Per rifare l'Italia, come dice anche Alessandro Rosina, bisogna partire dai giovani. Perché non è più accettabile che siano emarginati, schiacciati, e che su di loro ricada sempre il peggio della crisi.
Cominciamo a rifare l'Italia riducendo il tempo ormai abnorme che passa tra la fine della formazione e l'inizio di un lavoro decentemente stabile e decentemente remunerato. Ogni anno ci sono 500mila stagisti e 200mila praticanti che non sono tutelati, non hanno diritti, non hanno nemmeno la garanzia di un minimo compenso per il tempo e l'impegno e l'energia che danno ai datori di lavoro presso cui si "formano". E qui calco le virgolette, perché questa storia della formazione è diventata un paravento, una scusa per sminuire i giovani e posticipare il momento di riconoscere il loro valore e pagarli adeguatamente.
Rifacciamo l'Italia partendo dai soldi, quei soldi che mancano ai giovani. Non facciamo i timidi, la questione salariale è centrale! Non si può accettare che milioni di persone non vengano pagate adeguatamente, che lavorino senza ricevere un compenso accettabile e in grado di assicurare quell'esistenza libera e dignitosa di cui anche la nostra Costituzione parla.
Questo vuol dire vietare che chiunque svolga un'attività lavorativa, anche se in formazione, lo faccia a titolo gratuito: un compenso minimo obbligatorio per gli stagisti e i praticanti è una misura per la quale da sempre si batte la Repubblica degli Stagisti.
E questo vuol dire anche superare il tabù e aprire il dibattito sul salario minimo, quella misura già in vigore nella maggior parte dei Paesi europei e occidentali, che imporrebbe una cifra minima oraria sotto la quale nessun datore di lavoro, per nessuna ragione, potrebbe scendere. C'é chi mugugna di fronte a questa prospettiva, c'è chi teme che possa mettere in difficoltà il sistema attuale dei contratti nazionali stipulati dai sindacati. Io rispondo: chi se ne importa. Rifacciamo l'Italia anche rompendo i tabù. Oggi i giovani vengono contrattualizzati molto spesso con le tipologie di lavoro atipico, fintamente autonomo, contratti che non hanno alcun legame coi contratti nazionali: e dunque quei "minimi sindacali" scritti nei contratti, per i cocopro non valgono. Tutelare i giovani vuol dire anche capire che è inutile difendere strenuamente garanzie e tutele contrattuali, se poi loro a quei contratti non accedono.
E allora già che ci siamo buttiamo giù anche un altro tabù, cominciamo a pensare all'opzione del contratto unico come a un prezioso panzer in grado di fare piazza pulita di tutti quei troppi contratti tutti diversi, con diritti diversi, regolamentazioni diverse, fatti apposta per frastagliare il diritto del lavoro e renderlo sempre più debole.
Rifacciamo l'Italia guardando quindi al presente ma anche al futuro, per scongiurare la terribile prospettiva che i giovani sottopagati di oggi si trasformino nel 2040 in anziani sottopensionati, costretti all'indigenza. E per rifare l'Italia in questo senso ci vuole un intervento forte sul sistema previdenziale, per ridurre la molteplicità di casse previdenziali, impedire che i contributi possano essere "persi", e sopratutto immaginare un meccanismo nuovo che copra i buchi contributivi nei periodi di passaggio da un contratto a un altro. Rifare la previdenza peró vuol dire necessariamente rimettere in discussione le pensioni di ieri e di oggi, anche qui senza tabù. E stiano lontani i demagoghi che alzano gli scudi, perché qui nessuno vuol toccare la pensione da 1000 euro del nonnino ottantenne: qui peró si dice forte e chiaro che se la vita media è 84 anni non si può andare in pensione a 58 o 60, e vivere un quarto di secolo sulle spalle dello Stato. Né si possono ricevere pensioni da migliaia e migliaia di euro mensili, magari cumulabili le une con le altre, avendo versato negli anni di lavoro molto meno di quel che si viene a percepire.
Io peró ho anche paura. Paura di chi nega il problema, di chi nega che i giovani siano in difficoltà, sostenendo che alla fine il welfare tipico italiano è quello familiare - e dunque non è poi così drammatico che siano i genitori e i nonni a pagare non solo i libri, la scuola e l'università, ma anche gli alloggi, e che foraggino i figli anche per mesi o anni dopo la fine degli studi, mentre questi figli passano da uno stage all'altro per poi approdare a qualche contrattino da pochi mesi e pochi soldi. Ho paura perché quei giovani nei periodi in cui restano senza lavoro non ricevono nessun aiuto dallo Stato, "perché tanto ci sono le famiglie". Il welfare deve essere completamente riformato, per sostenere questi giovani di oggi e di domani.
Ma contemporaneamente ho paura di chi dice sì, bravi, più welfare per tutti, ma come se ci fosse l'albero della cuccagna e un pozzo senza fondo a cui attingere risorse. Decidere di investire sui giovani, sulle loro retribuzioni e sul loro lavoro e sul loro welfare, vuol dire anche essere capaci di recuperare risorse da investire lì. E quindi pensare a riforme grandi del sistema, temi urticanti per molti come l'età pensionabile, il sistema degli ammortizzatori sociali assistenzialistici, la dualità e l'apartheid del mercato del lavoro. Vuol dire innescare un ricambio generazionale, e ricambio vuol dire che i giovani cominciano a decidere e ad essere leader, e che i vecchi si fanno da parte. L'idea di ricambio non piace mai a chi sta in sella: ma si può pensare davvero che a rifare l'Italia siano solo i 60-70enni?
Spero che il Partito Democratico su questi temi non si blocchi, che abbia il coraggio di gettare il cuore oltre l'ostacolo, e che lavori per rifare l'Italia a partire dai giovani.
Eleonora Voltolina
[testo tratto dall'intervento al convegno «Rifare l'Italia. Costruire l'Europa» del PD. Milano, venerdì 2 dicembre]
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