Quali sono le prospettive dei lavoratori della conoscenza? A questa domanda cercano di rispondere Sergio Bologna e Dario Banfi in un libro uscito pochi mesi fa per Feltrinelli: Vita da freelance, sottotitolo «I lavoratori della conoscenza e il loro futuro».
Guardando la copertina si potrebbe prenderlo per il solito manualetto su come diventare freelance in dieci mosse o per una raccolta di storie di successo. Invece è la densa analisi storico-sociologica di una situazione per niente rosea che in Italia riguarda tra i due milioni e mezzo e i tre milioni di persone, tra cui sempre più neolaureati. Molti freelance oggi sono pagati e trattati come lavoratori subordinati. Sono però privi di copertura welfare e di supporto sindacale, ignorati dallo Stato, e devono coalizzarsi per ottenere riconoscimento pubblico e diritti.
Gli autori del libro sono due esperti del settore e la loro collaborazione è rinsaldata dalla lunga militanza in Acta, l’Associazione consulenti terziario avanzato. Sergio Bologna, 74 anni, ha alle spalle una carriera quasi ventennale come professore universitario di Storia del Movimento operaio e della società industriale e trent’anni di consulenza, mentre il quarantenne Dario Banfi è giornalista professionista specializzato in economia lavoro e nuove tecnologie, oltre a lavorare come consulente di comunicazione e copywriter.
Il saggio si apre con un fatto in un certo senso consolante: anche nell’antica Roma i maestri viaggiavano in lungo e in largo per trovare un lavoro degno della loro formazione – già allora c’era «la percezione di un mercato globale nel quale è meglio muoversi che star fermi» – ma l’analisi si concentra sulla figura del freelance dal Novecento in poi. E se quella dei knowledge workers è una categoria oggi sottorappresentata da istituzioni e sindacati, la soluzione non è però di «aspettarsi la solidarietà di nessuno perché non si dà solidarietà ai fantasmi, agli invisibili», come ricordano gli autori: «non resta che unirsi, prendere in mano i propri destini, perché i diritti dei freelance sono quelli di tutti i lavoratori, perché la protezione delle singole professioni non basta, perché le partite Iva non hanno diritto a nessun ammortizzatore sociale e i loro contributi Inps finanziano gli ammortizzatori di altre categorie».
Per quanto diversi, i lavoratori della conoscenza sono uniti da due aspetti: essere indipendenti ("senza padroni"), ed essere discriminati. Mancando infatti un contratto nazionale, si assiste all'«affermazione progressiva di modelli retributivi tipici del mondo dipendente per i compensi offerti ai freelance». Per mettere insieme uno stipendio base - i soliti mille euro al mese - secondo Bologna e Banfi la tariffa minima da chiedere sarebbe di 27 euro l’ora: pura utopia per molti professionisti.
Sempre più spesso tra l'altro sono le aziende a spingere i propri dipendenti ad aprire una partita Iva. Ciò permette di eludere i costi di tasse e contributi ed evitare di pagare i trattamenti di fine rapporto, le ferie, i giorni di malattia, i congedi maternità. Di converso però non solo non viene aumentata la retribuzione, ma è spesso anche impedita l’autonomia tipica del freelance: queste "finte" partite Iva rimangono infatti legate agli orari d’ufficio e alla sede aziendale.
L’enorme mercato del lavoro legato a internet poi ha abbassato di molto il prezzo che le imprese sono disposte a pagare perché c’è sempre chi è disposto ad accettare meno, pur di lavorare. «Molti trascurano il fatto che quando si abbassa l’asticella che segna il proprio valore di mercato la si fa scendere per tutte le persone che svolgono lo stesso mestiere», ammoniscono Banfi e Bologna: «Mentre nel lavoro dipendente sono i contratti nazionali a definire questi limiti, nel segmento del lavoro autonomo sono i singoli professionisti a dover interpretare un doppio ruolo, individuale e collettivo insieme».
La rete però può anche avere una valenza positiva: è lo strumento perfetto per unirsi nella lotta dei propri diritti e per diffondere dati e notizie su questo mondo, poco studiato da sindacati politici e analisti. L’unica soluzione perché i lavoratori della conoscenza possano avere un futuro insomma sembra essere quella di coalizzarsi; ma non in un Ordine o sindacato, precisano gli autori, bensì prendendo spunto dall’esperienza americana della Freelance Union e formando un’unione trasversale ai vari settori.
Valentina Navone
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