Spazio ai giovani, al merito, alla formazione e all'orientamento. Dopo il dibattito sulla Youth Guarantee è questo l'appello che hanno lanciato i principali rappresentanti delle parti sociali - Confindustria, Cgil, Cisl e Uil – che a metà febbraio, pochi giorni prima delle elezioni politiche e amministrative, si sono riuniti per firmare un patto congiunto dal titolo «Una formazione per la crescita economica e l'occupazione giovanile».
«Se si vuole favorire la crescita, la formazione deve essere al centro» si legge nel comunicato dell'iniziativa. Peccato però che il documento non parli affatto di come recuperare il ritardo enorme accumulato dall'Italia sull'istruzione universitaria rispetto agli obiettivi di Lisbona del 2000 - che richiedevano, tra le altre cose, maggiore tecnologia, adeguamento alle esigenze del mercato del lavoro, più mobilità dei giovani attraverso il sistema di riconoscimento delle competenze. E il raggiungimento del famoso 40%, cioè 4 laureati ogni 10 cittadini della fascia d'età 29-34 anni: in Italia siamo fermi sotto il 20%.
Nel documento congiunto imprese-sindacati questo aspetto è completamente tralasciato a favore di focus su altri problemi: mismatch tra domanda e offerta di lavoro, mancanza di figure professionali tecniche, record di disoccupazione giovanile, Neet. «Equità, produttività e istruzione, merito e lavoro, possono andare di pari passo e diventare concrete strategie di sviluppo» riconosce Ivano Lo Bello [nella foto in basso], vicepresidente di Confindustria per le politiche giovanili, nel suo intervento alla conferenza di presentazione. Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, gli fa eco sostenendo che «la spinta alla crescita si declina attraverso iniziative concrete, incontro tra scuola e impresa, tirocini, alternanza scuola lavoro. Così i ragazzi conoscono la realtà delle aziende mentre studiano e quando hanno finito di studiare, in modo che non siano marziani quando entrano nella società reale». La carta d'intenti, seppur un po' troppo corposa e dispersiva, dà comunque un segnale positivo di interesse verso la questione giovanile. Si suddivide in sostanza in dieci punti: eccoli.
Orientamento e tirocini. Per i firmatari «è indispensabile un potenziamento dei servizi e la costruzione di un sistema a rete in cui l’orientamento sia parte integrante del piano di studi di ogni studente» si specifica nel documento, riprendendo un tema caro alla Repubblica degli Stagisti che ne ha più volte rivendicato l'importanza per evitare le conseguenze disastrose prodotte dal mismatch. Anche i tirocini sono da concepire come strumento orientativo: per chi ha siglato il patto occorre «favorire nei giovani lo sviluppo di competenze trasversali, finalizzate alla maturazione di scelte formative e professionali pienamente consapevoli».
Istruzione tecnica. È stata centrale nei dibattiti più recenti sulle politiche occupazionali, e condivisibile se si pensa all'Italia come un Paese sostenuto dalla piccola e media impresa («il 70% sono imprese manifatturiere» si legge nel patto) dove le competenze tecniche la fanno da padrone (anche se bisogna fare attenzione a non cadere nell'eccesso, relegando i mestieri intellettuali in un angolo o giudicandoli secondari per la ripresa). «L’istruzione tecnica ha favorito il boom economico del nostro Paese e il suo potenziamento è una priorità» che potrebbe sconfiggere il problema del reperimento di profili tecnici: un concetto ribadito dal segretario confederale Cgil Serena Sorrentino, per cui «la valorizzazione dell'istruzione tecnica e professionale è uno degli strumenti per uscire dalla crisi».
Poli e istituti tecnico-professionali. Secondo le parti sociali i primi (che i firmatari definiscono «contenitori territoriali specializzati dell’intera filiera formativa per il lavoro») vanno implementati al pari dei secondi, che rappresentano una «valida risposta alla necessità di colmare la carenza di percorsi universitari tecnico-scientifici».
Valorizzare il lavoro nel processo formativo. Vale a dire le aziende devono parlare con i giovani mentre studiano, e non essere a sé stanti, per promuovere «un'occupabilità sostenibile» come la definisce Lo Bello. «Le imprese andrebbero riconosciute da tutti gli attori come principale interlocutore, perché possono offrire ai giovani opportunità di crescita culturale e acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro» si legge nell'accordo.
Sistema di riconoscimento delle competenze. Spesso dimenticato, rientra anche questo tra gli obiettivi mancati di Lisbona. Si legge nel comunicato che deve essere omologato «a livello nazionale per favorire una maggiore trasparenza del mercato del lavoro e dei meccanismi di incrocio di domanda e offerta». Ma è anche necessario «offrire a tutti maggiori possibilità di occupazione e mobilità, raggiungere una maggiore consapevolezza da parte delle persone delle proprie capacità, così da favorirne la crescita non solo professionale, ma anche personale». Affinché anche la mobilità, con il tramite del sistema di riconoscimento delle competenze, riceva una spinta.
Apprendistato. In Italia solo 1.723 apprendisti su 570mila hanno avuto l’opportunità di un contratto di apprendistato per l’acquisizione di un titolo di studio o di una qualifica. Di questi solo il 2,8% ha meno di 18 anni e il 33% ha più di 25 anni. Si tratta secondo le parti sociali «di semplificare lo strumento, snellendo l’iter ancora troppo burocratico, creando un’offerta formativa su misura e nuovi incentivi. Ne va valorizzata la componente formativa». Quanto all'apprendistato di alta formazione «occorre favorire collaborazioni - a partire da Its, lauree triennali, master e dottorato industriale - più in linea con le esigenze delle imprese di minori dimensioni, che hanno sempre più bisogno di managerialità altamente qualificata». Ma anche qui il documento trascura i problemi maggiori: e cioè il numero di apprendistati attivati troppo esiguo, il fatto che tre quarti di loro non faccia nessun tipo di formazione e che questo contratto sia una chimera per i laureati visto che i principali beneficiari (i due terzi) sono soggetti con titoli di studio bassissimi. Perchè questi aspetti vengono messi ai margini da Confundustria e sindacati? Difficile pensare che non vi sia da parte loro consapevolezza che questi sono i veri talloni d'Achille della diffusione dell'apprendistato in Italia.
Dottorati di ricerca. Tre quarti dei ricercatori italiani una volta conseguito il titolo abbandonano l'università: uno spreco enorme di sapere. Perciò «occorre rifinanziare i corsi di dottorato di ricerca, metà dei quali è sprovvisto di borsa, e riformarli anche per favorire un’interazione stabile tra formazione, ricerca e sviluppo tecnologico e industriale», dicono le parti sociali. Come? Ad esempio attraverso «PhD in azienda sul modello dei competitor internazionali».
Fondi Interprofessionali. Si tratta di «una gamba importante del più ampio sistema delle tre LLL (LifeLong Learning)» e una garanzia di crescita professionale, che migliora opportunità formative e mobilità. Nel perseguire l'obiettivo dell'aumento di produttività e competitività delle imprese, si legge ancora, «devono porsi il cruciale obiettivo della crescita professionale dei loro occupati».
La parità di accesso al sistema educativo e delle professioni. Il merito, stroncato dal mancato riconoscimento del valore delle competenze e delle capacità, va rimesso al centro per abbattere «il rapporto fiduciario e clientelare che finisce per frenare sia lo sviluppo della democrazia che la crescita economica». «Un capitale umano innovativo e competente è l’arma vincente per uscire dalla crisi» scrivono i firmatari. La questione del merito viene posta all'ordine del giorno soprattutto dal vicepresidente di Confindustria, per cui «l’Italia sta pagando un costo altissimo di merito mancato che pesa fortemente sui nostri figli e blocca l'ascensore sociale creando frustrazione e rancore. Non dobbiamo avere paura del merito, che non è in antitesi con l’equità».
Si ferma qui il documento programmatico dell'associazione degli industriali e dei sindacati, convinti che il futuro italiano dipenda anche dal rilancio del sistema formativo e quindi dall'occupazione dei giovani.
Nell'accordo si punta tutto sull'istruzione tecnica, e molto poco sulle competenze intellettuali, ritenute forse non strategiche per un Paese manifatturiero come l'Italia. Il problema delle nuove generazioni è quindi affrontato solo in maniera parziale, e il rischio che le buone intenzioni restino solo parole è alto. Ma si può sempre sperare che questa carta d'intenti sia un primo passo verso qualcosa di più concreto.
Ilaria Mariotti
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