Eleonora Voltolina
Scritto il 30 Nov 2011 in Interviste
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Dalla ricerca «Specula» di Formaper, l'agenzia speciale della camera di commercio di Milano, emerge che un numero sempre più consistente di laureati lombardi a un anno dalla fine degli studi ha aperto una partita Iva. Un dato che fa capire quanto il lavoro autonomo, spontaneo o spintaneo che sia, stia diventando comune per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Dario Banfi, classe 1971, è un freelance espertissimo di partite Iva: non solo perchè in prima persona è giornalista professionista, copywriter e consulente in comunicazione, ma anche perché è attivo nell'associazione Acta (l'associazione Consulenti terziario avanzato) e insieme a Sergio Bologna ha pubblicato pochi mesi fa con Feltrinelli il bel saggio Vita da freelance, sottotitolo «I lavoratori della conoscenza e il loro futuro».
Alla vigilia del Jobmeeting di Milano, dove alle 16 Banfi terrà il seminario «Partita Iva, tutto quello che i neolaureati dovrebbero sapere», la Repubblica degli Stagisti l'ha intervistato per chiedergli un'analisi della situazione e sopratutto qualche dritta per i giovani che intraprendono una professione autonoma.
Dario Banfi, secondo lei i freelance possono essere considerati una «categoria»?
Certamente. Sebbene appartengano a professioni differenti, hanno in comune l’indipendenza e l’assenza di vincoli di subordinazione. Sono lavoratori professionali autonomi, diversi da commercianti e artigiani, o come si dice di “seconda generazione”. Affrontano rischi legati alla discontinuità del lavoro, alla produzione, alla ricerca di clienti. Hanno in comune l’intraprendenza e lo strumento con cui lavorano, ovvero il sapere. Non hanno capitali o mezzi di produzione, ma si affidano alle conoscenze specialistiche e alla capacità di offrire consulenza per creare innovazione.
Qual è la sfida per i freelance del nuovo millennio?
Da una parte coalizzarsi, dall’altra mantenere viva la capacità di offrire lavoro di alta professionalità in un mercato che punta a declassare questa categoria, abbassando costi e spostando i rischi d’impresa, togliendo spesso dignità al lavoro autonomo. Queste due priorità sono fortemente sentite con la crisi. C’è comunque una sfida più generale che riguarda i cittadini-lavoratori, ovvero la conquista di alcuni diritti sociali e di protezioni all’interno del nostro sistema di welfare che sono stati sistematicamente negati o rimossi per le nuove generazioni e il nuovo lavoro. Dalle coperture per malattia e infortunio al sostegno al reddito a una buona previdenza.
Ritiene che possa essere correttamente inquadrato come freelance anche chi percepisce il 100% del suo reddito, o comunque la parte nettamente prevalente di esso, da un solo committente?
Non è il numero dei committenti che definisce il vincolo di autonomia o subordinazione, ma la relazione con il datore di lavoro, l’uso dei mezzi, il vincolo della presenza e altri fattori che insieme definiscono quando un’attività può essere considerata eterodiretta. L’ha specificato più volte la Corte di Cassazione. Ma se ci pensate ogni freelance percepisce il 100% del suo reddito temporaneo da un solo committente ogni volta che lavora per lui. Un webmaster, per esempio, che crea tre siti in un anno, in maniera consecutiva, ogni 4 mesi percepisce il suo reddito da un solo committente. È soltanto il periodo d’imposta annuale che ci fa pensare al rapporto tra reddito e tempo: ma l’autonomia non c’entra con l’anno solare o con il tempo, ma con la natura del lavoro. Usare soltanto il parametro quantitativo per dedurre la dipendenza è un errore.
A un freelance possono essere imposti orari e luoghi di lavoro, o queste imposizioni cozzano con l’autonomia tipica del professionista?
La Corte di Cassazione lo spiega bene. La subordinazione è l’assoggettamento del prestatore d’opera al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Continuità, durata, modalità di pagamento, regolazione di un orario, imposizione della presenza sono criteri distintivi. È su questi elementi che bisogna tenere alta la testa, se si vuole rimanere indipendenti.
Capita sempre più spesso che ai giovani venga proposto-imposto di aprire partita Iva per collaborare da indipendenti anziché con un classico contratto di lavoro subordinato. Quali sono in questi casi i primi consigli da dare?
Stay hungry. Non sedersi su situazioni di primo impiego ma sfruttarle al massimo, facendo esperienza, ricordando che cosa consente di fare una partita Iva. A volte non c’è scelta, è vero, ma bisogna sentirsi liberi di cercare altro, trovare altre consulenze, differenti committenti. Avere una partita Iva permette di sperimentare, fare piccoli investimenti in strumenti tecnologici. Una cosa è certa: questa situazione deve essere vissuta come temporanea, lo stesso lavoratore deve cercare di cambiare. L’altra strada è aprire un contenzioso per farsi assumere come dipendenti, ma spesso è un percorso lungo e improduttivo.
In quali frangenti secondo lei un giovane NON dovrebbe accettare di aprire una partita Iva?
Quando è del tutto evidente che si tratta di un lavoro alle dipendenze, con mansioni strettamente vincolate al sistema di organizzazione interna. Non si lavora con partita Iva come segretaria d’azienda, fattorino o deskista in un giornale. Non dovrebbe poi aprire partita Iva se, avendo possibilità, si può inquadrare il lavoro autonomo in altro modo, risparmiando sui costi di gestione o rispetto a oneri fiscali o contributivi.
Oltre alla partita Iva, quali sono gli altri inquadramenti più frequenti per i freelance e come funzionano?
Sono i contratti a progetto, la cessione del diritto d’autore e le collaborazioni con ritenuta d’acconto. I primi richiedono un accordo scritto che descriva - e presupponga realmente - un progetto, un compenso e una durata. La seconda formula offre un vantaggio fiscale, ma riguarda le opere cedute secondo le norme che regolano il diritto d’autore come per esempio libri, articoli, traduzioni ecc. Il lavoro occasionale, invece, attiene i compensi che non superano i 5mila euro all’anno da parte di un medesimo committente.
Nel libro si fa un accenno a una cifra-chiave, 27 euro, indicata come il limite minimo sotto al quale nessun freelance dovrebbe farsi pagare per nessuna prestazione. Come inquadra il problema della retribuzione dei freelance, spesso troppo scarsa – specie per i giovani?
La capacità di quotare il lavoro autonomo si acquisisce con l’esperienza o secondo alcune regole che ho descritto in un documento disponibile gratuitamente sul sito di Acta. La scarsità dei compensi dipende da molti fattori: sul fronte della domanda, l’errata comprensione del valore e dei costi del lavoro autonomo, a cui si somma la sfrontatezza di chi cerca di fare cassa su chi è senza tutele; sul fronte dell’offerta l’eccessiva disponibilità di manodopera - si pensi al giornalisti che accettano di farsi pagare solo 4-5 euro per i loro articoli. Questo contrasta col principio che dovrebbe essere alla base del lavoro freelance: non svendere mai il proprio lavoro! Quanto alla cifra chiave di 27 euro all’ora è il ricalcolo del costo orario di un lavoratore autonomo prendendo come parametro i 1.000 euro al mese indicati da Veltroni, in passato, come stipendio minimo contro la precarietà. In realtà, però, soltanto alcuni freelance vendono prestazioni su base oraria. Molto più spesso si usano misure forfetarie, che prescindono da quantità o unità e guardano unicamente al valore dell’opera e ai vantaggi offerti al committente.
A livello previdenziale c’è grande preoccupazione per non solo per i lavoratori precari ma anche per gli autonomi o «finti autonomi». Un trentenne che oggi lavora a partita Iva nel 2040 porterà a casa una pensione dignitosa?
No. Con l’attuale sistema contributivo avrà magre consolazioni. È indispensabile introdurre correttivi come quelli ipotizzati, per esempio, nel disegno di legge Cazzola 1299/2008 che giace nel dimenticatoio. È indispensabile eliminare sia le situazioni di privilegio sia di apartheid, come le “Gestioni Separate”, tutte, non soltanto quella INPS. Occorre recuperare la finalità solidaristica della previdenza, prevedendo una pensione base legata al numero degli anni lavorati, indipendentemente dai contributi versati e dalla tipologia di lavoro svolto.
Lei ha quarant’anni e ha scritto Vita da freelance insieme a un grande esperto di lavoro, Sergio Bologna, che ha quasi il doppio della sua età. C’è una differenza «generazionale» nel percepire e concepire questo tema?
No. La cosa più interessante del lavoro svolto con Sergio Bologna è la sintonia di vedute. Abbiamo una convinzione: da soli, giovani, quarantenni o in età adulta, non importa, non ce la possiamo fare. Dobbiamo unire le forze, coalizzarci. La nostra alleanza nella scrittura è una buona metafora, che comunque da anni abbiamo rinsaldato nella partecipazione attiva ad ACTA, “sindacato” dei freelance. Non ci siamo divisi i compiti, ma mescolato la sensibilità su temi diversi. Sergio partendo dalla sua grande cultura storico-politica, per me dal mondo delle tecnologie e dalle problematiche di welfare, diritto e fisco. Alcuni capitoli sono scritti a quattro mani, senza fatica. Non è difficile intendersi tra freelance.
intervista di Eleonora Voltolina
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