ammetto, ignoravo l'esistenza.
Conservo ricordi molto belli, e tremendi, di quegli anni. La casa editrice era molto piccola: c'erano l'editore, che era anche il direttore della testata; il suo braccio destro, una giornalista che fungeva da caporedattore della rivista e da correttrice di bozze; un redattore / editor per la narrativa. E poi io, factotum: web content dei due siti, redattore e correttore bozze per i libri e la rivista, ufficio stampa e schiavo per le varie. Intorno a noi quattro fissi gravitavano altri soggetti, collaboratori e squaletti vari. Scoprii tra l'altro, col tempo, che fino a più o meno un anno prima che arrivassi io vigeva il nero totale. Poi un paio di redattori si erano ribellati (uno aveva anche preso a sberle l'editore) e avevano denunciato l'andazzo: e così si era trovato l'escamotage dell'assunzione creativa, il finto part-time.
Dopo tre anni così me ne andai. E al momento di riscuotere il tfr (la parte in nero) l'editore ebbe pure il coraggio di chiedermi un arrotondamento per difetto di 200 euro, adducendo i soliti piagnistei.
La beffa finale, passati anni e per mia fortuna lavorando adesso a tempo indeterminato in una prestigiosa casa editrice, è stata quella di leggere su un quotidiano un'intervista al mio vecchio datore di lavoro. Lamentandosi al solito della crisi, il galantuomo elogiava chi per oltre vent'anni aveva lavorato con abnegazione e senza compensi (!) per la sua casa editrice. Per la gloria, evidentemente. Sua. Naturalmente omettendo di dire che tutti quei soggetti (io e tutti i miei ex colleghi) avevano lavorato sempre e solo in nero. Sono più di vent'anni che quest'uomo ha un'attività editoriale che sopravvive grazie all'evasione fiscale e al nero dei lavoratori. Possibile che nessuno se ne sia mai accorto?

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