L'altroieri il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, ha creato non poco scompiglio annunciando di voler attuare una misura di welfare speciale. «Voglio introdurre in Lombardia la prima sperimentazione del reddito di cittadinanza riservato ai cittadini lombardi», queste le parole del governatore leghista riportate dai quotidiani: «Ci sono proposte di legge, e quella presentata dai grillini mi interessa molto, me la sono letta in questi giorni ed è interessante perché riguarda anche formazione e lavoro».
Parole che hanno sparigliato la scena politica: il segretario della Lega Matteo Salvini, suo compagno di partito, si è immediatamente dissociato, mentre ovviamente sono arrivate dichiarazioni di apertura dal Movimento 5 Stelle e dal centrosinistra, avversari del centrodestra in consiglio regionale. Ma le parole di Maroni, seppur basate su un assunto sostanzialmente giusto - che con il denaro pubblico si vada ad aiutare chi non arriva alla fine del mese, per evitare le situazioni di miseria - sono state usate, bisogna dirlo, un po' a casaccio.
Forse Maroni non sa che il reddito di cittadinanza, se venisse mai attivato in Italia, lo prenderebbe anche Lapo Elkann, come scrivevano già due anni fa Tito Boeri e Roberto Perotti sul sito La Voce. Perché esso è una misura legata all'unico requisito dell'essere cittadini, non a quello di essere disoccupati e nemmeno a quello di essere poveri. In tutto il mondo, il reddito di cittadinanza è in vigore solamente nello Stato dell'Alaska, negli Stati Uniti: viene erogato a tutti, anche a chi un lavoro ce l'ha, anche a chi è ricchissimo.
Il pastrocchio si aggrava ancor di più se si lega - cioè si condiziona - l'erogazione di questo sussidio alla ricerca di un lavoro. Offrire un sacrosanto, indispensabile sostegno economico a chi ha perso il lavoro e lo sta cercando attivamente, affinché non sprofondi nell'indigenza, ha già un altro nome: si chiama sussidio (o indennità) di disoccupazione. La condizione per ricevere tale sostegno è, ovviamente, quella di non avere un lavoro ma di cercarlo: si tratta dunque di una misura temporanea, che va necessariamente accompagnata da un buon servizio di collocamento e per la quale è lecito - anzi auspicabile - imporre al percettore di agire attivamente per uscire dallo stato di disoccupazione e dunque smettere di pesare sulle casse dello Stato.
Il sussidio di disoccupazione ha poi vari "gradi" a seconda della platea che va a servire: in Italia per anni è stato riservato solo ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato che venivano licenziati. Il che ha significato una sistematica esclusione di tutti gli altri, generando una diseguaglianza inaccettabile che per fortuna gli ultimi governi hanno affrontato apportando correttivi e aprendo la fruizione di tale sussidio (attraverso Miniaspi, una tantum, e oggi con Renzi con la Naspi e la Dis-coll) a una platea molto più vasta - sebbene persistano ancora delle sacche di ingiustizia per alcune categorie di cittadini tagliati fuori. Si parla invece di sussidio di disoccupazione universale, o universalistico, quando è previsto che tutti coloro che non hanno un lavoro ma lo cercano attivamente possano accedervi, indipendentemente dalle condizioni contrattuali pregresse.
C'è poi il "reddito minimo garantito", che è una cosa ancora diversa: è legato alla povertà, per garantire che nessuno debba vivere sotto la soglia dell'indigenza. Ha poco senso condizionare strettamente questa misura alla ricerca di lavoro perché, nei molti Paesi in cui è in vigore, il reddito minimo molto spesso viene erogato anche a chi un lavoro ce l'ha già, ma percepisce una retribuzione insufficiente. In questi casi il rmg va a colmare il gap, fornendo a chi lo percepisce una somma che gli permetta, aggiunta allo stipendio, di arrivare alla soglia minima di sussistenza. Per questo la professoressa Chiara Saraceno lo definisce in un altro modo: "reddito di garanzia per i poveri". Stefano Fassina lo chiamava, nella campagna elettorale del 2013 del Partito democratico, "reddito di ultima istanza". Non c'è un limite temporale alla fruizione del reddito minimo garantito, che cessa solamente qualora migliorino le condizioni economiche del beneficiario: bisogna però aggiungere che in molti Paesi il sussidio decade qualora si rifiutino proposte di lavoro giudicate congrue. Quando invece è senza condizioni, cioè pensato per essere percepito a livello individuale (non legato alla famiglia) da chiunque stia al di sotto di un certo reddito senza limiti di età né di tempo di fruizione, viene definito "reddito di base incondizionato".
Insomma, le tre misure sono simili perché prevedono che lo Stato dia dei soldi ai cittadini, come fosse uno stipendio mensile. Ma confonderle è pericoloso. Del resto non a caso gli economisti hanno dato loro nomi diversi: perché vogliono proprio dire cose diverse. Costano cifre diverse. Sono legate a visioni di politica diverse.
È troppo chiedere che chi ne parla sappia di cosa parla? Come mai questo aspetto, in apparenza solo semantico, è così importante? Perché il pericolo tracciato da George Orwell settant'anni fa è sempre dietro l'angolo: che attraverso l'impoverimento della lingua, l'asfaltatura delle sfumature e delle differenze, si finisca per anestetizzare il cervello della gente. La "neolingua", la chiamava lo scrittore inglese nel suo capolavoro 1984 - lo stesso in cui profeticamente raccontava una società sorvegliata dai mille teleschermi del "Grande fratello". Una lingua che, per com'era costruita, impediva ai cittadini di comprendere chiaramente non solo le scelte politiche dei governanti ma anche in generale la realtà, azzerando in questo modo la capacità di analisi e quindi di eventuale critica. La forma si faceva sostanza.
La politica che Maroni propone non consiste in un reddito di cittadinanza, bensì in un sussidio di disoccupazione universale: quello che manca a livello nazionale, il presidente della Regione Lombardia vorrebbe dunque introdurlo per i cittadini lombardi.
Due parlamentari grilline, Giulia Grillo della Commissione Affari Sociali della Camera e Nunzia Catalfo della Commissione Lavoro del Senato, hanno scritto alla testata online Linkiesta in risposta all'editoriale di ieri del direttore Francesco Cancellato, dal titolo "Reddito minimo garantito: perchè non possiamo più farne a meno". «Il Movimento ha depositato in Parlamento una proposta di legge sul reddito di cittadinanza. Si tratta della possibilità di dare 780€ mensili (9.360€ l'anno) a persone con più di 18 anni disoccupati o percettori di reddito/pensioni, inferiori alla soglia di povertà» ricordano Grillo e Catalfo: «Com'è giusto che sia abbiamo previsto degli obblighi per i beneficiari come ad esempio l'iscrizione presso i centri per l'impiego; l'essere subito disponibili a lavorare; accettare proposte di riqualificazione o formazione, offire la propria disponibilità per progetti utili alla collettività». Dunque loro vorrebbero una forma ibrida tra sussidio di disoccupazione universalistico e reddito minimo garantito - perché ovviamente, comprendendo anche i pensionati, la condizione dell'iscrizione ai cpi non potrebbe essere richiesta a tutti. E anche loro, ahinoi, lo chiamano reddito di cittadinanza - una definizione che anche Beppe Grillo nei suoi comizi in campagna elettorale ha sempre preferito, anche se poi nel programma elettorale del 2013 il M5S chiamava questa sua proposta "sussidio di disoccupazione garantito".
Si tratta, è vero, di materie un po' tecniche, che non tutti sono tenuti a conoscere. Ma sono materie che definiscono la collocazione di miliardi di euro ogni anno, e sarebbe bene che molti più cittadini le approfondissero e si facessero la propria opinione al riguardo. Ma sopratutto è indispensabile che chi fa politica - i decisori - e chi ne scrive - i giornalisti - quantomeno le studi, prima di parlarne in pubblico e perdipiù scriverle nero su bianco. Pena lasciare purtroppo il dubbio che si tratti di demagogia ad uso e consumo di titolisti e talk show.
Eleonora Voltolina
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