Il ministro del Lavoro è preoccupato per i dati sulla disoccupazione, specialmente quella giovanile, che continuano a salire. E dunque prega le imprese di mettersi una mano sul cuore e aiutare i giovani italiani a uscire dallo stallo, come – dice – gesto di "responsabilità sociale" nei confronti del Paese. Ma come, in concreto? Giovannini chiede alle aziende una cosa precisa: di accogliere più stagisti. Fa anche un numero: 100mila stage. La notizia è stata riportata in un trafiletto sul Corriere della Sera di ieri, che dava conto anche della reazione a caldo delle imprese: «Chiediamo che per noi non ci siano nè oneri economici né burocratici: non ce li potremmo permettere».
Ci sono alcuni aspetti che forse non sono ben chiari al ministro. È bene dunque passarli in rassegna, in modo che il quadro sia più nitido.
Di stage, in Italia, se ne fanno già fin troppi. Oltre 300mila all'anno solo nelle imprese private – li censisce Unioncamere con l'indagine Excelsior. A questi vanno aggiunti gli stage negli enti pubblici (un numero ignoto, che secondo le stime della Repubblica degli Stagisti sta tra i 150mila e i 200mila all'anno) e quelli nelle associazioni non profit (anche qui il numero è ignoto, stimabile intorno ai 60mila all'anno). Dunque l'Italia ha già mezzo milione di stagisti all'anno.
La seconda questione, strettissimamente legata all'appello di Giovannini, è la seguente: è lo stage uno strumento utile ai fini dell'occupazione giovanile? Serve cioè per trovare lavoro? Una prima risposta è che ogni stage arricchisce il curriculum di chi lo fa. Dunque, indirettamente, contribuisce a rendere più forte la candidatura qualora quella persona risponda a un annuncio di lavoro o vada a un colloquio. Ma direttamente, concretamente, lo stage è un canale privilegiato per l'accesso al lavoro? No. Vediamo perché.
Escludiamo pure i tirocini svolti negli enti pubblici, dando per scontato che non siano in alcun modo finalizzati all'inserimento professionale. In queste realtà si entra tramite concorso e dunque stage o non stage bisogna aspettare che esca il bando, presentarsi e classificarsi: lo stage non ha rilevanza. Escludiamo anche gli stage nelle associazioni non profit, che si reggono perlopiù sui volontari e che agli stagisti raramente possono offrire un posto al termine dell'esperienza formativa. Dati certi anche qui non ce ne sono, ma prendiamo per buono che pure in questo caso i giovani che intraprendono esperienze di stage in queste realtà siano consapevoli della impossibilità di ottenere un inserimento lavorativo attraverso questa modalità.
Resta la fetta più rilevante, sia a livello numerico sia a livello di occupabilità. Quei 300mila e passa tirocini svolti nelle imprese private. Quanto spesso si trasformano in un contratto di lavoro? La risposta è desolante. Nel 9,1% dei casi. Il dato è tratto sempre dall'indagine Unioncamere, praticamente l'unica rilevazione affidabile in materia. E non bisogna dimenticare che in questo 9,1% è compresa qualsiasi tipologia contrattuale, dunque anche assunzioni brevi, e/o con contratti atipici.
Dunque, ministro. Capita che in Italia vengano già attivati più di mezzo milione di stage all'anno, di cui oltre 300mila in imprese private. E che queste imprese siano in grado di assicurare agli stagisti uno sbocco lavorativo in meno del 10% dei casi.
Che senso ha, in una situazione come questa, auspicare che il numero degli stage addirittura aumenti? Se le aziende già riescono ad assumere così poco con 300mila stagisti all'anno, che succederebbe se ne accogliessero 400mila? Non è difficile prevedere che la percentuale di assunzione al termine dello stage precipiterebbe ulteriormente. Insomma, un boomerang.
Un altro aspetto preoccupante delle dichiarazioni del ministro è che esse sono state fatte in una circostanza particolare: una riunione delle rappresentanze datoriali per discutere di Youth Guarantee, scrive il Corriere della Sera. La Youth Guarantee è quel progetto europeo che mira ad assicurare ai giovani senza lavoro una opportunità di qualità. Per realizzare questa iniziativa all'Italia dovrebbero arrivare tra i 400 e i 600 milioni di euro, da utilizzare nel biennio 2014-2015.
È del tutto evidente che il tema principale rispetto alla Youth Guarantee è: come utilizzare questi soldi? Acquisisce un retrogusto sinistro, letta in quest'ottica, la frase delle imprese «Chiediamo che per noi non ci siano oneri economici». Perché se il governo seguisse questa richiesta, dovrebbe far fronte lui (cioè noi, la collettività) alla spesa per il compenso dei giovani in tirocinio. In soldoni, volendo garantire anche solo 400 euro al mese per 6 mesi a questi 100mila stagisti invocati da Giovannini, il costo sarebbe esorbitante: 240 milioni di euro se ne andrebbero solo per coprire tale spesa.
È davvero questo il modo più efficace per spendere i denari erogati dalla Ue per la Youth Guarantee? Decisamente no. I numerosi punti critici dei programmi di stage pagati dallo Stato sono già emersi negli anni scorsi in tutta la loro evidenza – perché già molte, e variegate sul territorio, sono state le esperienze di questo tipo. Lo Stato paga, offre uno stagista gratuitamente a un'impresa, che si giova dei suoi servigi senza essere minimamente responsabilizzata né attraverso un cofinanziamento dell'indennità né attraverso un vincolo all'assunzione almeno di una piccola percentuale di tirocinanti. Risultato facilmente prevedibile: al termine dell'esperienza di stage, venendo a mancare la convenienza di poter avere in ufficio un giovane senza doverlo contrattualizzare né pagare, l'azienda saluta e ringrazia e il giovane se ne torna a casa con un pugno di mosche in mano.
Ministro Giovannini, non si lasci tirare in questo gioco. Destinare i fondi della Youth Guarantee per un maxi-reclutamento di stagisti pagati dallo Stato non servirà a niente. Le aziende non li assumeranno, dopo. I giovani si ritroveranno, dopo 6 mesi, nella maggior parte dei casi ancora disoccupati: e lo Stato ci avrà perso centinaia di milioni di euro.
Di stage ce ne sono già troppi. Invece che puntare sulla quantità bisogna rischiare e scommettere sulla qualità, definire un perimetro nuovo e preciso per l'utilizzo di questo strumento, incentivarne la funzione non solo di formazione ma anche e sopratutto di inserimento lavorativo, ed assicurarsi che i giovani possano svolgere queste esperienze in condizioni dignitose – anche dal punto di vista della remunerazione – per non dover restare per anni a ricasco sulle famiglie d'origine.
I soldi della Youth Guarantee non vanno dunque buttati per finanziare l'ennesimo programma di stage perorato dallo Stato. Vanno usati in maniera nuova, innovativa, rivoluzionaria. Non per ricreare il solito schema fallimentare e dal sapore assistenzialistico, ma per dare una spinta propulsiva all'efficienza e all'efficacia dei centri per l'impiego, perché è lì che il nostro Paese ha il suo tallone d'Achille. Come? Il dibattito è aperto. Ci sono tanti Paesi, anche vicini al nostro, a cui guardare per prendere ispirazione, da cui imparare a implementare politiche per l'impiego veramente attive. Quel che ci vuole però, sopratutto, è la volontà politica di cambiare il sistema.
Eleonora Voltolina
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