In questi giorni in cui si discute il futuro dell’Italia i temi al centro della campagna elettorale sono i più disparati: l’Imu, le alleanze, i giaguari da smacchiare, i cani... Niente invece, se non qualche generico accenno, rispetto alle giovani generazioni. Eppure dall’Europa ci arriva una richiesta pressante: non solo tenere in ordine i conti pubblici ma, anche e soprattutto, impiegare di più e meglio i giovani nel mercato del lavoro.
Ci riferiamo in particolare alla “Youth Guarantee”: una proposta che impegna a garantire, entro quattro mesi dal termine degli studi o dalla perdita di un impiego, una buona offerta di lavoro, oppure un contratto di apprendistato, un tirocinio di qualità, o almeno un corso di formazione professionale. Parrebbe un’utopia, ma in realtà la Garanzia giovani in alcuni paesi – Austria, Svezia, Finlandia – esiste già ed altri sono pronti ad adottarla.
In quasi tutti i paesi europei, certamente in quelli con sviluppo più solido, i giovani possono contare su un sistema di welfare e su politiche attive per il lavoro ben più consistenti rispetto al nostro. Questa carenza fa sì che con neodiplomati e neolaureati abbiano più difficoltà a trovare un’occupazione e che più a lungo dipendano passivamente dalla famiglia di origine (“Ereditalia” in una parola). In Italia è drammaticamente alta la probabilità che un giovane, anziché essere produttivo e contribuire alle entrate fiscali, sia un peso per la famiglia e un costo per la collettività. L’elevato numero di inattivi, disoccupati e sottoccupati comporta costi rilevanti non solo in termini sociali, ma anche macroeconomici: Eurofound ha calcolato che il costo dei Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) per l’Italia è pari al 2% del Pil, l’equivalente di una pesante finanziaria.
Nel nostro paese non vi è ancora un quadro di riferimento né per le politiche di attivazione dei giovani, né per l'accesso ai sussidi di disoccupazione, da cui i giovani sono in buona parte esclusi: non sono infatti previsti ammortizzatori per chi non ha mai lavorato, per chi ha una bassa anzianità di lavoro, per chi ha contratti di breve durata o particolari forme di collaborazione. E i “buchi contributivi”, cioè i periodi di non lavoro durante i quali i giovani per forza di cose non pagano contributi alle casse previdenziali, gettano una luce sinistra sulle loro pensioni future.
Per questi motivi abbiamo accolto con favore l’invito a diventare “garanti” della proposta “Garantiamo noi!” lanciata dai “Non + disposti a tutto” (espressione dei giovani della Cgil) che per primi hanno ripreso la proposta Ue per farla adottare nel nostro Paese. In concreto, ogni giovane che avesse terminato gli studi o perso il lavoro firmerebbe un vero e proprio contratto, certificando lo stato di disoccupazione e stabilendo diritti e doveri reciproci. Con la Youth Guarantee i centri per l’impiego sarebbero tenuti a fornire una concreta proposta di lavoro oppure una esperienza qualificante di formazione / tirocinio (regolato!) entro un margine di quattro mesi dall’inizio del periodo di disoccupazione o dal termine degli studi. Un sistema, quindi, che non lascia più i giovani abbandonati a se stessi, passivamente dipendenti dalla famiglia di origine.
Tutto questo impone anche agli uffici del lavoro la sfida di superare la dimensione provinciale, nel senso letterale del termine, garantendo standard minimi e integrandosi alla rete europea Eures. Oltre a questo, una seria riflessione sugli eccessi di federalismo all’italiana dovrà toccare anche i temi della formazione professionale e degli stage, al momento sotto una (insensata?) competenza regionale che rende praticamente impossibile una regolamentazione e un controllo a livello nazionale. La formazione è la seconda voce di spesa dopo la sanità per le regioni, ma a tale investimento non fanno fronte risultati concreti salvo per le casse degli enti di formazione professionale.
Sì, tutte belle idee, diranno i lettori: ma quanto costerebbe questa Youth Guarantee? La Commissione stima un costo di 21 miliardi di euro per i 27 Paesi Ue, e sosterrà i programmi nazionali attraverso i finanziamenti europei - in particolare dedicando a questa priorità la programmazione 2014-2020 dei Fondi strutturali e la coda degli attuali fondi.
Per l’Italia la Cgil ha ipotizzato un investimento di almeno un miliardo di euro. Per reperire questi soldi si potrebbe partire da una profonda revisione della spesa dei fondi già esistenti (incentivi per le assunzioni, sostegno all'imprenditoria giovanile, formazione, ufficio del lavoro etc..), spesso “buttati” in iniziative poco efficaci. Se non bastasse, i “Giovani non +” propongono di prendere i fondi mancanti con una maggior imposizione fiscale sui grandi patrimoni.
Ma altre fonti di finanziamento, in alternativa o in aggiunta, sono possibili. Se le opinioni su questo ultimo punto possono essere diverse, anche ideologicamente, la Garanzia Giovani in sé invece non può essere considerata né di sinistra e né di destra, ma la condizione base per un miglioramento delle opportunità delle nuove generazioni su livelli almeno comparabili ai coetanei europei. Una proposta da sostenere per tutti coloro che credono che le possibilità di questo Paese per tornare crescere ed essere competitivo dipendano in larga parte dalla capacità di mettere i giovani nelle condizioni di dare il loro pieno contributo. Il prossimo governo dovrà ripartire dall’emergenza occupazionale e formativa: perché non parlarne già ora prendendo impegni precisi?
Alessandro Rosina, Andrea Garnero, Eleonora Voltolina
Per saperne di più su questo argomento:
- Youth Guarantee anche in Italia: garantiamo il futuro dei giovani
- Emergenza Neet, all’Europa i giovani che non studiano e non lavorano costano 2 miliardi di euro a settimana
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